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Programma elettorale di Laura D’ Orlando, candidato a sindaco del comune di Tolmezzo.

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Abitando a Tolmezzo, vorrei offrire l’occasione ai cittadini del mio comune, di leggere i programmi elettorali depositati dai tre candidati sindaco, come presenti sul sito del comune di Tolmezzo, e da me riportati secondo l’ordine alfabetico dei firmatari. Essi vengono qui proposti in tre articoli diversi per problemi di grafica. Per leggere meglio il testo posizionate lo zoom all’80%. ATTENZIONE CHE FRA UNA PAGINA E L’ALTRA DI QUESTO PROGRAMMA VI È UNA PAGINA BIANCA. Immagine da: https://www.tuttitalia.it/elezioni-italiane/elezioni-comunali-2019/. Laura Matelda Puppini

Programma_amministrativo_a_sostegno_di_Laura_D_Orlando

Programma elettorale di Valter Marcon candidato a sindaco del comune di Tolmezzo.

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Abitando a Tolmezzo, vorrei offrire l’occasione, ai cittadini del mio comune, di leggere i programmi elettorali depositati dai tre candidati sindaco, come presenti sul sito del comune di Tolmezzo, e da me riportati secondo l’ordine alfabetico dei firmatari. Essi vengono qui proposti in tre articoli diversi per problemi di grafica. Per leggere meglio il testo posizionate lo zoom all’80%.  Immagine da: https://www.tuttitalia.it/elezioni-italiane/elezioni-comunali-2019/. Laura Matelda Puppini

Programma_amministrativo_a_sostegno_di_Valter_Marcon

SANITA’ IN MONTAGNA. VERSO IL NULLA TARGATO RISPARMIO.

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Apro la cartella blog sanità, per vedere cosa riprendere in questo articolo, che dovrebbe parlare di sanità, cioè di sanitas, che significa lo star bene delle persone e della popolazione, e come raggiungerla, ma che ora pare ridotta a assetti e bilanci, a tagli ed altre alchimie per un sistema sanitario che pare a due passi da un punto di non ritorno.  Ma invano più voci hanno fatto presente questo problema ed invano si è detto che regionalizzare la sanità creerà solo ulteriori problemi e produrrà una miriade di sistemi diversi con regole diverse con il risultato di ingenerare un caos senza fine e di complicare la vita a chi risiede in una regione e lavora in un’altra. E poi mica tutto si può regionalizzare, in sanità. Ma soprattutto, non avendo le aziende sanitarie l’obiettivo di altre aziende, si rischia che i tagli in sanità provochino solo situazioni di lavoro critico e maggior numero di morti. Eh ma, erano vecchi, eh ma, ognuno ha la sua ora … eh ma… Ma nello specifico nessuna scusa regge, se siamo ancora umani e non solo prodotti anche noi del sistema economico -finanziario.   

Pare che il nuovo sistema sanitario produca più morti.

Ed allora, con una visione non certo positiva di ciò che sta accadendo, rileggo un articolo del 2017, pubblicato dal solerte Avvenire, il 7 dicembre 2017, che si intitola: “Analisi. Picco di decessi nel 2017, sfida per il welfare e la società”, firmato da Gian Carlo Blangiardo.
In esso si legge che «A fine 2015 si è attirata l’attenzione, proprio da queste colonne (Avvenire 11 dicembre 2015), sul sorprendente incremento del numero di morti che andava concretizzandosi nel corso dell’anno, fornendo anticipazioni su una realtà allarmante che avrebbe poi trovato conferma ufficiale nel bilancio demografico diffuso dall’Istat all’inizio del 2016.
‘Attenti ai morti’, titolava il pezzo di allora, e chiudeva invitando sia la comunità scientifica che il mondo della politica, sia la pubblica amministrazione che il mondo del welfare, a una riflessione sulle cause dell’inatteso picco di mortalità. “Diamo ascolto a questo rialzo, accogliendolo come evento straordinario” – si scriveva allora – “perché vorremmo tanto che restasse tale”.

A distanza di due anni, ed alla luce dei nuovi dati che vanno emergendo, non ci sembra tuttavia di poter affermare che quel nostro auspicio abbia avuto realmente seguito. Dopo aver assistito a un 2016 caratterizzato da un confortante ribasso del numero dei decessi, ma semplicemente per via di quello che gli esperti definiscono un ‘rimbalzo tecnico’ – dopo una stagione in cui cadono in abbondanza le foglie più secche, l’albero ne ha meno da perdere nella stagione successiva – ecco che il rialzo della mortalità si ripresenta puntualmente. Dalle statistiche dei morti nei primi sette mesi del 2017 (secondo quanto già disponibile da fonte Istat) prende corpo la convinzione che l’anno che sta per concludersi ci chiederà ragione del non aver sufficientemente affrontato quei segnali di debolezza, già evidenti due anni fa, relativi a un sistema sanitario che tende sempre più a far pagare il prezzo della sfida sulla sostenibilità dei costi soprattutto a chi è più fragile, economicamente e sul fronte delle reti sociali e familiari.

Tra gennaio e luglio del corrente anno le statistiche segnalano 389.133 decessi, un valore che supera di 28.174 unità quanto registrato nei primi sette mesi del 2016. Su base annua, qualora l’aumento sin qui osservato (+8%) dovesse trovare conferma nel bilancio demografico finale, in tutto il 2017 si conterebbero 663.284 morti, con un incremento di ben 48 mila casi rispetto allo scorso anno e circa 16 mila in più rispetto al dato del 2015, a suo tempo indicato come il valore più alto mai riscontrato dal secondo dopoguerra. È ben vero che nel determinare la crescita dei decessi gioca un ruolo importante il continuo invecchiamento demografico, tuttavia valutando nel 2017 l’ipotetico aumento del numero di morti dovuto al solo cambiamento nella struttura per sesso ed età della popolazione si arriva a spiegarne poco meno della metà (circa 21 mila casi). Che dire degli altri 27 mila in più?». Ed infatti tra vecchi in aumento e tagli vari, nonché l’inquinamento (non possiamo dimenticare che siamo il paese della terra dei fuochi e via dicendo) ormai i decessi sono quasi 650 mila, la cifra più alta dal 1945. (https://www.agi.it/breakingnews/istat_cala_ancora_la_popolazione_italiana_mai_tanti_decessi_dal_1945-4024145/news/2018-06-13/). Ed in sanità non si può attuare la politica delle tre carte.

Ma vediamo cosa riporta il report ISTAT sugli indicatori di mortalità della popolazione residente in Italia, pubblicato il 24 ottobre 2017, che mostra i dati su mortalità e aspettativa di vita nel nostro Paese.

Nel 2016 sono stati registrati oltre 615mila decessi tra i cittadini residenti, 32mila in meno rispetto al 2015 (-5%). In rapporto al numero di residenti, nel 2016 sono deceduti 10,1 individui ogni mille abitanti, contro i 10,7 del 2015. I primi dati sul 2017 evidenziano un picco di mortalità a gennaio, con oltre 75mila decessi, che insieme ai dati relativi alla fine del 2016, sono da ricollegare all’arrivo dell’influenza, mentre i successivi dati mensili lasciano presupporre un ritorno alla tendenza registrata negli anni passati. (https://www.i-com.it/2017/10/26/istat-gli-indicatori-di-mortalita-della-popolazione-residente-in-italia/).

Sanità Fvg in Carnia.

Mentre l’assessorato alla sanità regionale, da anni, indipendentemente da chi è l’assessore, ci parla insistentemente del ruolo prioritario del medico di base, come fosse, in una società complessa come l’attuale, la panacea per tutti i mali, poi si ripiomba nella realtà raccontata con semplicità da un anziano di Zovello: «Noi abbiamo il medico di base 2 ore sole a settimana a Zovello, e talvolta vengono anche da Cercivento, ove è qualche altra giornata. Io, signora, per ora sto bene e finchè sto bene …», dove il finale è più eloquente di ogni parola. E ci sono paesi di questa nostra montagna più o meno fortunati: alcuni hanno un medico di base per il comune, cioè che copre la vecchia condotta medica, altri hanno la condotta medica coperta da due medici, di cui uno magari presente solo 2 ore alla settimana, con diversi pazienti, e non si sa se uno in capo ad un medico possa andare dall’altro senza magari causare un casus belli, dato che i pazienti non sono più del comune ma attribuiti allo specialista. E ci sono medici di base che esercitano un po’ di ore in un luogo un po’ in un altro, fino a coprire il loro orario di ambulatorio. E di grazia che ci sono, ma non si sa come la Regione possa pensare che essi in queste situazioni possano fornire un servizio efficiente. Inoltre mancano le solite chiarezze contrattuali, ed applicative del contratto medici di base e chi un paio di giorni riceve solo su appuntamento, chi no, chi infine viene anche a visitarti a casa, chi dice che non serve nel tuo caso, chi ti risponde magari al telefono di attendere, e tutti hanno la giornata libera oltre la domenica, praticamente lavorano per 5 giorni alla settimana, ed alcuni non sempre rispondono al di fuori dall’orario ambulatoriale. E questo scrivo per evidenziare reali problemi della nostra terra martoriata ed agonizzante, non certo per offendere alcuno. Ma dire che un sistema così organizzato è un sistema di medicina di base che risponde alle esigenze del cittadino, questo proprio no. (http://www.aas3.sanita.fvg.it/it/servizi_al_cittadino/ricerca_medico/risultato-ricerca.htm).

Semmai poi, c’è per la Carnia il pronto soccorso tolmezzino, ove però dovresti sapere da solo se sei abbastanza grave per recarti o no, e che risulta spesso riempito da sciatori e amanti della montagna infortunati, e che è di riferimento anche per il gemonese; ci sono i reparti ospedalieri ove ci sono ambulatori che funzionano cinque giorni a settimana con personale all’osso, senza che il sito della praticamente defunta Aas 3 ci informi quali sono e che professionisti siano negli spessi operativi e forniscano pure la libera professione, e neppure quali prestazioni vengano erogate.

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Veniamo poi a sapere, dall’informatissimo Alfio Englaro, che la tanto sospirata risonanza magnetica che molti vedevano come la panacea di tutti i mali del nosocomio, pare funzioni solo per mezza giornata. E così Englaro descrive la situazione del nosocomio Tolmezzino nel febbraio 2019: «La situazione del Pronto Soccorso di H Tolmezzo si fa sempre più ingestibile e insopportabile non solo per il personale sanitario ma soprattutto per gli utenti-pazienti i quali stanno perdendo la proverbiale pazienza e spesso incattiviscono di brutto, prendendosela con gli unici incolpevoli (e loro stessi vittime) di questa tragicommedia: medici e infermieri, che a fatica riescono poi a mantenere il necessario sangue freddo e la dovuta calma. (…). Non è successo nulla di straordinario rispetto ai mesi passati, banale quotidianità: semplicemente mercoledi 6 febbraio 2019 in Pronto Soccorso stazionavano 36 pazienti (con altrettanti accompagnatori) 15 dei quali, valigia al piede, erano in attesa di un posto-letto in Medicina, dove ovviamente non vi era più posto. Nelle more, qualcuno è stato sistemato in Ortopedia, qualcun altro in Chirurgia, qualcuno è rimasto in PS, in attesa che la Medicina metabolizzasse la situazione, che fu risolta solo in tarda notte o nel mattino seguente. (…). A fine febbraio 2019 è stata dismessa la piccola, utile e funzionale RM che in questi anni aveva egregiamente servito per lo studio di spalla e ginocchio (le due articolazioni con le più frequenti rilevanti patologie che colpiscono giovani e vecchi). Ora il carico di questi esami articolari verrà messo in capo alla nuova RM (…) che dovrà contemporaneamente eseguire anche tutti gli altri esami che le competono (encefalo, colonna, particolari organi addominali, grandi articolazioni…) con un sovraccarico di ulteriore lavoro.

Inoltre parrebbe che questa nuova RM sia funzionate solamente al mattino o fino al primo pomeriggio […] mentre nel pomeriggio e nelle prime ore della notte resterebbe inutilizzata o forse adibita in parte alla libera professione intra moenia di alcuni radiologi. Pare infine che i tempi di esecuzione di un esame RM non siano poi così ridotti come si vaticinava […].
Ed infine va segnalata la utenza (sempre in crescendo) proveniente anche da altri territori regionali». (http://www.cjargne.it/libri/Controriforma.htm punto 14).
Pare che quindi anche per la presenza di utenza da fuori, e carenza di professionisti, i tempi di attesa per una visita od un esame siano sempre lunghi. Ma questi problemi mi pare di averli più volte sottolineati.

Inoltre, leggendo sempre Alfio Englaro, si scopre che se «provate a farvi ricoverare in Medicina o a passare in PS per un ricovero […]; i medici H hanno avuto l’obbligo tassativo di ricoverare il meno possibile e di respingere il più possibile i malcapitati a domicilio (altro che la dogana francese di Ventimigilia), […]. Conosco moltissime persone le quali, prima di poter essere ricoverate, sono passate due ed anche tre volte in PS!». (http://www.cjargne.it/pols.htm, Punto 75). Englaro riferiva detta situazione all’era Benetollo, ma non mi pare che la situazione sia migliorata. E ricordo che mia madre ha fatto 4 accessi in pronto soccorso prima di essere ricoverata per una polmonite diagnosticata al primo accesso!

Interrogazione al Ministro della Salute sulla sanità nelle aree disagiate e periferiche.

Intanto non siamo i soli a percepire che vi sono delle criticità nelle aree interne ma sarebbe preferibile dire disagiate e quasi allo sbando del paese. Infatti mi è giunto questo avviso accompagnato da una email da Emanuela Cioni – presidente del CISADeP – Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferiche. Ella così scrive: «Vista la discrezionalità regionale che ha creato macroscopiche diversità di organizzazione e di offerta dei servizi sanitari di emergenza urgenza, punti nascita, servizi territoriali, pronto soccorso, punti di primo intervento, servizi ospedalieri in aree periferiche e disagiate anche di stesse regioni, determinando di fatto disparità di trattamento che fanno venire meno l’uguaglianza sancita dall’articolo 32 della Costituzione, il Deputato Chiara Gagnarli ha presentato lo scorso 4 Aprile una Interrogazione Parlamentare a risposta scritta al Ministero della Salute N° 4/02662.

Atto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-02662 presentato da GAGNARLI Chiara giovedì 4 aprile 2019, seduta n. 156.

GAGNARLI e CILLIS. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che: parte prevalente del territorio italiano (circa il sessanta per cento del territorio nazionale) è contraddistinta dalla presenza di piccoli Comuni, lontani dai servizi essenziali, quali scuola, sanità e mobilità, e la marginalizzazione di tali aree assume quindi rilevanza nazionale;

per tale motivo dal mese di settembre 2012 è stata avviata, dall’allora Ministro per la coesione, la costruzione di una strategia nazionale per lo sviluppo delle aree interne con il supporto di un comitato tecnico aree allo scopo costituito ed è stato redatto il documento relativo alla strategia nazionale delle aree interne, confluito nell’accordo di partenariato;

la strategia nazionale per lo sviluppo delle aree interne ha dunque il duplice obiettivo di adeguare la quantità e qualità dei servizi di istruzione, salute, mobilità e di promuovere progetti di sviluppo che valorizzino il patrimonio naturale e culturale di queste aree, puntando anche su filiere produttive locali;

dal punto di vista sanitario, le aree particolarmente disagiate dovrebbero essere tutelate attraverso il decreto ministeriale 2 aprile 2015, n. 70, che, all’allegato 1 punto 9.2.2, riferisce in merito alla rete dell’emergenza-urgenza ed, in particolare, dei presidi ospedalieri in zone particolarmente disagiate;

il Cisadep – Coordinamento italiano sanità aree disagiate e periferiche, che raggruppa i comitati che si battono per il diritto alla salute in queste aree della penisola, ha sollevato delle perplessità sul punto 9.2.2 in questione, sostenendo che affronta in maniera lacunosa e generica la questione dei presidi ospedalieri, lasciando ampia possibilità di libera interpretazione alle singole regioni in merito agli standard qualitativi, strutturali e tecnologici degli ospedali in tali aree;

la discrezionalità regionale ha creato macroscopiche diversità di organizzazione e di offerta dei servizi sanitari di emergenza urgenza, punti nascita, servizi territoriali, pronto soccorso, punti di primo intervento, servizi ospedalieri in aree periferiche e disagiate anche di stesse regioni, determinando di fatto disparità di trattamento che fanno venire meno l’uguaglianza sancita dall’articolo 32 della Costituzione –:

se e quali siano le iniziative in atto nell’ambito della Strategia nazionale per lo sviluppo delle aree interne, in merito al riequilibrio dei servizi sanitari ospedalieri e territoriali nelle aree periferiche, ultra-periferiche, particolarmente disagiate ed insulari del Paese;

se non ritenga opportuno promuovere un confronto in sede di Conferenza Stato-regioni allo scopo di correggere la situazione di disuguaglianza dei servizi sanitari ospedalieri e territoriali in tali aree, anche attraverso una revisione del decreto ministeriale 2 aprile 2015, n. 70, che definisca puntualmente gli standard nazionali qualitativi, strutturali e tecnologici dei servizi sanitari ospedalieri e territoriali in queste aree.
(4-02662)

Chiara Gagnarli e Luciano Cillis – Movimento 5 stelle».

(Ricevuto il 30 aprile 2019 da Emanuela CIONI – Presidente del CISADeP – Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferiche).

E per finire, in Friuli ancora tagli al Santa Maria della Misericordia …

Infine destano preoccupazione anche gli ulteriori tagli di servizi e posti letto all’ospedale di Udine, che doveva essere di riferimento, per alcune patologie, anche per la montagna, e che rischia di non poter far fronte neppure alla sua utenza cittadina. E l’andarsene del primario di ortopedia del Santa Maria della Misericordia sbattendo la porta perchè non si riesce più a lavorare è più esplicativo della situazione di ogni analisi. Così Serracchaini e Telesca ci hanno promesso l’efficentismo udinese, che ora si allontana sempre più, grazie ad una azione sinergica di sinistra e destra abbracciate.

E per ora chiudo qui, per non dilungarmi oltre, in attesa delle prossime notizie sul fronte del sistema sanitario che non si può dire certamente sia al servizio del paziente, in Fvg, e credo anche in molte altre regioni, ma pare affidato, come prima, più all’improvvisazione ed al mantenimento di uno status quo, che permette di spendere meno, erogando servizi a metà, presumibilmente molto meno efficienti ed efficaci anche per le difficoltà dell’ utenza a reperirli, per i tempi ridotti di visita, e che potrebbero salvare meno vite e non far star meglio le persone. Infine la migrazione sanitaria da un paese all’altro, da pubblico a privato ed ancora a pubblico, con perdita di riferimenti e rapporto medico paziente pare sempre più, in Carnia e non solo, una realtà, quasi che la medicina si riducesse ad una mera erogazione tecnica di prestazioni ora qui ora là. E comunque ricordati, cittadino, se stai peggio, se non guarisci, se muori è sempre colpa tua, o forse Saturno ti era contro!

PS. Ci avevano promesso che il bilancio consuntivo Aas3 del 2018 sarebbe stato adottato (sic!), che francamente non so cosa significhi, il 30 aprile 2019, e sarà anche stato fatto, ma non è stato pubblicato, e temo non vedremo più bilanci nostri. Sento nostalgia di Benetollo, amici della destra! E i minatori di Cave del Predil ci hanno insegnato che, quando la tua azienda inizia a far parte di un gruppo più vasto, i tuoi bilanci si perdono nell’ insieme, e non riesci a capire più nulla della tua situazione. Sarebbe interessante che il bilanco della fu Aas3 continuasse ad essere separato dal calderone della Ass4, almeno per cercare di capire qualcosa, per esempio quanto si è speso per la montagna ed in che modo. 

Senza offesa per alcuno, per dare degli elementi per discutere in questa Carnia che langue anche sotto elezioni, ed alla prossima. E per cortesia, se ho errato qualcosa correggetemi e chi si sentisse offeso mi scusi, perchè non è mia intenzione offendere.

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://cjalcor.blogspot.com/2017/11/incontro-sulla-sanita-nellalto-friuli.html

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

Pillole di memoria resistenziale, tra Aulo Magrini, Andrea Pelizzari ed un dopoguerra con i fascisti sempre al loro posto negli uffici.

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Un paio di giorni fa mi trovavo ad Udine, e dato che avevo qualche ora libera, mi sono recata alla Biblioteca Civica, alla sezione friulana, ed ho consultato, online, “Lotta e Lavoro”. Sul numero del 26 luglio 1945, ho trovato tre interessanti articoletti, di cui due sono in ricordo dei comandanti partigiani carnici, garibaldini  Aulo Magrini e Andrea Pelizzari, Grifo, scritti con i toni aulici dell’epoca, ed uno relativo al mantenersi, nel dopoguerra, dei fascisti al loro posto, tema ripreso anche in un articolo su “Lavoro”, periodico a cura di Bruno Lepre.

Ed inizio pubblicando quest’ ultimo, per poi seguire con quelli da ‘Lotta e lavoro’.

C’è troppa trascuratezza, siamo sinceri, nei riguardi dei patrioti.

«C’è troppa trascuratezza, siamo sinceri, – si legge su “Lavoro” – nei riguardi dei patrioti. (…). C’è per esempio, e questo è vergognoso per noi che abbiamo ammirato la sua fede, un Da Monte che è da quattro mesi randagio e affamato per Udine, in cerca di due stanze per sistemare la sua famiglia. E ancora non le ha trovate, nonostante che ad Udine ci sia un alto Commissario per gli alloggi.». (“Commento a: “La coscienza giuridica degli ex- partigiani” trasmesso dall’A.N.P.I. di Tolmezzo per la pubblicazione, riportato da “La voce della giustizia” di Torino”, Lavoro, 1° settembre 1945, in: Bruno Lepre, Romano Marchetti, CARNIA LAVORO, ed. Centro Studi Carnia, Tolmezzo, 1994., op. cit.).

Ed ancora: «Tutto va bene. Bisogna impedire un nuovo squadrismo. (…). Ma lo strano è questo: che coloro che hanno avuto il posto perché squadristi sono ancora là, duri come macigni nei loro uffici; che coloro che hanno combattuto idealmente e materialmente i patrioti ed il loro grande movimento insurrezionale ridono dalle finestre dei loro uffici a quei poveri diavoli di partigiani che passano straccioni e affamati per la strada. (…). Così tanti giovani generosi di Tolmezzo, che l’anno scorso hanno lasciato a repentaglio la famiglia per recarsi sulla montagna, sono sul lastrico (…) in barba al loro titolo di studio, alla loro capacità tecnica (…)». (Ivi).

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«Per i patrioti non c’è lavoro!

Non ci piace affatto il modo con cui si trattano ora i patrioti e quando diciamo che non ci piace affatto usiamo l’espressione più moderata del linguaggio che è necessario usare al cospetto di un cumulo di porcherie ogni giorno più sfacciate e numerose.

Nulla hanno preteso per sé i Patrioti quando, abbandonando le loro case, hanno iniziato la dura e sanguinosa lotta dei monti e del piano.
Hanno combattuto, hanno sofferto, ed hanno vinto. Ora hanno fame e chiedono di poter lavorare. Null’altro che lavoro. E lavoro per loro non c’è. Di buone intenzioni, di ottime parole, di tondi panegirici, ce ne sono stati e ce ne saranno per l’avvenire, ma di fatti concreti nulla …

I fascisti, i collaboratori, le spie, i delatori, fuggitivi ed irreperibili nei giorni caldi ora ritornano, dapprima timidi e spauriti, vieppiù spavaldi e rinfrancati poi. E per loro c’è ancora lavoro, per loro gli uffici, le imprese, le fabbriche non hanno i battenti rigidamente sprangati.
Saremmo tentati di chiedere di che gioco giochiamo se non lo sapessimo fin troppo bene.

Lungi da noi l’idea di mestare le acque, ma sia ben chiaro che il marciume, sotto le cui insegne abbiamo vissuto vent’ anni e più, troverà nella pattumiera il suo domicilio regolare perché non si vende impunemente la propria Patria cercando poi di lavarne l’onta con il sangue degli altri.

Fuori i fascisti dagli impieghi, allora, dalle cariche, dalle fabbriche e date lavoro a chi tutto ha donato ed ora ha fame».

(Per i Patrioti non c’è lavoro! in: Lotta e lavoro, 26 luglio 1945).

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La commemorazione di Aulo Magrini a Prato Carnico.

«Medico di Prato Carnico, Aulo Magrini ha appartenuto e militato nel partito fin dal lontano 1920. Studente all’Università di Firenze, gli si impedì con tutti i mezzi la laurea perché comunista, finché la sua ferrea volontà lo rese vittorioso ottenendo il conteso diploma, nonostante la barbara, quanto stupida oppressione fascista nel campo della cultura.

Dopo ventitré anni di oscura ma feconda attività, Aulo Magrini, sempre saldo nei suoi principii, riprende, al sorgere del movimento di liberazione, il suo posto con rinnovato vigore. Entrato a far parte del Comitato carnico di liberazione, viene nominato subito dopo Commissario politico nelle “Brigate Garibaldi”.
Cadde eroicamente combattendo durante una violenta azione condotta dal nemico invasore.

Nell’anniversario del suo glorioso sacrificio, l’anima viva e palpitante della Carnia ha vibrato di fede nella vallata carnia antesignana di idee innovatrici.

Il compagno Aulo Magrini, valorosamente caduto di fronte ai nazi-fascisti, alla testa di una formazione Garibaldina, è stato degnamente commemorato.
La popolarissima figura di questo eroe purissimo, ha fatto affluire con ogni mezzo e da ogni angolo della Carnia, autorità, patrioti e popolo lavoratore. Quanti erano? Una fiumara interminabile, che, dalla Piazza Municipale, in ordinato corteo, con vessilli e fanfara Garibaldina, si è poi religiosamente raccolta sul piazzale di Prato Carnico. Ivi è stata scoperta un’iscrizione dedicante a suo nome la sala del Fronte della Gioventù.

Erano presenti alla cerimonia la vedova, i figli e parenti dello scomparso. Hanno parlato alla folla: Anteo per il F.d.G., Fabian Aldo per il C. L.N., Marco per le formazioni Garibaldine, Da Monte per le formazioni Osoppane, Lepre Bruno per il C.L.N. carnico ed il compagno Bortolussi per la Federazione Provinciale del P.C.I..

Tutti i discorsi, nell’esaltazione di Aulo Magrini, sintesi di tutti i caduti della Carnia, sono stati improntati al più nobile patriottismo, auspicante una Italia veramente democratica e progressiva.

La folla ha ascoltato silenziosa e visibilmente commossa. È stato distribuito gratuitamente un numero unico “A. Magrini”. La austera ed ordinata cerimonia è risultata imponente».

(La commemorazione di Aulo Magrini a Prato Carnico, in Lotta e lavoro, 26 luglio 1945).

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Andrea Pelizzari (Grifo).

 Il compagno Andrea Pelizzari (Grifo) classe 1918 è una fulgida figura di eroe cui la Carnia è gloriosa di aver dato i natali. Nato a Socchieve, da giovane non ha trovato ostacoli al suo valore. Conseguito il diploma di geometra, dopo grandi sacrifici finanziari, ha abbracciato subito quell’idea e quella causa che aveva sempre amato.

Membro del P. C., promotore e comandante dei G.A.P.  Val Tagliamento, poi comandante tenace e cosciente di un Btg. Garibaldino, fu sempre amato e stimato da tutti i suoi uomini poiché sempre, e specialmente nel pericolo, era accanto ad essi come fratello e padre.

A tutta Socchieve e Comuni circostanti è nota l’eroica fine del comp. Pelizzari, comandante del btg. “G. Lenna”, (Divisione Garibaldi Carnia) avvenuta il 1° marzo 1945 nei pressi di Tolvis (Soccchieve) ove, sfidando le più dure prove delle intemperie e della fame, assieme al proprio battaglione aveva trascorso tutto l’inverno per aspettare la tanto attesa primavera. L’ira nemica non volle però che questo compagno, tanto nobile di cuore e di sentimenti, fosse presente all’appello della martoriata Patria, che tanto bisogno aveva di questi suoi figli.

“Malvagità di spia non perdona”. All’alba del primo marzo l’ospitale casone era circondato dalla polizia cosacca.

“Grifone che si fa?” – rivolti a lui chiesero i compagni come i figli chiedono al padre. Non un attimo di esitazione. Comanda di impugnare le armi e, sfondando la parete posteriore del casone, esce tra i primi, con il fedele mitra in mano. Si apposta e spara, spara finché tutti i suoi otto compagni sono in salvo, ma i feroci cosacchi sono in tanti, più di cento, e fanno un fuoco d’inferno. “Siamo tutti, Grifo salvati- corri su, gridano i compagni, ma fatto appena un passo egli cade, non si rialza, non spara più.

Grifo è morto. Una pallottola sola lo colpì, lo colpì al cuore.

Quel cuore tanto nobile e generoso è stato infranto perché gli esca puro quel sangue che lo animava, degno seme della nostra terra per la rinascita di nuovi eroi».

(Andrea Pelizzari (Grifo) in Lotta e lavoro, 26 luglio 1945).

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Ho riportato quanto scritto su ‘Lavoro’ e ‘Lotta e lavoro’, per incominciare a far comprendere ai lettori come il primo dopoguerra fu caratterizzato in Italia dal mantenersi di fascisti e collaborazionisti al loro posto di lavoro nello Stato e dall’emigrazione, poi, dei patrioti, mentre moltissimi delitti fascisti, per non dire la grandissima parte, restarono impuniti anche a causa dell’amnistia Togliatti. E, vuoi con una scusa vuoi con l’altra, la storia della Resistenza italiana fu riscritta, a mio avviso, nella loro ottica. Gli altri stati, per esempio la Francia, fecero subito i conti, mentre noi non li facemmo mai. E leggendo certi testi ed articoli, pare che la seconda guerra mondiale sia stata solo una parentesi, ove il peggio era stato rappresentato solo dall’invasione tedesca e ,udite, udite, dai partigiani, mentre i fascisti, “o di rif o di raf”, nulla avevano fatto perchè comunque italiani.  E da qui il volume di Angelo Del Boca, intitolato: Italiani, brava gente? edito da Neri Pozza, prima edizione 2005. E se erro scusatemi e correggetemi.

Ho poi voluto ricordare le figure di Arturo, Aulo Magrini, e di Grifo, Andrea Pelizzari, perchè si meritano un doveroso omaggio, come i tanti che soffrirono e morirono per la nostra libertà. Ed a Prato Carnico i partigiani, in quel luglio 1945, vennero ricordati come eroi. Ma poi ci furono i demonizzatori, senza fonte alcuna, quelli ca son lats a tirà su pecjóts, … e che hanno, in Carnia, fino a pochi anni fa, avuto la meglio. Inoltre questo articolo prepara ad uno dei prossimi che parlerà, riprendendo la registrazione della presentazione di un libro, il tema: Fascismo, dittatura, corruzione, affarismo. (Cfr. Paolo Giovannini, Marco Palla, a cura di, “Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo” pubblicato da Laterza).

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta Grifo, Andrea Pelizzari, carnico, ed è tratta dal volume Alberto Buvoli, Ciro Nigris, Percorsi della memoria civile. La Carnia. La Resistenza, ed. Ifsml, 2004. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

Prima guerra mondiale. Invito a due proiezioni alle terme di Arta il 25 maggio 2019.

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Ricevo e volentieri pubblico.

L’Associazione Culturale Amîs di Darte giunge alla sua conclusione con l’ultimo incontro in calendario

sabato 25 maggio 2019 alle ore 20.30

presso la Sala del Padiglione Varnier delle Terme di Arta.

Verrà proiettato il film

“I boschi sono ancora verdi”, prodotto dalla viennese Artdeluxe, per la regia di Marko Nabersnik di Maribor.

