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Invito all’incontro che si terrà il 27 luglio a Treppo Carnico, su Guerrino Totis, antifascista, combattente in Spagna, confinato politico, regista e giornalista.

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Marco Puppini mi ha mandato questa invito per un incontro che si terrà il 27 luglio 2019 a Treppo Carnico, presso la  Pinacoteca E. De Cilla, con inizio alle ore 15.30 che ripercorre la vita di Guerrino Totis, antifascista, combattente in Spagna, confinato politico, regista e giornalista. Vi invito tutti a partecipare. Io purtroppo sarò assente perchè non mi troverò in Carnia. Qui di seguito pubblico la locandina dell’evento pregandovi di zoomarla all’80 % per vedere l’intera pagina. Laura Matelda Puppini

totis iniziativa locandina

 


Giovani e nichilismo, da “L’ospite inquietante” di Umberto Galimberti con qualche aggiunta.

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Questa volta vorrei parlarvi di “giovani e sballo”, di “giovani e nichilismo”, proponendovi alcune interessanti considerazioni da Umberto Galimberti. L’ospite inquietante. Il nichilismo ed i giovani, Feltrinelli 2008. Lo faccio anche per far capire ai comuni che promuovere lo sballo non è azione educativa anche se può essere economicamente gratificante.

L’autore, nell’ introduzione, dice di aver voluto scrivere un libro sui giovani «perché i giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro pensieri, cancella prospettive ed orizzonti […]. Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più che fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulla via del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita […]».  (Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo ed i giovani, Feltrinelli 2008, p. 11).

Leggendo queste righe, sono ritornata mentalmente al film “La storia infinita”, tratto dal romanzo omonimo di Michael Ende, dove il nemico dell’eroe Atreiu, che si è posto un’alta finalità nella sua vita, quella di salvare dalla malattia l’infanta imperatrice del regno di Fantasia, è il Nulla, che tutto rende grigio e cancella nel suo vortice ed avanzare. Ed il destino degli abitanti di Fantàsia, quando vengono risucchiati dal Nulla, è quello di finire nel mondo degli umani trasformati in menzogne. (https://it.wikipedia.org/wiki/Atreiu).

Nel volume traspare la positività di Atreiu, orfano ed allevato da tutti, appartenente alla tribù dei Pelleverde di cui porta l’abbigliamento ed i simboli, che deve superare una grande prova per diventare uomo, che non è quella tradizionale di cacciare il grande bufalo, ma quella di salvare il regno di Fantàsia dalla distruzione e dall’esser travolto dal Nulla.

Il Nulla è il nemico più acerrimo di Atreiu, più della tristezza che infonde la palude, più dell’indifferenza della tartaruga Morla, ed Atreiu può superare le prove che incontra solo grazie all’ aiuto di altri e cercando di conoscere chi gli si oppone, per vincerlo.

Ma ora, ritornando ad Umberto Galimberti ed al suo volume, pare che in molti giovani invece dei valori positivi, quali il riconoscersi parte di una comunità, il cercare di vincere la noia, il tedio, il darsi alti valori nella vita ed il cercare di raggiungerli grazie alla collaborazione con altri, il nulla abbia preso il sopravvento nella vita delle nuove generazioni,  permettendo di abbinare a loro il termine nichilismo, (da nihil nulla in latino) termine filosofico coniato nel 1700  e ripreso, in ambito sociale, per significare «atteggiamenti o comportamenti ritenuti rinunciatari oppure volti alla distruzione di qualsivoglia istituzione o sistema di valori esistente». (http://www.treccani.it/vocabolario/nichilismo/).

E pare che spesso, nel mondo attuale del capitalismo e del consumismo, il nulla spazzi via ogni Atreiu insito nell’animo giovanile, ogni idealità anche se difficile da raggiungere. Così i giovani diventano sempre più incapaci di dare un senso alla loro vita, di superare le prove per diventare adulti nel contesto reale, annegando nel nulla circondati e persi nella droga, nell’alcool, nella musica da discoteca, fortemente ritmata ed alienante, in sintesi nello sballo che rimanda ogni problema da affrontare e pone un illusorio e momentaneo piacere personale alla base dell’agire. E dietro al nulla ci sono spesso abili Mangiafuoco che tirano le fila, ed incassano i proventi.

Si potrebbe quasi parlare dell’incapacità di molti giovani di diventare adulti, di acquisire la capacità di affrontare la vita ed i suoi problemi anche con l’aiuto degli altri, rifugiandosi in un eterno ‘rimandare’, in un eterno egocentrismo, in un eterno provare sensazioni che distaccano dalla realtà, fino a bruciarsi il cervello e la vita.

GIOVANI I CUI PROGETTI HANNO LA DURATA DI UN GIORNO, E CHE VIVONO DI EMOZIONI IMMEDIATE.

Grazie poi ad una scuola appiattita, da sei garantito spesso dalla sola frequenza ed impegno minimo e da docenti che talvolta ti chiedi da quale università siano stati formati, pare che in Italia «sia in corso – come scrive Marco Lodoli – un genocidio di cui pochi si stanno rendendo conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti, il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il futuro. (…). I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o la trama di un film sono diventati compiti sovraumani […]». (Marco Lodoli, Il silenzio dei miei studenti che non sanno più ragionare, La Repubblica 4 ottobre 2002, citazione in: Umberto Galimberti, op. cit., p. 98).