Immagine di presentazione del film: “I boschi sono ancora verdi” (https://entracteblog.wordpress.com/tag/orientale/)

«Un’occasione unica per guardare al primo conflitto mondiale anche dall’altra parte, dal punto di vista dei nemici, – si legge su Il Piccolo- ritrovando lo stesso dolore, la stessa disperazione per una guerra lunghissima e impietosa, rievocata attraverso la sensibilità di un regista di nuova generazione: il quarantenne sloveno Marko Naberšnik, originario di Maribor. (…). La Prima Guerra Mondiale è stato un conflitto d’attesa e resistenza fisica e psicologica in trincea, come ci ha […] ricordato anche Ermanno Olmi nel suo poetico “Torneranno i prati”» (https://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2015/01/04/news/la-guerra-degli-austro-ungarici-raccontata-da-un-regista-sloveno-1.10608718). Ed anche in “I boschi sono ancora verdi”, pur non nascondendo il fango, il freddo e l’orrore, non vengono messi al centro i momenti di battaglia ma l’aspetto umano del conflitto, «la nostalgia dei soldati per i genitori e la casa, la paura della morte, lo stupore per la quieta magnificenza della natura e delle montagne indifferenti all’inferno di cui erano scenario.» (Ivi).

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Infine, «a suggello del ‘trittico», grazie alla collaborazione del Comune di Cercivento e del Circul Culturâl la Dalbide di Cercivento,

sarà proiettato il breve documentario di RaiStoria

“Donne tra guerra e pace. Blanche Maupas”

relativo ad un fatto analogo ai “Fusilâts di Çurçuvint”, accaduto in Francia ma che ha avuto tutt’altro finale.

Saranno presenti ed interverranno l’ing. Diego Carpenedo, già senatore per la D.C., e Marlino Peresson.

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La vostra partecipazione è gradita.

Laura Matelda Puppini.

 

 

Legambiente Carnia. Invito a: “Sui sentieri dei partigiani camminando in ricordo di Romano Marchetti”. 2 giugno 2019.

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Legambiente inaugurerà ufficialmente in Carnia un sentiero che è stato riaperto grazie al lavoro dei partecipanti ai Campi di Volontariato che l’associazione propone ogni estate nella nostra regione a partire dal 1998. L’iniziativa, già proposta e rinviata per il maltempo, avrà luogo il 2 giugno 2019, festa della Repubblica.

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È motivo di orgoglio per noi – scrive Marco Lepre – invitare gli appassionati della natura e dell’ambiente montano a percorrere un itinerario e a conoscere luoghi di grande bellezza paesaggistica che sono anche legati ad alcune vicende storiche.

Il sentiero, che dal paese di Feltrone conduce alla località di Nastona e permette poi di proseguire per Pani lungo la strada comunale, è stato infatti utilizzato dai partigiani, in particolare nel duro autunno/inverno del 1944, dopo la caduta della Zona Libera della Carnia. Proprio in Nastona, come racconta Tranquillo De Caneva (il partigiano “Ape”) nel suo resoconto della “Battaglia di Pani”, fu respinto vittoriosamente un tentativo di attacco condotto dai tedeschi e dai cosacchi il 19 novembre del 1944.
Questi avvenimenti ci hanno spinto a dedicare il sentiero a chi allora combatteva per la libertà ed in particolare ad un personaggio leggendario, che fu fondamentale nel sostenere e dare rifugio ai partigiani della Osoppo-Garibaldi: Antonio Zanella, meglio noto come “L’Ors di Pani”.

L’Ors di Pani. (Da: wikipedia.org/wiki/File:Ors_di_Pani.jpg. Pubblico dominio).

L’iniziativa, in programma il 2 giugno,  Festa della Repubblica, ha avuto il patrocinio dell’ANPI provinciale, delle sezioni carniche e dei Comuni di Enemonzo e Socchieve e sarà un’occasione anche per ricordare Romano Marchetti, il partigiano “Da Monte”, commissario delle Brigate Garibaldi-Osoppo Carnia, recentemente scomparso.

 

Laura Matelda Puppini. Paesaggio salendo verso Pani.

Ecco di seguito alcune informazioni utili a chi vorrà partecipare all’escursione di Mercoledì 24 aprile e percorrere il TROI da L’ORS

Punto di Partenza e Ritrovo: ore 10 a Feltrone (in Comune di Socchieve). Il paese si raggiunge lasciando la strada statale 52 a Mediis.

Itinerario: percorso ad anello con partenza ed arrivo a Feltrone (altitudine m. 696). Il sentiero, caratterizzato da un segnavia bianco-azzurro, inizia a monte del paese, staccandosi dalla strada asfaltata che si dirige, quasi pianeggiante, verso Est. Dopo l’attraversamento del torrente Filuvigna, raggiunti i bei prati di Duredia, si sbocca in breve sulla strada comunale che da Tartinis conduce a Pani, in località Nastona (Astona sulle cartine Tabacco), nei pressi di un’azienda zootecnica. Si procede con alcuni stretti tornanti lungo la strada asfaltata fino a raggiungere il belvedere su Pani, caratterizzato da un caratteristico albero isolato di faggio. Tornati per un breve tratto sui propri passi si arriva agli Stavoli della Congregazione (altitudine m. 1094) e da lì, passando per gli stavoli di Nolia, si rientra a Feltrone.

Dislivello: circa 450 metri sia in salita che in discesa.

Tempi di percorrenza: circa 3 ore e mezza, comprese le soste.

Difficoltà: sentiero escursionistico e tratti di strada. Richiedono attenzione solo alcuni passaggi su frane e l’attraversamento del torrente Filuvigna, in caso di portate di piena.

Abbigliamento: indispensabili scarponi e abbigliamento da media montagna.

Pranzo: al sacco, a cura di ciascun partecipante.

Per informazioni: carnia@legambientefvg.it   Marco Lepre  tel. 0433.2226    cell. 327.3505829.

Marco Lepre, Presidente Legambiente Carnia. 

L’immagine che accompagna l’articolo è stata scattata da me e rappresenta gli stavoli di Pani primi anni novanta. Laura M Puppini.

 

LA ZONA LIBERATA DAGLI SLOVENI E LA REPUBBLICA DI CAPORETTO.

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Le reticenze italiane sul ruolo svolto dall’Italia fascista nella penisola balcanica durante la seconda guerra mondiale sono sottolineate da Teodoro Sala nel suo: “1939-1943. Jugoslavia neutrale. Jugoslavia occupata”, in: Italia contemporanea, marzo 1980, pp. 85 – 105, (1) ove si legge che, sull’argomento: «A fronte di contributi parziali ed indiretti, di quelli di Collotti contrassegnati da un’acuta e documentata interpretazione degli imperialismi nazista e fascista […], o di quelli […] di Valiani, prevale piuttosto la regola del silenzio» e una arretratezza negli studi. (2). Quanto sono stati potenti nel dopoguerra coloro che furono fascisti, penso tra me e me, tanto da far in modo che la storia, almeno al confine orientale per l’Italia, venisse scritta secondo la loro visione del mondo, e omettendo ciò che non andava loro bene ricordare. Ed in questa mistificazione certamente la chiesa, forse non del tutto deliberatamente ma intrisa di anticomunismo, ha giocato un suo ruolo. Quanto sono stati potenti coloro che hanno fatto un uso spregiudicato della storia a fini politici, per prendere voti creando paure e pericoli inesistenti, o forzando la storia a proprio uso e consumo, penso fra me e me, e se erro correggetemi.

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Ma scrivere questo non significa certamente sposare una visione comunista o di sinistra, per dirla alla Salvini, della storia, ma semplicemente aprire gli occhi sulla realtà. E non si può giungere a negare fatti storici come l’invasione del Regno legittimo di Re Pietro dei Karađorđević da parte nostra, da parte degli italiani, a fianco dei nazisti, armi in pugno, con la cosiddetta guerra lampo dell’aprile 1941. E la dinastia dei Karađorđević non era certo comunista.
Non mancavano attriti interni anche nel 1939 tra serbi e croati, (3) o fra gli abitanti delle 33 contee in cui era diviso il regno (4), e fra gli ‘jugoslavi’ c’erano allora anche gli ustascia, frangia radical reazionaria terroristica dei contadini croati. E non si può dimenticare che, nei primi decenni del Novecento, la società jugoslava, frastagliatissima, si reggeva sull’agricoltura e non certo sulla fabbrica. (5). Così ogni riforma agraria diventava aspetto non di poco conto nel muovere masse e pedine.

Inoltre il Regno dell’adolescente Pietro, retto dal principe Paolo, si trovava circondato dai nazifascisti, dato che Hitler era ormai giunto a Vienna e Mussolini a Tirana. E questa terra, sempre voluta dai fascisti e dagli italiani che miravano ai Balcani, era collocata paurosamente in un baratro. Per cercare una via d’uscita, nel marzo 1941, il regno di Jugoslavia aderì al Patto Tripartito “Roma-Berlino-Tokyo” stipulato il 27 settembre 1940, provocando in tutto il Paese reazioni di condanna. Ma il regno di Jugoslavia aveva un motivo per cercare di tenersi buoni i tedeschi: la Germania era infatti, allora, il paese che maggiormente assorbiva le sue poche esportazioni. (6).

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Teodoro Sala, nel saggio citato, tende invece, riprendendo quanto scritto da Alfredo Breccia (7), a ritenere che il principe Paolo avesse tentato di stare a galla, pur nelle difficoltà, cercando sostanzialmente, una neutralità ed il minor danno possibile alleandosi con i tedeschi, ma trattando sottobanco con gli inglesi, come farà poi l’Italia fascista nel 1943 quando, alleata con Hitler, negoziò di nascosto con gli alleati prima dell’8 settembre. SecondoTeodoro Sala, il Principe Paolo optò, in sintesi, per scelte politiche da diplomazia vetero asburgica, che però non funzionavano più nel mondo dominato dal nazismo. (8).  

L’adesione al Patto Tripartito, portava però alla destituzione del principe reggente, e sul trono veniva posto il giovanissimo Pietro II, sostenuto dal generale Dušan Simović  (9) e dai britannici. A questo punto, Germania, Italia ed Ungheria invasero, il 6 aprile 1941, il regno della Jugoslavia, stato indipendente, seminando terrore e morte. (10). E la lotta armata antifascista, in Slovenia iniziò praticamente allora. Il 26 aprile 1941 si riunirono, a casa del drammaturgo Josip Vidmar, rappresentanti dei comunisti, dei lavoratori socialisti cristiani, dell’organizzazione Sokol, e degli intellettuali progressisti, dando origine all’Osvobodilna Fronta, cioè al Fronte di Liberazione della Nazione Slovena.

Bandiera dell’Osvobodilna Fronta. (Da:  https://en.wikipedia.org/wiki/Liberation_Front_of_the_Slovene_N

Quindi sotto le ali dell’Osvobodilna Fronta si trovarono, a fianco dei comunisti già organizzati, cattolici, socialisti e nazionalisti, che non sarebbero mai riusciti a creare un loro movimento resistenziale autonomo. (11). Inoltre il Partito comunista della Slovenia sosteneva la dichiarazione che i Partiti Comunisti di Jugoslavia, Italia e Austria avevano adottato nel 1934, che riguardava l’autodecisione del popolo sloveno anche a formare una propria nazione autonoma. (12).

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Già all’inizio della primavera del 1942, secondo Tone Ferenc, non vi era più alcuna provincia, fra l’Isonzo e l’antica linea confinaria del trattato di Rapallo, nella quale il regime fascista non potesse constatare con preoccupazione l’incessante crescita del movimento partigiano sloveno, che poteva sopravvivere grazie all’appoggio di persone slovene e croate. Ma le misure repressive italiane non si fecero attendere. Venne istituito il coprifuoco, le ritorsioni verso la popolazione si fecero sempre più numerose, e comprendevano incendi di interi abitati, uccisioni e deportazioni di civili ecc. ecc., e venne creato l’Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza, tristemente famoso. (13).

Sia come sia, il movimento partigiano continuò a crescere, e nell’agosto 1942 veniva creato il primo battaglione sloveno, Simon Gregorčič, a cui seguirono altri. Nel dicembre 1942, nuove leve affluirono al movimento partigiano dopo la prima conferenza regionale del Pcus, e nel febbraio 1943 si formarono le prime due brigate partigiane a cui fu affidato il compito della liberazione del Litorale sloveno: la Va Simon Gregorčič e la Ivan Gradnik, mentre alcune migliaia di combattenti vennero inviati all’interno della Slovenia a rafforzare le prime quattro brigate di liberazione nazionale.  Ma parallelamente al crescere delle forze partigiane crescevano anche le forze di occupazione italiane presenti sul territorio sloveno, tra cui la terza brigata alpina della ‘Julia’, ed infine venne formato ad Udine un nuovo corpo d’armata, il XXIV, da spostare in Slovenia. Così, nell’ estate del 1943, si trovavano, nella Venezia Giulia, almeno ottantamila soldati italiani. (14).  E anche tanti partigiani carnici e friulani, prima dell’8 settembre, erano di stanza in Slovenia od in Croazia come soldati dell’Esercito Italiano.

Spartizione della Jugoslavia dopo l’invasione da parte di tedeschi italiani ed ungheresi dell’APRILE 1941. IN ROSSO lo stato indipendente della Croazia sotto la guida di Ante Pavelić, che copiò metodi e sistemi nazifascisti. La sua ideologia si basava sulla difesa dell’elemento etnico croato, sul cattolicesimo integralista, sulla feroce repressione degli oppositori e sulla pulizia etnica di ebrei, zingari, ortodossi e comunisti. La corona di detto stato, di fatto sotto il controllo nazista, fu offerta ad Aimone di Savoia che la accettò ma non mise mai piede nel suo regno. (https://it.wikipedia.org/wiki/Ante_Pavelić). IN VERDE la zona assegnata all’Italia comprendente l’area costituente la provincia di Lubiana, l’area accorpata alla provincia di Fiume e le aree costituenti il Governatorato di Dalmazia. IN BLU le aree occupate dalla Germania nazista; IN MARRONE le aree occupate dal Regno di Ungheria. (https://it.wikipedia.org/wiki/Invasione_della_Jugoslavia).

Gli Sloveni capirono subito che la Germania come l’Italia, volevano «utilizzare tutto il settore danubiano-balcanico come la grande riserva di materie prime e di manodopera ai fini bellici immediati», (15) progetto che, dopo l’8 settembre, i nazisti applicheranno anche all’Italia invasa. Ed iniziò a costituirsi un movimento partigiano di lotta all’invasore, come abbiamo visto, cioè l’Osvobodilna Fronta.

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Nella primavera del 1942 i partigiani sloveni riuscirono a creare una zona libera, la prima, nella regione di Lubiana, di Lubiana la resistente, di Lubiana la circondata da filo spinato, perché nessuno vi potesse entrare e nessuno uscire. Infatti la mattina del 23 febbraio 1942 la popolazione di Lubiana «si svegliò imprigionata nella sua stessa città. Nella notte infatti le forze di occupazione fasciste avevano innalzato un muro di filo spinato, che ne circondava il perimetro e che presto fu dotato di torrette di controllo e posti di blocco. Ogni collegamento con la campagna fu da quel momento rigidamente vigilato, così come i rifornimenti di viveri necessari alla sopravvivenza quotidiana dei cittadini. Per cercare di colpire la resistenza, tutti i maschi adulti furono catturati, sottoposti a controllo e internati soprattutto nel campo di concentramento di Gonars. In alcune zone della provincia le autorità italiane puntarono alla deportazione di intere popolazioni pur di togliere il terreno da sotto i piedi ai partigiani, inasprendo così l’odio dei civili sempre più disposti a sostenere i loro figli e fratelli contro gli invasori». (16).

Ed «in 29 mesi di occupazione italiana della Provincia di Lubiana vennero […] fucilati, come ostaggi o nel corso di operazioni di rastrellamento, oltre 5.000 civili, ai quali si devono sommare 200 vittime di azioni di violenza quotidiana, 900 partigiani fucilati in prigionia e oltre 7.000 persone – soprattutto anziani, donne e bambini – morti nei campi di concentramento di Arbe, cioè Rab, e Gonars.
Il bilancio finale fu drammatico: circa 13.000 persone uccise su un totale di 340.000 abitanti residenti nella provincia al momento dell’occupazione». (17).

Militari italiani fotografati vicino al filo spinato, posto dalle autorità occupatrici italiane, che circondava la città di Lubiana, « trasformandola in un immenso campo di prigionia. Migliaia di persone verranno deportate nelle decine di campi di concentramento italiani, da Rab a Gonars, da Visco a Monigo, Renicci ed altri. Moriranno migliaia di civili sloveni e croati, soprattutto bambini, donne e vecchi, colpevoli solamente di non essere italiani. Nel campo di Rab il tasso di mortalità medio risulterà essere superiore a quello del campo di concentramento nazista di Buchenwald». (Da: https://blog.triestelibera.one/archives/463). 

Ma solo dopo il 25 luglio 1943 si formò una zona libera del Litorale Sloveno, preceduta dalla sollevazione della popolazione antifascista di Trieste, Gorizia, Capodistria ed altre città, che disarmò, uno dopo l’altro, i presidi italiani, e ottenne la liberazione dei prigionieri politici e l’entrata di molti giovani nelle file partigiane. Soltanto nei settori sloveni delle province di Fiume e Pola, nell’insieme, nacquero più di 30 nuovi battaglioni, fra i quali ci furono anche battaglioni di antifascisti italiani, soprattutto di operai di Trieste e Monfalcone». (18).

L’attività dei partigiani aumentava vertiginosamente, e con la battaglia di Gorizia, durata 14 giorni, e che aveva trovato eco persino nel quartier generale di Hitler, acquistò visibilità. Con il ritiro dell’Esercito Italiano, grazie anche alla sollevazione generale, nacque così, un ampio territorio libero.  Ed «ad eccezione delle grandi città e dei posti lungo le ferrovie, non solo la Venezia Giulia, ma tutta la Slovenia meridionale e Il litorale croato furono totalmente liberi» (19). Ma le città, come detto, rimasero in mano nazifascista. Ed in questo vastissimo territorio, il potere fu assunto dall’ Osvobodilna Fronta e dall’ esercito di Liberazione. Quindi, nei paesi liberi, si passò all’elezione di consigli comunali e sottocomitati, mentre gli organi di potere popolare si davano come compito sia quello di tener desta la coscienza di lotta nel popolo, sia quelli di espropriare i grandi proprietari, di ricordare ai giovani gli obblighi militari, di aiutare le vittime delle violenze fasciste. (20). E nelle zone libere e semilibere della Slovenia, il movimento di liberazione cominciò a realizzare i cosiddetti comandi di zona. (21) 

Il territorio libero, creatosi con la ritirata delle truppe italiane, si estendeva fra Karlocvac, Lubiana, Postumia, Tarvisio, Cividale, Gorizia e Trieste, ed il mar Adriatico a Sud, e comprendeva zone della Croazia, della Slovenia, della Venezia Giulia.  (22).

In rosa la zona liberata dall’esercito partigiano del Fronte di Liberazione della Nazione Slovena (OF) dopo l’8 settembre 1943. Come si vede, nè Trieste. Né Monfalcone ne Gorizia né Fiume facevano parte di detta Zona, così come non ne faceva parte Cividale. I tedeschi, però, aiutati dai collaborazionisti, riuscirono a ridurre, ben presto, a partire dall’ offensiva del 24 settembre 1943, con le loro incursioni, detta zona, che si era organizzata come Stato Partigiano Sloveno. In particolare l’offensiva tedesca del marzo 1944 ne ridimensionò notevolmente il territorio, che occupava spazi dell’Ozak. (Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha,La Slovenia nella seconda guerra mondiale”, Ifsml, 2013, p. 424).

Ma poi, dopo l’8 settembre 1943, i tedeschi crearono l’OZAK, e mandarono rinforzi alla loro 71a divisione di fanteria, che era già in loco, ed in particolare alla 162a divisione di fanteria turkestana. E venne impartito l’ordine, nell’attaccare la zona libera, che la popolazione non dovesse più rappresentare alcun problema. Insomma non si doveva avere alcuna pietà.
Le unità motorizzate, guidate dal secondo corpo corazzato delle SS e dei comandi della 71a divisione di fanteria e della 44a divisione granatieri eseguirono inizialmente due operazioni successive: la prima nella valle di Vipacco, sull’altopiano di Tarnova e della Bainsizza e la seconda in Istria, coronate  da successo, stabilendo ivi propri presidi. Bisogna però ricordare che queste zone diverranno terreno operativo del IX° Korpus solo dopo la sua costituzione, che avvenne il 22 dicembre 1943. (23).

Ma già il 6 ottobre 1943, il comando operativo per la Slovenia occidentale, gruppo dipendente dal comando centrale dell’esercito di liberazione, aveva costituito nel Litorale Sloveno tre divisioni: la ‘ Tricorno’, la ‘Gorizia’ la ‘ Trieste’, che prendevano il nome dalle zone di operazione loro affidate: il Gorenjsko e la parte nordorientale del Litorale Sloveno, il territorio intorno a Gorizia e quello intorno a Trieste. Ed a sud ed est della ferrovia Postumia Trieste operò anche il VII Korpus.

E ci si rese subito conto che la valle di Vipacco ed il Carso erano ben poco adatti alla guerra partigiana, e la strutturazione militare fu modificata.
Dopo la creazione del IX° Korpus, allo stesso venne affidata, come zona operativa, la parte centrale e settentrionale del Litorale Sloveno fino alla ferrovia Postumia – Trieste, che giungeva alle Valli del Natisone, ed, in qualche modo, sino alle spalle della linea Tarvisio – Moggio. (24).

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«Un territorio libero così ampio come ci fu nel settembre del 1943 nella Venezia Giulia, non ci fu in seguito mai più» – scrive Tone Ferenc. E dopo l’offensiva tedesca del settembre, ottobre 1943, il territorio liberato restò limitato solo a quei settori che per l’occupante non avevano importanza vitale, e ove non vi erano le principali vie di comunicazione, come per esempio la ferrovia Lubiana- Trieste e Podbrdo – Gorizia- Trieste. «All’esercito di liberazione nazionale riuscì solo di distruggere qualche obiettivo importante, di rovinare lunghi tratti di linea, di interrompere il traffico per un tempo più o meno lungo; gli riuscì anche di distruggere interamente due linee ferroviarie (nella piana di Vipacco e nel Carso) ma non poté occupare per lungo tempo il territorio lungo il quale correvano linee ferroviarie strategicamente importanti». (25).

Dal tardo autunno ’43 il litorale Sloveno, zona libera, comprendeva gli altipiani di Tarnova e della Biansizza, il monte di San Vito e la zona di Chirchina, ed in detta zona libera si trovavano anche sedi di organi e istituzioni militari, civili e politiche, ospedali partigiani, tipografie, fabbriche. In particolare esso si estendeva fra la ferrovia Gorizia- Piedicolle (Podbrdo) ad occidente, l’antica linea confinaria Italia- Jugoslavia a nord ed ad est, e il versante sud della Selva di Piro (Hrušica) e di quella di Tarnova. (26).

Ma oltre questo territorio libero, ci furono anche qua e là, zone libere più piccole, di cui la più importante fu quella definita “Repubblica di Caporetto”, che si estendeva ad occidente dell’Isonzo, nel Collio goriziano, e che ebbe vita da settembre ad ottobre 1943. (27). Ed in essa furono presenti anche battaglioni garibaldini. I nazisti volevano eliminare detta realtà, ma il comando della 162a turkestana, che aveva sede ad Udine, non ritenne di agire subito. Così l’esercito tedesco occupò Caporetto solo nella seconda metà del mese di novembre.

Estensione della Repubblica di Caporetto. Come si vede Cividale, Tarcento, Nimis, Cormons, Gorizia non ne facevano parte. (Da: Luciano Marcolini Provenza, Kobariška republika, la prima repubblica partigiana, in: http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/itinerari-della-resistenza/kobariska-republika-la-prima-repubblica-partigiana/.

Sull’ articolo di Luciano Marcolini Provenza si legge che la “Kobariška republika” cioè la repubblica di Caporetto, fu istituita il 10 settembre 1943 e durò fino all’offensiva tedesca dei primi di novembre del 1943, e che, per ben 52 giorni, il territorio liberato (circa 1.400 chilometri quadrati) popolato da circa 55mila abitanti si organizzò come uno stato con dei confini definiti e presidiati dalle formazioni partigiane, con una capitale, Kobarid/Caporetto, con autorità politiche votate dai cittadini, con un sistema di giustizia e con tre ospedali operativi sul territorio e con l’istituzione, per la prima volta dopo l’annessione italiana, di scuole slovene. I confini della repubblica comprendevano le zone ad etnia slovena delle valli di Resia, del Torre e del Natisone. (28).

Dopo la fine della “Kobariška republika”, fu istituito nel suo ex territorio il distaccamento Natisone – Idria, che si assunse pure il compito di creare un collegamento collaborativo fra le forze partigiane slovene e quelle italiane. (29).

Per il IX Korpus, nel corso della guerra di Liberazione, il territorio libero del Litorale Sloveno rappresentò un’importante base di partenza, in particolare nel corso del 1944, per la propria attività offensiva, in particolare verso la ferrovia Gorizia Piedicolle e verso i presidi nemici posti all’ interno del Gorenjsko, cioè di quel territorio che si trova fra Kranjscka Gora e Lubiana, e verso altre località e postazioni nemiche anche non vicinissime. E L’occupante tedesco comprendeva l’importanza di questo compatto territorio libero, e dirigeva contro di esso azioni offensive in grande stile ed anche spedizioni punitive. (30).

Ed entro i confini del Litorale Sloveno e dell’Istria, i nazisti mantennero sempre due divisioni comandate dal generale per le truppe alpine Ludwig Kübler, il cui comando aveva sede a Spessa, vicino a Cormons, dove poi si insediò il 97° Corpo d’Armata con compiti speciali. E, dopo la partenza delle divisioni 71a e 162a di fanteria per il fronte italiano, Kübler, dal marzo 1944, prese il comando della 188a divisione alpina e della 268a divisione di fanteria. La prima rimase in Venezia Giulia fino alla fine della guerra, la seconda ripartì nel maggio 1944, ed il vuoto lasciato fu riempito da forze della divisione per compiti speciali “Brandenburg” e da un battaglione di cacciatori paracadutisti. Infine, nell’agosto 1944, giunse in Istria anche la 237adivisione di fanteria, che rimase in loco sino alla fine della guerra. (31).

I tedeschi utilizzavano, poi, la parte meridionale e pianeggiante del Friuli come luogo di riposo temporaneo per i soldati delle proprie divisioni e per l’addestramento. Ed erano stanziate, in Friuli e Venezia Giulia, forse nove divisioni tedesche, di cui due operavano anche in Istria. (32). Ed oltre alle forze maggiori e minori tedesche, operarono, in Ozak, contro i partigiani, anche truppe collaborazioniste italiane e slovene. Basta leggere ove agì il Reggimento Alpini ‘Tagliamento’ formato da Miliziani fascisti. (33).

Cartina dell’ Europa nel settembre 1943. IN GRIGIO il territorio controllato dalle forse dell’ Asse, IN ROSA  i territori controllati dagli Alleati, che erano Gran Bretagna, Russia e U.s.a., IN ROSSO i territori liberi della Jugoslavia, IN BIANCO i paesi neutrali. (Da: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Kapitulacija_Italije_i_ustanak_u_okupiranoj_Jugoslaviji_1943.png).

Nel tardo autunno del 1944- sempre secondo Tone Ferenc- erano giunti in Venezia Giulia dai Balcani, pure 52 battaglioni formati da alcune migliaia di appartenenti all’esercito quislinghiano. Esse erano prevalentemente unità del cosiddetto corpo di volontari serbi e di cetnici dalmati e bosniaci. E accanto ai nazisti ed alle unità collaborazioniste italiane, che facevano parte del 97° corpo d’armata tedesco per impieghi speciali, in zona c’erano 112 battaglioni di polizia, sotto il diretto comando di Odilo Globocnick formati per lo più da domobranci e da soli 7. 423 tedeschi, mentre gli altri erano tutti soldati di altre nazionalità. (34).

Inoltre dopo la partenza della 90a e della 94a divisione tedesca di fanteria dalla sosta in Friuli, nell’ottobre in Ozak fu presente anche la 44a granatieri “Hochund Deutschmeister”. Quindi all’inizio del novembre 1944, quando due divisioni vennero spedite sul fronte magiaro, le forze del IX° Korpus occuparono la valle di Vipacco e del Carso, estendendo il territorio libero verso sud. (35).

Ma nel dicembre 1944, il nemico passò all’offensiva per liberare dai partigiani le retrovie alle spalle delle linee tedesche fortificate che stava costruendo. Una delle stesse correva lungo l’Isonzo, l’altra attraversava la Čičarija tra Trieste e Fiume, la terza correva lungo l’antico confine tra Italia e Jugoslavia, fra Fiume e Ilirska Bistrica. A causa dell’attacco pesante di nazisti e dei btg. ‘Sagittario’ e ‘Barbarigo’, ‘Fulmine’ della X Mas, giunta in Venezia Giulia nel novembre 1944, venne occupata dal nemico la piana di Vipacco e vennero riconquistate alcune postazioni nella piana di Tarnova. (36). Ma in detta zona gli scontri si protrassero dal dicembre 1944, quando avvenne la battaglia di Klodic, agli inizi di aprile 1945, quando ebbero luogo i combattimenti presso Ravne e Tribl superiore. (37).

E proprio per la presenza costante delle forze armate nemiche, fu sempre un problema, per l’esercito di Liberazione, l’approvvigionamento di viveri per i propri soldati e per la popolazione della zona libera del Litorale Sloveno. I comandi civili e militari cercarono di trasportare viveri da altri settori operativi più ricchi, soprattutto dalla Carniola e dalla valle di Vipacco, ove giungevano dopo esser stati acquistati in Friuli, cercarono di sottrarre viveri alle case dei nemici e di recuperare qualcosa dai lanci alleati. Ma la vita, come ci narra anche Annibale Tosolini, era molto dura. (38).

Politicamente tutta la zona di operazioni del IX° Korpus venne divisa in circondari, che erano 14 fino alla fine di agosto 1944, poi 5: Litorale nord, Litorale centro; Litorale sud; Litorale Ovest e Trieste (non città), a loro volta suddivisi in distretti. In ciascuno di questi vi erano comitati del Pcus, dello Skoi (Gioventù comunista) del FL, della Lega della Gioventù slovena e del Comitato donna antifascista.  E nell’ attesa dello sbarco alleato in Istria,che non avvenne mai, previsto nel settembre 1944, il 15 settembre 1944 nella Velika Lazna, presso Chiapovano, 155 deputati già nominati democraticamente, elessero il Consiglio Regionale di Liberazione Nazionale, supremo organo di potere popolare nel Litorale sloveno. (39).

E per ora mi fermo qui.

Ho scritto, riprendendo principalmente le informazioni dall’articolo citato di Tone Ferenc, queste righe, per approfondire il tema della zona libera slovena, detta del Litorale Sloveno, che condizionò la storia pure della resistenza friulana nel corso della seconda guerra mondiale ma che ebbe un suo significato anche poi. E non a caso si era deciso di spostare il comando dell’R.S.I. a Cividale del Friuli, e non a caso si mandò Livio, detto anche Barba Livio, in val di Resia. Ed in questa zona libera andò la Natisone, principalmente per salvarsi. Ma questa è altra storia. Ed in Italia, con i nazifascisti in casa che uccidevano e martoriavano, c’era chi pensava troppo al dopoguerra, in quel tragico 1944, mentre gli alleati, operativi anche a fianco dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (acronimo NOV i POJ), invitavano alla lotta contro il nemico comune.

Naturalmente questo articolo è solo un primo passo verso la ricerca della verità, ed è un omaggio a Romano Marchetti che tanti insegnamenti e suggerimenti mi ha dato nel corso della sua lunga vita e che mi ha incoraggiato a proseguire il cammino già da me iniziato, anche in suo nome, per quanto possibile, e conscia dei miei limiti. Ma molti possono ancora cercare in suo nome, con serietà, con rigore, con umiltà, con metodo scientifico. E nessuno nella comunità scientifica può pensare di fare da solo, senza l’aiuto degli altri, anche citando studi pregressi di spessore o recensendoli o pubblicandoli.

Laura Matelda Puppini

Note.

1-Il testo è leggibile in: http://www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1980_138-141_04.pdf.

2-Teodoro Sala, op. cit., p. 85.

3-Ivi, p. 86.

4- https://it.wikipedia.org/wiki/Regno_di_Jugoslavia.

5- Teodoro Sala, op. cit., p. 86.

6- https://it.wikipedia.org/wiki/Regno_di_Jugoslavia.

7- Il riferimento citato è “Alfredo Breccia, Jugoslavia 1939-1941. Diplomazia della neutralità, Giuffrè, 1978”.

8- Storia. Quel terribile ’42-’43, periodo di svolta in Italia, in: www.nonsolocarnia.info.