I giovani, soli od uniti in branco, sono capaci di violentare e violare fino ad uccidere senza movente “perché ci va”, rompendo il nesso fra causalità ed azione. Si uccide per gioco, per provare un’emozione, per realizzare quanto visto in un videogame, e, secondo me anche per provare a sé stessi che si è capaci di farlo, per dimostrare il proprio potere sull’altro. Ed alcuni di loro giungono sino ad uccidere perché vivono «senza regole né civili né primordiali», come i ragazzi del cavalcavia che, annoiati, lanciano sassi sulle automobili sottostanti in transito. Loro lo chiamano bravata, noi omicidio intenzionale. (Ivi, p. 108).

C’è chi parla di questa generazione di ragazzi come del “pianeta degli svuotati” o come della “generazione degli sprecati” in ogni caso indecifrabili ed «i loro progetti hanno il respiro di un giorno, l’interesse la durata di una emozione, […] l’azione esaurisce il gesto. La passione imprecisa non sa se aver legami con il cuore o con il sesso e non riesce a decidere con chi dei due entrare in intensa relazione. L’aggressività non sa se scatenarsi su di sé o sugli altri, e l’ira di un giorno è subito cancellata da una notte nella cui vigilia si celebra l’eccesso della vita oltre ogni misura concessa […] fino al limite dove è il codice della vita a confondersi con quello della morte. […]».  (Ivi, p. 127).

I giovani fanno violenza verso gli altri, aggrediscono, uccidono e si uccidono.  «Le giovani generazioni sono in balia di una società ormai priva di punti di riferimento come la famiglia, l’educazione, il lavoro. I giovani sono molto spesso lasciati soli; persi in quel mondo virtuale che si costruiscono: mondo ingannevole e privo di senso. Il malessere spesso sfocia in rabbia e violenza e le periferie esistenziali sono lo scenario opaco di tanta solitudine». Questo un passaggio dell’omelia del cardinale Gualtiero Bassetti, in occasione del pontificale in onore di Sant’ Agata […]  nella cattedrale di Catania». («Quei giovani lasciati soli nelle periferie esistenziali», in:  http://ilsismografo.blogspot.it/2018/02/italia-quei-giovani-lasciati-soli-nelle.html, ripreso da Avvenire).

Però, a questa “tribù del malessere” vuotata di ogni ideale, viene attribuita dalla società odierna consumistica e capitalistica una “valenza di mercato” e su di essa si gettano le nuove aree di profitto, che hanno fatto proprie le istanze stilistiche, comportamentali ed espressive tipiche della condizione psichica di questa generazione […]». (Umberto Galimberti, op. cit., p. 128).

Quando lavoravo all’isis “F. Solari” di Tolmezzo, mi ricordo che i ragazzi narravano che non eri nessuno per un certo gruppo se non avevi la maglietta firmata, l’orologio di grido al polso, il taglio di capelli alla moda. E non a caso Galimberti cita un pezzo di Stefano Pistolini che parla di mito del modello americano, dove l’America, per i giovani diventa «uno stato mentale, in certi casi un desiderio di appartenenza o un’evidente condizione di felicità aprioristica». (Ivi, p. 128).

Parlavo un giorno con una sedicenne di un signore che era andato per lavoro in America, ed ella mi disse che era stato fortunato, ritenendo che solo in America ci potesse essere la felicità.

Così la non cultura americana e l’omologazione planetaria su modelli dettati dal consumo stanno prendendo il sopravvento nelle nuove generazioni anche in Italia, che fu terra di profonda cultura, cancellando comunità ed identità. Ed i giovani, riempiti di musica e di falsi miti «imboccano quella strada a senso unico che compensa la carenza di identità con la sicurezza concessa dall’appartenenza alla tribù, fuori dalla quale resta solo la solitudine dell’anonimato sociale». (Ivi, p. 129). Ed adolescenze vuote di desideri e progetti per il futuro annunciano esistenze mancate (Ivi, p. 33), ed anche quando vi siano desideri, essi spesso sono in conflitto con la realtà che viene rimossa per rifugiarsi nel sogno. (Ibid).

GIOVANI TRA SESSUALITA’ PRECOCE E MANCATA EDUCAZIONE AI SENTIMENTI.

Anche il rapporto con il prossimo, fino all’ amore, si regge spesso, nelle nuove generazioni, solo su simpatie ed antipatie, senza ulteriori approfondimenti personali, e le valutazioni degli altri avvengono, sempre più, solo sulla base di impressioni soggettive, senza che vi sia più “educazione al cuore”, ai sentimenti. (Ivi, p. 36 e p. 38).

In questa società, l’”io”, ripetuto ossessivamente, ha sostituito il “noi”, che viene usato solo per il branco, (Ivi, pp. 40-41), anche quando vengono compiute azioni di bullismo che non sono mai solitarie ma che necessitano del sostegno del gruppo, di chi guarda ed approva.

Il bullismo si attua anche a scuola e «lo sfondo è quello della violenza sui più deboli, è quello della sessualità precoce ed esibita sui telefonini e su internet», dove i bulletti fanno circolare le immagini delle loro imprese, di «queste loro azioni piene di una emotività carica e sovreccitata». (Ivi, p 41).  E non vi è più capacità di riflessione in un contesto caratterizzato da: «raffreddamento riflessivo, stordimento emotivo, indifferenza». (Ivi, p. 42).

Umberto Galimberti, nel suo volume, parla di incapacità della famiglia e della scuola a promuovere una corretta educazione emotiva, anche a livello di semplice alfabetizzazione (Ivi, p. 47), mettendo a rischio, a suo avviso, la stessa sopravvivenza della specie, che ha come fondamento l’istinto di solidarietà e non la sopravvivenza del singolo. (Ivi, p. 50).