9- Dušan Simović (nato nel 1882, morto nel 1962è stato un generale e politico serbo. Dopo l’invasione della Jugoslavia da parte dei nazifascisti, si ritirò, con re Pietro, a Londra, facendo ritorno in patria solo dopo la seconda guerra mondiale. Negli ultimi anni si dedicò alla stesura di libri di carattere militare.

10- Per cfr. Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito, Le operazioni delle unità italiane in Jugoslavia (1941-1943), Roma, 1978.

11 – Zdenko Čepič, Damijan Guštin, Nevenka Troha, La Slovenia nella seconda guerra mondiale, ed. Ifsml, 2012, pp. 81-82.

12- Tone Ferenc, La Zona Libera del IX° Korpus d’armata sloveno nella Venezia Giulia, in Rassegna di storia contemporanea n.2/3, anno 2, 1972, p. 106.

13- Ibid.

14 – Ivi, pp. 106-107.

15 – Teodoro Sala, op. cit., pp. 87-88.

16 – Gemma Bigi, Lubiana, la città circondata dalla memoria, in: http://www.anpi.it/articoli/1069/lubiana-la-citta-circondata-dalla-memoria.

17 – Ibid.

18- Tone Ferenc, op. cit., p. 109.

19 – Ivi, p. 110.

20 – Ivi, pp. 110-111.

21 – Ivi, p. 114.

22 – Ivi, p. 110.

23 – Ivi, pp. 111- 112.

24 – Ivi, p. 112.

25 – Ivi, p. 113.

26 – Ibid. e ivi, p. 116.

27 – Ibid.

28 Luciano Marcolini Provenza, La Zona liberata dal IX Korpus d’armata sloveno nella Venezia Giulia, pubblicato su: Patria Indipendente il 16 novembre 2018.

29 – Tone Ferenc, op. cit., p. 114.

30 – Ivi, p. 117.

31- Ibid.

32 – Ivi, p. 118.

33 – Cfr. la collocazione del collaborazionista Reggimento Tagliamento, in: Aldo Mansutti, Reggimento alpini «Tagliamento». 1943-45, Aviani & Aviani ed., 2010.

34 – Tone Ferenc, op. cit., p. 122.

35 – Ivi, pp. 121-122.

36 – Ivi, p. 122. Cfr. anche, per l’utilizzo di battaglioni della X Mas nella selva di Tarnova: “Storia della collaborazionista X Mas con i nazisti occupanti, dopo l’8 settembre 1943. Per conoscere e non ripetere errori”, in: www.nonsolocarnia.info.

37 – Tone Ferenc, op. cit., p. 125.

38 – Ivi, p. 120 e ‘E tu seis chi a contale, Annibale… Storia di un partigiano friulano della Divisione Garibaldi Natisone’, in: www.nonsolocarnia.info.

39 – Tone Ferenc, op. cit., pp. 120 -121.

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta la Bandiera dell’Osvobodilna Fronta, ed è già stata da me utilizzata all’ inizio di questo articolo.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferiche ricevuto in audizione dalla Presidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera. Ecco il risultato.

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«Il 28 maggio 2018, il CISADeP, guidato dalla Presidente Emanuela Cioni, dal Segretario Nazionale Don Francesco Martino e da delegati di altre regioni Italiane, è stato ricevuto in audizione dalla Presidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera On. Marialucia Lorefice e dall’On. Chiara Gagnarli.

L’interlocuzione in Commissione è stata estremamente positiva, in un clima collaborativo e costruttivo. Sono state illustrate sommariamente le problematiche legate all’applicazione del D. M. 70/2015 alle aree periferiche, ultraperiferiche e disagiate del Paese e le relative criticità e lacune che richiedono un approfondito normativo integrativo o legislativo che valga come standard per queste realtà, sia per i servizi ospedalieri che territoriali, oggi lasciati troppo a libere interpretazioni delle singole regioni al fine di superare le situazioni di precarietà e criticità delle periferie in tema di servizi sanitari a volte estremamente preoccupanti.

È stata avanzata la richiesta di revisione dei criteri e l’approfondimento delle azioni necessarie per garantire con professionalità, efficienza, efficacia e sicurezza i punti nascita e i servizi di supporto e sostitutivi in queste aree, i problemi inerenti la devoluzione sanitaria, la carenza dei medici specialisti e il blocco del turn over. L’incontro si è concluso con l’auspicio che la commissione adotti un Ordine del Giorno che impegni i Ministeri della Salute e dell’Economia ad avviare un confronto con la Conferenza Stato Regioni per la definizione di Atto Relativo della stessa con l’approvazione di schema di Decreto Ministeriale relativo integrativo del D. M. 70/2015, che determini, in ragione della tutela della salute prevista dall’art 32 della Costituzione, gli standard nazionali qualitativi, strutturali e tecnologici dei servizi sanitari ospedalieri e territoriali nelle aree periferiche, ultraperiferiche, particolarmente disagiate ed insulari della nazione per poter mettere fine al far west normativo regionale in materia.

La Presidente On. Marialucia Lorefice, dopo aver sottolineato che comunque l’interlocuzione con il Ministero dell’Economia è necessaria in materia, che condivide le preoccupazioni espresse in merito all’applicazione discordante nelle singole regioni del D. M. 70/2015, che nonostante il Ministero della Salute non consideri una priorità l’intera revisione dello stesso, ha accolto l’idea di impegnare con un Ordine del Giorno i soggetti istituzionali a chiarire e precisare gli standard del D. M. 70/2015 in merito ai servizi ospedalieri e territoriali per le aree periferiche, ultraperiferiche e disagiate d’Italia, da approvare a margine della discussione su successivi provvedimenti in calendario dopo il Decreto Calabria, cosa estremamente soddisfacente.

Approfondendo il tema dei Punti e dei Percorsi nascita in aree periferiche e disagiate, l’On. Marialucia Lorefice ha comunicato ai presenti l’attenzione del Ministero in materia, e che è già stato attivato un Tavolo Tecnico Istituzionale per rivedere l’intera questione, lasciando aperta la possibilità di ripristino dei punti nascita ritenuti strategici nelle periferie, in quanto il semplice criterio dei 500 parti annui non può essere l’unica discriminante, e per assicurare i requisiti di alta professionalità, sicurezza, e aggiornamento continuo del personale, proponendo che a questo tavolo partecipi un membro del CISADeP. Affrontando il tema della devoluzione sanitaria sempre per le aree disagiate, ha assicurato l’attenzione al problema e anche la valutazione, già iniziata come discussione generale, sulle altre proposte riguardanti il blocco del turn over, il personale specialistico, la cancellazione del numero chiuso nelle facoltà di Medicina, il superamento per le aree disagiate dei vincoli economici per il personale applicando il criterio del contingente minimo necessario per garantire i servizi previsti dalla programmazione relativa».

 

Immagine da CISADeP. Chiara Gargnali. Foto con …

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Riteniamo utile riportare – continua il comunicato del CISADeP – di seguito a completamento dell’informazione il comunicato con le considerazioni dell’On Marialucia Lorefice, Presidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati.

«Oggi insieme alla collega Chiara Gagnarli ho avuto il piacere di incontrare una delegazione del Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferiche (Cisadep).

Il Coordinamento ci ha rappresentato le criticità derivanti dall’attuazione del Decreto Balduzzi (DM 70 del 2015) nelle aree periferiche e disagiate delle città, dove rischiano di essere compromessi i servizi sanitari essenziali per la popolazione.

Il Decreto, infatti, lascia ampia discrezionalità alle Regioni, senza definire standard qualitativi, strutturali, tecnologici minimi per assicurare la presenza di servizi sanitari e ospedalieri efficienti nelle aree periferiche. A ciò si aggiungono il problema dell’insufficienza dei punti nascita nelle periferie delle metropoli, nonché nelle aree insulari e montane e il problema della carenza degli organici delle strutture sanitarie e ospedaliere nei territori disagiati.

 Come parlamentari non possiamo trascurare la richiesta di assicurare una sanità equa ed efficiente non solo da nord a sud ma anche dal centro alle periferie delle città. Ricordo che il ministero della Salute ha già emanato provvedimenti che vanno nella direzione auspicata, come l’aumento delle borse di studio per le specializzazioni mediche e lo sblocco delle assunzioni del personale per le Regioni in piano di rientro previste nel decreto Calabria.

Per sanare le disparità presenti nei diversi territori, stiamo lavorando con impegno, perché nessun cittadino si senta lasciato indietro.

 On. Marilucia Lorefice» (1).

 

Emanuela CioniPresidente del CISADeP – Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferiche – Cell. 347 5963160.

COORDINAMENTO ITALIANO SANITA’ AREE DISAGIATE e PERIFERICHE –  Sede Sociale:Piazza Vittorio Veneto, 11 Porretta Terme –  40046 Alto Reno Terme (BO). E mail: cisadep@gmail.com – Pec: cisadep@pec.it.

Inserito da Laura Matelda Puppini.

(1). L’on. Marilucia Lorefice è nata a Modica, in provincia di Ragusa (Sicilia), l’8 luglio 1980, ed ha frequentato il liceo linguistico. Già deputata nell XVII legislatura, è iscritta la gruppo parlamentare del Movimento 5 stelle. É presidente della XII Commissione (Affari Sociali) della Camera. ( http://www.camera.it/leg18/29?shadow_deputato=306082&idLegislatura=18). L. M. Puppini.


Appello accorato per il lago di Cavazzo, detto anche Lago dei Tre Comuni.

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Pubblico questo aggiornamento giuntomi da Franceschino Barazzutti sul lago di Cavazzo, che mi dispiacerebbe davvero avesse vita corta. Laura Matelda Puppini.

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ANCHE DURANTE LE ULTIME PIOGGE DI MAGGIO, LE ACQUE DEL LAGO DI CAVAZZO O DEI TRE COMUNI,  SONO DIVENTATE COLOR CAFFELATTE, a causa del pesante apporto limoso proveniente dal suo bacino montano! Una situazione che si ripete ad ogni pioggia in Carnia, da dove giungono con un reticolo di circa 80 km, dopo un lungo tragitto in galleria, che le raffredda ulteriormente.

 

Foto da Franceschino Barazzutti, giuntami il 31 maggio 2019.

NON SI PUÒ RESTARE INDIFFERENTI A QUESTA MORTE ANNUNCIATA DI UN BENE COLLETTIVO DI GRANDISSIMA IMPORTANZA AMBIENTALE, PAESAGGISTICA E TURISTICA, OLTRECHÉ DI GRANDE IMPATTO SUL MICROCLIMA DELLA VALLE. Un obbrobrio simile non sarebbe tollerato in un paese civile.

PER SALVARE IL LAGO È’ NECESSARIO CHE L’ACQUA, SCARICATA IN ESSO DALLA CENTRALE DI SOMPLAGO,  VENGA TRAMITE UN BYPASS CONVOGLIATA ALL’USCITA DEL LAGO. Solo così potrà  ritornare allo stato naturale, fruibile e temperato,  come è sempre stato fino agli anni ’50. Ciò permetterebbe  il ripristino graduale della flora e fauna ittica originale. Solo a questo punto, a valle della sua uscita, il Consorzio Bonifica Pianura Friulana, potrà utilizzare una parte delle acque, salvaguardando la falda freatica, per scopi irrigui o di produzione idroelettrica.

SIAMO RIMASTI FORTEMENTE DELUSI, PER ALCUNI ASPETTI DEL BANDO REGIONALE PER IL CONCORSO DI IDEE (di cui abbiamo chiesto il ritiro ), PREVISTO CON LEGGE REGIONALE E  FINALIZZATO ALLA RINATURAZIONE DEL LAGO. Contrarietà messe per iscritto al Presidente Fedriga, alla sua Giunta e a tutti i Consiglieri regionali, sottolineando che al di là del titolo corretto della delibera, poi si passa a parlare di ” MITIGAZIONE “, cosa ben diversa dalla necessità di ” RINATURAZIONE “!

PregandoVi di darne adeguata informazione porgiamo  Cordiali Saluti

COMITATO PER LA DIFESA E VALORIZZAZIONE DEL LAGO /ALESSO (Valentino Rabassi)

COMITATO TUTELA ACQUE DEL BACINO MONTANO DEL TAGLIAMENTO /TOLMEZZO  (Franceschino Barazzutti)

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Foto da Franceschino Barazzutti, giuntami il 31 maggio 2019.

Per coloro: 

– che sono indifferenti alla morte del più grande lago della regione causata dallo scarico di acque gelide e portatrici di fango che, depositandosi, lo trasformerà in una palude in un tempo di circa 110 anni, come dimostrato da diversi recenti studi;

– che, per continuare a portare kw e guadagni altrove ai propri azionisti vanno dicendo che un bypass, che porti lo scarico della centrale fuori dal lago, non è fattibile;

– che, amministratori comunali e regionali, pur in assenza di un progetto, van pregiudizialmente dicendo per sudditanza verso a2a ed il Consorzio di Bonifica Friulana che il bypass del lago “costa troppo”, mentre loro dovere sarebbe invece pretendere un progetto e ricercare finanziamenti europei, statali, regionali per la realizzazione del bypass, pretendendo anche il contributo finanziario dei proprietari della centrale, dell’oleodotto e di quello scempio che è l’autostrada;

– che scientemente evitano di chiedersi quale fosse il valore del lago ante centrale e quale l’ammontare dei danni arrecati ad esso ed alla sua Valle. Danni che vanno indennizzati;

– che, in Assessorato regionale all’ambiente ed energia anziché predisporre il previsto bando internazionale di idee mirato alla reale rinaturalizzazione e fruibilità del lago, hanno invece predisposto, venendo meno agli impegni assunti, un inaccettabile bando-aspirina per l’ammalato di cancro Lago di Cavazzo o Tre Comuni! Bando che va ritirato e rifatto;

– che per ignoranza o malafede affermano che il lago “ha trovato il suo equilibrio”!!! A costoro auguriamo anche tanti piacevoli bagni in questo caffelatte gelido;

– che, sparlando di sviluppo turistico sul lago, stentano a comprendere che solo la realizzazione del bypass garantisce la rinaturalizzazione del lago, presupposto indispensabile per un reale sviluppo turistico nella Valle, realizzabile non con solitari progetti unilaterali che stridono con la naturale unitarietà del lago e della sua Valle, ma con un piano di valorizzazione unitario concordato tra i Comuni rivieraschi e le realtà presenti in Valle e che coinvolga le tante valenze ambientali, storiche e culturali del Circondario;

– che si ostinano a riprendere dall’alto solo i canali intrecciati del medio corso del Tagliamento volutamente ignorando che, per gran parte dell’anno, il Tagliamento, dopo 80 chilometri di gallerie intrecciate sotto i monti della Carnia, passa attraverso il lago di Cavazzo SNATURALIZZANDOLO (nelle foto il Tagliamento che entra nel lago), per poi dire “l’unico fiume in Europa che ha preservato il suo stato naturale …!!!”

A costoro i Comitati Salvalago augurano BUON CAFFELATTE! La rinaturalizzazione e la fruibilità del lago sono un problema di civiltà la cui soluzione richiede il contributo di tutti.

(Comunicato a cura del Comitato per la difesa e valorizzazione del lago /Via Somplago/ Alesso TRASAGHIS e del Comitato tutela acque del bacino montano del Tagliamento /Via Davanzo, 9/ TOLMEZZO).

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Scarico della centrale di Somplago nel lago. Foto da Franceschino Barazzutti, giuntami il 31 maggio 2019.

Domenica 12 maggio ore 17,45. Questo è lo scarico della centrale idroelettrica a2a di Somplago nel Lago di Cavazzo o dei Tre Comuni, il più grande della nostra regione. La situazione si ripete ad ogni pioggia in Carnia da dove giungono nel lago, dopo un percorso in gallerie di 80 km sostitutivo di quello naturale, le acque gelide e torbide di tutti i corsi d’acqua della Val Tagliamento, del la Val Lumiei, della Val Degano, della Vinadia lasciando i loro alvei in secca ed un diffuso dissesto idrogeologico. (Riquadro in Comunicato a cura del Comitato per la difesa e valorizzazione del lago /Via Somplago/ Alesso TRASAGHIS e del Comitato tutela acque del bacino montano del Tagliamento /Via Davanzo, 9/ TOLMEZZO).

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 L’immagine che presenta l’articolo è una di quelle inserite e proviene da Franceschino Barazzutti. Laura Matelda Puppini

 

 

Laura Stabile. In Fvg i Pronto soccorso come ‘ospedali da campo’, e grave errore la centralizzazione del 118. Sprechi in sanità da un rapporto del 2016 di Cittadinanzattiva già citato e cenni sul progetto ‘Fare di più non significa fare meglio. Choosing Wisely Italy’.

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Non amo Forza Italia, ma ritengo la dott. Laura Stabile, senatrice della Repubblica, persona preparata in materia di pronto soccorso, in quanto è stata direttrice della struttura complessa di medicina d’urgenza all’ospedale Cattinara di Trieste. Inoltre è, per dirla in breve, un pezzo grosso dell’Anaao Assomed, Associazione che sempre si è occupata seriamente di sanità ed i cui interventi ho spesso citato.  Pertanto leggete quanto scrive senza i soliti pregiudizi partitici, ma per riflettere su quanto scrive, e non crediate che ora la dott. Stabile sia diventata filo Riccardi perchè vi sbagliate veramente.

In Friuli Venezia Giulia i Pronto soccorso come ‘ospedali da campo’.

Così scriveva la dott. Laura Stabile, il 9 gennaio 2018, a Quotidiano Sanità, rispondendo ad una presa di posizione dell’allora Consigliera regionale Renata Bagatin, del PD:

«Gentile direttore,
l’intervento su ‘Quotidiano Sanità’ della Consigliera regionale Bagatin sembra veramente confermare quanto da anni l’Anaao Assomed rileva, e denuncia, sulla riforma sanitaria: una politica decisa a tavolino, evidentemente senza mettere il naso fuori dalle stanze chiuse della Regione che, proprio quando sarebbe stato il momento di fare dei bilanci e mettere in atto opportune azioni correttive, come imporrebbero le regole di qualsiasi sistema improntato alla qualità, continua a ricorrere agli annunci, perdendo progressivamente il contatto con la realtà del nostro servizio sanitario. Mai come ora questa dissociazione è stata così evidente.

Bagatin è a conoscenza del fatto che gli ospedali scoppiano, che i Pronto Soccorso spesso ricordano l’ospedale da campo di Via col Vento, con malati (e feriti) uno vicino all’altro per ore in barella, scomodi, senza privacy, senza dignità? Sa che l’utilizzo massimale, prossimo al 100%, dei posti letto degli ospedali pubblici, come dimostrato dalla letteratura scientifica internazionale, incrementa il rischio clinico per gli ammalati, e non costituisce efficienza, come troppo spesso la politica ha voluto far credere? O quanto si può attendere una visita specialistica? Un intervento chirurgico? Un’autoambulanza in strada?

Sembra palese che quanto la riforma sanitaria si proponeva, deospedalizzazione e potenziamento delle cure territoriali, non ha funzionato, e che la riduzione dei posti letto per acuti (-579 a regime, i tagli non sono ancora stati completati) ha determinato una carenza di assistenza. Com’è possibile, nel mondo reale e in questo contesto, definire il numero di posti letto per acuti “sovrabbondante”? La riduzione di posti letto è certamente in linea con i parametri nazionali, e infatti i disagi conseguenti ai tagli si riscontrano ovunque nel nostro paese: rispetto ad altri stati europei con un sistema sanitario prevalentemente pubblico, l’Italia ha un numero di posti letto fra i più bassi: 3,2 per 1000 abitanti nel 2015, a fronte di 8,1 della Germania e 6,1 della Francia (OECD Health Statistics 2017).

♠

L’incremento dei posti letto per riabilitazione e cronicità, ricordato da Bagatin, evidentemente non è riuscito a ridurre in modo sostanziale, o sufficiente, il ricorso all’ospedale per acuti. Peraltro, al di là della definizione sommaria del numero di posti letto, non sembra esservi stato alcun intervento efficace atto a progettare e definire le cosiddette “cure intermedie” per i malati cronici, che dovrebbero rappresentare la cerniera fra l’assistenza ospedaliera e quella primaria.

Nell’intervento di Bagatin si intravvede però un altro aspetto inquietante: l’efficientamento del sistema deriverebbe in primo luogo dalla soppressione di “doppioni” e di “posti di primariato”, e sembra si evochino, fra le righe, iniqui privilegi e poltrone. Insinuazioni di questo tipo non sono nuove, e appaiono quasi offensive nei confronti di intere équipe, con il loro patrimonio culturale, operativo e di relazioni umane, che sono andate disperse. Appaiono offensive nei confronti dei medici e delle loro aspettative di carriera, non solo legittime e comprensibili, ma anche garanzia per la sanità pubblica di potersi avvalere dei migliori professionisti.

Gli accorpamenti di reparti fra due stabilimenti ospedalieri distanti fra loro decine di chilometri (Gorizia-Monfalcone, Latisana-Palmanova, San Daniele-Tolmezzo e San Vito-Spilimbergo) costituirebbero, secondo Bagatin, un’efficiente “soppressione di doppioni”? I problemi che qui si pongono sono numerosi, e fra questi vi è il fenomeno dei “primari a scavalco”, e non solo dei primari, perché anche altri medici sono diventati pendolari. Se i primari possono essere presenti solo per la metà del tempo, o anche meno, dato che esistono anche scavalchi multipli, allora i primari, per la Regione, sono praticamente inutili. Se un medico può lavorare un giorno in una sede e l’altro in un’altra, con buona pace della continuità delle cure, secondo la Regione Friuli Venezia Giulia, di fatto (altrimenti non si comprenderebbe come questo possa essere ritenuto un incremento di efficienza), un medico varrebbe l’altro.

♠

La scarsa considerazione in cui sono tenuti i medici e i dirigenti sanitari operanti nella sanità pubblica, ritenuti ormai meri fattori di produzione, emerge anche dal fatto che, nelle varie fasi di progettazione e applicazione della riforma sanitaria, non vi è stato alcun sostanziale coinvolgimento, consultazione, e nemmeno trasparente informazione di chi la sanità la realizza, rappresenta e costituisce sul campo. L’autoritarismo si è sostituito all’autorevolezza, la mancanza di trasparenza ha generato negli operatori l’impressione di una progettazione mirata a favorire alcuni poteri, quali “famiglie” professionali, potentati locali e università, creando sfiducia. L’ espressione retorica scelta da Bagatin “i professionisti insegnano a noi politici” appare qui particolarmente infelice.
 
Da ultimo, si rileva il fatto, risibile, che nella logica degli annunci la parola “chiusura”, che richiama alla mente catenacci e lucchetti, sembra essere stata bandita, e guai a chi la pronuncia. A Cividale, Gemona, Maniago e Sacile c’è senz’altro il Distretto sanitario con le sue strutture dedicate all’assistenza primaria (cfr. DGR 2673/2014), ma non c’è più un ospedale per acuti.

Dott.ssa Laura Stabile – Segretario Regionale Anaao Friuli Venezia Giulia» (Da: https://www.quotidianosanita.it/friuli_venezia_giulia/articolo.php?articolo_id=57719).

Era il gennaio 2018, quando la dott. Stabile scriveva questo testo, che ho riportato integralmente, ma la situazione non pare mutata, anzi, forse peggiorata. 

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Laura Stabile. “Grave errore la centralizzazione del 118”.

Quindi, pochi giorni fa, il 3 giugno 2019, la senatrice medico, ha preso posizione contro l’accentramento del 118, con queste dichiarazioni a Trieste All News, , che qui ripropongo, intitolate:  Grave errore la centralizzazione del 118”.

«La grave crisi della SORES – Sala Operativa Regionale Emergenza Sanitaria del Friuli Venezia Giulia, denunciata dagli infermieri che vi lavorano, ripropone il tema del soccorso sul territorio della nostra regione, gravemente menomato nella sua efficacia/efficienza dalla riforma Serracchiani, come dimostrano gli innumerevoli disservizi e ritardi documentati nell’ultimo biennio, alcuni con esito fatale.

La precedente Giunta regionale aveva accorpato le quattro Centrali provinciali 118 in un’unica a Palmanova senza probabilmente rendersi conto della complessità dell’operazione, senza forse approfondire la differenza che passa tra centrali del soccorso sanitario e call center commerciali, per i quali possono essere indifferenti localizzazione e ampiezza dell’area servita. Ma non per la Centrale 118, perché non è assimilabile ad un call center, è qualcosa di molto più complesso”.

“Come confermato dallo stesso Presidente Nazionale del SIS 118: ‘Si sono, ad arte, scambiate la Centrali Operative, veri e propri centri direzionali, centri di pesantissime responsabilità che hanno assicurato e assicurano in tempo reale il “medical control” online e offline di Sistema, la gestione del personale, la soluzione dei conflitti e dei problemi, la formazione, l’addestramento, del personale e della società civile, il rapporto puntuale e continuo con le altre massime istituzioni territorialmente convergenti a livello provinciale (Prefettura, Questura, Carabinieri, Vigili del Fuoco etc), per “gusci vuoti”, per “spazi in cui sollevare la cornetta telefonica” che possono tranquillamente essere trasferiti sulla luna.

Un horror gestionale paragonabile ad un Evo Antico che ha flagellato impietosamente dai governi di Roma il 118 nazionale”. Precisa il Presidente del SIS 118: “Sono state decapitate, a numerosi livelli, le dirigenze mediche dei Sistemi spostando innaturalmente le stesse su vertici amministrativi, a volte completamente ignari del settore e provenienti da altri mondi, mera espressione di controllo verticistico politico che si è dimostrato attentissimo agli appalti delle grandi tecnologie e molto meno alla qualità reale della governance sanitaria e alla conseguente qualità dell’assistenza reale prestata ai cittadini in imminente evidente pericolo di vita”.

In quest’ottica la dimensione provinciale dei Sistemi 118, peraltro sancita dal Dpr del 27/3/1992, appare necessaria, strategica, in quanto tarata sulla reale complessità di governo capillare dei soccorsi a livello dei territori, nonché sulla gestione delle centinaia di unità di personale assegnato, tra medici, infermieri e autisti soccorritori, delle risorse tecnologiche e del parco mezzi.

Ma va fatta anche un’altra considerazione che credo non banale. La Riforma Serracchiani aveva incentrato la revisione dell’organizzazione sugli accorpamenti e così si sono accorpate intere aziende, ospedali, reparti clinici, laboratori, fino appunto alle Centrali 118. Il tutto in nome di una razionalizzazione che nelle attese del legislatore avrebbe dovuto coniugare importanti risparmi di risorse a sensibili aumenti di qualità dei servizi. Ma tali attese, fideistiche e prive di supporti scientifici e di serie simulazioni, non hanno dato i risultati sperati.

Né potevano darli, perché non esiste automatismo tra l’aumento delle dimensioni dei bacini di utenza e miglioramenti nella performance delle aziende o nelle economie di scala e perché l’accorpamento in sé non è condizione necessaria, né sufficiente per realizzare integrazione dell’assistenza sanitaria.

L’accorpamento è un processo complesso che richiede un’attenta programmazione e non mere dichiarazioni del “dover essere”, senza alcuna seria valutazione e preparazione, per cui in tante strutture, che un tempo fornivano servizi eccellenti, una volta accorpate si è osservata una sensibile riduzione della qualità dei servizi, a fronte di costi immutati o addirittura cresciuti.

E si vorrebbe perseverare su questa strada? In conclusione va chiarito che un ritorno alle centrali provinciali rappresenterebbe già un significativo miglioramento del sistema, ma in ogni caso non si può prescindere dall’esigenza di rivedere il modello organizzativo del NUE 112, seguendo le esperienze di Austria, Francia, Germania o di altri paesi europei.».

(Da: https://www.triesteallnews.it/2019/06/03/laura-stabile-fi-grave-errore-la-centralizzazione-del-118).

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Note da ‘Ombre e luci del Servizio Sanitario Nazionale’ – Sprechi in sanità. – Cittadinanzattiva 2016.

Credo che la sanità del “basta che si abbassi la spesa dell’1 %”, debba interrogarsi su cosa stia facendo e su cosa ha fatto, per non  finire in una sanità-melma, che poco costa e poco dà. Ma qui si tratta della vita e della salute delle persone non di un prodotto che può essere a basso costo e di qualità scadente. Non da ultimo, cittadinanzattiva già nel 2016 aveva sottolineato le cause degli sprechi in sanità, ma pare sia stata finora inascoltata. (Cfr. Sprechi in sanità. Da cittadinanzattiva, link in www.nonsolocarnia.info). La nota associazione così riassumeva le cause di sprechi in: ‘Ombre e luci del Servizio Sanitario Nazionale’: «Macchinari non utilizzati o funzionanti a scarto ridotto, reparti chiusi anche se appena ristrutturati o sottoutilizzati per mancanza di personale, attrezzatture e dispositivi non adatti alle esigenze dei pazienti, personale sanitario costretto a turni di lavoro massacranti o in trasferta con costi aggiuntivi per le aziende sanitarie, burocrazia costosa e che ostacola il percorso di cura dei pazienti.» Questi alcuni aspetti negativi.

E, sottolinea Cittadinanzattiva, per spreco nel Servizio Sanitario nazionale, si intende: «ogni attività, comportamento, bene e servizio che, utilizzando risorse, non produce risultati in termini di salute, benessere e qualità della vita per come li definisce la Carta Europea dei diritti del malato». (http://www.cittadinanzattiva.it/comunicati/salute/8750-presentato-il-rapporto-i-due-volti-della-sanita-tra-sprechi-e-buone-pratiche-la-road-map-per-la-sostenibilita-vista-dai-cittadini.htm).

Ed inoltre: «Ai cittadini che hanno segnalato i casi, abbiamo chiesto di scegliere la causa di spreco più attinente rispetto ai caso individuato. Al primo posto con il 9% dei casi si fa riferimento ad una cattiva gestione del personale sanitario perché sovradimensionato o sottodimensionato; seguono, con l’8,6%, la cattiva allocazione delle risorse economiche, l’organizzazione dei servizi, il mancato utilizzo di beni e servizi; l’8,2% la mancata programmazione; al 7,3% il non utilizzo di attrezzatture costose; per il 6,5% l’uso improprio delle risorse; per il 6% strutture non utilizzate o sottoutilizzate. Raggruppando per macroaree si tratta di sprechi riferibili per il 46% al mancato o scarso utilizzo di dotazioni strumentali e strutture sanitarie, per il 37% a inefficiente erogazione di servizi e prestazioni, per il 17% a cattiva gestione delle risorse umane. (…).  E questi sprechi fanno male ai diritti, in particolare quelli più violati, stando all’esperienza dei cittadini, sono: “diritto al rispetto degli standard di qualità” (14,7%) con, a seguire, il diritto al rispetto del tempo (14%), diritto alla sicurezza delle cure (11,6%) e all’accesso ai servizi sanitari (10,9%)». (Ivi).

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In particolare gli sprechi afferiscono ai seguenti settori: Macchinari radiologici e non solo sottoutilizzati, per esempio «presso l’Ospedale di Acireale, nel reparto di radiologia, un apparecchio per la risonanza magnetica viene utilizzato solo cinque mattine ed esclusivamente per i pazienti ricoverati; le ambulanze del 118 di Grugliasco (TO) dispongono di dispositivi per la teletrasmissione di elettrocardiogramma e parametri vitali che di fatto sono inadatti per le esigenze del 118 e spesso malfunzionanti; presso il Presidio ospedaliero Sirai (Asl Carbonia-CA) sono stati acquistati otto ecografi ma i medici formati per il loro utilizzo sono soltanto tre». (Ivi).

Reparti costati molto e sottoutilizzati. Per esempio, – si legge sempre sul rapporto citato del  2016 di cittadinanzattiva «Il nuovo complesso operatorio del San Paolo di Napoli, costruito nel 2006 e dotato di circa 900 metri quadrati, quattro sala operatorie, una sala open space con quattro posti di rianimazione e post operatoria mai aperta, lavora solo cinque ore al giorno. Nel presidio ospedaliero di Lanusei (provincia Ogliastra) è stata costruita una sala emodinamica con tutta l’attrezzatura di ultima generazione; da oltre un anno è ferma perché gli interventi previsti sono minimi e non ci sono gli specialisti.
A Tortona (AL) è stato chiuso il reparto di maternità, nonostante i locali fossero stati da poco rinnovati e tinteggiati; le attrezzature in dotazione, soprattutto una vasca per il parto in acqua e alcune incubatrici, sono rimaste inutilizzate. A Cagliari, presso l’Unità operativa di ortopedia dell’ospedale, sono stati acquistati letti troppo grandi che non entrano negli ascensori». (Ivi).