E la sessualità, quando c’è, è tecnica corporea, e la sua esplicitazione è collegata ad una idea di presunta emancipazione che porta pure a ballare e sballare fino all’esplosione, che comporta anche atteggiamenti di noia, insincerità e violazione della privacy altrui, di quella intimità ed interiorità di ciascuno che è sacrosanta. E secondo Galimberti, programmi come “Il grande fratello” non hanno fatto altro che legalizzare l’indiscrezione, favorendo la spudoratezza di chi guarda e mettendo alla gogna chi vi partecipa. (Ivi, pp. 60-61). 
Egli mette anche in guardia da simili atteggiamenti e programmi che li favoriscono, perché, «[…] il risultato è tutto politico, perché la publicizzazione del privato è l’arma più efficace impiegata nelle società conformiste per togliere agli individui il loro tratto più discreto, singolare, intimo». (Ivi, p. 61). 

Ma è anche vero che i giovani non vengono abituati a vivere una sessualità positiva e sentimentale, non vengono educati alla sessualità ed alle modifiche che avvengono nel loro corpo e nella loro psiche. E mi ricordo un ragazzino dell’ isis F. Solari, che, dopo che avevo parlato ai giovani, nel corso di un incontro sull’abuso di alcool, degli ormoni che frizzano alla loro età e del rischio di bruciare in una sera la possibilità di costruire un rapporto importante con una ragazza, magari a causa dell’abuso di alcool, un giorno mi vide e mi chiese perchè non continuavo a parlare loro di questo.  

ANCHE LA DROGA HA UN SUO POSTO IN QUESTA MACCHINA DEL NULLA.

In questa “macchina del nulla” giovanile, trova una sua precisa collocazione lo sballo «come piacere negativo e desiderio insaziabile» (Ivi, p. 65), come strumento di trasgressione, ricerca di felicità ed alienazione dalla realtà, la cui diffusione ed utilizzo sono diventati un problema sociale oltre che personale. (Ivi, p. 67). Ma per raggiungere questo stato di “sballo” spesso i giovani ricorrono non solo a droghe ma anche ad un mix delle stesse con farmaci, togliendo al farmaco la sua valenza meramente curativa. Non a caso una canzone si intitola “Paracetamolo”, e nulla ha a che fare, nel suo testo, con l’utilizzo di detto farmaco, più noto come tachipirina, per abbassare la febbre, mentre si sa che esso è usato per tagliare la cocaina e l’eroina. (https://www.parmateneo.it/?p=1595; https://it.blastingnews.com/opinioni/2016/04/sequestrata-eroina-tagliata-con-tachipirina-continua-l-uso-diffuso-tra-i-giovani-00864651.html).

Giovani e meno giovani cercano nuove alienazioni dal lavoro schiavistico e false felicità nella droga, invece di unirsi per lottare per migliori condizioni di vita, cercano un costoso scacciapensieri che diventa continua necessità, richiedendo continue emorragie di denaro, di forza, di vita, e creando dipendenza anche dallo spacciatore. E chi usa droghe non si interessa dei possibili effetti finali del loro uso, ne diventa sempre più inconsapevole, cercando una “anestesia dalla realtà”, una risposta all’insaziabilità delle proprie pulsioni, uno stato di euforia, la perdita della sensazione di paura e dei freni inibitori e l’annullamento della mente. (Ivi, p. 65-70). E vorremmo sapere se tante barbarità commesse al di fuori da discoteche non abbiano avuto come protagonisti soggetti ripieni di una qualche sostanza illecita.

Non si può certamente negare che droghe, cioè sostanze stupefacenti, venissero utilizzate anche un tempo ma il loro uso avveniva in un contesto preciso prevalentemente iniziatico e religioso e comunque codificato e sotto controllo sociale.   

Galimberti propone, anche per la droga, una campagna informativa nelle scuole ed in altri ambiti comunitari, ma io non credo sia sufficiente a disincentivarne l’uso ed il provarla, perché ciò è possibile solo attraverso un’educazione dei giovani al futuro, alla progettualità, a sentirsi qualcuno senza uso di stupefacenti, e la società attuale non aiuta molto in tal senso. Ma non si può non provare.
E bisogna insegnare ai giovani ad essere orgogliosi di se stessi, ed a cercare di sviluppare le proprie capacità, a non essere perdenti prima di affacciarsi alla vita. Ma per fare questo ci vuole meno degrado, mezzi di sostentamento e servizi pubblici per una vita dignitosa, meno falsi miti e più educazione genitoriale.  

Ho conosciuto giovani all’isis Fermo Solari di Tolmezzo, ed ancor prima al Villaggio del Fanciullo di Opicina, dove ho lavorato per tre anni come educatore, ed ho notato che chi è meno fragile nella vita è chi ha una aspirazione anche vaga od un progetto personale per il futuro; chi non subisce violazioni ingiuste dalla classe docente od in famiglia, formando una personalità frustrata o ripiena di odio verso gli adulti; chi viene accompagnato nella crescita e nello sviluppo dei propri “talenti” fino al raggiungimento dell’autonomia cioè di quello “spiccare il volo” che è diritto di ciascun giovane; di chi trova risposte alle proprie domande, ed anche no decisi. È più sicuro di sé, a mio avviso, chi ha introiettato delle regole piuttosto che chi non ne ha e fluttua nell’incertezza, fra stati di euforia e di depressione, senza riferimenti, senza riuscire a prendere coscienza della realtà.  Avere dei sogni fa bene a tutti, vivere nel modo dei sogni molto meno.

MUSICA COME SBALLO.

Anche la musica può diventare fonte di sballo. «La musica giovanile, scrive Galimberti, lungi dall’ essere un discorso lineare e costruttivo, […] lungi dall’ essere lo specchio dell’essere, si muove tra essere e non essere, sempre sul ciglio di un abisso, metafora della vita […]». (Ivi, p. 150).

I giovani pare abbiano bisogno di musica «di cui sembrano assettati» (Ivi, p. 152), che rappresenta quell’ossessione settimanale che li ammassa nelle discoteche. (Ibid.). E folle assiepano i concerti, dove la solitudine giovanile e tante singole solitudini si riempiono di musica sparata nelle orecchie. I giovani cercano ritmi primitivi, cadenzati, mentre la folla e la musica sparata a volumi altissimi non concedono più comunicazione diretta e capacità di pensare e favoriscono il sesso come dimensione orgiastica non fusione personale, che si esprime nel «battere e levare, battere e levare, uno/due» (Ivi, p. 152), che simula il ritmo del cuore, che simula il ritmo del respiro.  (Ibid.).

Ed è proprio il corpo che sta al centro di questa ricerca di risposte nello sballo della musica, con il suo astrarsi dal pensiero e con il suo scaricare, nel ritmo incessante ripetuto sino allo sfinimento, tensione fisica, accumulo emotivo, fino allo sfinimento, che non permette risposte alle proprie domande ma solo un rimandare. (Ivi, p. 153).

COSA FARE PER FAR CRESCERE LA GENERAZIONE DEGLI INDIFFERENTI?

Scrive Galimberti nel suo volume che questa generazione di giovani è caratterizzata dagli “abbastanza”. «Vanno abbastanza d’accordo con i genitori, che concedono loro abbastanza libertà e hanno abbastanza voglia di diventare adulti, ma non troppo in fretta». (Ivi, p. 130). E questa, secondo me, è la generazione del “tutto e subito”, senza sapere cosa siano fatica ed umiltà senza applicazione se non nello sport che la fa da padrone, e non si sa chi abbia accomunato alla cultura. Non che lo sport non abbia un suo valore, per carità, ma attualmente lo sport tende ad essere unicamente competitivo, non amatoriale e per tutti, senza competizione. Almeno un tempo tutti facevano reale educazione fisica a scuola, ora invece le ore ad essa dedicate possono diventare preludio allo sport agonistico presente fuori, emarginando alcuni, favorendo altri, e se erro correggetemi. E tutti quelli che gareggiano sperano di essere un ‘up’ senza pensare che per ogni ‘up’, uno superiore agli altri, con il corredo di frustrazioni create poi dalla relatà del non esserlo, vi sono molti ‘down’, molti che non si eleveranno mai.

Cosa fare per questa generazione che rischia di bruciarsi, mentre Mangiafuoco muove i fili, prima di vivere? La risposta sta sempre in “La storia infinita”: insegniamo loro a prendere confidenza con i libri, i significati, i linguaggi, la fantasia che contempla la bellezza non l’abbruttimento, facciamo in modo che i giovani riprendano a sognare ed a volare alto, anche imparando a disciplinare se stessi, a fermare corpo e mente dalla frenesia sociale ed a riflettere, ma diamo anche loro la possibilità di farlo. E eliminiamo in loro l’idea che tutto il mondo si regga sulla competizione.

Mostriamo loro dei buoni libri e lasciamo che scelgano loro, aiutiamoli a pensare da soli, a ragionare da soli, a scegliere da soli a ricercare da soli, e riportiamo alla luce non il pensiero conforme a quello altrui, ma quello divergente. Inoltre senza un po’ di umiltà, senza la consapevolezza di non sapere tutto, senza amore e piacere anche nello svolgere attività culturali, di studio ed artistiche, non si fa più nulla. Riqualifichiamo l’università, e non riempiamo le pagine dei giornali solo di cosa ha detto un politico ed un manager. Certi articoli di politica e certi dibattiti ora sono di una noia infinita e per fortuna che esiste ancora Marco Travaglio, con la sua ironia sottile.

I GIOVANI VIVONO IN UN MONDO VIOLENTO E ATTUANO VIOLENZA RIPROPONENDO UN MODELLO DI VITTIME E CARNEFICI.

Stasera ho visto un film interessante, “Tonya” che raccontava la storia vera di una notissima pattinatrice su ghiaccio americana, vissuta in un mondo di balordi, vittima di un mondo di balordi, che, condannata per un fatto non da lei voluto, a essere radiata dalla società delle pattinatrici, in lacrime dice al giudice che preferisce 18 mesi di prigione che non mettere mai più i pattini ai piedi perché l’unica cosa che sa fare è pattinare. E dopo una condanna così crudele per un fatto non da lei commesso, si ricicla nella box femminile, in un cosiddetto sport che forse le fa anche scaricare l’aggressività ma accende solo gli animi degli spettatori di medio bassa estrazione sociale, intorno a due donne che si picchiano a sangue.