Servizi e prestazioni Diverse segnalazioni riguardano «la ripetizione degli esami pre-ricovero: ad esempio i pazienti in attesa di intervento chirurgico vengono spesso ricoverati per effettuare tutte le visite e gli esami preoperatori, salvo poi essere rimandati a casa perché la data dell’intervento viene spostata e così, a distanza di alcuni mesi, il cittadino deve ripetere tutti gli esami. (Ivi).

Presidi, protesi ed ausili. «Diverse segnalazioni riguardano gli sprechi nell’erogazione e nelle gare di acquisto per protesi ed ausili. Ad esempio, in Campania sono stati acquistati un gran numero di presidi per stomizzati con un acquisto unico centralizzato. Ma i presidi giacciono nei vari distretti delle Asl perché non conformi a quelli adatti ai pazienti. I cittadini evidenziano in taluni casi, come nella AUSL di Forlì (Bagno di Romagna), che i plantari costano presso le sanitarie 120 euro, mentre la pubblica amministrazione li acquista a 180 euro ognuno». (Ivi).

Personale sanitario. L’ospedale di Venere in provincia di Bari ha un reparto di ginecologia e ostetricia ristrutturato da poco, ma la sala operatoria di ostetricia è chiusa per carenza di personale. Nell’azienda ospedaliera di Reggio Calabria dal 2010 è stato realizzato un reparto di cardio-chirurgia con apparecchiature all’avanguardia mai utilizzate, a causa della mancata nomina di una equipe. I malati nel frattempo si curano altrove e l’azienda spende soldi per controllare i macchinari. Nella provincia di Salerno, a causa del blocco del turn over, i medici vengono mandati in trasferta tra i vari ospedali e aziende ospedaliere, con un costo l’ora di 63 euro. Presso l’ospedale di Pantalla-Todi (PG) sono stati assunti solo gli infermieri, mentre i medici vengono da Perugia, con una spesa della Asl che ammonta a 350mila euro l’anno». (Ivi).

Ma credo che se Cittadinanzattiva aggiornasse dati e situazioni, ne vedremmo delle belle, come quella dei medici militari precettati per lavorare negli ospedali del Molise. (https://www.corriere.it/cronache/19_giugno_03/molise-mancano-medici-ospedali-arrivano-quelli-dell-esercito-294bae88-85d9-11e9-a409-fe3481384c64.shtml) «Buon Gesù, cosa sta accadendo?» – avrebbero detto una volta. Ma cosa ancora ci riserva di incredibile la sanità iltaliana? Alla prossima puntata.

Il progetto: “Fare di più non significa fare meglio – Choosing Wisely Italy”, per una maggiore appropriatezza e sicurezza delle cure.

Per ora, in relazione anche alle possibilità di sprechi, cito solo il progetto, suggeritomi come lettura dalla dott. Laura Stabile, intitolato: “Fare di più non significa fare meglio – Choosing Wisely Italy” già da tempo esistente, e promosso da ‘Slow Medicine’. Il progetto ha l’obiettivo di favorire il dialogo dei medici e degli altri professionisti della salute con i pazienti e i cittadini su esami diagnostici, trattamenti e procedure a rischio di inappropriatezza in Italia, per giungere a scelte informate e condivise.

Il progetto si basa sull’assunzione di responsabilità dei medici e degli altri professionisti sanitari nelle scelte di cura e sulla partecipazione dei pazienti e dei cittadini, e viene attuato attraverso:

– le raccomandazioni di Società Scientifiche e Associazioni Professionali italiane su esami diagnostici, trattamenti e procedure che, secondo le conoscenze scientifiche disponibili, non apportano benefici significativi alla maggior parte dei pazienti ai quali sono prescritti, ma possono, al contrario, esporli a rischi;
– il miglioramento del dialogo e della relazione dei medici e degli altri professionisti con i pazienti e i cittadini, perché possano essere effettuate scelte informate e condivise, nell’ambito di un rapporto di fiducia;
– una diffusa informazione e formazione dei medici e degli altri professionisti sanitari;
– la messa a punto di materiale informativo per i cittadini e i pazienti;
un’ampia condivisione con i cittadini, i pazienti e le loro rappresentanze.

Informazioni sul progetto si possono trovare in: (1) https://www.choosingwiselyitaly.org/images/ITALIANO/Pdf/Choosing-Wisely-e-il–progetto-italiano–marzo-2018.pdf; (2) https://www.choosingwiselyitaly.org/PDF/ITApro/Disegno%20del%20progetto%20%E2%80%93%20revisione%20luglio%202016.pdf.; (3) https://www.choosingwiselyitaly.org/PDF/ITApro/CWI-StarterKit-ITA.pdf.

Personalmente e dalla mia esperienza, credo che alcuni medici abbiano perso la capacità di ascoltare i sintomi narrati e fare un paio di ipotesi diagnostiche accettabili, da verificare con i mezzi più idonei, e che il dialogo medico paziente sia indispensabile, come l’esser seguiti da un medico di fiducia con il quale appunto, scambiare informazioni. Un tempo i medici ascoltavano, palpavano, visitavano, diagnosticavano in modo corretto. E credo che quando uno varca la soglia del Pronto Soccorso con un dolore fortissimo che non si può simulare, credetemi, o, nella stessa situazione, chiama urgentemente il medico di base, un professionista dovrebbe chiedersi : “Ma che diavolo ha?” E se non risponde alle cure per una pregressa diagnosi, dovrebbe ipotizzarne un’altra, in scienza e coscienza, anche per non far assumere, magari per anni, al paziente farmaci errati. Ma questa è altra storia.

L’immagine che accompagna l’articolo è il logo di ‘Slow Medicine’ ed è tratto da: https://www.choosingwiselyitaly.org/index.php/it/il-materiale/28-il-materiale-articoli-e-comunicati-stampa?start=4.

Laura Matelda Puppini

Nazisti e collaborazionisti a Marsiglia, culla della resistenza: la distruzione del Porto Vecchio e l’evacuazione ed internamento dei suoi abitanti, un crimine contro l’umanità.

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Marsiglia, città martire, come Lubiana, circondata da filo spinato.

Ritorno qui su quelle città europee martiri, che i nazisti ed i loro collaboratori segnarono con il filo spinato, le armi ed il fuoco per soggiogarle, per cancellarne la Resistenza, per piegarle a loro uso e consumo. Ho parlato di Lubiana e parlerò di Marsiglia, la francese, la cui zona intorno al porto vecchio fu distrutta dai nazisti.

Non ne avevo mai sentito parlare, lo confesso, finché pochi giorni fa Francesco Cecchini non mi invitò a leggere un suo articolo intitolato “Un’inchiesta aperta per crimini contro l’umanità’ dopo la retata e la deportazione al vieux port”, pubblicato su: https://www.ancorafischiailvento.org/.

A cosa si riferiva Francesco? Leggendo il testo lo si capiva subito: parlava di Marsiglia, guardandola prima con gli occhi di Jean Claude Izzo, e citando, da “Solea”: «Qui, c’era sempre aria di mare, non era vera aria fresca, ma bastava non gocciolare il sudore ad ogni sorso di birra. Stavo bene qui. Nella più bella terrazza del Porto Vecchio. La sola in cui si può godere, dalla mattina alla sera, la luce della città. Non capiremo mai Marsiglia se siamo indifferenti alla sua luce. Qui è palpabile. Anche nelle ore più calde. Anche quando costringe ad abbassare gli occhi. Come oggi» (Francesco Cecchini, op. cit.), per poi cambiare improvvisamente l’ottica e rivolgersi all’occupazione nazista della città, avvenuta il 12 novembre 1942, quando quella luce mista a benessere, scomparve, ed iniziò la resistenza. (Ivi).

Ma nel contempo, il 22 gennaio 1943, «Marsiglia fu investita da imponenti forze di polizia. Venerdì 22 gennaio tutto fu pronto e la grande retata di Marsiglia iniziò. Fu, dopo quella di Vel d’hiv a Parigi, la più grande retata sotto l’occupazione nazista. Durante il rastrellamento in tutti i quartieri del centro di Marsiglia furono controllate 40000 persone e tra queste furono arrestate 5956 persone; 1642 vennero inviati alla prigione di Baumettes, inclusi 782 ebrei inviati la mattina del 24 gennaio a Camp Compiegne. Nessuno tornò dal campo di sterminio di Sobibor in Polonia. A questa operazione criminale parteciparono anche moltissimi poliziotti francesi, per lo più venuti da Parigi. Erano presenti Bousquet, Segretario generale della polizia di Vichy; Lemoine, Prefetto regionale; Barraud, delegato prefetto dell’amministrazione comunale; Chopin, Prefetto delle Bocche del Rodano; Rodelle de Porzic, Intendente di polizia». (Ivi).

E come non bastasse, il distretto ‘Le Panier’, il più antico e malfamato della città, ed il porto vecchio, individuati come culle della resistenza, furono, il primo febbraio 1943, fatti saltare con la dinamite o demoliti con mezzi meccanici. Per questi crimini, per i rastrellamenti, per tutti quei morti, senza tetto, affamati, feriti, deportati che non faranno più ritorno, si è ora aperta un’indagine per crimini contro l’umanità, grazie ad un avvocato Pascal Luongo, il cui nonno era stato una delle vittime del grande rastrellamento, e che ha assunto la rappresentanza legale di 4 sopravvissuti alla retata del 22 gennaio, il quale ha presentato una denuncia contro ignoti. (Ivi e Chloé Leprince, Rafle à Marseille en 1943: un quartier rasé et le petit rire de Pétain, in: https://www.franceculture.fr/).

Durant la rafle du Vieux-Port à Marseille, en janvier 1943.  Autore: Wolfgang Vennemann, via les archives fédérales / Wikicommons. (Da: Chloé Leprince, Rafle à Marseille en 1943: un quartier rasé et le petit rire de Pétain, in: https://www.franceculture.fr/)

Così viene descritto quello che avvenne a Marsiglia nei giorni fra il 22 ed il 24 gennaio 1943 ed il primo febbraio dello stesso anno.  

Tra il 22 ed il 24 gennaio 1943, la polizia francese e i soldati tedeschi prelevarono 20.000 persone dalla zona nord del porto vecchio di Marsiglia. Una settimana più tardi, 14 ettari di un quartiere popolare furono rasi al suolo. (Chloé Leprince, Rafle à Marseille en 1943: un quartier rasé et le petit rire de Pétain, in: https://www.franceculture.fr/). In tal modo La seconda guerra mondiale sconvolse il quadro del Vecchio porto marsigliese, perché quasi “casa per casa” i 1500 immobili di quella zona furono fatti saltare con la dinamite, lasciando un campo di rovine. (https://it.wikipedia.org/wiki/Porto_vecchio_di_Marsiglia).

Ma non furono solo i nazisti a macchiarsi di questi crimini, anche se furono coloro che indicarono questo tipo di azioni, in sintesi ‘presero l’iniziativa’. Infatti fu René Bousquet, segretario di Stato e incaricato di guidare la polizia del governo di Vichy, che firmò, il 14 gennaio 1943, l’ordine per quella azione, che ebbe luogo sei mesi dopo il rastrellamento del ‘Velodromo d’inverno’ a Parigi, da lui voluto.  (Chloé Leprince, op. cit.).

Quindi anche in Francia, per i crimini contro la popolazione civile, i nazisti si servirono dei collaborazionisti.

12.000 persone, tra funzionari francesi, gendarmi, poliziotti e guardie della Gendarmeria mobile vennero attivati per la settimana in cui avvennero i fatti. L’obiettivo dell’azione congiunta erano quelli che venivano definiti i vecchi quartieri posti sul fianco del vecchio porto e sotto la collina ove ora si trovano i resti del quartiere ‘le Panier’, il più antico della città. (Ivi).

Foto scattata il 23 gennaio 1943 da Wolfgang Vennemann che ricorda l’incontro tra nazisti, e i collaborazionisti all’ hotel de la ville di Marsiglia durante il rastrellamento della zona a nord del Porto Vecchio. Da sinistra a destra si notano: Bernhard Griese, Sturmbannführer SS; Antoine Lemoine, prefetto della regione; Rolf Mühler, Comandante della Sicherheitspolizei di Marsiglia, – René Bousquet, con il cappotto con il collo di pelliccia, comandante della polizia di Vichy, Pierre Barraud, facente funzioni di sindaco di Marsiglia. (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bundesarchiv_Bild_101I-027-1475-38,_Marseille,_deutsch-franz%C3%B6sische_Besprechung.jpg).

Ma perché i tedeschi volevano la distruzione di quella che chiamavano, con disprezzo, ‘ La verruca d’ Europa’?

Essi volevano quel rastrellamento e la distruzione di quella zona perché, in una serie di attentati fra cui quelli del 3 gennaio 1943, erano rimasti uccisi alcuni ufficiali nazisti. (Ivi).  E le strade che portavano dalle banchine di Port Saint Jean alla salita di Accoules erano considerate da nazisti e collaborazionisti un riparo per la Resistenza, grazie al dedalo di viuzze che si snodavano fra case incassate una sull’altra, ed una roccaforte della malavita. (Chloé Leprince, op. cit.). Era freddo in quel gennaio, restare fuori casa era impossibile, ma i nazisti non ebbero pietà per alcuno, non per donne, non per bambini, non per ragazzi e ragazze, non per vecchi e vecchie, che persero tutto, e molti furono incanalati verso i lager.

I motivi della retata e distruzione della zona a nord porto vecchio e del quartiere ‘Le Panier’ di Marsiglia, e la risposta per ritorsione dei nazisti, confermerebbero l’ipotesi di Chiussi e Di Giusto che le stragi di civili e la distruzione di paesi possa essere associata, come nel caso delle fosse Ardeatine, a uccisioni da parte di partigiani di militari tedeschi. (Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, Forni di sotto, – Lipa- Avasinis: nuovi elementi su tre rappresaglie fasciste, in Storia contemporanea in Friuli, n.47).

Il ruolo in Italia di collaborazionisti e repubblichini nelle stragi di civili e nelle ritorsioni contro civili, è ben descritto da Nuto Revelli, partigiano nel cuneese, che così si esprime: «I fascisti sono feroci nelle rappresaglie contro la popolazione, contro gli inermi. I fascisti della ‘Muti’ di San Dalmazzo li temiamo perché sono dei torturatori crudeli, spietati, che terrorizzano la popolazione, incolpandola di connivenza, di essere amica dei partigiani». (Nuto Revelli, Le due guerre, Einaudi 2003, p. 148).  Non so se valga lo stesso per le forze della Repubblica di Vichy, ma pare che certi schemi comportamentali dei nazisti e dei loro accoliti nei paesi occupati si ripetano.

Ed in questo caso pare che, se le ritorsioni furono decise dai vertici nazisti presenti in Francia, in particolare da Carl Oberg, a capo delle SS  e della polizia del Terzo Reich in Francia, che aveva addirittura ipotizzato una evacuazione completa di Marsiglia, esse furono confermate da una direttiva segreta di Heinrich Himmler, datata 18 gennaio 1943, che imponeva: «l’arresto dei criminali di Marsiglia e la loro deportazione verso la Germania, con “un numero tondo di 100.000 […] persone circa; la distruzione del “distretto criminale”; la partecipazione della polizia francese e delle “guardie di riserva mobile” in queste operazioni». (Chloé Leprince, op.cit. e https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Rafle_de_Marseille).

Ma già in precedenza, per quella zona della città, vista da Louis Gillet, nel 1942, come «Un luogo osceno, di suburre, una delle pozze più impure, dove si raccoglie la feccia del Mediterraneo […]. […] l’impero del peccato e della morte» (Ivi), si era ravvisata l’esigenza di una rigenerazione, che prevedeva il suo preliminare svuotamento. (Ivi).

La zona a nord del Porto Vecchio prima della distruzione e poi. (Da: https://www.tourisme-marseille.com/it/fiche/memorial-de-la-deportation-et-rafle-de-1943-destruction-du-vieux-port-de-marseille/). 

Operazione Tigre e Sultano: “Radere al suolo la zona vecchia della città e dopo averne deportato gli abitanti”. 

Il 23 gennaio 1943, SS e forze dell’ordine francesi iniziarono all’alba ed evacuare il quartiere a Nord del porto vecchio, dopo averlo completamente circondato. L’ ‘Operazione Sultano’ seguiva così all’ ‘Operazione Tigre’, che aveva portato al controllo di 40.000 persone, a più di 20.000 persone evacuate, a 6.000 arrestate. (Chloé Leprince, op.cit).  E dalla zona dove era iniziato, il rastrellamento si estendeva al quartiere dell’Opera, che si trovava a pochi passi dall’altro lato del Porto Vecchio, dove vivevano numerosi Ebrei, e nei pressi della sinagoga e del centro della città.

Secondo il Memoriale della Shoa, in seguito a detta ‘Operazione Tigre’, vennero deportati in tutto 1642 residenti in quella zona; 800 ebrei furono condotti nel campo di sterminio Sobibor in Polonia, ed altrettanti abitanti di Marsiglia, di cui 200 erano ebrei ma gli altri 600 erano dei “sospettati”, degli stranieri irregolari, degli zingari, degli omosessuali, o dei vagabondi senza fissa dimora o privi di una tessera annonaria o degli ex- detenuti, furono internati in quello di Orianeburg-Sachsenhaussen, uno dei più grandi della Germania, (Ivi).

E tra questi che furono deportati in campo di concentramento finirono pure alcuni partigiani, ma non Gaston Defferre, che poi diventerà sindaco della città, che nel 1943 divenne il capo dell’ala socialista della Resistenza di quella regione, ed incominciò a creare ‘milizie socialiste’ in loco. (Ivi).

Quindi, il 24 gennaio, attraverso il giornale ‘Le Petit marseillais’, la prefettura della città comunicava che l’evacuazione del Porto Vecchio aveva avuto luogo senza incidenti ed invitava chi ancora si trovasse in zona a presentarsi subito al vecchio porto, alla banchina ‘Petain’.  (Ivi).

Ma la ‘soluzione radicale e completa’ di evacuazione di Marsiglia, almeno per il vecchio porto e sue adiacenze, non si fermò con i rastrellamenti e neppure con la partenza di soldati tedeschi verso la Polonia e la Germania, perché il Terzo Reich intendeva cancellare del tutto la zona dalla mappa della città, con l’aiuto della Repubblica di Vichy. Così, il primo febbraio, quando le campane della chiesa di Saint-Laurent, detta ‘la chiesa dei Napoletani’, avevano appena suonato il mezzogiorno, esplose la prima carica di dinamite, a cui seguirono centinaia di deflagrazioni, quel giorno ed i successivi. Ci vorranno nove giorni per distruggere 1500 palazzi e radere al suolo 14 ettari di terreno edificati, cioè l’equivalente di 20 campi di calcio. (Ivi).

La zona distrutta. (Da: https://www.tourisme-marseille.com/it/fiche/memorial-de-la-deportation-et-rafle-de-1943-destruction-du-vieux-port-de-marseille/).

E un documento scoperto negli archivi della radio francese, immortala anche per i posteri la risata agghiacciante di Philippe Pétain, capo della Repubblica di Vichy, mentre evoca la distruzione del lato Nord del porto di Marsiglia. (Ivi).

Era una zona vivace, popolosa e popolare, quella rasa al suolo da nazisti e collaborazionisti in Marsiglia, i cui abitanti vivevano di pesca e commerci, ed ivi si era insediata anche una piccola comunità di napoletani e vivevano stabilmente spagnoli e senegalesi rifugiati. E la zona comprendeva anche un quartiere ‘riservato’, ove le prostitute che gravitavano sul porto ricevevano i loro clienti, e le cui notti si riempivano del jazz nero prima che giungesse il coprifuoco imposto dalla Repubblica di Vichy (Ivi), oltre che di droga.

Uscite tutti! Immagine da: https://www.laprovence.com/article/edition-marseille/4799791/vieux-port-il-y-a-75-ans-les-rafles.html

«È a Marsiglia che si incrociano una forza lavoro con traiettorie contrastanti, lavoratori del Nord Africa che indossano il ‘fez’ […], immigranti italiani in fuga dalla miseria, ma anche i lavoratori dell’industrializzazione del sud che galoppano ed esportano dai moli del porto industriale di Joliette, o quegli esuli dall’entroterra, che si insediano sulla scia dell’esodo rurale, […]. Tutto questo senza contare i viaggiatori». (Ivi).

Uno spaccato di vita popolare e multietnica, veniva cancellato dal nazismo e dai suoi collaboratori, lasciando al suo posto ‘terra bruciata’, cioè, per dirla in francese, “un quartier rasé”.

 

Marsiglia, capitale della Resistenza.

 Quando si parla di resistenza francese, in genere il pensiero corre a Lione, città dove operò e venne catturato Jean Moulin, militare prima, partigiano poi, considerato un eroe della Resistenza, e che era stato il più giovane vice-prefetto della Francia negli anni Venti (http://anpi-lissone.over-blog.com/article-11880994.html), e non si pensa a Marsiglia.

Ed in effetti, nella città, non vi sono memoriali, musei o monumenti particolari che ricordino la guerra di Liberazione, ma solo il nome di qualche via e qualche targa ne rammentano la presenza. Eppure gli ultimi studi fanno pensare che a Marsiglia una qualche forma di resistenza ante litteram fosse presente dal 1940.
(https://www.alliancefrancaise.london/Marseille-la-premiere-capitale-de-la-Resistance.php).

Infatti dal 10 maggio di quell’anno, cioè dall’ inizio dell’invasione nazista del Belgio, Marsiglia aveva incominciato ad attirare a sé una moltitudine di rifugiati provenienti dalle zone occupate dell’Alsazia e della Lorena, formata pure da soldati britannici in fuga dal Belgio; da Cechi e da Polacchi; da antifascisti italiani; da Tedeschi oppositori del nazismo; da comunisti ed anarchici spagnoli. (Ivi).
Fra questi profughi, per lo più in transito, vi erano molti intellettuali, molti artisti e molti ebrei. Ed ad essi si aggiunsero molti che si ritiravano dalle zone occupate dai tedeschi, fra cui c’erano persone che provenivano da amministrazioni, da testate giornalistiche e dalla radio, e militari delle truppe smobilitate.

Affluirono in massa a Marsiglia, riempirono gli alberghi, a tal punto che si dice venissero affittate anche le vasche da bagno, come luogo ove rifugiarsi. E naturalmente non mancavano i rifugi clandestini. Ed allora Il commercio marittimo con l’Impero funzionava ancora e la città era diventata la porta d’accesso alla Francia: porta aperta ad Algeri, a Londra, all’America. E la città rappresentava la porta della libertà per alcuni, la possibilità di riprendere da lontano la lotta antinazista ed antifascista per altri. (Ivi).

Quindi, in questa situazione, le reti che andavano formandosi per attività di soccorso ai rifugiati e di mutuo aiuto all’ interno della città, vennero e vengono lette come le prime forme di resistenza a Marsiglia, e quelle che poi permisero alla Resistenza di vivere e sopravvivere. Dalla metà di agosto del 1940, il giornalista americano Varian Fry creò un comitato di assistenza che svolgeva attività sia legali che clandestine, e che permise a molti ebrei di salpare verso gli Stati Uniti, grazie a consoli ceco e messicano, che firmavano i documenti di espatrio ed ad un medico.

Detto comitato riuscì anche a far uscire dal paese 300 soldati britannici, che erano stati internati a Fort Saint- Jean. Ma alla fine, l’attività di Fry fu scoperta ed egli fu espulso dalla Francia, dopo un accordo tra il governo di Vichy e quello Usa.

Ma alcuni suoi colleghi del comitato ne raccolsero il testimone, collegandosi, pure, alla resistenza. 50 anni dopo, Varian Fry fu considerato un eroe della resistenza francese.

L’immagine ritrae il dott. George Rodocanachi, eroe della resistenza francese. (Da: http://www.christopherlong.co.uk/per/rodocanachigeorge.html).

Il medico che dette un forte aiuto a chi doveva scappare, fu George Rodocanachi, dato da genitori indiani, cittadino britannico naturalizzato francese, che viveva a Marsiglia, e che era in contatto pure con la Missione detta dei marinai che si trovava al numero 46 della via Forbin, nel Porto Vecchio, e che era guidata dal pastore presbiterano Donald Caskie sin dal luglio del 1940. Ed ambedue collaboravano con la rete PAT. Fu questa la prima e più efficace rete di fuga stabilita sul territorio, che ebbe la sua prima sede nell’appartamento del dott. Rodocanachi. Ideata dal capitano Ian Garrow, questa rete prese il nome da Albert-Marie Guérisse, un medico belga che utilizzava il nome di copertura Pat O’Leary, che la guidò per due anni. La rete PAT, agendo in collaborazione con MI6, MI9 e SOE, ha permesso allora a centinaia di soldati e agenti alleati di uscire dalla Francia, organizzando il loro trasporto attraverso le insenature di Cassis via mare verso l’Inghilterra a o dai Pirenei verso Gibilterra. (Ivi).

E quando la Missione presbiterana fu chiusa dalla polizia perché la sua attività segreta ed illegale fu scoperta, George Rodocanachi accettò di prendere il posto del reverendo Caskie, ospitando nella casa ove abitava ed aveva pure il suo studio medico, in rue Roux de Brignoles numero 21, fuggiaschi e ricercati. Questa attività clandestina durò dal mese di giugno del 1941 al febbraio 1943, quando il medico fu arrestato ed internato nel campo di concentramento di Buchenwald, dove morì un anno più tardi. (Ivi).

Nancy Wake, austrialiana, agente segreto della Resistenza francese, detta ‘il topolino bianco’ pluridecorata, Ian Garrow ed Henry Fiocca, marito di Nancy, torturato dalla Gestapo. (Da: http://www.diggerhistory.info/pages-heroes/white_mouse.htm). 

D questa filiera di salvataggio clandestino si sa che fecero parte Louis Noveau, che mise a disposizione dell’aviazione britannica il suo appartamento, Nancy Wake, la più grande eroina del S.O.E. (Special Operations Executive) britannico, deceduta a Londra nel 2011, e suo marito il ricco commerciante Henry Fiocca. Anch’essi utilizzarono le loro dimore per nascondere fuggiaschi. Henry fu però catturato dalla Gestapo, torturato e giustiziato nel 1943. Nancy, invece, che non si trovava nella città, dopo varie peripezie, giunse a Londra dove si unì a Danielle Redde, con cui riprese l’attività antinazista in Francia, dopo aver seguito un corso di addestramento. Raggiunta nuovamente Marsiglia, Nancy operò al fianco di Louis Burdet, rappresentante militare di France Libre nella città portuale.

Ma fu l’arrivo a Marsiglia di Henry Frenay, nel 1940, che segnò l’inizio della Resistenza vera e propria nella città. Egli fondò il Movimento di Liberazione Nazionale ed iniziò a reclutare uomini e donne pronti a resistere ai nazisti ed ai fascisti. (Ivi). Infatti non bisogna dimenticare che gli italiani parteciparono all’occupazione della Francia meridionale, che ebbe luogo tra il 1940 e il 1943. Tale occupazione avvenne in due fasi: la prima nel giugno del 1940 a seguito della capitolazione francese dopo la vittoriosa offensiva tedesca; la seconda nel novembre 1942 quando Hitler decise di occupare militarmente il suolo della Francia di Vichy (Operazione Anton). Dopo l’8 settembre le truppe del Regio Esercito Italiano, che si trovavano sul suolo francese, furono costrette a ritirarsi sotto la pressione dei tedeschi, ponendo così termine all’occupazione. (https://it.wikipedia.org/wiki/Occupazione_italiana_della_Francia_meridionale).

Jean Moulin. (Da: http://anpi-lissone.over-blog.com/article-11880994.html).

All’inizio del 1941, anche Jean Moulin si recò a Marsiglia per incontrare Henry Frenay e per conoscere le reti resistenziali che si dipartivano dalla città.  Dopo essersi reso conto dell’entità ed importanza delle stesse, decise di andare a Londra ad incontrare Charles De Gaulle che, dalla capitale britannica, aveva incitato, il 18 giugno 1940, attraverso radio Londra, i francesi a lottare contro i nazisti, per convincerlo a sostenere la resistenza interna. E così accadde. Quindi Moulin rientrò in Francia per coordinare l’attività delle diverse reti resistenziali. (https://www.alliancefrancaise.london/Marseille-la-premiere-capitale-de-la-Resistance.php).

E fu sempre a Marsiglia che il capitano Pierre Fourcaud, inviato dal BCRA (Bureau Central de Renseignements et de action militaire), formò una rete di resistenza al nazismo chiamata ‘Fleurs’.
Ed Marsiglia agì anche il socialista ed avvocato Gaston Defferre, poi sindaco della città, che si dedicò, in un primo tempo, a portare soccorso ai rifugiati, per poi aderire alla rete resistenziale ‘Brutus’. (Ivi).

E come la rete PAT e la rete di intelligence polacca F2, altre reti resistenziali operarono allora in collegamento con i servizi segreti britannici: tra queste la rete MAP, con base sempre a Marsiglia, la rete   ‘Arles’, ben conosciuta in Gran Bretagna grazie al suo agente molto famoso, Odette; e la rete di ‘ALLIANCE’, che per un certo periodo fu gestita da Marsiglia da Marie-Madeleine Méric, soprannominata ‘il riccio’, originaria della città. (Ivi).  E di una di queste reti fece parte anche Ernest Gimpel, poi incarcerato a Fort Saint Nicolas, e quindi finito in più campi di concentramento sino alla liberazione, che con il padre ed i fratelli mise a disposizione la sua ditta d trasporti ‘Azur’. (Ivi).
Naturalmente molti furono gli uomini che parteciparono all’ attività resistenziale nella Francia occupata e di Vichy, e qui sono ricordati solo i principali che operarono a Marsiglia o di Marsiglia.

E certamente non è fuori luogo dire che: “Se Lione è stata la capitale della resistenza, Marsiglia ne è stata la culla”. (Ivi).

E ritorniamo infine a Francesco Cecchini, che ringrazio per lo spunto datomi, ed alla denuncia contro ignoti per crimini contro l’umanità dell’avvocato Pascal Luongo, di cui attendiamo l’evolversi.

 Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagan l’articolo è una di quelle pubblicate al suo interno, ed a cui si rimanda per i riferimenti. Ricordo che, sulLA ResIstenza francese, e la vita in Francia sotto il nazismo,ho già pubblicato: Seconda Guerra Mondiale. Friuli e Carnia in Ozak, Bretagna nella Francia occupata: Terre diverse, esperienze similari. L.M.P.

 

 

Discutendo e ricordando di Alpini.

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Tolmezzo è imbandierata forse un po’ troppo, nel senso che fra coccarde e bandiere si sta un po’ esagerando, per l’adunata alpina del triveneto. Quando sento parlare di alpini ricordo mio nonno, il colonnello Emidio Plozzer, classe 1895, che combatté sul Pal Piccolo e sull’Ortigara, recuperandosi pure una pallottola nel braccio ed il congelamento dei piedi, e che non volle mai raccontare nulla di quella guerra, che era uomo cattolicissimo e che poneva l’onore al primo posto; quando sento parlare di Alpini mi sovviene la lunga ricerca, ai tempi in cui internet non era stata ancora inventata, relativa all’evolversi delle divise militari, attuata con il generale Adriano Gransinigh, per cercare di datare fotografie di Vittorio Molinari, che mi vide presente per molte ore nella sede Ana di Tolmezzo. Quando sento parlare di Alpini mi ricordo il grosso aiuto che essi dettero alle popolazioni del Friuli uscite dal terremoto del 1976; quando sento parlare di Alpini penso a quei friulani ma spesso veneti ed abruzzesi, che riempivano la sera le vie di Tolmezzo quando ero bambina e ragazza, o che marciavano composti e guidati dalla banda verso il Duomo per ascoltare la Santa Messa.  E che io sappia alpino fu anche mio zio Umberto Plozzer, ma a Merano.
Ed a chi riempie Tolmezzo di bandiere italiane per il raduno degli Alpini, ricordo che la bandiera italiana è di tutti gli italiani ed anche di tutte le Forze Armate della Repubblica,  ed è elemento che ci unisce e contraddistingue la nazione ed i suoi abitanti.