E Tonya cerca in questo modo di essere ancora “qualcuno”, come tanti giovani, che però, (come il marito balordo di Tonya ed i suoi amici, una banda di violenti dediti all’alcool, che non esitano a dimenticarsi cosa sia bene e cosa sia male, pur di fare qualcosa da gradassi per poi andare a narrare al primo venuto che lo hanno fatto) non sanno che pasticciare al massimo facendo magari, messi alle strette, ricadere la colpa di tutto su chi non era colpevole. E guardando il film, si nota la fragilità emotiva di questi balordi che vivacchiano, che fanno violenza senza neppure valutarne le conseguenze.

Ed alla violenza nichilista finalizzata al nulla, oltre che al “rito della crudeltà” dedica sul finire del suo volume alcune righe Umberto Galimberti. (Ivi, pp. 138-139). Per quanto riguarda la violenza negli stadi, egli dice che detta violenza è senza ideale, e pertanto non ha finalità che, raggiunta, la plachi. E sostiene che sinora, in Italia, la giustizia ha inflitto pene troppo basse ai violenti, ricorrendo anche a patteggiamenti, il che comporta che gli atti violenti si reiterino, con la quasi certezza di una mezza impunità.

Al termine del suo lavoro, Umberto Galimberti sostiene che ai giovani deve esser insegnata la vita come sperimentazione, (Ivi, p. 141) ed io credo che anche alcune ore di lavoro ai giovani dai quattordici anni in poi, in forma di apprendistato leggero, potrebbero essere una cosa interessante, ma non in un contesto scuola lavoro come quello definito dalla norma voluta dal governo Renzi nel 2015, che toglie ore alla scuola e non fa fare sufficiente esperienza lavorativa, che si configura solo come un escamotage.

Inoltre Galimberti crede che si debba guardare al passato per forgiare il futuro, (Ivi, p. 148) ma a mio avviso siamo molto lontani da questo ideale, perché conosciamo poco e male il passato, spesso giuntoci in una versione falsata anche da una chiesa cattolica più interessata al secolare che al sacro, e non sappiamo ancora quale sarà il nostro futuro. Non da ultimo, Galimberti ritiene, seguendo gli insegnamenti di Maurizio Mancuso, che i giovani debbano riappropriarsi della propria giovinezza, con il suo essere età di mezzo, di sperimentazione, di crescita di espansività, di accettazione di sé stessi.

E scrivendo queste righe mi vengono alla mente ragazzi che ho conosciuto, che ora avranno magari ora 50 anni, alcuni dei quali si sono realizzati, altri che si sono “persi nel bosco della vita”. E con queste parole termino questo articolo relativo ad un interessantissimo libro che scopre aspetti che dovrebbero far riflettere anche i politici, e rammento pure che don Pino Puglisi, proprio per aver cercato di educare i giovani a qualcosa di diverso dal modello proposto dalla società mafiosa, fu ucciso dalla mafia.

Inoltre, sempre secondo Umberto Galimberti, per impostare una reale azione educativa «Ascoltare i giovani è molto più utile che leggere o ascoltare le considerazioni di psicologi, insegnanti, educatori che se ne occupano». (https://rinascimentoculturale.it/rassegna/umberto-galimberti-i-giovani-generazione-del-nichilismo-attivo/). Ma quanto li ascoltiamo davvero e quali modelli proponiamo loro? 

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: http://www.officina-benessere.it/il-nichilismo-dei-giovani/. Ricordo che ho già pubblicato, nel merito dei giovani, su www.nonsolocarnia.info, i seguenti articoli: 

Alcol e giovani. Perché, oggi, i ragazzi alzano troppo il gomito?

Dal Messaggero Veneto del 20 marzo 2005: “Pianeta giovani”. Da allora è cambiato qualcosa?

Droghe, sballo, nichilismo, lotta al narcotraffico ed allo spaccio. Perché no all’iniziativa del sindaco di Tolmezzo.

Giochi di guerra con ‘elmo e fucile’ a Forni Avoltri per i ragazzi del comune. Quale educazione stiamo dando ai nostri giovani? E due considerazioni sul progetto Movimento in 3 S.

Martina Carpani su: ‘Fascismo, antifascismo e i giovani d’oggi’.

Laura Matelda Puppini.

 

 

Ai margini di uno strano convegno paularino indetto dalla Federazione Motociclistica su motori e pare sentieri, e su ipotetici diritti e doveri

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Ci sono notizie che mi turbano parecchio in Carnia. Dopo il No dell’ Uti della Carnia alla motocavalcata della Carnia che forse faceva fare tanti soldini sonanti ad associazioni varie ma non certo a noi carnici ed al nostro territorio, ecco che giunge un Convegno che si terrà a Paularo venerdì 26 luglio 2019 alle ore 20.30, presso l’auditorium dell’ Istituto Comprensivo, promosso dalla Federazione Motociclistica Italiana – Comitato Regionale – Friuli Venezia Giulia,  con sede a Torreano di Martignacco, dal titolo inquietante: “Motociclismo/territorio: una regola chiara, che tuteli il diritto e il dovere. Può esistere una convivenza ed una condivisione del Territorio?”.

Sono previsti gli interventi di: Daniele Di Gleria Sindaco di Paularo; Emanuele Prisco Presidente Motoclub Carnico; Francesco Lunardini coordinatore nazionale FMI Trial; Tony Mori Coordinatore Dip.to Politiche Istituzionali FMI che parlerà su: “Sport e Territorio, binomio vincente se condiviso nel rispetto delle regole”; del Col. Claudio D’Amico referente C.U.F.A. Carabinieri Forestali che interverrà su: “Il ruolo della Polizia Ambientale ed il significato del Protocollo d’intesa”; di Giancarlo Strani Presidente della Commissione Ambiente della F.M.”.