Sfila la sezione Ana carnica, nel maggio 1965. Tra la banda e l’indicazione della sezione, l’ufficiale Emidio Plozzer.

Ed ancora pensando agli Alpini penso al capitano degli Alpini Albino Candoni, famoso scultore e soldato per scelta, che, per rincuorare i suoi soldati del Btg. Monte Arvenis, comperava per loro vino, mele e castagne; mi sovviene quanto scritto da Piero Bossi nel suo diario inedito che un giorno o l’altro pubblicherò, sui pezzi di cadaveri amici che sprizzavano dalla terra ad ogni cannonata nemica, perché non si era riusciti a dar loro neppure una sepoltura decente; penso alla portatrici carniche, che sopportavano, magari ragazzette, fatiche inaudite per guadagnare quattro lire, ed a tutto quello che ho scritto, in scienza e coscienza, sul mio: Laura Matelda Puppini O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra.” E penso a mio nonno Emidio Plozzer che marcia, impettito e fiero, con la sua penna bianca sul cappello alpino, alla sfilata di Trieste tenutasi il 22-23-24 maggio 1965, dietro la sigla della sezione carnica.  E penso a Elio Martinis, militare del Regno e poi comandante partigiano, che diceva che aveva imparato a casa sua che andare soldato significava andare a morire, o a chi mi narrava stamani che, dopo aver perso in guerra il genitore ed un fratello, suo padre, reduce del fronte greco-albanese, non aveva più voluto sentir parlare di guerre, ed aveva rimosso ogni ricordo ed ogni oggetto che potesse fargliele venire in mente.  Ed infine ricordo i 4 alpini di Cercivento, non ancora riabilitati, ed i tanti altri che finirono vittime di decimazioni o fucilazioni inutili ed ingiuste. E come dimenticare “Marco Candido Soldato” anche se di fanteria, ma simbolo di tanti giovani finiti in quel macello che fu la prima guerra mondiale senza sapere perchè?

Umberto Candoni: funerale di Albino Candoni a Tolmezzo, il 4 novembre 1921. 

Ma mi ricordo anche di Nuto Revelli, della Brigata alpina cuneense, che scrisse che la cosa peggiore per lui, ufficiale effettivo nella campagna di Russia, (che fu, per inciso, una carneficina anche per la Julia) non fu vedere come lo Stato fascista fosse lontano dalla realtà che stavano vivendo ma fu il pianto del colonnello, che apprendeva l’ordine di iniziare la ritirata. Ma nel contempo egli, subito dopo, ricorda l’altissimo valore del generale Giulio Martinat, uomo “generoso e coraggioso” (Nuto Revelli, Le due guerre, Einaudi 2003, p. 111) che muore a Nikolajevka, lanciandosi tra i primi lungo il declivo che separava le truppe dalla città, per incitare i suoi, capendo che sfondare lì è questione di vita o di morte per tutti, e del generale Luigi Reverberi che guida la successiva corsa- attacco a Nikolajevka, una massa umana che si lancia come un sol’uomo contro il nemico. E mi vengono alla mente il grande e schivo Mario Candotti, ufficiale, campagne di Grecia e Russia, poi Comandante partigiano della Divisione Garibaldi Carnia, e un altro grande: Romano Marchetti, tenente del R.E.I.. Ma non furono i soli militari carnici e italiani che furono poi partigiani- patrioti. E con gioia infinita Albino Venier, che era stato pure lui ufficiale, e poi comandante partigiano osovano, aveva posto, in Monte Croce al confine che era stato fra Okak e Terzo Reich, la bandiera italiana alla fine della seconda guerra mondiale.

Giulio Bedeschi: Ufficiali in Russia. Il secondo guardando da sinistra è il tenente di Ampezzo Mario Candotti. (Da: Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa, naia, guerra, resistenza, ed. I.F.S.M.L., ANA Pn. 1986).

Comunque per l’occasione vi regalo pure queste scarne righe sull’origine del corpo degli Alpini, tratte dal volume AA.VV. “Il battaglione alpini Tolmezzo – Storia di un battaglione carnico – “O LA’ O ROMPI” Ediz. Tipografia Moro A., Tolmezzo, II ed., 2004, pp. 15 – 23, che avevo scritto ai tempi in cui cercavo materiali per il volume su Vittorio Molinari, ed altre informazioni tratte da: http://users.libero.it/gfuria/pontenizza/alpini_storia01.htm, sperando che per questo raduno si ricordi il valore del corpo degli alpini sia nel soccorso ed aiuto alle popolazioni, prima della creazione della Protezione civile, in particolare in Friuli dopo il terremoto nel 1976, sia per il suo comportamento nelle guerre, che dovrebbero esser sempre però esecrate, perché portatrici di distruzione, morte, terrore, orrore.

Il generale Giulio Martinat, piemontese delle valli valdesi, che si gettò fra i primi lungo la discesa di Nikolajewka, ben sapendo a cosa andava incontro, per spronare i suoi, già decimati, a seguirlo, gridando: “«Avanti alpini, avanti di là c’è l’Italia, avanti!» morendo assieme a molti soldati. Medaglia d’oro al valor militare.  (http://www.larchivio.com/xoom/alpini-martinat.htm e https://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Martinat).

E così scriveva Benedetto XV° nella sua: scriveva nell’Enciclica “ Ad beatissimi apostolo rum”, datata 1 novembre dello stesso anno :

«Sembrano davvero giunti quei giorni, dei quali Gesù Cristo predisse: «Sentirete parlare di guerre e di rumori di guerre… Infatti si solleverà popolo contro popolo, e regno contro regno». Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto, e non v’è quasi altro pensiero che occupi ora le menti. Nazioni grandi e fiorentissime sono là sui campi di battaglia. Qual meraviglia perciò, se ben fornite, come sono, di quegli orribili mezzi che il progresso dell’arte militare ha inventati, si azzuffano in gigantesche carneficine? Nessun limite alle rovine, nessuno alle stragi: ogni giorno la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e feriti. E chi direbbe che tali genti, l’una contro l’altra armata, discendano da uno stesso progenitore, che sian tutte della stessa natura, e parti tutte d’una medesima società umana? Chi li ravviserebbe fratelli, figli di un unico Padre, che è nei Cieli? E intanto, mentre da una parte e dall’altra si combatte con eserciti sterminati, le nazioni, le famiglie, gli individui gemono nei dolori e nelle miserie, funeste compagne della guerra; si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e degli orfani; languiscono, per le interrotte comunicazioni, i commerci, i campi sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore, tutti nel lutto.».

Speriamo quindi che i militari italiani vengano sempre più utilizzati per operazioni di aiuto umanitario, in un mondo di pace. Pertanto cerchiamo di non dare l’idea, ai giovani, che una sfilata alpina è sinonimo di una massiccia sagra, con fiumi di vino e birra che scorrono, e qualche ‘goliardata’, ma riportiamola al suo originario significato.

Laura Matelda Puppini

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NASCITA DEL CORPO DEGLI ALPINI

L’atto di nascita degli alpini porta la data del 15 ottobre 1872. Il relativo decreto venne firmato da Vittorio Emanuele II a Napoli, dove il Sovrano si trovava per un periodo di Riposo.

Sono da poco terminate le guerre risorgimentali ed i confini del regno d’Italia, soprattutto a settentrione e ad oriente, non sono molto sicuri. Fra i tanti studiosi che hanno a cuore il problema dei confini terrestri del giovane Stato, si mette in luce un Capitano di Stato Maggiore Giuseppe Perrucchetti che pubblica, nel 1872, uno studio su “La difesa di alcuni valichi alpini e l’ordinamento militare territoriale delle zone di frontiera”.

Nel suo articolo il Perrucchetti sostiene l’opportunità di costituire un Corpo, distinto, con spiccata caratteristica territoriale che, utilizzando la speciale conoscenza topografica delle alpi italiane, possa sostenere il primo urto nemico. E suggerisce, pure, quali distretti preposti alla difesa: Dego, Ceva, Cuneo, Saluzzo, Fenestrelle, Bart, Domodossola, Pallanza, Varese, Schio, Bassano, Feltre, Belluno, Pieve di Cadore, Tolmezzo, Udine e Cividale.

Il Generale Cesare Ricotti Magnani, Ministro della Guerra, riconosciuta la validità di tale proposta, studiava la possibilità di darle pratica attuazione. Ma i tempi non erano propizi, per quanto riguardava le finanze dello Stato, alla costituzione di un nuovo corpo militare. Per aggirare l’ostacolo si decideva di aumentare il numero dei distretti già esistenti. A questi nuovi distretti sarebbe stata associata la creazione di un certo numero di compagnie alpine formate da militari reclutati nella regione montana.

Foto da: http://users.libero.it/gfuria/pontenizza/alpini_storia01.htm

Così, con la firma del decreto del 15 ottobre 1872, si venivano a creare 15 nuove compagnie contraddistinte da un numero arabo progressivo da 1 a 15, di cui Tolmezzo era la quindicesima. Una parte delle stesse veniva posta alle dipendenze di reparti, altre, come quella Tolmezzina, mantennero la propria autonomia.
Già il 30 settembre 1873, a pochi mesi dalla costituzione delle prime compagnie alpine, ne vennero formate altre 9.
Con il primo gennaio 1875 i “comandi di reparto” assunsero la denominazione di “comandi di battaglione” e furono contraddistinti dalla numerazione romana.

La grande estensione della frontiera alpina e l’ampiezza della zona di responsabilità assegnata a ciascuna delle 24 compagnie suggerirono il potenziamento del nuovo Corpo.
L’8 settembre 1878 i comandi di battaglione vennero portati da 7 a 10 e le compagnie da 24 a 36. Contemporaneamente a tale incremento, si assistette al riordino dell’intero corpo alpino per dargli una più razionale fisionomia. In tale contesto la 15^ compagnia con sede a Tolmezzo assunse una nuova numerazione diventando la 36^.

Nel 1882 si costituirono i primi 6 reggimenti alpini, e venne raddoppiato sia il numero dei battaglioni che quello delle compagnie alpine, che da 36 salirono a 72. In questo periodo si formò il Battaglione Val Tagliamento del 6° reggimento alpino.
Questo ultimo tipo di ordinamento, se da un lato consentì ai comandanti di reggimento di approfondire la conoscenza del proprio personale, poneva dei problemi a causa della disseminazione dei battaglioni lungo tutto l’arco alpino il che poteva ostacolare il loro impegno in caso di guerra. Per questo motivo tre anni dopo venne stabilito un nuovo riordino e una dislocazione più razionale dei battaglioni sul territorio.

Nel 1887 il 6° reggimento alpini che comprendeva ben 5 battaglioni tra cui il Val Tagliamento con sede a Gemona, venne sdoppiato dando vita al 7° reggimento. E, parallelamente, il corpo degli alpini enne ulteriormente incrementato nel numero delle compagnie e dei battaglioni. Ogni battaglione assunse una nuova denominazione, cioè quella della città sede dei rispettivi magazzini. In tal modo il battaglione Val Tagliamento diventò battaglione Gemona.

Ed arriviamo così al 9 maggio 1908. In tale data, nel contesto del 7° reggimento alpini, venne costituito il battaglione Tolmezzo.

Il primo ottobre 1809 il battaglione Tolmezzo, unitamente al battaglione Gemona ed a quello Cividale, concorsero alla costituzione dell’ottavo reggimento alpini il cui comando, con sede ad Udine, venne assegnato al Colonnello Antonio Cantore, il cui primo ordine del giorno così recita: «ricco delle tradizioni dei reggimenti alpini 1°, 2° e 7° dei quali provengono i reparti che lo compongono, con la cooperazione dei suoi ufficiali e della sua truppa, nel nome caro del Re e della Patria, oggi inizio la vita organica e lo spirito di corpo dell’8° reggimento alpini affidato al mio comando».

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, i battaglioni alpini dettero un apporto considerevole in uomini durante tutto il conflitto.
Con l’anno 1919, cessate le ostilità, il numero dei battaglioni alpini decrebbe gradualmente.
Alla fine del 1935, per le esigenze connesse con la guerra d’Etiopia, venne costituito l’11° reggimento alpini.
Nel gennaio 1934 aveva fatto la sua comparsa, ad Aosta, la Scuola Centrale di Alpinismo Militare, per la formazione dei quadri, ai vari livelli, delle truppe alpine.

Nel maggio 1937 il corpo degli Alpini venne ancora una volta riordinato e si strutturò in 10 reggimenti e 31 battaglioni di cui uno distaccato alla scuola sopraccitata. (Note tratte da: AA.VV. “ Il battaglione alpini Tolmezzo  – Storia di un battaglione carnico – “ O LA’ O ROMPI” Ediz. Tipografia Moro A., Tolmezzo, II ed., 2004, pp. 15 – 23.)

Alpino artigliere da montagna con l’immancabile mulo. Immagine da: http://users.libero.it/gfuria/pontenizza/alpini_storia01.htm.

In seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, che lasciò il Regio Esercito Italiano senza alcuna direttiva, abbandonate nella tormenta, in completo caos, reparti alpini in Italia e all’estero reagirono alle minacce tedesche combattendo, e molti soldati diventarono partigiani. Alla fine della seconda guerra mondiale, dopo il Trattato di pace, avvenuto a Parigi il 10 febbraio 1947, l’Italia repubblicana iniziò a riorganizzare e potenziare le sue Forze Armate.
In tale quadro, nel periodo 1949-1953, vengono costituite 5 Brigate alpine: 1ª Taurinense – 2ª Tridentina – 3ª Julia – 4ª Orobica – 5ª Cadore.
Le nuove Brigate alpine vennero inquadrate nei ricostituiti Reggimenti ricchi d’altissime tradizioni e di gloria, ma non furono ripristinati i: 1°, 3°, 9°, 11° Reggimenti alpini e il 4° Reggimento artiglieria da montagna. La struttura delle Grandi Unità alpine rimane invariata sino al 1975.
All’inizio del 1975, le truppe alpine, nell’ambito della ristrutturazione dell’Esercito, dovettero procedere allo scioglimento dei Reggimenti e alla riduzione d’alcuni supporti tattici e logistici. La nuova unità elementare (Brigata alpina) uscita dalla ristrutturazione, divenne uno strumento moderno, agile, particolarmente idoneo alla manovra e al passo con le esigenze richieste sul campo di battaglia. Nel 1991-1993, allo scopo di elevare l’efficienza operativa dell’Esercito alla luce dei rapidi e profondi cambiamenti verificatesi sullo scenario europeo, ripresero vita i Reggimenti. (Note da: http://users.libero.it/gfuria/pontenizza/alpini_storia01.htm).

Laura Matelda Puppini

 

 

Tematiche ambientali, tra centraline, motocavalcate ed il Tagliamento.

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No alla Motocavalcata. Grazie Uti della Carnia.

Riprendo, con questo articolo, temi ambientali, come la Motocavalcata in Carnia, che mi ha visto sempre contraria, finalmente bocciata dall’Uti;  lo sfruttamento intensivo delle acque riportando uno degli interventi fatti il 26 gennaio 2019 ad Udine contro le centraline in montagna, che depauperano ulteriomente il territorio,  e la salvaguardia dei fiumi, riprendendo l’importante proposta di legge regionale di Giampaolo Bidoli e Massimo Moretuzzo per salvare il Tagliamento. E mi soffermerò anche su quanto detto dalla biologa dell’Arpa dott. Raffaella Zorza, su detto fiume e sui fiumi.

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Inizio ringraziando l’Uti della Carnia per aver detto No alla motocavalcata della Carnia, già in precedenza contestata (Marco Lepre. Lettera al Presidente dell’Uti ed ai Sindaci della Carnia sulla Motocavalcata delle Alpi Carniche 2018, in: www.nonsolocarnia.info) e che avrebbe portato centinaia di moto su un terreno fragile e già colpito dall’alluvione. Questo no è stato dato tenendo conto delle nuove decisioni prese dai Comuni della Carnia.

«È stato approvato dall’Assemblea dell’Unione il nuovo regolamento disciplinare riguardante i transiti sulle strade forestali, in particolare quelli relativi alle manifestazioni motoristiche, per l’elevata concentrazione di mezzi su tracciati piuttosto estesi» – si legge su di un articolo in: ‘Alto Friuli oggi’, che così continua: «L’intento dall’assemblea dei sindaci dell’Uti della Carnia è quello di tutelare al meglio la risorsa boschiva, chiedendo alla Regione di adottare un apposito regolamento prevendendo, per alcune strade forestali, la possibilità di istituire un pedaggio e utilizzare i ricavati per la manutenzione della viabilità.
In riferimento alle motocavalcate, è stato ritenuto indispensabile un confronto tra le amministrazioni locali per il rilascio delle autorizzazioni, per valutare l’effettiva percorribilità e la sostenibilità delle manifestazioni.
È necessario che la circolazione sulle strade forestali non comporti depauperamento, danno o minaccia a specie selvatiche ad ecosistemi e habitat esistenti, nonché all’esercizio di varie attività del territorio. Tali esigenze sono state sottolineate soprattutto a seguito dei danni dovuti al maltempo di fine ottobre 2018». (http://www.altofriulioggi.it/tolmezzo/tolmezzo-motocavalcate-uti-carnia-23-aprile-2019/).

Così è stata annullata la 13^ edizione della Motocavalcata delle Alpi carniche che era in programma a Sutrio l’8 e 9 giugno. A comunicarlo è stata l’organizzazione con Marco Fachin, presidente dell’associazione Moctus Ovaro che segnala come l’Uti della Carnia abbia negato l’autorizzazione a compiere questa manifestazione che ha un carattere internazionale richiamando piloti da tutto il mondo». (https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2019/06/02/news/motocavalcata-delle-alpi-l-uti-cancella-l-edizione-1.33401654).

Questa volta devo dire: ‘Grazie Uti’, che pensi anche agli abitanti di questa terra infelice e martoriata, e non solo a chi vuole sfruttare, per suo divertimento, piste e sentieri. E credetemi, all’ estero ed in Europa non lasciano fare a motociclisti locali e foresti quello che vogliono sul territorio e nei boschi. Non da ultimo ricordiamo a Marco Fachin che le piste forestali sono state costruite con soldi nostri. 

Motocavalcata. (Da: https://www.youtube.com/watch?v=xmeBzt-rBsU).

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No ad una centralina anche sull’ immissario del lago inferiore di Fusine, ma temo si farà.

Ma ora ritorniamo alle centraline, ed a quello che è stato detto su quella che dovrebbe sorgere sfruttando il rio Lago immissario del lago inferiore di Fusine.

L’intervento finale, nell’ incontro di Udine del 26 gennaio 2019, è dedicato alla ipotesi di centralina da costruirsi sfruttando le acque del lago di Fusine. Dovevano relazionare sulla stessa, di persona, il dott. Michele Tofful e la dott. Francesca Iordan, che sono due esperti naturalistici, che si sono occupati di stendere le osservazioni su di uno dei progetti che riguarda la centralina su rio del lago che è l’emissario del lago inferiore di Fusine. non hanno potuto però essere presenti qui ed hanno inviato in forma scritta il loro intervento.

«Mentre leggevamo le carte dell’impianto idroelettrico denominato ‘Fusine’, non potevamo che sgranare i nostri occhi: ci trovavamo davanti ad un ‘opera di grande impatto ambientale, realizzata in un’area con più vincoli di tutela, in cui vivono specie rare e tutelate.

Il Comune di Tarvisio intende costruire una centralina idroelettrica prelevando le acque del rio del lago, l’emissario del lago di Fusine inferiore. L’area di intervento ricade all’ interno dell’area Natura 2000 denominata Conca di Fusine, identificato con il codice: IT3320006. Il sito inoltre, confina, verso la Slovenia, con il sito di importanza comunitaria e con la zona di protezione speciale denominate entrambe sulla ‘julis card’.

Come non bastasse, le opere di presa ed i primi metri di tracciato della condotta, ricadono all’ interno dell’area di reperimento prioritario del Laghi di Fusine; infine, a 550 metri dalla centralina, si trova un’altra area protetta di enorme importanza: il biotipo naturale della torbiera di Scichizza.

Ma, come dicevamo, in questo caso non abbiamo solo a che fare con aree protette, ma anche con specie rare e protette, prima fra tutte la lontra. Inoltre il bacino dello Slizza – Gail, a cui afferiscono anche i laghi di Fusine ed il rio del lago, rappresenta un’area estremamente importante per la conservazione di questa specie, in quanto costituisce una delle pochissime vie per ritornare a colonizzare la rete idrografica del nord Italia. E proprio lungo il tratto in cui verrebbe captata l’acqua, è stata documentata la presenza della lontra.  

Ma in quella zona vive anche il gambero di torrente, un’altra specie estremamente rara, tanto che nel Tarvisiano sopravvivono le ultime quattro popolazioni italiane di questo tipo di crostaceo. In queste zone del bacino danubiano italiano, il gambero di torrente risulta fortemente minacciato sia per l’estrema localizzazione e per l’isolamento delle sue popolazioni, sia per la sempre più ridotta funzionalità ecologica delle aste fluviali, soggette a forte impatto antropico, sia per il progressivo generale degrado della qualità ambientale» Così terminava il breve intervento scritto fatto pervenire e letto da Marco Lepre.

Ma i due studiosi non si sono espressi solo in questo modo e sede relativamente alla centralina sul rio che alimenta il lago inferiore di Fusine.

E per concludere questa seconda parte, riporto queste parole da Friulsera, che sottolinea, pure, come le centraline siano remunerative grazie agli incentivi per le rinnovabili. «Le domande di concessione sono tantissime, molte provenienti da soggetti estranei al territorio e si sommano ad una situazione per molti versi già critica. Nel solo comprensorio montano della Carnia, ad esempio, sono già operanti 72 derivazioni: 39 del sistema Edipower, 6 della vecchia Comunità Montana, 10 del sistema Secab, 16 di privati, 1 comunale». (https://friulisera.it/la-montagna-friulana-sotto-attacco-energetico-si-tenta-un-nuovo-sacco-delle-acque-deviando-e-impoverendo-sorgenti-e-torrenti/).

Ed ancora: «Questi ed altri esempi fanno capire perché, per gli abitanti dei nostri territori montani, l’utilizzo di una delle rare risorse di cui potrebbero disporre sia diventato sinonimo di “rapina”, di “sfruttamento in stile coloniale”, oltre che di produzione di disastri ambientali e paesaggistici. Non ci sono dubbi che l’energia idroelettrica vada preferita rispetto a quella che si ricava con l’utilizzo di fonti inquinanti, ma, nonostante questo, non è detto che sia del tutto priva di conseguenze negative e che vada promossa e preferita ovunque e comunque. Nel territorio delle nostre Alpi essa è da tempo abbondantemente presente e le numerose richieste per la realizzazione di piccoli impianti non sono ormai in grado di dare un apprezzabile contributo in termini di incremento della produzione. Più logico e opportuno è dunque incentivare l’impiego di altre fonti rinnovabili, come il solare, e la pratica del risparmio e dell’efficienza energetica. Nello stesso tempo appare necessario ristabilire nelle valli quell’utilizzo “plurimo” dell’acqua che ha caratterizzato la cultura e la civiltà alpina nel passato, ben prima che arrivassero le sacrosante direttive della Comunità Europea a determinare gli obiettivi di miglioramento della qualità ecologica dei corpi idrici. L’acqua non serve infatti solo a muovere turbine, ma, come avveniva un
tempo, quando faceva girare le pale dei mulini, alimenta gli acquedotti; è un elemento essenziale per la biodiversità, ospitando specifiche comunità animali e vegetali; grazie al trasporto solido consente di evitare problemi idraulici e assicura alle spiagge di rigenerarsi; viene utilizzata per l’irrigazione; favorisce la diluizione degli scarichi dei depuratori ed è, soprattutto, un elemento qualificante del paesaggio, un fattore di sviluppo turistico anche attraverso la pratica di attività sportive e ricreative. Tutte queste forme di utilizzo vanno assicurate e tenute nella dovuta considerazione, perché l’acqua è un bene comune, un elemento di identità di un territorio, da impiegare all’interno di un quadro di sostenibilità». (Ivi).

Il progetto ‘Fusine’ per la costruzione di una centralina idroelettrica che non so però se sia la stessa, si può leggere in: http://www.hydroprogetti.it/index.php/progetti-mainmenu-67/impianti-idroelettrici-mainmenu-58/68-impianto-idroelettrico-fusine.

 

Centralina su rio. (Da: https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2015/05/22/news/tarvisio-nuova-centralina-sul-rio-del-lago-1.11476435).

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Tagliamento. La proposta di Bidoli e Moretuzzo per la sua salvaguardia e l’intervento della dott. Zorza di Arpa Fvg.

Lungo e lemme correva il Tagliamento, largo nel suo letto, in una immagine di Vittorio Molinari scattata dalla strada che porta dal comune di Verzegnis a Villa Santina. Ma ora che è rimasto di questo fiume, che talvolta a me è parso, nel corso degli anni, ridotto ad un rigagnolo?

Eppure sembra che gli uffici regionali vedano solo virtù in questo fiume strapazzato dalle centrali idroelettriche. Infatti pare che, per la dott. Raffaella Zorza, biologa dell’Arpa, dopo l’introduzione, nel 2008 – 2009, di una rete di monitoraggio molto ampia dei fiumi, in particolare del Tagliamento, si colgano maggiormente aspetti positivi, almeno a me così è parso risentendo il suo intervento a Tolmezzo, il 14 febbraio 2019, al convegno intitolato: “Mini idroelettrico in montagna. Impatti e problematiche”, promosso dalla sezione C.a.i. della cittadina carnica.  Io avrei preferito che ci avesse narrato luci ed ombre dell’ ambienti  fluviali, ma non è stato così. Comunque detta dottoressa ci ha pure informato che esistono, in regione, 400 stazioni di monitoraggio dei fiumi, che permettono di conoscere lo stato dei grandi corsi d’acqua, e di poter, di conseguenza, intervenire per migliorare la loro situazione e per avere un approccio sostenibile alla risorsa idrica.

E, nel merito, ha accennato pure ad uno studio intitolato “Rapporto sullo stato dell’ambiente in Friuli Venezia Giulia”, prodotto dall’Arpa- Fvg (visionabile in: http://www.arpa.fvg.it/cms/istituzionale/consulta/Pubblicazioni/Rapporto-sullo-Stato-dellAmbiente-2018.html). In una sintesi di detto studio, si può cogliere la versione ‘positiva’ dello stato dei fiumi, ed infatti così si può leggere: «I monitoraggi delle acque (superficiali, sotterranee, di transizione e marino-costiere) sono effettuati da Arpa sulla base di quanto previsto dalla Direttiva quadro europea 2060, che prevede per tutti i corpi idrici uno stato di qualità ecologico e chimico “buono” già a partire dal 2015. Dei 424 corpi idrici superficiali presenti in Friuli Venezia Giulia, più del 50% (di quelli monitorabili) hanno raggiunto l’obiettivo di qualità raggiungendo uno stato ecologico “elevato” o “buono”; sui rimanenti corpi idrici vanno individuate azioni di miglioramento per ridurre le pressioni (sfruttamento della risorsa idriche, idromorfologia degli alvei, scarichi urbani, pressioni antropiche) ed aumentare conseguentemente lo stato di qualità». (http://www.arpa.fvg.it/cms/ufficio_stampa/comunicati/Presentazione-RSA-2018.html). Non ho trovato invero quali fossero i fiumi analizzati, ma sarà limite mio, lo ammetto, ma se “più del 50%”, che non è un dato poi tanto preciso, degli stessi per Arpa vive bene, quanto male stanno gli altri, che potrebbero rappresentare il 49% dei corsi d’acqua regionali? E quanti sono i corsi d’acqua totali in Regione, e dove si trovano quelli monitorati? Non sarà che anche in Regione si sposa la teoria di Giovanotti: «Io penso positivo finché son vivo, finché son vivo?»

Ma andiamo avanti.

La dott. Zorza ci ha informato, pure, sul fatto che i prelievi di acque superficiali più importanti in Regione riguardano l’idroelettrica (e quindi, per inciso, non si sa perché favorirne di ulteriori, ma questo è pensiero mio); che i danni più rilevanti dati, pare, anche da detti prelievi sono di carattere morfologico e di alterazione degli habitat, il che non è davvero aspetto di poco conto, e che non siamo i soli ad avere situazioni di questo tipo, perché situazioni similari si trovano in più parti d’Europa ( interessano più del 40% dei corsi d’acqua europei) il che non mi sembra però debba esser visto come una scusante. Infatti la biologa dell’Arpa ci ha detto che «in Europa uno dei problemi più rilevanti è proprio quello delle alterazioni determinate da prelievi idroelettrici» oltre che da modifiche idromorfologiche. (Raffaella Zorzi, relazione tenuta al convegno “Mini idroelettrico in montagna. Impatti e problematiche”, Tolmezzo, 14 febbraio 2019).

Ed ha continuato dicendo che qualsiasi impianto di derivazione va ad influenzare l’habitat e la sua composizione, ed ha quindi ripercussioni non solo sulla fauna ittica ma anche sulla vegetazione fluviale e nel suo insieme. E questi aspetti devono venir collocati in un contesto che subisce pure variazioni climatiche in evoluzione, e presentatesi in modo repentino. Pertanto necessita tenere sotto controllo le modifiche ai corsi d’acqua e le variazioni che ogni variabile analizzata comporta per gli stessi. Infatti si sono viste modifiche significative nelle portate, determinate pure dagli eventi piovosi eccezionali, e gli aspetti climatici vanno ad influire certamente anche sul regime idrogeologico. Ma si sono notate, per esempio nel 2017, anche diminuzioni significative delle portate di acqua nei fiumi per siccità, indipendentemente da quelle prodotte dalle derivazioni. E per quanto riguarda le stesse, va posta particolare attenzioni ai tratti del fiume ove vi è meno acqua a causa della loro presenza.  (Ivi).

Arpa, applicando le leggi europee ed italiane- ha proseguito Zorza – valuta la possibilità di un fiume di mantenere la sua capacità di autodepurazione e la capacità di permettere la vita di comunità animali e vegetali specifiche. E per esempio in alcuni tratti del Tagliamento tali condizioni vengono mantenute. (Ivi). Peccato però che la dott. Zorzi non abbia evidenziato i tratti dove tali condizioni sono venute a mancare.

Infine ella ha terminato il suo intervento parlando dei piani di distretto (ma il corso di un fiume come il Tagliamento coinvolge, penso distretti diversi) che già hanno portato alcune indicazioni su dove sia possibile o meno fare derivazioni sulla base degli stati ecologici rilevati. Ma par di capire che, se lo stato ecologico del corso d’acqua è buono, la derivazione può essere concessa, senza porre alla base della concessione stessa la proiezione dell’impatto ambientale futuro della derivazione sul corso d’acqua interessato. La biologa dell’Arpa ha anche precisato che non sono permesse nuove derivazioni idroelettriche o varianti significative su di un bacino, quando sia presente la condizione dell’inferiorità dei 10 kmq, se ho ben compreso, perché la registrazione non è perfetta. Ed ha accennato anche al minimo deflusso vitale, che bisognerebbe però vedere in quali condizioni viene rilevato, come ci è stato detto nel corso dell’incontro del 26 gennaio 2019 ad Udine. Perché un grosso problema italiano è quello dei controlli ambientali e del personale, sempre più carente, che li dovrebbe fare.

Inoltre la Regione ha evidenziato pure alcuni siti, ad alto grado di biodiversità, in cui il prelievo di acqua sarà vietato, ma ciò afferisce al futuro. Ed il presente? Io non ho capito, ma pare che quello che ormai c’è resta tale, mentre comuni continuano a fare concessioni per derivazioni in modo che pare essere fuori controllo, sognando ad occhi aperti che ciò porti benessere o timorosi di negarle, e come ogni corso d’acqua fosse una realtà a sé stante, con tratti a sé stanti non collegati fra loro, e non facente parte di una rete idrica naturale regionale, già fortemente intaccata.

Il fiume Tagliamento. (Da: http://www.riservacornino.it/la-tua-visita/attivita-per-le-scuole/fiume-tagliamento/).

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Ma ho citato il Tagliamento perché giorni fa è comparso, su Alto Friuli, il seguente articolo che riporto integralmente:

«La nuova proposta di legge per salvare il Tagliamento.

Il Tagliamento è il fiume più importante del Friuli-Venezia Giulia, nonché un ecosistema estremamente prezioso, essendo l’ultimo corridoio fluviale morfologicamente intatto delle Alpi. Infatti, per buona parte del corso, l’intervento invasivo dell’uomo è stato pressoché nullo e le dinamiche fluviali presentano un grado di naturalità unico in Europa.

Ma per la tutela di un fiume così significativo da essersi meritato l’appellativo di “re delle Alpi” si sta facendo abbastanza? Per il Gruppo consiliare del Patto per l’Autonomia no. E’ per questa ragione che ha depositato una mozione che impegna la Regione a porre in essere tutte le azioni volte alla maggior tutela possibile del fiume, dalle sorgenti alla foce, e a realizzare una nuova ZSC-Zona Speciale di Conservazione derivante dalla fusione delle attuali due ZSC individuate come “Greto del Tagliamento” e “Valle del Medio Tagliamento”, creando un’area più ampia di tutela che includa anche l’alveo del fiume compreso tra il ponte di Cimano e quello di Pinzano, zona di particolare ricchezza naturalistica.

Un passo necessario per assicurare una salvaguardia maggiore al Tagliamento, già tutelato nel quadro della normativa europea relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (la cosiddetta Direttiva Habitat).

“L’unificazione delle due attuali ZSC “Greto del Tagliamento” e “Valle del Medio Tagliamento” è quanto mai opportuna per una migliore tutela del fiume, anche alla luce dei progetti infrastrutturali che insistono sull’area – hanno spiegato i consiglieri regionali del Patto per l’Autonomia Massimo Moretuzzo e Giampaolo Bidoli, promotori dell’iniziativa». (https://www.altofriulioggi.it/cronaca/tagliamento-nuova-proposta-legge-salvera-fiume-5-giugno-2019/

Grazie Bidoli e Moretuzzo, e speriamo che la proposta vada in porto.

E per ora, scusandomi per la lunghezza dell’articolo, mi fermo qui. Senza offesa per alcuno, e mi piacerebbe avere qualche commento, integrazione, precisazione, se per esempio non ho ben compreso l’intervento della dott. Zorza.

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L’immagine che accompagna l’articolo è una di quelle pubblicate al suo interno.

Laura Matelda Puppini

Nel merito di Giulio Del Bon, “1943-1945. Vicende di guerra. La Carnia durante l’occupazione nazista.”, edito nel 2018.

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Ho letto il volume di Marco Pirina “Udine 1943-1945. La Lunga Notte” nella provincia. Caduti- Storie- testimonianze- Documenti, Silentes Loquimur, ed., 1998, volume finanziato dalla Regione Fvg, a differenza di ‘La Carnia di Antonelli’ di ben altro spessore, o di ‘Cooperare per vivere’, il che ci fa riflettere sulla politica culturale che fa la Regione da decenni nel distribuire fondi, e che ha sempre permesso all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, sezione Fvg, di averne moltissimi. Ho letto Marco Pirina non perché lo desiderassi ardentemente o non avessi altro da fare, ma perché l’impianto del volume di Pirina si ritrova pari pari in Giulio Del Bon, “1943-1945 vicende di guerra La Carnia durante l’occupazione nazista”, edito dall’Associazione Elio cav. Cortolezzis nel 2018, con qualche significativa differenza.

Per esempio nell’introduzione alla lettura del  volume di Marco Pirina, fatto principalmente di elenchi di caduti, il Dipartimento Ricerche del Centro Studi “Silentes Loquimur”, composto allora dal Pirina stesso, da sua moglie Annamaria D’ Antonio e credo ben pochi altri, tra cui il generale Giorgio Pirrone, Sergio Vasi e Pietro Dini, scrive che: «Le ricerche storiche per la stesura degli elenchi dei Caduti hanno tenuto conto delle pubblicazioni dell’Istituto Friulano Storia del Movimento di Liberazione, per cui, se non vi sono altri dati negli elenchi delle singole località, aggiunti da noi, con il confronto di altre fonti o testimonianze, le date, i nomi, le cause della morte, sono gli stessi attribuiti dall’ I.F.S.M.L. […]. ». (Marco Pirina, op. cit., p.III).

Il riferimento è ai volumi AA.VV. Caduti, Dispersi e Vittime civili dei Comuni della Regione Friuli-Venezia Giulia nella seconda guerra mondiale, Udine, IFSML, 1987-1992. Vol. 1° (2 tomi) Provincia di Udine, 1987-1988. Esistono però anche i volumi per le province di Pordenone, Gorizia, Trieste.

Bisogna riconoscere che Marco Pirina ed i suoi, nello specifico, risultano essere più chiari di Giulio Del Bon che cita i nomi di persone uccise dai partigiani nei paesi della Carnia come fossero farina del suo sacco, mentre si trovano tutti tranne qualche raro caso per motivi che poi scriverò, (e credetemi li ho controllati uno per uno), in detti volumi dell’Ifsml per la provincia di Udine come persone uccise da forze partigiane o, nel caso di mancanza di fonti utili a dirimere la causa o l’attribuzione della morte o di processo terminato senza colpevoli, come “deceduto per cause belliche” o “ucciso da sconosciuti”, o “deceduto per fatto di guerra”. E quando gli autori di AA.VV. Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., seppero che la persona era stata uccisa da partigiani, lo scrissero.

Così è stato per esempio, per Tomat, Lucia, di Luigi e Candoni Pasqua, nata l’8 settembre 1894, coniugata, civile, fucilata ad Imponzo da forze partigiane il 25 luglio 1944, (AA.VV. Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., Udine, tomo 2, p. 1020) o per Serini Tranquilla, forse sua figlia, di Destino e Tomat Lucia, nata il 22 gennaio 1920 ad Imponzo di Tolmezzo ed ivi residente, fucilata da forze partigiane ad Imponzo il 24 luglio 1944 e tumulata nel cimitero del suo paese. (Ivi, Udine, tomo 2, p. 1019).

Cosa dice di più e di meno su di loro il Del Bon? Che erano state giustiziate perché ritenute delle spie, (Giulio Del Bon, op. cit., p. 55). Ma vedremo che in questo caso come in tutti gli altri, egli non cita mai i volumi dell’Ifsml, che però sono stati editi un bel po’ di anni prima della sua pubblicazione e che sono la pietra miliare in questo tipo di ricerca, e neppure i dati anagrafici dei soggetti sugli stessi riportati.

E continuo facendo solo qualche altro esempio di come si sia mosso il Del Bon, comparando quanto scritto dallo stesso per alcuni uccisi da partigiani con quanto già pubblicato nel loro merito dall’ Ifsml ed altre fonti.

Per esempio Lirussi Giuseppe, sposato a Zuglio, sergente dell’R.S.I., prestava servizio alla caserma di Arta Terme era nato a Trelli di Paularo, e fu ucciso dai partigiani nella zona di Oltrevis, in territorio di Arta il 5 agosto 1944, dopo esser stato prelevato dall’abitazione del suocero. (Giulio Del Bon, op. cit., a p. 181).

Ma cosa scrivevano sul Lirussi gli autori di Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit, Provincia di Udine, a p. 1247 del secondo tomo, ben prima di Del Bon? Che Lirussi Giuseppe era nato a Paularo il 10 luglio 1889 da Giuseppe e Vuerli Anna, che era residente a Zuglio e coniugato e che era un cementista. Era milite della Milizia Difesa Territoriale dei reparti R.s.i., e fu ucciso da forze partigiane il 5 agosto 1944 e fu tumulato a Zuglio. (AA.VV. – Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., provincia di Udine, tomo 2, p. 1247). 

Cosa ha aggiunto il Del Bon alle notizie dell’Ifsml? Solo due chiacchere di paese, che dicevano che il Lirussi era stato ucciso ad Oltrevis, (Giulio Del Bon, op. cit., p. 181) mentre si dimentica di dire dove fu tumulato. Che fonti cita il Del Bon per Lirussi Giuseppe? Esse sono riportate alla nota 101 di p. 196 del volume citato, e sono le seguenti: Marco Pirina, “Udine 1943-1945. La Lunga Notte”, op, cit., Gianni Conedera, L’ultima verità, Tolmezzo 2005, dove il Conedera riprende qualche nome degli uccisi dai partigiani forse dal Pirina, che li ricava, a sua volta, dai volumi dell’ Ifsml, utilizzando poi come contorno chiacchiere di paese o racconti di familiari dei morti che, da che mondo è mondo, danno una versione di parte; una testimonianza rilasciata da tale Andrea Della Schiava di Brazzacco, che non si sa chi sia, né perché venga considerato fonte attendibile nel merito. Perché non tutte le persone che narrano qualcosa di un fatto che fu anche politico come la seconda guerra mondiale avvenuta nel contesto del fascismo, possono esser ritenute attendibili. Ed il lavoro preminente dello storico è appunto quello di vagliare le fonti e di incrociarle conoscendo i limiti di quelle orali. (Cfr. L. M. Puppini. Lu ha dit lui, lu ha dit iei. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica. La storia di pochi la storia di tanti, in: www.nonsolocarnia.info).

In alcuni casi il Del Bon pone come uccisi dai partigiani persone che gli autori dell’opera dell’Ifsml non sapevano da chi fossero stati uccisi, come Scrocco Teresa o Santellani Teresina (nell’ immagine della lapide in cimitero, pubblicata da Gianni Conedera, Santellani Teresina, sperando sia la stessa persona) e Bellina Guido, che il Conedera dice esser stati giustiziati dagli osovani per spionaggio ma senza citare la fonte, (Gianni Conedera, L’Ultima verità, Andrea Moro ed., pp. 15-19). Che fonti dichiara il Del Bon per Santellani e Bellina?

Su Teresa Scrocco il Del Bon scrive alle pp. 52-53 riportando come fonte una relazione del Comune senza intestazione, data od altro, dall’Archivio di Stato di Udine,  (nota 101 a p. 88) con una indicazione con un asterisco spesso posto nelle note che non ho mai trovato, e su cui chiedo lumi, come chiedo lumi su cosa significhi la sigla DVD, quando Del Bon cita diari parrocchiali, perché se significa ‘disco versatile digitale’ non so proprio chi li abbia caricati in DVD, non l’Ifsml, non il Seminario di Udine.  Inoltre non si sa perché il Del Bon non citi nello specifico il Conedera, dopo aver detto che è una delle sue fonti. Per Bellina Guido, (Giulio Del Bon, op. cit., p. 103) Giulio Del Bon cita come fonti un documento presente in Archivio di Stato di Udine, ma anche l’Albo dei Caduti dell’R.S.I., che temo sia stato compilato prendendo nomi anche dai volumi dell’Ifsml, solo ponendo magari anche coloro di cui gli autori dell’Ifsml non sapevano da chi fossero stati ammazzati come uccisi dai partigiani in Carnia, facendoli poi passare per repubblichini. Ma non è detto che le spie, per esempio, facessero le loro soffiate perché aderenti all’Rsi, perchè potevano farlo per soldi, per amore, per vendetta, per ingraziarsi i potenti e per altri motivi.  E vi erano anche i filo tedeschi, che non è detto fossero filo repubblichini.

E che gli autori degli elenchi Rsi possano aver attinto dai volumi dell’Ifsml, “Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit.” è dimostrato da questo fatto. Forse un paio di anni fa, per dare informazioni su Bonfini Carlo ed Umberto ad un loro parente, ho visionato sia l’elenco caduti R. s. i. in rete, sia il volume dell’Ifsml, precedentemente pubblicato, trovando l’identico testo. (Cfr. http://liberapresenza.forumattivo.eu/t1p1-onore-ai-caduti-della-repubblica-sociale-italiana e http://www.inilossum.eu/ Caduti e dispersi della Repubblica Sociale Italiana, e AA.VV. Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit, Provincia di Udine, 1987-1988, tomo 1, p. 26). E gli autori del volume dell’Ifsml non esitano a scrivere che i fratelli Bonfini, Carlo più vecchio e nato nel 1904, Umberto più giovane e nato nel 1910, erano stati giustiziati dai partigiani in comune di Socchieve, e quindi tumulati al loro paese che era Ampezzo, a dimostrazione che quando vi erano fonti certe non ebbero problemi a riportare ciò che sapevano in scienza e coscienza. Forse, invece, vi fu chi nascose che anche gli osovani, in Carnia, giustiziarono spie. Ma questo è pensiero mio. Infatti la mistica della Osoppo, santificata, percorse tutti gli anni dalla fine della guerra giungendo quasi fino ad oggi, facendo perdere lo spessore di detta formazione come combattente e partigiana.

Cosa scrivono per Scrocco Teresa di Pietro e Santellani Luigia, nata a Genova il 9 aprile 1928 gli autori di “Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit”, Provincia di Udine, tomo 2 a p. 1239? Riportano, dopo i dati anagrafici dimenticati dal Del Bon, che poteva benissimo copiarli da chi li aveva ricercati prima di lui, che fu uccisa il 29 giugno 1944 da forze sconosciute sotto il ponte della Vinadia.
Per Bellina Guido, di Antonio e Miccoli Lucia, nato a Venzone il 2 giugno 1912 e residente in comune di Villa Santina, scrivono a p. 1236 che era deceduto a Lauco per cause belliche e che fu tumulato a Villa Santina. Ora è possibile che i due siano stati giustiziati per spionaggio dagli osovani del btg. Carnia, comandato da Livio, ma nel caso questi dati fossero stati riportati sui documenti citati dovevano esser evidenziati. Vi è poi chi ha detto e scritto che a sparare, nel caso della Santellani o Scrocco fu Prospero, Fermo Cacitti, che comunque sarebbe stato estratto a sorte, come narrava Romano Marchetti facessero i partigiani nel caso di esecuzioni dopo processo partigiano, perché i partigiani non potevano avere un vero e proprio plotone di esecuzione, avendo poche pallottole e non potendo sprecarle, e pertanto dovevano affidare ad un singolo ogni esecuzione.

Ma nel suo voler esser precisino sul sangue che le guerre mondiali prima e seconda fecero scorrere in Carnia, fascisti e nazisti in testa per la seconda, Giulio Del Bon pone, a p. 56 del suo volume, fra gli uccisi dai partigiani anche Maria Valentinotti di Sappada allora veneta e per questo non presente sui volumi dell’Ifsml, su cui nulla è certo, prendendo spunto dalla testimonianza di un sacerdote del paese. Ora che Maria Kratter nata Valentinotti, a cui io ho dedicato un intero articolo su www.nonsolocarnia.info, sia morta il 26 luglio 1944 è dichiarato sul ricordino scritto per lei, ma poi si sono sviluppate storie e leggende nel merito. (cfr. Laura Matelda Puppini, Su Maria Kratter nata Valentinotti, e sull’azione garibaldina a Sappada. Aggiornato il 7 novembre 2015, in: www.nonsolocarnia.info). Ella era la cuoca della caserma nazista oggetto di attacco da parte dei partigiani, e potrebbe esser rimasta uccisa perché si trovava nel posto sbagliato nel momento sbagliato. E per la verità non si sa che voglia dire il Del Bon quando scrive solo che la Valentinotti «fu uccisa il giorno stesso dell’assalto partigiano al presidio di Sappada». (Giulio Del Bon, op. cit., p. 56). 

Inoltre il Del Bon pone fra gli uccisi dai partigiani Martinis Arrigo, (Giulio Del Bon, op. cit., p.49), che il fratello Libero, notissimo uomo politico, mi disse esser morto per un colpo accidentalmente partito dalla sua arma da fuoco. Ed era cosa facilissima che inesperti facessero partire un colpo da fucile mitragliatore senza sicura, ed anche il vice di ‘Livio’, Oreste Meroi, nome di battaglia ‘Claudio’ era rimasto gravemente ferito, agli albori della creazione del btg. Carnia osovano, per un colpo esploso accidentalmente da un altro partigiano del suo battaglione. (Cfr. Gian Carlo Chiussi, Con la Osoppo in Carnia, memorie del periodo partigiano, ottobre 1982, copia completa in versione inedita con allegati poi non editi).  Ma mica per questo viene posto fra i feriti dai partigiani! Ed a parte il fatto che non si sa come il Martinis, moribondo in ospedale, abbia potuto descrivere ai Carabinieri con una dovizia tale di particolari la causa della sua ferita da arma da fuoco, (Cfr Giulio Del Bon, op. cit., p. 49, avendo come fonte una relazione dei Carabinieri), era possibile che uno che si era sparato da solo per sbaglio non volesse passare per un incapace e quindi desse altra versione dei fatti, o che un altro partigiano lo avesse colpito per errore, come accadde al Meroi. Martinis Arrigo è citato anche in: AA. VV., Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., tomo 1, p. 29 come deceduto a Tolmezzo per ferite riportate in combattimento.

Inoltre non si sa da chi il Del Bon abbia ricavato che Eugenio De Luca, comunista, avesse aderito alla resistenza «pur non partecipando alla lotta armata per le sue precarie condizioni di salute». (Giulio Del Bon, op. cit., p. 56).

Secondo Marco Puppini, Eugenio De Luca era nato ad Ampezzo (Ud) il 10 dicembre 1896 da Vittorio e Maria Passudetti. Era emigrato in Belgio nel 1922 ed era muratore e cementista ma lavorò anche nelle miniere.  Nel 1930 venne espulso dal Belgio e si stabilì in Lussemburgo, ad Esch-sur-Alzette e Dudelange, per poi rientrare temporaneamente e clandestinamente in Belgio e quindi stabilirsi infine in Francia, a Forchies-les-Marches. Comunista ed antifascista, nel 1936 fu segnalato dalla polizia fascista come partecipante a riunioni della Frazione bordighista del Partito Comunista, nel corso delle quali Enrico Russo, Ottorino Perrone, Virgilio Verdaro ed altri militanti mettevano in guardia contro i pericoli della politica del Fronte Popolare che contraddiceva le teorie di Lenin e contro l’imborghesimento dell’Unione Sovietica. Sottoscrisse pure somme di denaro in favore dei detenuti politici.  Nel 1941 fu arrestato a Charleroi in Belgio dai nazisti che lo avevano occupato nel 1940, e fu estradato in Italia ove fu imprigionato nel carcere di Vipiteno. Nel corso dell’interrogatorio presso la Questura di Udine, Eugenio De Luca dichiarò di aver maturato convinzioni anarchiche. Confinato, fu liberato nel settembre 1943 e rientrò ad Ampezzo. Il 28 luglio 1944 venne ucciso per ragioni non precisate in comune di Socchieve da formazioni partigiane della btg. Garibaldi-Friuli. (Note su Eugenio De Luca di Marco Puppini, parzialmente inedite. Archivio centrale dello stato. casellario politico centrale, busta 1709. estremi cronologici 1928-1943. Marco Puppini, Eugenio De Luca, in: Dizionario biografico degli anarchici italiani).

Il De Luca non risulta negli elenchi dei partigiani garibaldini e non consta fosse mai stato partigiano. Durante un processo contro i partigiani per la sua morte, intentato da un suo parente nel 1952, emerse che Eugenio De Luca era stato ucciso perché disapprovava apertamente l’operato dei partigiani seminando discordie tra di essi, almeno secondo quanto riportava il Messaggero Veneto di allora. Ma anche Elio Bullian sostiene tale tesi. Infatti dice così: «[…]  qui vicino abitava anche Eugenio De Luca, che era zoppo. Era un fuoriuscito, uno di quelli che erano andati all’estero senza passaporto, di quelli che erano scappati o perché non si erano presentati alla leva o perché non avevano voluto la tessera del Partito Fascista. Rientrato in paese dopo il 25 luglio, usava criticare aspramente Zagolin e l’attività dei partigiani, sentendosi forte del suo essere di sinistra. Fu prelevato dai partigiani una sera del luglio 1944, nel cortile, e venne fucilato sul tornante di Cjamesàn». (Elio Bullian. La storia dei fratelli Lucchini, comunisti e partigiani, ed altre storie ampezzane, in www.nonsolocarnia.info).

E pure sui volumi dell’Ifsml si trova che De Luca Eugenio di Ampezzo fu ucciso da forze partigiane in territorio di Socchieve e fu tumulato ad Ampezzo. (AA.VV., Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., Udine, tomo 1, p.28). E il sostenere, senza fonte alcuna, come fa il Del Bon che il De Luca era un partigiano è solo un voler avvallare senza prove che i partigiani si uccidevano fra di loro senza motivo.

Ci sono poi nel Del Bon altri casi, oltre quello di Arrigo Martinis, di attribuzione di morte per mano partigiana davvero discutibili, e spesso fondate solo su fonti orali, su racconti di persone che al massimo potevano esser bambini allora o non erano ancora venuti al mondo e quindi narrano il sentito dire, o che avevano una visione nazifascista della resistenza.  Ed anche le fonti fasciste o le relazioni in tempo di Ozak, dovrebbero esser ben valutate, perché nessuno voleva far una brutta fine, allora, e così era facile che le autorità e non solo attribuissero qualsiasi morte per arma da fuoco non chiara ai partigiani, dimenticando quanto fatto da repubblichini e nazisti, che sparavano pure loro, e la possibilità che uno si trovasse al posto sbagliato nel momento sbagliato.

Ma per ritornare al Del Bon, egli, dopo aver sentito o letto coloro che cita come fonti paularine: Nazario Screm, Gianni Oberto, Veneranda Buzzi e Maria Sollero, sostiene che Buzzi Pietro di Pontebba potrebbe esser morto per mano partigiana, perché lo dicono quelli di Paularo, anche se detta versione diverge da altra, da lui definita ‘garibaldina’. E pare che affronti argomenti storici come si trattasse di opinioni nel contesto di un agone politico. Ma i fatti sono fatti, non opinioni. Per l’Ifsml Buzzi Pietro di Pontebba, e non di Paularo, nato il 16 marzo 1926 a Cloptiva, in Romania, figlio di Eugenio e Modi Anna, partigiano garibaldino, nome di battaglia ‘Cesco’, cadeva il 3 settembre 1944 in una imboscata a Paularo. (AA.VV., Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., Udine, p. 652). Ma anche Del Bon dice che ‘Fonti garibaldine’ non precisate sostengono che il giovane fu ucciso da una trappola nemica posta vicino alla casera di Ludin di mezzo. (Giulio Del Bon, op. cit. 183). Ma chi sono i paularini che sostengono che il Buzzi fu ucciso da mano amica?   

Gianni Oberto, paularino residente a Tolmezzo, e credo più giovane di me che sono nata nel 1951,  operaio se non erro, noto per esser stato il marito di Albina Sbrizzai, maestra e brava persona che si prodigava per gli altri, deceduta, a cui è dedicata una sala presso i Salesiani di Tolmezzo, e per essere autore di libretti credo anche validi in ambito locale, di vario contenuto, che vanno da: “Liendis di pais” a “Sui trois da me Cjargne” (http://www.cjargne.it/libri/ScansiaOberto.htm), fino ad una raccolta di interessanti testimonianze di donne finite in campo di concentramento, intitolata: “11 ottobre 1944. Rastrellamento a Paularo”, e come persona che ama esprimere la sua opinione su molti temi. Nazario Screm di Paularo, che è considerato da Alfio Englaro, che certamente non è comunista, un “self made man”, è uno di quelli che scrive sul nulla ipotesi fantasiose rileggendo la storia da un punto di vista personal/nazista, attribuendo le stragi di malga Cordin e Lanza, collegate a quella di Promosio, ai partigiani garibaldini senza fonte alcuna. Il volume da lui scritto sull’eccidio di Malga Cordin e Lanza, e di riflesso di malga Promosio, essendo le tre stragi compiute dallo stesso gruppo armato, si intitola: “L’eccidio che oscurò la Resistenza nella Valle d’Incaroio”. E così scrive nel merito di questa pubblicazione Alfio Englaro, nel recensirla: «L’autore […] non fornisce nessuna prova documentata ed accessibile agli storici di quanto ha scritto e pertanto, nell’invitarlo ad esibire i documenti in suo possesso (sempre che li abbia), ribadiamo che la recensione di questo libro è stata fatta unicamente a scopo conoscitivo, anche se questo libro […] forse sarebbe stato opportuno non stamparlo». (http://www.cjargne.it/libri/EccidioScrem.htm). E nel 2012, quando lo Screm scrisse il volume, aveva già 80 anni, e stava parlando di fatti accaduti quando ne aveva 12, ed era un ragazzino. Ma riuscì a pubblicarlo, mentre chi cerca di scrivere articoli più documentati con un minimo di scienza spesso non trova in Carnia denaro ed editore.

Tullio Baritussio, paluzzano, ma dal Del Bon considerato tolmezzino, è presumibilmente il partigiano garibaldino Faulo, ed è stato intervistato anche da Pieri Stefanutti e Dino Ariis, per il loro “Le colpe degli Innocenti”, perché era persona che conosceva bene le malghe paularine, e vi andò a recuperare formaggio per il paese. E potrebbe essere la persona che dà la versione garibaldina della morte di Buzzi Pietro, ma dato che Giulio Del Bon non lo specifica, non lo sapremo mai.

Veneranda Buzzi e Maria Sollero non sono a me note, e non si sa perché, con Oberto, dovrebbero ribaltare l’altra versione della morte del Buzzi, confermata anche dall’Ifsml. Se però il Del Bon ha chiesto loro un parere sull’argomento, magari lo hanno dato, come farebbero molti, ma sta a chi raccoglie testimonianze saperle valutare e primieramente saper a chi domandare che cosa ed a chi scrive sapere che volumi visionare e citare. (Cfr. L. M. Puppini. Lu ha dit lui, lu ha dit iei. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica. La storia di pochi la storia di tanti, in: nonsolocarnia.info).

Giulio Del Bon opera allo stesso modo per Pivotti Mario di Enemonzo, dicendo che è stato ucciso da mano amica. (Giulio Del Bon, op. cit., p. 53). Ma il cronista citato come fonte altri non è che il solito prete di paese. (Ivi, nota 107 p. 88).  E si sa che i preti avevano una loro visione personale di fatti ed individui. Dovete sapere che i sacerdoti scrivevano, anche quando io ero ragazza, raccomandazioni per i datori di lavoro, se ritenevano il soggetto e la sua famiglia sufficientemente cattolici, dimenticando peccatucci e peccatacci, erano capaci anche di esaltare qualcuno che non era stato magari proprio un buon uomo, se apparteneva ad una famiglia facoltosa e di chiesa, o di dir bene di un morto in ogni caso, sperando in una lauta largizione per la parrocchia, mentre abborrivano i comunisti anche se erano brave persone, e li ritenevano la causa di ogni male. Questo per dire che un foglio scritto da un prete è fonte da prendersi con le pinze, mentre alcuni autori di ricostruzioni e narrazioni storiche resistenziali prendono gli scritti dei sacerdoti relativi a persone come quasi unica fonte veritiera. In alcuni casi potrebbe esser però accaduto che qualche anziano fascista rimasto in paese fosse andato dal prete a raccontare una propria versione di fatti resistenziali o di morti avvenute, presa poi per buona dal sacerdote. Ma per ritornare al dunque, cosa si legge, invece, sulla morte di Pivotti Mario, sui volumi dell’Ifsml? Che Pivotti Mario, partigiano garibaldino, nome di battaglia Boita, di Ernesto e Zilli Maria, nato a Parigi l’11 gennaio 1925, residente ad Enemonzo, celibe, era caduto in combattimento contro forze armate tedesche ad Esemon di sotto il 28 luglio 1944, ed era stato tumulato a Fresis. (AA.VV., Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., Udine, tomo 1, p. 285). Quindi il Del Bon cita pure un documento Anpi, ritenuto fonte della Garibaldi, che sostiene che il Pivotti era deceduto ad Esemon di Sotto in combattimento. (Ivi, p. 53). Ma occorreva perdere tempo per scrivere che un prete non considerava valido quello che dicevano i garibaldini, vissuti tutti dal clero come i ‘comunistaz’ e gli infedeli?

Ma per capire che tipo di voci potessero circolare nei paesi della Carnia, ripieni anche di filo nazisti e repubblichini, quando nulla più si sapeva di un partigiano, mi pare interessante quanto scritto da Erminio Polo per Cesare Marioni, ‘Ceci’. (Cfr. Erminio Polo, Forni di Sotto, un paese segnato dal fuoco, editori Grillo e Centro Cultura, 1984, p. 131) sulle voci circolanti rivelatesi poi mere ‘ voci da osteria’. Cesare Marioni presumibilmente comunista, fu uno dei primi a salire in montagna con Augusto Nassivera. Quando in paese si seppe che nessuno lo aveva più visto e non si sentì più parlare di lui, iniziarono a circolare voci prima che fosse fuggito in Jugoslavia con la cassa dei partigiani, poi che fosse stato ucciso da fuoco amico. Queste voci, ovviamente, tendevano a screditare il movimento partigiano, e potrebbero esser state messe in circolazione anche dai fascisti locali. Infine il corpo di Marioni fu trovato, mesi dopo, dalle capre, crivellato di colpi di mitragliatrice tedesca. (Ibid.).

Opera squisitamente politica questa di Del Bon, che sarebbe stato opportuno, secondo me, che si fosse fermato al suo studio sulla chiesa di Paluzza, atta non a cercare di fornire informazioni corrette, ma ad insinuare il dubbio, pescando qua e là e dimenticando la fonte principale per questo tipo di elenchi e contestualizzando in modo ideologico. Ed anche le relazioni dei carabinieri nel periodo della seconda guerra mondiale sul rinvenimento del cadavere di uno ucciso da arma da fuoco potevano riproporre quanto narrato loro da persone dei paesi, che potevano dare la colpa di ogni morto ai partigiani magari per non avere problemi con le autorità, ed in nome del quieto vivere. Eppure, come scrive Erminio Polo, le mitraglie tedesche spararono a casaccio nei boschi della Carnia ben più di un colpo, ai tempi della guerra di Liberazione! (Ibid).

Alcuni nomi citati dal Del Bon mancano nei volumi dell’Ifsml come per esempio quelli di Del Zolt Emilio di San Pietro di Cadore, Osvaldo Tabacchi di Calalzo di Cadore, e Franceschini Pietro, tutti militi dell’Rsi, che il Del Bon, spostandosi dalla Carnia al Veneto, considera, avendo come fonte don Cappellari parroco di Maiaso, uccisi da forze partigiane, cioè dal nemico, senza specificare se in battaglia, se in un agguato, se catturati e giustiziati, perché il testo che cita recita solo ‘vengono uccisi’. (Giulio Del Bon, op. cit., p. 181). E manca pure su AA.VV., Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit.,   il non identificato ‘pastore di Cuc’, citato da Del Bon, (Ivi, pp. 181-182), mentre Lucia Cella parla di un pastore ucciso ma in zona Illegio perché intendeva denunciare i partigiani ai tedeschi perché gli rubavano il bestiame; manca Santoro Michele, napoletano, medico a Paluzza ed ex segretario del fascio, che da Paluzza era andato ad Azzano Decimo e lì fu ucciso secondo suo figlio, intervistato dal Del Bon, su mandato dei paluzzani, ma è versione di familiare, e manca Virginio Bortoletto, maresciallo GNR a Forni di Sotto, che fu ucciso in servizio, e quindi potrebbe trovarsi fra i morti militari fascisti per cause di guerra. Ma per quest’ ultimo e per Poli Marco e Tonello Ruggero, citati nei volumi dell ‘Ifsml come civili uccisi da forze partigiane, (AA.VV., Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., Udine, tomo 1, p.p. 351 e 352, e Giulio Del Bon, op. cit., p. 48) manca a Del Bon un riferimento bibliografico fondamentale e cioè il documentato volume di Erminio Polo, “Forni di sotto un paese segnato dal fuoco”, op. cit., che racconta la cattura e la morte dei tre alle pp. 100- 103. Egli precisa che Virgilio Bortoletto era maresciallo della GNR, mentre Polo Marco era il segretario del Fascio di Forni di Sotto, ed era padre di Vincenzino che, giovane fascista repubblichino, aveva buttato contro tale Brusin, che stava parlando con lui, una bomba, ferendo persone ignare che si trovavano nei paraggi.  (Erminio Polo, op. cit., p. 100 e pp. 88- 89). Ruggero Tonello, invece, era il gerente della Cooperativa di Consumo di Forni di Sotto. (Ivi, p. 101). Bortoletto e Polo furono fatti scendere dalla corriera, mentre il Tonello fu prelavato dalla sede della Cooperativa.  I tre furono condotti in località Trentesin, e qui vennero sottoposti a processo partigiano e ritenuti colpevoli di collaborazione con il fascismo e con  i tedeschi in quanto andavano ad Udine alla Federazione dei Fasci per parlare ed operare e «dalle carte risultava che avrebbero dovuto appoggiare i tedeschi contro i partigiani». (Ivi, p. 103). Furono pertanto giustiziati sul greto del fiume. (Ibid.).