Per inciso il C.U.F.A. è il Circolo Ufficiali Delle Forze Armate D’Italia, ma in Friuli Venezia Giulia la forestale è corpo regionale, e non so quanto il colonnello D’ Amico conosca la realtà della Carnia, essendo di Arezzo, ed essendo esperto, pare, di agricoltura aretina. (https://www.youtube.com/watch?v=F6yr5DxDX5k). Inoltre sembra proprio che a questo incontro, che si tiene con l’approvazione del Sindaco di Paularo Daniele Di Gleria, posto fra coloro che interverranno, non siano stati chiamati a parlare né Presidente dell’Uti della Carnia, né qualcuno di Legambiente non solo regionale o di altre associazioni ambientalistiche, e neppure alcuno del Corpo Forestale Regionale o del C.A.I., cosicché anche un minus habens potrebbe comprendere che qualsiasi documento od intendimento uscirà da detto incontro sarà a senso unico. Infatti, tolto il colonnello, gli altri sono tutti rappresentanti di parte “motoristica”. Ma certe volte basta lanciare l’amo e vedere se qualche pesce abbocca.

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Vi giuro che la prima cosa che mi è venuta in mente è «Ma di che diritti e doveri parlano questi?».

Si vieta forse ai motociclisti di passare sulle strade, ove il transito è normato dal codice della strada? Ma non pochi avevano già un paio di anni fa qualche dubbio sul diritto delle moto e squads di scorrazzare sui sentieri montani e campestri, tanto che il 20 novembre 2017 una serie di Associazioni di tutto rispetto quali: L’escursionismo- sezione della città Metropolitana di Bologna, il Club Alpino Italiano, sezione di Bologna, Oltr’Alpe; C.S.I. Sasso Marconi; Parco Museale della Val di Zena; Gemini mtb; Passo Barbasso; La Nottola; Percorsi di Pace; La Rosa dei Venti; Progetto 10 Righe; Montagna Incantata; Touring Club Italiano Bologna; Trekking Italia Emilia Romagna; Legambiente Emilia Romagna; Legambiente Setta Samoggia Reno; Club Alpino Italiano-Gruppo regionale Emilia-Romagna; Touring Club Italiano -Coordinamento regionale Emilia-Romagna; Trekking Italia associazione nazionale; Associazione Compagnia dei Cammini–Terranera di Rocca di Mezzo (AQ); Associazione Il Cammino di Sant’Antonio; Via degli Abati associazione di promozione sociale; CIPRA Italia; Mountain Wilderness Italia; Gruppo d’Intervento Giuridico associazione ecologista; IT.A.CÀ migranti e viaggiatori; Consulta della Bicicletta del Comune di Bologna; A.S.D. Happy Trail MTB-FIAB; Appenino Slow e la Coop. Madreselva, avevano inviato all’On. dott. Graziano del Rio, Ministro delle infrastrutture e dei trasporti; all’on. dott. Gianluca Galletti, Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio; all’on. avv. Dario Franceschini, Ministro del turismo e dei beni e attività culturali; AL sen. dott. Pietro Grasso, Presidente del Senato della Repubblica; all’on. dott. Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati; all’ on. Michele Pompeo Meta, Presidente IX commissione permanente Camera dei Deputati, una lettera che chiedeva di prendere una posizione decisa rispetto alla transitabilità di moto su su sentieri, mulattiere e tratturi, negandola, nel contesto delle nuove norme per il Codice della strada.

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Il testo della lettera è il seguente ed è secondo me del tutto condivisibile: « Le scriventi Associazioni manifestano il vivo e forte auspicio, comune e condiviso da tutte, a che venga rapidamente e positivamente concluso, mediante definitiva approvazione di entrambi i Rami del Parlamento nell’attuale legislatura, l’esame del pacchetto di modifiche al Codice della Strada (di cui a D. Lgs. n. 285/1992 e s.m.i.) attualmente contenute nel testo unificato delle proposte di legge di cui ad A.C. n. 423-A e abbinate, come risultante dall’esame in sede referente espletato dalla IX Commissione permanente della Camera dei Deputati, esame conclusosi con una approvazione nella seduta del 26.7.2017, su favorevole parere del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. In particolare, ciò che preme grandemente alle scriventi Associazioni è la definitiva approvazione dell’art. 01 del testo unificato, come già approvato in Commissione. Tale articolo prevede la modifica degli artt. 2 e 3 del Codice della Strada, inserendovi (con la nuova lettera F-ter ai commi 2 e 3 dell’art. 2), quale tipologia stradale a sé stante, quella di “Viabilità forestale, sentiero, mulattiera o tratturo”: ove viene espressamente stabilito (cfr. l’aggiunta al suddetto comma 3 dell’art. 2) che tale tipologia di strade, per caratteristiche dimensionali e tecniche, è destinata all’esclusivo passaggio di pedoni, velocipedi e animali, fatto salvo l’occasionale transito di veicoli a motore per attività agro-silvo-pastorali autorizzate, di servizio, vigilanza, soccorso e protezione civile, nonché per l’accesso al fondo da parte degli aventi diritto. Il medesimo art. 01 del suddetto testo unificato interviene altresì sull’art. 3, comma 2, del Codice della Strada, novellando la definizione di sentiero, mulattiera o tratturo contenuta nel n. 48, aggiungendovi alcune opportune specificazioni descrittive, soprattutto dimensionali, sia del sentiero che della mulattiera. Queste, in estrema sintesi, le novità normative che ad avviso delle scriventi Associazioni rivestono cruciale importanza, sotto vari profili. 