Manca su AA.VV., Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., Udine, Santin Beniamino, forse maestro a Paluzza, che secondo il Del Bon faceva il doppio gioco, e non fu ucciso, sempre secondo lui dai partigiani ma da un milite dell’Rsi, essendo ricercato dai tedeschi. (Giulio Del Bon, op. cit., p. 49). E mancano fra i civili uccisi da forze partigiane Mastropietro Cosimo e Cappello Arturo Giovanni, carabinieri a Paluzza, originari di Badia Polesine, morti in azione di guerra forse, o per cause legate alla guerra, ma non civili.  Ma sul volume curato ed edito dall’ Ifsml, ci sono un paio di altri nomi di uccisi da forze partigiane sfuggiti al Del Bon. E il volume dell ‘Ifsml non cita fra i morti uccisi dai partigiani Polentarutti Umberto di Sauris, citato invece dal Del Bon avendo come fonte solo don Giuseppe Rossi. Inoltre il Del Bon scrive anche che «sembra che la sua colpa fu di avere in tasca una innocua lettera della figlia scritta in tedesco, che i partigiani si preoccuparono di far tradurre solo dopo averlo ucciso», ma non precisa se questa frase sia stata scritta da don Giuseppe Rossi o dal Pirina, posto, nello specifico come sua fonte. Ma il Pirina, nel suo già citato a p. 337 riporta solo il nome di Polentarutti Umberto come fosse presente nel volume dell’Ifsml, mentre non lo è. Inoltre pubblicare affermazioni come quelle che il Polentarutti fu ucciso innocente solo per aver avuto in tasca una lettera in tedesco della figlia, (tra l’altro era di Sauris e lì si parla e scrive in un dialetto austriaco, ma questo lo sapevano anche i partigiani che erano tutti o quasi carnici), senza neppure dire da dove provenga la citazione, perché le fonti sono inglobate in unica nota, tende solo a screditare i partigiani senza certezza alcuna. Treichl Rosenwald Maria Teresa, moglie del pittore Pio Solero, citata come uccisa dai partigiani prima da Conedera poi da Del Bon a p 56 del suo volume, non è presente in: AA.VV., Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., semplicemente perché era residente nella veneta Sappada, e si trovano citazioni che sostengono che dicesse male dei partigiani, e non si sa quando e perché suo marito fosse stato imprigionato a Belluno, nella  prigione di Baldenich. (Cfr. Laura Matelda Puppini, Su Maria Kratter nata Valentinotti, e sull’azione garibaldina a Sappada. Aggiornato il 7 novembre 2015, in: www.nonsolocarnia.info). Comunque e per inciso, ricordo ai lettori che spie e collaborazionisti, e quindi nemici, venivano pure segnalati per essere eliminati, dai Bollettini del Cinpro, in mano agli Alleati. E di Sappada era anche Cecconi Luigi, podestà del paese, Segretario del Pnf, e fondatore, dopo l’8 settembre 1943, della sezione R.s.i. di Sappada, che il Conedera dice esser stato ucciso dai partigiani. (Gianni Conedera, op. cit., pp. 51-52). Ma questi sappadini cadorini, perché vengono citati da Del Bon in un libro sulla Carnia? Per far numero?

Non da ultimo il Del Bon cita, come uccisa dai partigiani, seguendo quanto afferma il marito della stessa, Primus Margherita di Paluzza, ma nel dopoguerra vi fu un processo sulla sua morte che mandò tutti assolti, e sui volumi dell’ Ifsml, si legge che morì per fatto di guerra. (Giulio Del Bon, pp. 183-184; AA.VV., Caduti, Dispersi e Vittime civili, op. cit., p. 600).

Quindi per AA.VV. Caduti, Dispersi e Vittime civili dei Comuni della Regione Friuli-Venezia Giulia nella seconda guerra mondiale, Udine, IFSML, 1987-1992, risultavano, fra quelli citati da Del Bon, uccisi da partigiani: Polentarutti Emilio ed i suoi figli Polentarutti Elvira ed Alfredo, saurani, per Del Bon convinti filo fascisti e filonazisti ma di cui non coglie il legame di parentela (Giulio Del Bon, op. cit., p.181); Callegher Mario, figlio di Callegher Lucia, forse perpetua di don Piller, perché mia madre, la dott. Maria Adriana Plozzer, narrava di aver sentito a Sauris che suo figlio era stato ucciso dai partigiani ma aveva sentito anche che don Giuseppe Rossi era molto adirato da quei morti perché non era stato neppure chiamato a dar loro i conforti religiosi; Lirussi Giuseppe di Paularo, sergente Rsi; Cella Riccardo, di Verzegnis, sergente GNR- Reparti Rsi; Bonfini Carlo di Ampezzo e suo fratello Bonfini Umberto; Della Pietra Ugo di Comeglians; Cleva Albina con il figlio Puntel Lorenzo ed il fratello Cleva Albino, di Prato Carnico; Polo Marco e Tonello Ruggero di Forni di sotto; Grassi Luigia di Zuglio: Macuglia Faustino e Coidessa Virginio di Cavazzo Carnico; Cimenti Igino di Ligosullo, milite Rsi; Burba Alberto di Ampezzo; Ferigo Edoardo di Forni di Sopra; Barazzutti Nicolò di Mena di Cavazzo Carnico; Clama Giacomo di Paularo, milite Rsi; Tomat Lucia e, presumibilmente sua figlia, Serini Tranquilla di Imponzo di Tolmezzo; De Luca Eugenio di Ampezzo; Grosso Giovanni di Villa Santina. Infine vi è Pieli Guerrino di Forni di Sopra, militare aviere R.s.i. in servizio a Campoformido, presumibilmente ucciso da forze partigiane in zona Pura, ma ufficialmente disperso in zona monte Pura dopo cattura da parte di forze partigiane.

Insomma l’elenco di morti civili (ed alcuni non civili ma militari, il che fa una differenza), ipotizzando che tutti fossero stati uccisi per mano partigiana, pubblicati dal Del Bon conditi da qualche informazione da fonte orale o dai soliti Pirina o Conedera e diari dei parroci non si sa quando scritti, che caratterizzano e riempiono il volume di Del Bon, pubblicati non suddivisi per comune (come in AA.VV. Caduti, Dispersi e Vittime civili op. cit., od in Pirina, che dall’opera dell’Ifsml prende informazioni) ma per nominativi e periodi, sono a mio avviso superflui, come superfluo è il volume, e pongono qualche interrogativo sulla capacità di scrivere un libro di storia da parte dell’ autore che non cita neppure la pietra miliare degli elenchi di caduti, dispersi, e civili del Fvg e cioè AA.VV. Caduti, Dispersi e Vittime civili dei Comuni della Regione Friuli-Venezia Giulia nella seconda guerra mondiale, Udine, IFSML, 1987-1992.

Insomma, per quanto riguarda gli elenchi, quasi tutto già letto, quasi tutto già pubblicato.

Senza offesa per Del Bon, che è brava persona, ma solo nel merito di questo suo libro.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

Invito agli incontri Anpi di Paluzza che si terranno il 5, il 12, il 13 luglio 2019 nel ricordo di Placido Rizzotto e contro le mafie.

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Vi propongo oggi il programma di incontri inviatomi dall’Anpi di Paluzza, uniti fra loro dal tema:
“Sulle orme di Placido Rizzotto. Ieri, oggi, domani. Resistenza, diritto del lavoro, legalità dal Friuli alla Sicilia”

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Venerdì 5 luglio 2019 ore 20.30 sala Alpina – Comeglians. In collaborazione con la associazione culturale Giorgio Ferigo verrà proiettato il

film di Pasquale Scimeca “PLACIDO RIZZOTTO”.  La proiezione verrà anticipata dalla lettura del testo di Leonardo Zanier  intitolato “L’ALLARME” che denuncia la criminalità mafiosa in Friuli nei primi anni ‘90.

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Venerdì 12 luglio 2019 ore 17.00 – 19.30. PALUZZA presso la Sala   convegni Ce.S.F.A.M. –piazza 21/22 luglio.

Dopo il saluto delle autorità e la presentazione degli incontri da parte di di Boris Maieron, interverranno nell’ incontro i seguenti relatori:

– Baron Denis (Anpi “Val But”): Placido Rizzotto, la Resistenza, il Friuli. Un tentativo di analisi storica oltre le fonti orali.

– Tommaso Baris (Università di Palermo): Partigiani siciliani. Dal movimento di Liberazione all’impegno civile nel dopoguerra.

–  Gian Luigi Bettoli (Pordenone): Resistenza e sindacato in Friuli. Le lotte per i diritti dei lavoratori dalla clandestinità ai “terribili” anni ’50.

Giuseppe Massafra (segreteria Nazionale  CGIL): Terre Libere.

Modera: Monica Emmanuelli (Direttrice Istituto Friulano Storia del Movimento di Liberazione).

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Sabato: 13 luglio 2019 ore 9.00 – 13.00. PALUZZA presso la Sala   convegni Ce.S.F.A.M. –piazza 21/22 luglio.

 Stefano Nonino, Presidente CNCA FVG: Presentazione dell’incontro.

– Don Pierluigi Di Piazza (Centro Balducci Zugliano): Resistenza e legalità. Il senso universale tra laicità e cristianesimo.

– Carolina Girasole (già sindaco di Isola di Capo Rizzuto): L’esperienza Resistente di un’amministratrice.

– Luana De Francisco (giornalista): Mafia e Nord Est. Una questione che ci riguarda.

– Vincenzo Guidotto (Osservatorio delle Mafie nel Nord Est): Le radici e le ali. La “Seconda Resistenza” e l’educazione dei giovani alla legalità.

Parteciperanno all’incontro: Giuseppe Massafra e Natalino Giacomini della CGIL.

Seguirà dibattito con moderatore  il giornalista Paolo Medeossi. 

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Momenti di musica ed in compagnia.

Venerdì 12 luglio 2019.

Dalle ore 19.00: RICCA SERATA DI PESCE   in collaborazione con la sezione  ANPI  di CARLINO/MARANO.

Dalle ore 20.00 MUSICA IN PIAZZA con il gruppo: ‘VAGABONDI NOI.

Sabato: 13 luglio 2019.

Alle ore 12.00: GASTRONOMIA TIPICA CARNICA.

Alle ore 18.00: per le famiglie: CIRCO SKIRIBIZ di Codroipo.

Alle ore 19.00: GASTRONOMIA TIPICA CARNICA.

Alle ore 20.30: musica in piazza con il gruppo “5 UOMINI SULLA CASSA DEL MORTO”.

      

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L’immagine che accompagna l’articolo rapprresenta la locandina dell’evento. Laura Matelda Puppini

 

 

 


La macraba danza  di interessi particolaristici sul morente Lago di Cavazzo o Tre Comuni.  

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Ricevo da Franceschino Barazzutti e volentieri pubblico. Laura Matelda Puppini

«Il Lago di Cavazzo o dei Tre Comuni va salvato, realizzando un bypass che porti le acque in uscita dalla centrale di Somplago direttamente alla attuale galleria di scarico nella montagna e solo dopo una parte delle acque potrà essere utilizzata per altri scopi. Ancora una volta i Comitati Salvalago ribadiscono la loro posizione sull’argomento, dopo le recenti prese di posizione dei dirigenti del Consorzio di Bonifica Pianura Friulana, che, a seguito di un loro incontro con l’on. Aurelia Bubisutti,  recentemente hanno dichiarato la necessità di derivare parte di queste acque dato che “ il progetto ( di derivazione a valle della galleria ), non influisce sulla salute delle acque del lago “.

     Così invece non è: infatti la derivazione proposta dal Consorzio assoggetterebbe il lago ( è da lì che viene l’acqua dello scarico!)  a forti oscillazioni del livello in particolare quando la centrale è ferma e comunque non è accettabile che il lago faccia “da corridoio” per alimentare la derivazione irrigua – idroelettrica del Consorzio. Il lago, la sua valle e la sua popolazione di malefatte ne hanno subite troppe e non intendono essere ancora sacrificati per gli interessi dei signori della pianura.

     Ancora una volta, ricordiamo a Lor Signori, che il Piano Regionale di Tutela delle Acque ( PRTA) prevede sì di “prendere in considerazione”  il progetto di derivazione del Consorzio, ma prevede altresì che “Contestualmente dovrà anche essere valutata la fattibilità tecnico-economica della realizzazione di un canale di by-pass, o di altra soluzione progettuale che mitighi l’impatto dello scarico della centrale di Somplago  sul lago di Cavazzo con lo scopo di recuperare le condizioni di naturalità del lago stesso e di garantirne la fruibilità” . I dirigenti del Consorzio e i rappresentanti delle istitutzioni si fissino ben in testa le parole “contestualmente, condizioni di naturalità, fruibilità” .

Per gli abitanti della Val del Lago qualunque prelievo delle acque del lago potrà avvenire soltanto dopo che il bypass sarà realizzato. E il by-pass è l’unica soluzione al degrado del lago!

Foto intitolata ‘azzurro pantano’ datata 12 maggio 2019 di autore ignoto inviata da F. Barazzutti con questo testo.

Purtroppo, dobbiamo constatare che il concorso di idee per la rinaturazione e fruibilità del lago indetto dalla Regione è andato deserto e ora la stessa dovrà intervenire in altro modo per ottemperare a quanto previsto dalla Legge già citata. Da parte nostra ci sarà come sempre massima disponibilità al dialogo e confronto, ma non accetteremo fughe in avanti da parte di interessi particolaristici.

Ricordiamo che studi recenti ,effettuati sia da parte del Comitato, sia da parte di un tecnico incaricato da alcuni Enti Pubblici territoriali hanno dimostrato che, senza un decisivo intervento,  in 100/110 anni  il lago diventerà una palude  a causa del continuo deposito  di fango  nei periodi piovosi  proveniente  dai torrenti della Carnia alimentanti la centrale idroelettrica. Studi confermati l’anno scorso dai ricercatori dell’ISMAR/CNR di Bologna.

Tracciato condotta. Immagine inviata da F. Barazzutti con questo testo.

Il sistema idroelettrico del Tagliamento, di cui il lago di Cavazzo o Tre Comuni è il terminale, è stato progettato e realizzato negli anni ’40-50 senza alcun riguardo per l’ambiente, è gemello di quello infausto del Vajont e improntato ad un unico principio: trasformare tutte le acque indiscriminatamente in kw ed in denaro per gli azionisti della SADE. Tale sistema-dinosauro va sottoposto ad una severa verifica.

Va esaminato anche il tema del deflusso minimo vitale (DMV)  nel Tagliamento di cui il Consorzio ha una concezione particolare di cui non fa parte l’uso plurimo delle acque. Se il legislatore  ha definito come calcolare il DMV  stimando che sia il minimo  per garantire la vita  di un corso d’acqua, bene pubblico da salvaguardare,  non si capisce come mai ogni anno  il DMV venga dimezzato  per favorire interessi particolaristici della pianura.

Ci fa piacere che l’on. Bubisutti abbia deciso di interessarsi del problema Lago di Cavazzo. La invitiamo  – anche come cjargnele – a stare con i piedi nell’acqua gelida e torbida di questo lago anziché in quella dei Canali del Consorzio.       

Per i Comitati salvalago Franceschino Barazzutti

L’immagine che presenta l’articolo è quella intitolata “azzurro pantano” inviata da Barazzutti. Laura Matelda Puppini

Casa rossa. Tolmezzo, giugno 1980. Gabino Cgil mi dà quelle poche carte, che teme vadano perdute, su Cave del Predil e la miniera . Ecco il loro elenco.

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Ho promesso di pubblicare i documenti presenti nell’archivio di Guerrino Gabino, compianto sindacalista CGIL, attivo nelle lotte per Cave del Predil. Lo incontrai a Tolmezzo alla casa rossa, poi demolita per far posto ad un anonimo edificio, e volevo chiedergli qualcosa sulle lotte in cartiera, ma egli mi parlò di Cave del Predil, e mi lasciò queste poche carte che temeva andassero perdute, che aveva in un cassetto, contenute in una cartelletta e tenute vicino con un elastico, che formano ora l’archivio Gabino in mio possesso e di mia proprietà. Esse ci parlano del sindacalismo di allora, legato più alle persone sul campo che agli uffici, e di Guerrino Gabino. Per me non è stato semplice ordinare quelle carte, ma ci sono riuscita anni fa, ed intendo donarle perchè resti memoria. Laura Matelda Puppini.  Per visionare bene l’elenco, portare lo zoom a 80%. L’immagine è tratta da: http://www.polomusealecave.coop/miniera-lab/?lang=it

elenco provvisorio documenti archivio gabino

 

 

 

Aldevis Tibaldi sulla gestione acqua in Friuli. Chi si loda si imbroda.

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Dopo averle lette, pubblico queste interessanti considerazioni sulla gestione acqua potabile e sul modus operandi della politica in Friuli come giuntemi da Aldevis Tibaldi, avvisando che questo grande ecologista e lottatore, che ha girato per lavoro il mondo, utilizza sempre toni direi un po’ forti nelle sue critiche, ma per questo non mi sento né di alterare il suo testo né di limarlo, perché se si deve essere sempre caramellosi anche nelle critiche, allora la democrazia è defunta come l’espressione personale del proprio pensiero. E pubblico ricordandomi anche i toni di certe accalorate discussioni nei consigli comunali ed in Parlamento, dopo la fine della seconda guerra mondiale, sentendone la mancanza. Inoltre penso francamente che bisogna avere un senso della misura, perchè ad ogni ‘et’ nemmeno le aziende dovrebbero ricorrere agli avvocati, uniche che lo possono fare perchè i cittadini non hanno denari per difendersi legalmente, ma semmai invitare a rivolgersi all’ urp, altrimenti non si sa che stiano a fare gli uffici relazioni con il pubblico, se funzionano realmente e non come servi del solito padrone. Naturalmente c’è diritto di critica e replica, e pubblico senza essermi documentata nel merito, speranzosa di aprire, su temi così importanti, un dibattito e ricevere informazioni. Laura Matelda Puppini.

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«Niente è più penoso di un servizio pubblico che ha bisogno di riempirsi la bocca con la sostenibilità ambientale per coprire le sue inefficienze, per gestire il consenso degli organi di controllo e dei mezzi di comunicazione: quindi i soldi e la salute degli utenti.

Come sul far dell’alba la gazzella esce nella savana a suo rischio e pericolo e il leone si mette in moto per agguantarla, così non c’è giorno che un maggiorente di queste terre non se ne esca con la parola magica “sostenibilità” per giustificare ogni suo agire. In tal modo ogni cosa, anche il più sordido inganno, una volta incartato nella sostenibilità e affidato alle cure dalle testate giornalistiche amiche, si trasforma in oro colato. E, come tale, può essere contrabbandato senza suscitare il minimo dubbio in seno ad una popolazione svezzata nel disinteresse generale.

Siamo alle solite, cioè a quello che nei paesi civili chiamano un abuso di posizione dominante, e che per essere tale dovrebbe essere sanzionato: tanto più se incide sulla salute pubblica. Da noi no. Da noi si fanno sicure carriere all’ombra dei potentati e se a qualcuno viene lo schiribizzo di mettersi contro, gli arriva una pesante diffida dal migliore e più potente degli avvocati sulla piazza: avvocato in servizio permanente ed effettivo nonostante la salatissima parcella che, inutile dirlo, ricade pur sempre sulla bolletta di noi utenti.

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Ma veniamo al dunque. Avantieri, in una caramellosa cerimonia riservata ai pochi intimi che possono andarci alle tre del pomeriggio, il Consorzio che gestisce i servizi idrici e fognari dell’intero Friuli (CAFC) ha inteso presentare il Bilancio di Sostenibilità, altrimenti denominato Bilancio Sociale per l’esercizio 2018.

Deliziose hostess alla reception, borsa aziendale, libro autocelebrativo di gran lusso, borraccia termica made in Cina e alla moda nell’ambientalismo radical chic: insomma nulla a che vedere con la concreta ruvidezza della precedente gestione.
Abiti alla moda, atteggiamenti da fare invidia alle “soap opera” di ultima generazione e una presentazione vuota, ma al tempo stesso infarcita di termini in inglese che fanno trendy e che vorrebbero alludere ad una indiscutibile competenza: quelli che Alberto Sordi avrebbe accolto con un sonoro “a Benigno, ma parla come magni!”.
Un discorsetto acchiappa merli, fatto apposta per un pubblico di bocca buona, per la maggior parte giunto per farsi vedere e per azzannare l’immancabile buffet. Inevitabile quindi l’autocelebrazione, condita di buoni propositi e non senza un continuo riferimento alla sostenibilità e all’ambiente, con tali argomenti da fare invidia alla “Laudato si’” di Papa Francesco.

Sono in gioco tanti soldi e, bontà sua, la presidenza ricorda che “gli investimenti richiedono una rendicontazione che si spinga oltre alle informazioni e i dati quantitativi obbligatoriamente pubblicati nel bilancio d’esercizio… In quest’ottica gli stakeholders, con le loro considerazioni, svolgono un ruolo fondamentale nell’identificazione degli impatti più significativi sulle tematiche relative alla sostenibilità, consentendo la loro qualificazione e quantificazione”.

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Siamo alle solite! Si tira in ballo il consenso dei portatori di interesse quando è del tutto evidente che in questa Regione ogni dibattito è soffocato sul nascere e le istanze dal basso sono regolarmente cestinate o irrise, quando non addirittura scoraggiate da una disinformazione che le testate locali portano a termine con ineffabile puntualità e mirata precisione. Eppure certe reticenze circa gli affidamenti e i lucrosi contratti della CAFC sono sotto gli occhi di tutti, come del resto è plateale l’assordante silenzio del sindaco di Palmanova, responsabile del cosiddetto “Controllo Analogo”, funzione che per statuto ha l’onere di fare le pulci al Consorzio.

E dire che sono trascorsi solo pochi giorni dall’annuncio con il quale controllati e controllori hanno annunciato con gioia la decisione di ridurre l’esazione di un milione di euro, senza per questo dover incidere sulle prestazioni e gli impegni già programmati. Una scena di fantozziana magnanimità o semplice presa per il culo alla maniera dei saldi di fine stagione, quando il negoziante prima alza il prezzo per poi ridurlo?

Ma dove è cascato l’asino è stato nel momento in cui, anziché dibattere il Bilancio Sociale del 2018 e le sue zone grigie, il convegno è stato dirottato sugli scenari futuri, quelli per intenderci condizionati dal “provvidenziale” cambiamento climatico. Ecco allora la pensata di portarsi al tavolo dei relatori un pugno di ecologisti pronti a recitare a soggetto: per intenderci quelli che siamo usi chiamare gli “ambientalisti di regime”.
Come gli incolpevoli richiami che l’uccellatore sistema a dovere per attirare gli ignari uccellini di passaggio, così costoro si sono esibiti nella rappresentazione di un futuro a dir poco assai problematico. Cosicché, per meglio indirizzarli verso le CAFChiane finalità e scimmiottare una parvenza di dibattito fra quei pochi intimi, non è mancata neppure una moderatrice di razza, scelta opportunamente fra i redattori del benemerito e funzionale Messaggero Veneto. E allora come resistere a cotanto allarmante quadro?

Come non permettere al Consorzio di salvare i friulani dall’incombente disastro ambientale, di perseguire il piano diabolico ordito a suo tempo dalla Serracchiani e mettere mano a investimenti tali e tanti da dover necessariamente confluire nella onnipresente e onnipotente HERA?

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Come ogni rito funebre che si rispetti deve concludersi con il “consolo”, così ogni ulteriore dolorosa riflessione fu troncata con l’annuncio del buffet e di un arrivederci a Lignano per accogliere l’arrivo della Goletta Verde. Ma a quel punto, non essendo abituati a farci prendere in giro, abbiamo preso la parola e denunciato quella messa in scena per mettere il CAFC e la classe politica che gli tiene bordone di fronte alle loro responsabilità.

Abbiamo ricordato come il Consiglio Regionale aveva cassato con l’inganno la nostra proposta di referendum sul servizio idrico integrato tanto da farsi beffe di una volontà diffusa e della autonomia gestionale dei Comuni per darlo ad una gestione troppo centralizzata e insensibile alle istanze del territorio e al confronto con i portatori di interesse: quelli veri e non quelli addomesticati alla bisogna.

Occorreva spostare il tiro su di uno scenario futuro per distogliere l’attenzione dalle gravi negligenze del presente? Troppo evidente era la perdurante, pessima gestione degli acquedotti a cui si imputano perdite prossime al 50% del totale trasportato. E, se tanto mi dà tanto, quali dovevano ritenersi le perdite del sistema fognario?

Oltretutto quale attendibilità potevano avere le previsioni future a fronte di un Piano di Tutela delle Acque per molti versi inattendibile, eppure mai messo in discussione dal CAFC? Ma più di ogni cosa era da temersi l’allegra gestione e programmazione del sistema fognante, troppe volte imposto ad amministrazioni del tutto inermi, quando non addirittura complici.

Emblematico era stato il caso di Porpetto dove la demenziale progettazione era stata tale che il giorno dell’inizio dei lavori l’impresa si è dovuta dare alla fuga per effetto di una nostra denuncia alla Corte dei Conti.

E che dire degli sversamenti effettuati dall’impianto di depurazione di Lignano nella laguna di Marano con la complicità degli uffici regionali e degli stessi mitili cultori che preferiscono fare i pesci in barile? Per non dire dei fanghi che da quello stesso impianto sono stati sparsi nottetempo nelle risorgive del territorio di Porpetto, senza per questo suscitare alcuna sanzione o protesta da parte di quel sindaco?

E che dire di quella intollerabile mancanza di adeguati controlli ambientali, tanto da evitare l’accertamento della salmonella e spingere l’ARPA a lasciar fare, tradendo quindi quello che è il suo dovere istituzionale?

E che dire infine dell’inerzia della magistratura, insensibile ai continui solleciti?

In un Paese normale si sarebbe aperto un confronto, invece in ossequio al sistema bulgaro hanno taciuto, certi che da quel luogo la verità non sarebbe trapelata. Cosicché il notiziario RAI ha trasmesso la solita velina e non ne parliamo del Messaggero Veneto, uscito con un titolone da far ridere i polli “La svolta verde del CAFC contro gli effetti climatici.”

Una cronaca a dir poco autocelebrativa, che nemmeno nella repubblica delle banane sarebbe arrivata a tanto. Un articolo non firmato e nemmeno corredato dalla dicitura “annuncio pubblicitario”, perché è bene che la gente comune non si accorga di nulla, paghi le bollette e tiri a campare.

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E allora, inseguiti da un destino crudele non abbiamo fatto a meno di recarci anche a Lignano, alla presentazione dei dati di Goletta Verde e ad una sorta di tavola rotonda alla presenza di quattro amici al bar. La farsa di come si possa fondare un giudizio sulle acque di balneazione in base a due soli campioni, per giunta prelevati dopo intense precipitazioni, l’avverte anche un bambino. Eppure, la gioia con la quale è stato accolto il referto positivo la dice lunga, tanto più dopo i disertati controlli ambientali e sanitari, i dragaggi selvaggi, i travasi fognari in laguna, la comparsa dell’escherichia coli e della salmonella, il seguìto divieto di raccolta delle vongole nelle aree antistanti le balneazioni. Se al contadino non devi far sapere quanto è buono il formaggio con le pere, analogamente al bagnante le contaminazioni devi tacere.

In tal modo il presidente d Legambiente ha potuto mettere il broncio, il responsabile dell’Arpa si è detto disponibile per il futuro, il direttore del CAFC ha dichiarato inevitabile lo sversamento in laguna dei micidiali veleni delle acque di dilavamento e ha taciuto il fatto che l’impianto di depurazione non sia stato nemmeno collaudato.

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Sebbene non invitati, né desiderati, abbiamo preteso di dire la nostra, di far conoscere a Goletta Verde le porcherie di un recente passato, le coperture politiche e soprattutto l’assenza dei veri proprietari della laguna, che non sono gli ambientalisti, né i politicanti o i turisti, bensì i Maranesi, espropriati a bella posta! Di ciò i ‘tengofamiglia’ hanno taciuto e allora ci siamo sentiti nel giusto!

Tibaldi Aldevis Comitato per la Vita del Friuli Rurale.»

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Quello che mi preoccupa, non evidenziato da Tibaldi, è la proiezione sulla scarsità futura di acqua anche sotterranea, che si sta esaurendo a causa nostra, e che impensierisce anche la Nasa (Allarme della Nasa: sempre meno acqua in molte parti del pianeta, in: https://ilmegafono.org/2018/05/19/allarme-della-nasa-sempre-meno-acqua/), e il fatto che la sua erogazione pare stia andando a finire nelle mani di poche multinazionali, che possono decidere della vita di noi tutti e dell’economia. Essendo l’acqua bene primario (primary necessity or need of life) donato da Dio all’umanità, e con la scusa dei tubi finita in mano ad aziende amanti del fatturato e dei bilanci con attivi in salita, è chiaro che chi la vende può fare grandi profitti, senza neppure aver speso per comperarla. Infatti essa non è vendibile. E anche Cafc ne ha fatti, secondo Udinetoday: “Cafc in crescita, bene il bilancio 8 maggio 2019. Cafc: bilancio 2018, crescono tutti gli indicatori e il fatturato raggiunge i 65 milioni“ (ww.udinetoday.it/economia/cafc-bilanciocrescita-udine–8-05-19-10-33.html). Inoltre non capisco il ruolo dell’ Ato ora unica e regionale con l’aggiunta di alcuni comuni del Veneto dal 2016, se non erro, (https://www.regione.fvg.it/rafvg/cms/RAFVG/ambiente-territorio/valutazione-ambientale-autorizzazioni-contributi/FOGLIA14/) che fa perdere, in un gran calderone, le diversità situazionali, e mi piacerebbe sapere se vi sono stati casi di chiusura di rubinetti per insolvenza (per i quali la Cafc di Gomboso era nota), togliendo un bene indispensabile per la vita a persone umane e se siano state rispettate le indicazioni Ato per le bollette. E il fatturato aziendale pare sia diventato il fine della nuova etica del mondo nuovo che velocemente va verso la sua fine con la terra, come i singoli in: ‘La grande abbuffata’, film di Marco Ferreri tra i più significativi che abbia visto, ma per inedia e mancanza di ‘alimento’ a causa di chi si è fatto abbuffate di tutto. E per ora mi fermo qui, ma ho alcune mie considerazioni da fare nel merito dell’acqua che pubblicherò fra un po’.  Senza voler offendere alcuno, ho scritto le mie due righe e pubblicato il testo di Tibaldi. 

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L’immagine, elaborata nel colore, che correda questo articolo è stata tratta, solo per questo uso, dall’articolo del Messaggero Veneto “Bollette dell’acqua non pagate il Cafc taglia 1200 contatori”, pubblicato il 19 giugno 2015. Laura Matelda Puppini

Non c’è due senza tre. Problemi emergenti in merito ad una copia di una statua al discutibilissimo D’Annunzio che il comune di Trieste vorrebbe porre in Piazza della Borsa.

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Il 5 giugno 2019 compariva su “Il Piccolo” di Trieste un articolo intitolato: “Il Comune di Trieste sceglie piazza della Borsa per la statua dedicata a D’Annunzio” di Giovanni Tomasin in cui si annunciava la costruzione di una statua in bronzo dedicata a Gabriele D’ Annunzio che lo mostra seduto su di una panchina a leggere un libro, della non certo modica cifra di 20.000 euro, da collocarsi nella notissima piazza della Borsa, quasi che il Vate avesse avuto a che fare con gli affari italiani, cosa anche credibile ma non certo per farli andare a buon fine, visto quanto lo Stato Italiano potrebbe aver speso solo per cacciare lui ed i suoi quattro da Fiume, abusivamente occupata.  Infatti quest’ anno cade proprio il centenario della trasgressione fiumana, che non vorremmo ora essere benedetta da qualche servitore dello stato, della Regione, e degli Enti locali.
Immediatamente gli animi si surriscaldavano e si creava un fronte a favore dell’iniziativa ed uno contro.

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L’11 giugno 2019 sempre Il Piccolo pubblicava un articolo di Fabio Dorigo intitolato: “Scatta la petizione popolare contro la statua di D’Annunzio a Trieste”, in cui si leggeva che l’ipotesi della statua, di cui già esistevano due copie in altre città, aveva sollevato un nugolo di proteste, ed era stata aperta una sottoscrizione per il ‘no’ che aveva raggiunto, in quella data, già 1100 firme. “Il Vate non c’entra con la città” era frase che circolava tra gli oppositori al monumento, mentre non pochi ricordavano le frasi contro gli slavi di Gabriele D’ Annunzio. (https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2019/06/11/news/scatta-la-petizione-popolare-contro-la-statua-di-d-annunzio-1.33561420).

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Il 16 giugno 2019 compariva, sul Messaggero Veneto un articolo intitolato: “D’Annunzio cacciato da Trieste, quella statua è un autogol” di Andrea Zannini, docente di storia dell’Università di Udine, in cui egli, dopo aver sottolineato che «Ci si accapiglia a Trieste per la statua a D’ Annunzio», senza però precisarne i motivi, continuava dicendo che, a suo avviso «con buona pace di chi ritiene che le ideologie non esistano più, non c’è in realtà da stupirsi che qualsiasi cosa che ha che fare con la storia del Novecento finisca in polemica» confondendo, secondo me, la critica ad alcune posizioni politiche ed analisi storiche con la polemica. Quindi passava ad esaltare le opere letterarie di D’Annunzio, la cui figura, però, non è solo collegata ai suoi scritti ma anche alla sua azione politica, come per esempio l’occupazione di Fiume, ed al suo sapersi costruire una immagine pubblica. Relativamente al legame tra Trieste e D’ Annunzio, il docente dell’Università udinese riconosceva che detto legame non pareva presente nei testi letterari del ‘vate’, ma non si poteva dimenticare il suo impegno per portare l’Italia verso la prima guerra mondiale che aveva ‘redento’ Trieste, e quindi meritava una statua in città. Ora che il professor Zannini scambi per un valore la prima guerra mondiale, con il suo corredo di migliaia di morti fra i militari ed altrettante migliaia di morti fra i civili, mi pare un po’eccessivo, e lo scrivo senza se e senza ma. Inoltre il Zannini si spinge ancora più in là e scrive, relativamente alla statua, che forse si sarebbe potuto porre la stessa  «sulle Rive a guardare verso quella Pola su cui compì i raid aerei o verso la baia di Buccari teatro della proverbiale ‘beffa’».  E qui sono io a sgranare gli occhi, leggendo simili affermazioni, ma concordo con Zannini quando dice che D’Annunzio è conosciuto per i suoi raid e per la beffa di Buccari, ma decontestualizzati dagli scenari in cui avvennero, più che per le sue poesie, che invero possono, anche a mio avviso, ormai interessare pochi amatori od essere propinate a qualche più o meno annoiato studente delle superiori.

Ciò non toglie che a qualcuno possano piacere: mi ricordo infatti che mio zio Umberto Plozzer, quando ero bambina, mi recitava spesso “La pioggia nel pineto” che egli riteneva molto bella, ma mi ricordo pure che, quando chiedevo ai miei genitori od ai miei nonni chi fosse Gabriele D’Annunzio, il suo autore, le bocche restavano cucite, dato che non lo ritenevano, temo, un’espressione di pubbliche virtù e di specchiata moralità. 

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Infine Zannini ricorda come, a Fiume, il periodo di dittatura del D’Annunzio fu caratterizzato non solo dal culto del capo indiscusso, cioè del D’ Annunzio stesso, ma anche dal libero amore in ogni forma, dall’arditismo e dal sindacalismo rivoluzionario, dal suffragio universale, dal divorzio e dalla cocaina, per i suoi seguaci italianissimi.  Ma si dimentica di dire che D’Annunzio, quale “Comandante della città di Fiume”, aveva applicato ivi il codice militare contro chiunque professasse sentimenti ostili all’Italia, il che significava che chiunque, in particolare slavo, poteva esser incarcerato od ucciso per un nonnulla, e che, dando l’assalto a Fiume, D’ Annunzio aveva compiuto una «spettacolare azione di brigantaggio internazionale», come precisa giustamente Denis Mack Smith a p. 390 del suo “Storia d’Italia”.

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Il 17 giugno 2019, Gigi Bettoli pubblicava su www.storiastoriepn.it, un articolo intitolato “Dimenticare D’Annunzio?”, in cui così si esprimeva nel merito dell’ipotesi di costruire una statua a D’Annunzio a Trieste: «Non condivido l’iniziativa di Resistenza Storica, […] Una cosa sono le iniziative della destra nazionalista triestina, che ci ha abituato ad ogni enormità riguardo al delicato, discutibile e mobile confine orientale d’Italia. Altra cosa è l’impresa fiumana del 1919; altra cosa ancora è fare un monumento a D’Annunzio, che ha vari motivi per suscitare antipatie (ad iniziare dall’estetica). Ma non credo, al di là della scarsa simpatia intellettuale, sia intelligente ed utile lasciare D’Annunzio e Fiume ai fascisti ed ai nazionalisti, visto che – soprattutto a Fiume – c’è stato anche molto altro», come per esempio la libertà dei costumi, e invitava alla lettura del volume di Claudia Salaris “Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume” (Gigi Bettoli, op. cit.).

A quale iniziativa di Resistenza storica si riferiva Gigi Bettoli? Non è molto chiaro dall’articolo ma il 19 giugno 2019 radio Capodistria riportava un pezzo di Stefano Lusa e Barbara Costamagna intitolato: “La statua a D’Annunzio? Una chiara operazione politica altro che omaggio al poeta” che riferiva di un incontro promosso da Claudia Cernigoi e da Resistenza storica, tenutosi a Trieste per «analizzare l’iniziativa del Comune e cercare di capire come organizzare una protesta organica. Per la Cernigoi, infatti, quella della statua a D’Annunzio è una chiara operazione politica che vuole ricordare una figura che, esulando dalla sua opera letteraria, per i suoi tratti biografici e caratteriali può “piacere solo ai fascisti” e che con la sua impresa fiumana rappresenta posizioni razziste ed imperialiste, che furono espresse con “un atto di pirateria”. (https://www.rtvslo.si/capodistria/radio-capodistria/notizie/friuli-venezia-giulia/la-statua-a-d-annunzio-una-chiara-operazione-politica-altro-che-omaggio-al-poeta/492506). In quel contesto, Piero Purich sosteneva che D’Annunzio era stato «un uomo molto bravo a gestire la sua immagine sui media dell’epoca», ma era stato anche un “trapoler” che aveva collaborato a mandare a morire migliaia di italiani con i suoi appelli alla guerra; mentre alcuni del pubblico avevano ricordato che anche i suoi scritti nulla avevano a che fare con Trieste. (Ivi).

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Ma anch’ io non solo ho aderito alla petizione lanciata su change.org contro la costruzione della statua, solo la cui posa pare potrebbe costare 20.000,00 euro, ma avevo motivato il mio no in due commenti all’ articolo di Gigi Bettoli citato, che qui ripropongo.

Il 18 giugno 2019, così scrivevo: «Caro Gigi, non mi pare che la discussa figura di Gabriele D’ Annunzio debba venir ricordata con un monumento né a Trieste nè in altro luogo. (…). E spero si sappia che D’ Annunzio non è assolutamente figura da proporre ai giovani come esempio.
Gabriele Di Annunzio condusse una vita lussuosa e dissoluta, prediligendo, tra l’altro, più i salotti alla moda che le aule universitarie, e sperperando quanto lasciatogli in eredità dal padre adottivo. Amò molte donne di alto rango, fu condannato per adulterio, diffuse il mito del maschio amante perfetto, e sposò una giovane nobile, con matrimonio riparatore, pare anche per il suo patrimonio, ma fu sempre osteggiato dal suocero. Fuggì a Parigi non potendo pagare i debiti, pure di gioco, accumulati in Italia. Fu salvato dai debiti contratti anche in Francia da Luigi Albertini direttore del Corriere della Sera che lo inviò come corrispondente del quotidiano milanese sul fronte francese nel 1914. In questa veste incominciò a sostenere l’entrata in guerra dell’Italia, a fianco della Francia, voluta da Salandra e Sonnino. (Si dice che per questo motivo venne tolto il sequestro dai suoi beni e risultarono pagati i debiti). Rientrò quindi in Patria, ove capeggiò schiere di interventisti che picchiavano ed impedivano, pure, gli incontri e le manifestazioni dei neutralisti. Tale fu il suo incitamento alla guerra che il 141º e il 142º reggimento della brigata Catanzaro, ricevuto l’ordine di tornare sul Carso, nel luglio 1917, si ammutinarono al grido “abbasso la guerra, morte a D’Annunzio, viva la pace”. Partecipò con azioni anche propagandistiche ed auto celebrative alla prima guerra mondiale e quindi occupò arbitrariamente, con un gruppo di 2600 “legionari” al suo servizio Fiume, in collegamento con Mussolini, facendo le prove generali dello stato fascista. Fu cacciato da Fiume dallo stesso esercito italiano il 24 dicembre 1920. Poi la sua figura pubblica scemò, ebbe da Mussolini un titolo nobiliare, e fece ben poco parlare di sé fino alla morte. Resta nota la sua produzione letteraria. Dal punto di vista sessuale pareva più un depravato che una persona normale. Basta leggere Gabriele D’ Annunzio e il sesso, in http://www.studioiannetti.it/it/scheda-articoli.php?id=104.
A Fiume promosse una società libertina, mentre in Italia si moriva di fame, e la descrizione di cosa fecero i suoi non è certo esaltante. Si legga almeno, sull’impresa fiumana, quanto scrive Denis Mack Smith, nel suo: Breve storia d’ Italia, Laterza ed., prima ed. italiana 2000, sesta ed. 2011, e quanto scrivono Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira nel primo capitolo del loro: “Storia d’ Italia nel periodo fascista”, Einaudi ed., prima ed. 1956, seconda edizione 1964. Ricordiamo le poesie ed i testi di D’ Annunzio, ma dimentichiamo D’ Annunzio, per carità, anche se pare sia stato amico di De Pinedo. Sua è l’assurda espressione: “vittoria mutilata”. Quindi approvo l’iniziativa di Resistenza Storica. Laura Matelda Puppini» (http://www.storiastoriepn.it/dimenticare-dannunzio/).

A questo facevo seguire, dopo la risposta di Gigi, un altro commento, datato sempre 18 giugno 2019 in cui scrivevo: «Vuoi dire che D’Annunzio merita una statua perché nel 1900 passò “dai banchi della destra a quelli dell’estrema sinistra repubblicana-radicale-socialista, stregato dall’ostruzionismo contro le leggi liberticide del governo del re Umberto I e del generale Pelloux”? Beh, non credo che per un avanti indré di questo tipo, per poi sposare l’interventismo da propagare con la violenza, uno si meriti una statua perché altrimenti dovremmo farne una a Mussolini, socialista prima, duce poi. Se poi anche Vittorio Vidali passò da ardito filo Dannunziano a fervente comunista, prova a chiedere a Trieste se gli farebbero per questo una statua! Per quanto riguarda la libertà dei costumi, lo sponsorizzare lo sport anche per le donne italiche, e certa libertà sessuale per l’uomo, furono aspetti che caratterizzarono anche il primo fascismo, come il futurismo in pittura, fotografia, ed arte. Ma questi aspetti valevano solo per pochi ricchi, liberi dalla chiesa, e l’immagine dell’italiano seduttore sempre pronto ad infilarlo, donna consenziente o meno, per dimostrare la propria prestanza, fu uno degli aspetti che maggiormente caratterizzò certo pensiero non credo proprio di sinistra. Se poi il far quel che si vuole in casa propria merita un monumento, credo che Berlusconi meriterebbe un mausoleo». (Ivi).

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Ma mi paiono pure significative, per un ‘No’ deciso al monumento dedicato a D’ Annunzio, le parole da lui pronunciate, incitanti alla violenza di piazza, nel suo famoso discorso del 13 maggio 1915 a Roma: «Se considerato è come crimine l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo. Se invece di allarmi io potessi armi gettare ai risoluti, non esiterei: né mi parrebbe di averne rimordimento. (…). Questo vuol fare di noi il mestatore di Dronero, intruglio osceno […]. Questo vuol fare di noi quell’altro ansimante leccatore di sudici piedi prussiani, che abita qui presso; contro il quale la lapidazione e l’arsione, subito deliberate e attuate, sarebbero assai lieve castigo. Questo vuol fare di noi la loro seguace canaglia. Questo non faranno. Voi me ne siete mallevadori, o Romani I più maneschi di voi saranno della città e della salute pubblica benemeritissimi. Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta, per pigliarli, per catturarli». (Gabriele D’Annunzio, Per la grande Italia, Milano,1920, citato in: http://www.cifo.eu/wp-content/uploads/2016/05/ArringaDAnnunzio.pdf).
Ditemi se l’autore di queste parole merita un monumento da uomo assorto con un libro in mano!

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Inoltre leggiamo almeno cosa dice il sito del Senato della Repubblica italiana su Gabriele D’ Annunzio: «La biografia di Gabriele D’Annunzio, nato a Pescara nel 1863, è probabilmente una delle più conosciute tra quelle degli scrittori italiani: una gran parte dei numerosi aneddoti, racconti, episodi ha origine dallo stesso autore, come pezzi di una vera e propria “costruzione” del personaggio, mai celata, in verità. Il suo ingresso nei salotti letterari di Roma ne è esempio lampante», non solo ma nell’ imminenza dell’uscita di una sua opera, simulò la sua morte per attirare l’attenzione si di sé, facendo «un uso spregiudicato dei media a disposizione per “amplificare” la sua vita, le sue opere letterarie e le sue “imprese”, creando il mito del poeta-Vate». (https://www.senato.it/3182?newsletter_item=1673&newsletter_numero=156).

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Il 27 giugno 2019 Francesco Cecchini pubblicava sul sito http://www.ancorafischiailvento.org un articolo intitolato: “Trieste e Gabriele D’Annunzio”, dedicato al problema della statua.
Con vero stupore venivo così a sapere da Francesco che, nel mese di maggio 2019, sul lungo lago di Gardone Riviera era stata inaugurata una statua in bronzo di Gabriele D’Annunzio, in versione solitario studioso, in posa mentre sta leggendo, dello scultore bergamasco Alessandro Verdi, mentre un’altra praticamente identica, se ho ben compreso, già si trova al Vittoriale.

A questo punto uno umanamente si chiede in primo luogo come mai il Comune di Trieste intenda spendere migliaia di euro per porre una copia della statua al Vate che legge, esistendo già due copie della stessa, di identico autore, poste in altro luogo dell’italico suolo.

Inoltre venivo a conoscenza del fatto che alla petizione su change.org, avviata da Alessandro De Vecchi, si era contrapposta una a favore della statua a D’ Annunzio promossa da Isabella Rauti (Fratelli d’Italia), figlia del noto e fascista Pino Rauti, prima segretario del Msi-Dn, poi uomo che, contro la svolta ‘moderata’ di Gianfranco Fini, aveva dato vita al Ms-Fiamma tricolore e, nel 2004, al Movimento idea sociale (Mis). (Ivi e http://www.rivistapaginauno.it/pino-rauti.php).

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Ma vi è un altro problema per la statua in questione in triplice copia: il fatto che essa ricorda, pur con qualche variante, “Il pensatore” di Rodin, e credo che nessuno possa affermare che D’Annunzio fu un pensatore, a meno che non si voglia falsificare la realtà del 100%. Fu un agit- prop antigovernativo, un fomentatore di disordini popolari, un “cicero pro domo sua “, un egocentrista al 100%, un cultore del proprio “Io”, un giocatore d’azzardo. Altro che libri, altro che pensatore, a meno che non si voglia ricordare il suo pensiero ossessivo volto all’apparato riproduttivo femminile ed al corpo nudo della donna. Ma forse anche questo faceva parte del gioco a creare una sua immagine. Violenza, sesso, una personalità volta a celebrare sé stesso ed a risolvere i propri guai: ad un soggetto caratterizzato da questi aspetti una destra che ha guardato a Verona alla famiglia vorrebbe dedicare una statua? Ma per cortesia. E cosa dovremmo raccontare ai nostri figli, bambini ed adolescenti, quando ci chiedessero chi è il signore di quella statua? Dovremmo tacere come i miei nonni e genitori?

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Ma per ritornare alle diverse prese di posizione, lasciando perdere le tre o quattro individuali che potete anche trovare sull’articolo di Francesco Cecchini già citato, il 29 giugno 2019 compariva, sul sito “La bottega dei barbieri” un articolo intitolato: “No alla statua di D’Annunzio a Trieste”, da cui ho appreso che la sola collocazione del monumento a D’ Annunzio costerebbe 20 mila euro, mentre la spesa complessiva ammonterebbe a ben 382.190,00 (http://www.labottegadelbarbieri.org/no-alla-statua-di-dannunzio-a-trieste/)  il che è una enormità con tutti i problemi che i comuni hanno e tutti i modi più seri di spendere una tale cifra! (La si volga, per esempio, all’ acquisto di un’ambulanza, ed al sostegno al sistema socio assistenziale e sanitario al collasso!). Insomma ci sono mille maniere per spendere produttivamente il denaro di una comunità, invece di spenderlo per una copia di una statua ad una personalità discutibilissima.

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Il 3 luglio 2019 sempre Resistenza storica pubblicava un manifesto bilingue intitolato “Manifesto per una Trieste plurale e multiculturale contro il neoirredentismo, sottoscrivibile inviando una email di adesione a  nodannunzioatrieste@virgilio.it; (http://www.iskrae.eu/manifesto-la-statua-dannunzio-trieste/), mentre molto opportunamente Marco Puppini ricordava, nel suo articolo intitolato “Monumenti a D’Annunzio ce ne sono già”, pubblicato il primo luglio 2019 su http://www.storiastoriepn.it/ che: «A Monfalcone abbiamo da quasi sessanta anni, dal 1960, un monumento a D’Annunzio, ai confini con Ronchi “dei Legionari” ma in territorio di Monfalcone. (…). È accompagnato da una scritta che esalta l’impresa di Fiume per i suoi risvolti nazionalistici ed irredentisti, assolutamente non per gli aspetti libertari e trasgressivi. (…). A Gorizia c’è sulla salita che va verso il castello un busto di D’Annunzio con una scritta che ne esalta l’impegno per la causa italiana nella prima guerra mondiale. A Gorizia abbiamo anche un istituto scolastico superiore dedicato a D’Annunzio (l’ITAS D’Annunzio – Fabiani). A Trieste esiste già un largo vialone alberato parimenti dedicato al “vate”». (http://www.storiastoriepn.it/monumenti-a-dannunzio-ce-ne-sono-gia/).

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A questo punto lascio ai lettori di questo mio testo se sia savio o davvero cosa poco assennata spendere tantissimi soldi pubblici per questa statua fra l’altro ben poco rappresentativa del personaggio D’ Annunzio, qui vissuto come un filosofo, cosa che mai fu, e che ne altera la reale personalità.

Senza offesa per alcuno, ma per riportare due considerazioni su di una possibile spesa pubblica per onorare un personaggio invero discutibile anche se scrittore, e se vi è qualche inesattezza su dati per cortesia correggetemi. Laura Matelda Puppini

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L’immagine che correda l’articolo rappresenta la statua dedicata a Gabriele D’Annunzio che si trova a Gardone Riviera sul lago di Garda, identica a quella che si vorrebbe posta a Trieste in piazza della borsa. (Foto da: https://www.giornaledibrescia.it/garda/un-selfie-con-d-annunzio-ora-%C3%A8-possibile-1.3366315). Laura Matelda Puppini 

 

 

 

Ieri, oggi e speriamo non domani. Storie di terre, contadini, leghe bianche e rosse, Libera, latifondi e mafie. Prima parte.

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Ho ascoltato l’interessante convegno, dedicato a Placido Rizzotto, tenutosi in questi giorni a Paluzza, e mi è sembrato più che pertinente l’accenno alla sua storia come radicata nello ieri e proiettata nell’oggi, anche se questo aspetto non è poi stato vagliato dal punto di vista storico, sufficientemente nel corso del convegno. Cercherò pertanto di farlo io, in tre diversi articoli, per non farne uno solo troppo lungo.

Correva il primo dopoguerra e fame, disoccupazione e miseria segnavano profondamente il Sud.

Le occupazioni di terre incolte da parte di contadini, ebbero origine, al Sud, nel diciannovesimo secolo cioè nel 1800, ed ebbero fra i fattori di spinta sia la disoccupazione dilagante e con essa la miseria e la fame, sia l’esigenza che venisse prodotto frumento a sufficienza perché potessero venir fatti pane e pasta per tutti. (1).

Una situazione tragica si ripresentò alla fine della prima guerra mondiale, quando il motto “La terra ai contadini”, coniato da Antonio Salandra, presidente del consiglio dal 21 marzo 1914 al 18 giugno 1916, quando fu costretto a dimettersi, e con collegio elettorale a Lucera, per coinvolgere nella guerra «con maggior vigore la classe contadina, che forniva gran parte degli effettivi al fronte» (2), divenne appannaggio dei soldati reduci da quella disastrosa guerra, che ne chiedevano la realizzazione. Loro avevano combattuto con quel sogno nel cuore, ora spettava allo stato fare la sua parte.

 

Laura Matelda Puppini.  Lapide con l’elenco dei soldati locali caduti nella prima guerra mondiale a Vieste.

Così la frase di Salandra “La terra ai contadini”, si trasformò in una parola d’ordine «in un contesto di profondo disagio sociale ed economico, […], e fu recepita dai contadini non solo come la possibilità di poter realizzare un’antica aspirazione, ma anche di trovare una concreta e subitanea risoluzione ai gravi problemi della vita quotidiana, raccogliendo legna per affrontare i rigori dell’inverno, frutti e verdure per supportare un regime alimentare insufficiente». (3). 

Intanto le Camere del Lavoro andavano riorganizzandosi, mentre vecchi e nuovi sindacalisti socialisti riprendevano la loro azione contro il latifondo e per migliori condizioni di vita in terre che erano prive dei più elementari servizi. Rinascevano le Leghe rosse, si affacciavano alla storia le Leghe bianche, espressione del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, e si venivano formando cooperative che reclamavano pane e lavoro. In più parti della penisola, manifestazioni di piazza si susseguivano a manifestazioni di piazza, ove donne con i loro bimbi e uomini marciavano uniti contro il caro vita e l’aumento dei prezzi, per non morire.

Ma come in ogni storia di manifestazioni, i protagonisti non erano solo i manifestanti ma anche i carabinieri e le forze dell’ordine, che spesso sparavano, ed i proprietari terrieri, che talvolta sparavano anche loro, che non intendevano dare ai contadini un millimetro della “loro” terra, anche se in precedenza la stessa era stata demaniale ed era stata arbitrariamente introitata. (4).

Infatti nelle zone pugliesi dell’alto Tavoliere e del Gargano, vi erano questioni demaniali risalenti al diciannovesimo secolo, che vedevano su fronti opposti le masse contadine e le grandi famiglie latifondiste le quali «avevano costruito buona parte delle loro immense proprietà anche usurpando demani pubblici e comunali». (5).

E mentre in questi ultimi anni, in ricordo della prima guerra mondiale e periodo seguente, ci hanno riempito di pubblicazioni su percorsi ed eroismi, su Trieste italiana dimenticando molto opportunamente Trento e l’Alto Adige, tenacemente contrarie ad esser italianizzate, e quindi oggetto di “particolari attenzioni” da parte del primo fascismo, ed ora ci propongono persino D’ Annunzio, ci siamo dimenticati del grande contributo di sangue dato dal Sud Italia in soldati nella prima guerra mondiale, e della miseria che dilagò poi.

Ma se prima del 2 settembre 1919, le invasioni ed occupazioni di terre potevano ritenersi abusive, e si configuravano come vere e proprie «invasioni spontanee» (6), dopo tale data non fu proprio del tutto così, perché quel giorno fu approvato dal Parlamento il decreto Visocchi. Con lo stesso si «riconosceva ai contadini, purché organizzati in cooperative, di gestire per quattro anni, oppure a tempo non limitato, i fondi di terre incolte su cui si erano insediati». (7).

E dopo quel decreto, i contadini, che ben poco si fidavano dello Stato, uniti in cooperative, benché mancassero loro i mezzi finanziari, gli animali, i macchinari gli attrezzi, e fossero stati avvertiti delle insidie del decreto, decisero di occupare le terre incolte, che così avrebbero poi potuto legalmente lavorare. (8).

A queste occupazioni seguirono le domande delle cooperative agricole di gestire i fondi occupati in base al decreto Visocchi, ma ben poche furono le domande accettate dalla Commissione preposta, almeno nella Capitanata, e coinvolsero solo poche migliaia di ettari. «Le illusioni e le speranze delle masse dei contadini nullatenenti che si impegnarono nel movimento di occupazione andarono quindi deluse» e l’applicazione del decreto Visocchi non modificò, di fatto, l’assetto proprietario e nel foggiano incise sulla realtà sociale in modo minore che nelle altre province italiane. (9).

Contadini occupano terre incolte negli anni ’50. (http://anpi.it/media/uploads/patria/2010/5/LE_FOTOSTORIE_33.pdf).

E tutto ciò avveniva mentre l’agricoltura era in ginocchio a causa di tre anni di guerra per Trento e Trieste. Infatti quasi centomila ettari di terra solo nella Capitanata, erano stati abbandonati a causa della chiamata alle armi dei contadini, e il ritornarli a rendere produttivi comportava spese non di poco conto. Ed a questo problema si aggiunse, in Italia, quello della forte spinta inflattiva, che spesso rendeva vane le lotte dei braccianti, perché gli aumenti salariali, se ottenuti, venivano risucchiati dal caroviveri. (10). Ciò implicò che venissero invasi da poveracci anche tenute padronali per poter tagliare rami con cui scaldarsi o uliveti per raccogliere le olive a terra, secondo una antica consuetudine, ma anche che venisse praticata la pesca nel lago di Lesina, fortemente avversata dalla famiglia Zaccagnino, proprietaria della tenuta che circondava gran parte del lago. (11).

Ed in provincia di Foggia l’intensità delle lotte contadine fu tale che si giunse a punti alti di violenza ed anche ad interventi durissimi e non sempre giustificati delle forze dell’ordine. (12). Ma, talvolta, spararono anche i contadini. E credo che ciò sia accaduto un po’ dovunque, perché la situazione sociale era tragica.

Non si può negare, però, che le conquiste fatte dalle leghe per le povere masse bracciantili siano state consistenti. Ed in alcuni casi il padronato pagò anche lavori fatti senza richiesta sui terreni incolti. Inoltre si domandava allora, nel foggiano, a gran voce l’utilizzo di manodopera locale rispetto a quella forestiera pronta ad immigrare dalle province vicine, in particolare da quella di Bari. (13).  

Ma le manifestazioni, gli scioperi, ed il progressivo rafforzamento delle organizzazioni proletarie e delle leghe contadine sia bianche che rosse, ed i tentativi di innalzare nei municipi la bandiera rossa, assieme all’occupazione di fabbriche e terre, suscitarono timori ed ansie nel padronato, aprendo la porta ai picchiatori ed assassini delle squadracce fasciste ed al fascismo. (14).
Ed il solo e mero timore di invasioni di terre spinse i proprietari terrieri a fare pressione sulle autorità ipotizzando […] la minaccia di imminenti occupazioni ed invocando provvedimenti per il mantenimento dell’ordine pubblico» (15).
Infine nel 1920 nascevano anche nel foggiano, ma credo anche nel resto del Sud, i Fasci di Combattimento, che trovarono l’appoggio immediato degli agrari e di molti borghesi, spaventati dall’avanzata socialista. (16).

Ed anche al Sud, come in Padania ed in Romagna, i Fasci di Combattimento utilizzarono massicciamente la violenza contro le leghe sia bianche che rosse, come del resto fecero, sotto la guida di Italo Balbo, in Romagna. Ed iniziarono, pure, a dar fuoco alle sedi delle Camere del Lavoro ed a far cadere, in un modo o nell’ altro, le giunte socialiste. (17). E i fascisti utilizzarono come loro bandiera quella italiana, ritenendola loro appannaggio, dicendo che era contro quella rossa e socialista. Questo sarebbe secondario se non portasse a fare alcune riflessioni anche sul secondo dopoguerra. (18). Non da ultimo, vi furono casi di picchiatori denunciati ed assolti dai giudici, come accadde dopo una rissa fra socialisti e fascisti a Lucera, dove i socialisti furono tutti condannati, mentre gli esponenti del Fascio furono tutti assolti. (19).

Ed in Capitanata, secondo Barbaro, l’azione dei Fasci di Combattimento ebbe successo anche grazie all’atteggiamento delle forze dell’ordine, «che di fatto non contrastarono con un’adeguata azione investigativa, l’offensiva condotta dai Fasci in Capitanata, giungendo invece ad affiancarla, come nel caso di Cerignola. Con l’arresto in massa dei dirigenti socialisti». (20).

Così, fra pesataggi, roghi di sedi delle Camere del lavoro, intimidazioni e la distruzione delle giunte socialiste, oltre che occupazioni di città come accadde a Ferrara da parte delle squadracce dei Faisci di Combattimento, si giunse, accondiscedente il Re, al regime fascista, alle guerre di conquista, alla seconda guerra mondiale e quindi al movimento partigiano che aiutò a risollevare le sorti d’ Italia ed a farla volgere verso la democrazia. Ma non bisogna dimenticare che nelle zone non occupate dai tedeschi non possiamo parlare di movimento di Liberazione partigiano come al Nord, perchè il regime fascista cadde proprio con l’entrata degli Alleati al Sud. (21).

E qui termina la prima puntata di questa storia di fame, miseria, tentativi di riscatto e di feroce repressione. E mi appresto a scrivere il secondo capitolo, che riguarda anche Placido Rizzotto.

Laura Matelda Puppini

  1. Francesco Barbaro, La Capitanata nel Primo Dopoguerra. Biennio rosso e nascita dei Fasci di Combattimento, Claudio Grenzi ed., 2008, p. 50 e p. 184. Il volume, ben documentato, si riferisce al territorio denominato ‘Capitanata’ cioè quello pugliese che comprende la provincia di Foggia. Tale denominazione deriva dall’antico termine “catapano” che indicava un funzionario amministrativo sotto Bisanzio).
  2. Francesco Barbaro, op. cit., p. 49.
  3. Ibid.
  4. Ivi, p. 37. Nel periodo fra la fine della prima guerra mondiale e la presa di potere del fascismo, più volte le forze dell’ordine, nel foggiano, perché quest’area è oggetto di analisi nel volume di Barbaro, spararono sui contadini. Uno dei casi più noti e ricordati fu la “strage di Lucera”. In detta città, soldati e carabinieri, affiancati da reparti di arditi, spararono all’ impazzata sulla folla colpendo almeno ottanta persone. A detta azione seguì l’occupazione militare della città. (Ivi, p. 44). E spararono sui contadini anche proprietari terrieri, come accadde, per esempio, nel 1920 a Gioia del Colle. (Ivi, p. 90).
  5. Ivi, pp. 52-53.
  6. Ivi, p. 50.
  7. Ibid.
  8. Ivi, p. 54.
  9. Ivi, p. 55.
  10. Ivi, pp. 76-77.
  11. Ivi, p. 86 e p. 88.
  12. Ivi, p. 99. Per scontri e uccisioni, anche di una madre con il proprio bambino, cfr. Ivi, pp. 50- 113.
  13. Ivi, p. 94.
  14. Ivi, p. 99 e p. 111.
  15. Ivi, p. 185.
  16. Ivi, p. 195.
  17. Ivi, p. 196-197. Nel 1922 anche la sede della Camera del Lavoro della Carnia fu data alle fiamme, ed andarono distrutti moltissimi documenti che ci avrebbero permesso di ricostruire in modo preciso una parte della nostra storia.
  18. Ivi, p. 196.
  19. Ivi 221.
  20. Ivi, pp. 222-223.
  21. Cfr. www.nonsolocarnia.info: Laura Matelda Puppini, Storia. Quel terribile ’42-’43, periodo di svolta in Italia.

 

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta l’incendio della Camera del Lavoro di Torino, avvenuta il 18 dicembre 1922, ed è tratta, solo per questo uso, da: https://slideplayer.it/slide/2450717/. Laura Matelda Puppini. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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