Infatti, in virtù delle suddette modifiche al Codice della Strada, viene esplicitato e definitivamente chiarito il generalizzato divieto di percorrenza motorizzata per diporto su sentieri e mulattiere. Siffatta esplicitazione del divieto si mostra indispensabile, ancorché di tale divieto sia dato già da ora rinvenire gli elementi, sia pure a contrario, nel complessivo regime del Codice della Strada come attualmente vigente. Ad onta di ciò, infatti, in assai ampia porzione del territorio collinare e montano nazionale, negli ultimi anni si è dovuto assistere ad un diffondersi della pratica motoristica di un cosiddetto escursionismo su ruote (enduro, quoad, trial….): diffusione non adeguatamente contrastata fors’anche a causa, per l’appunto, della non immediata ed agevole individuazione delle attuali norme da cui risulta un regime di divieto di transito motorizzato su sentieri e mulattiere. Sta di fatto che su numerosissimi sentieri e mulattiere, segnati e tabellati da gran tempo come percorsi escursionistici CAI, sempre più frequentemente si deve assistere al transito rombante ed a velocità sostenuta di frotte di motociclisti, malgrado vi stiano contemporaneamente camminando malcapitati escursionisti. Questa montante invasione delle moto sui sentieri montani e collinari dà luogo a gravi problemi sotto più di un profilo, e precisamente:

Sotto un profilo di sicurezza personale: le moto sui sentieri creano una situazione di traffico motorizzato in assenza di qualsiasi apparato che ne disciplini lo svolgimento di circolazione, giacché sui sentieri è evidentemente del tutto assente qualsiasi segnaletica “stradale” che delimiti corsie, mezzerie, banchine, o che imponga limiti di velocità, precedenze, segnali di stop (o magari semafori!)e così via. Si è dunque in presenza di una sorta di “far west” di circolazione motorizzata, su percorsi per l’appunto costituiti da sentieri, sovente assai stretti, impervi e senza la materiale possibilità di farsi da parte. Ne risulta evidente l’estrema rischiosità per l’incolumità personale dei camminatori, oltre che dei ciclo escursionisti e degli stessi motociclisti. Tutto ciò in palese contraddizione con la giusta tendenza verso un rigore comportamentale, che caratterizza l’attuale produzione normativa in materia di circolazione motorizzata.

Difatti, le caratteristiche strutturali e dimensionali che presentano sentieri e mulattiere sono ben lungi dal rispettare i requisiti funzionali previsti dall’art. 2 del Codice della Strada, e relative norme attuative, ai fini di un transito anche veicolare. Il che viene ad abundantiam confermato dalla constatazione che nessun sentiero e nessuna mulattiera è inserito negli elenchi delle strade a transito veicolare, catalogate ai sensi del suddetto art. 2 del Codice della Strada, debitamente tenuti dagli enti competenti.

Nei casi, purtroppo già di per sé piuttosto infrequenti, in cui le guardie forestali elevavano contravvenzioni nei confronti di motociclisti sorpresi a percorrere sentieri, veniva interposto ricorso amministrativo unicamente basato sulla semplicistica, e del tutto errata, argomentazione secondo la quale, essendo il sentiero definito dal Codice della Strada (cfr. il n. 48 al comma 2 dell’art. 3) come “strada a fondo naturale formatasi per effetto del passaggio di pedoni e di animali”, ebbene tale ricomprensione del sentiero nel concetto di “strada” fosse sufficiente a concludere che ciò consentirebbe anche ai motoveicoli di transitarvi, salvo esplicito divieto deliberato dall’autorità competente e debitamente tabellato in loco (argomentazione, questa, che classicamente prova troppo, giacché in base ad essa non solamente le moto bensì qualsiasi veicolo a motore, pullman turistici inclusi, in assenza di specifica indicazione di divieto potrebbe legittimamente affrontare il transito su di un sentierino di montagna!). Ma tale speciosa argomentazione, invariabilmente addotta ed evidentemente ispirata da univoci suggerimenti delle organizzazioni di settore, frequentemente bastava ad ottenere l’accoglimento del ricorso da parte delle Comunità Montane, che erano le autorità competenti ad esaminarlo.

Al proposito giova ricordare la motivazione che è stata posta a base della riconduzione alla sfera normativa statale, e non regionale, della materia della circolazione motorizzata. In tal senso si è espressamente pronunciata la Corte Costituzionale, la quale, con sentenza n. 428 del 2004, ha affermato che la circolazione stradale è riconducibile a competenze statali esclusive, ai sensi dell’art. 117 comma 2 Cost. Secondo la Corte Costituzionale, ciò è in primo luogo ricavabile dall’esigenza, connessa alla strutturale pericolosità dei veicoli a motore, di assicurare l’incolumità personale dei soggetti coinvolti nella loro circolazione (conducenti, trasportati, pedoni) che certamente pone problemi di sicurezza, e così rimanda alla lettera h) del secondo comma dell’art. 117, che attribuisce alla competenza statale esclusiva la materia “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale”.

Sotto un profilo di tutela ambientale: il transito delle moto sui sentieri, specialmente nei tratti in pendenza e/o su fondo argilloso (tipico quest’ultimo di pressocché tutte le colline a ridosso dell’intero arco appenninico), dà luogo a forti sollecitazioni sul terreno, causate dal peso del veicolo e del conducente nonché dalla particolare sagomatura degli pneumatici; con conseguente erosione del fondo naturale del sentiero, o dei tratti selciati delle mulattiere. A lungo andare –come è purtroppo di agevole ed assai diffusa constatazione –tale erosione produce solchi e vie preferenziali al ruscellamento delle acque meteoriche. Ciò concorre a rendere instabile il terreno e provocare dei crolli, fino a creare -in particolare nelle suddette zone argillose così ampiamente diffuse nella nostra penisola -un vero e proprio dissesto idrogeologico, con conseguenti situazioni di potenziale rischio, sotto questo aspetto, non solamente per le persone dei fruitori dei sentieri e dei territori attraversati, ma anche per la stabilità dei suoli dei territori stessi.Sotto un profilo disviluppo turistico ed economico dei territori montani e collinari: è esperienza comune, degli operatori turistici titolari di strutture di accoglienza prossime a percorsi escursionistici, che il transito delle moto sui sentieri disturba ed allontana la frequentazione da parte di viandanti (escursionisti a piedi),tanti dei quali di nazionalità estera, i quali pure mostrano un sempre maggiore interesse nei confronti di assai numerosi percorsi un po’ su tutto il territorio italiano, ed in special modo verso i cosiddetti “cammini” storici o devozionali: le Vie Francigene, i Cammini di numerosi Santi (San Francesco, Sant’Antonio, San Benedetto, San Carlo), la Via degli Dei tra Bologna e Firenze, la Via degli Abati, la Via Romea Germanica, la Piccola Cassia, l’Alta Via dei Parchi tra Emilia-Romagna e Toscana, il Cammino dei Briganti tra Lazio ed Abruzzo, la Via della Transumanza, eccetera; tanto che il 2016 è stato proclamato “anno nazionale dei Cammini” nel nostro Paese. Ma questo proposito, mette conto richiamare altresì la decisa indicazione del Governo in direzione del cosiddetto ”turismo lento”, nel tentativo di rilancio anche dei piccoli borghi, dei paesaggi nascosti e di luoghi finora non toccati dai circuiti turistici di massa, ma ricchi di valori ambientali, storici ed architettonici, di cui l’Italia è giacimento inesauribile: con investimenti pubblici senza precedenti nello specifico settore (63 milioni di euro, tra Legge di Stabilità 2016 e Piano Cultura e Turismo; oltre ad altri 91 milioni per quattro nuove ciclovie).

Mette conto sottolineare, a quest’ultimo proposito, come risulterebbe in stridente contrasto, con le scelte di sviluppo turistico e lo sforzo di incentivazione economica così lucidamente e condivisibilmente posti in essere dall’attuale Governo, la prosecuzione di un atteggiamento di “laissez faire”, o peggio ancora di aperto sostegno, verso l’invasione motorizzata dei sentieri, con conseguente svilimento e fin distruzione di tali vere e proprie infrastrutture portanti della direzione di sviluppo turistico che il Governo ha scelto; e con grave disincentivo dell’afflusso di camminatori anche provenienti dall’estero. Né si obietti che anche il cosiddetto escursionismo motorizzato è matrice di frequentazione turistica (di diversa inclinazione) e di sviluppo del comparto produttivo motociclistico: giacché assolutamente incomparabili si mostrano le rispettive potenzialità, per tacere degli ulteriori profili, ambientali e valoriali, nonché di tutela della sicurezza personale, che si sono qui sintetizzati. Il tema tocca dunque il cuore delle prerogative dei Signori Ministri sia delle Infrastrutture e Trasporti, sia dell’Ambiente e Tutela del Territorio, sia del Turismo e dei Beni Culturali. Sui quali perciò–come pure sugli Onorevoli Presidenti dei due rami del Parlamento, nonché sull’Onorevole Presidente della IX Commissione permanente della Camera ove la materia è stata trattata-le scriventi Associazioni confidano, per un forte e concorde sostegno di Essi tutti al positivo e celere coronamento dell’iter legislativo delle modifiche al Codice della Strada, specificate in oggetto e qui trattate. Distinti saluti». (https://www.deepwalking.org/cammino/img/177/lettera-divieto-moto-su-sentieri.pdf)

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In detto testo mi pare siano precisati diversi problemi che presuppongono che non  vi sia transito di moto su sentieri, mulattiere, tratturi, piste forestali a cui se ne aggiungono degli altri che esistono, indipendentemente dal fatto che una norma sia più o meno stata approvata in Parlamento. Inoltre sulla stessa avaaz il Cai aveva presentato una petizione intitolata: “No al traffico motorizzato su sentieri, mulattiere pascoli e boschi”. (http://www.avaaz.org/it/petition, e citata anche in: “Moto sui sentieri, sì o no? Polemiche e petizioni sul web”, https://www.ecodibergamo.it/stories/bergamo-e-provincia/moto-sui-sentieri-si-o-no-polemiche-e-petizioni-sul-web_1070510_11/.

Ma anche il Corriere della Sera, il 2 aprile 2014, dedicava una intera pagina al problema dei motori rombanti sui sentieri.
E questo problema che coinvolge tutta Italia, si risolverebbe in quel di Paularo, in un incontro fra la Federazione Motoristica Italiana sezione Regionale, un colonnello dei carabinieri quando qui c’è il Corpo Regionale Forestale, e il sindaco di Paularo?
Ed io stessa pubblicavo, il 13 giugno 2018, le Osservazioni di Marco Lepre, Presidente Legambiente Carnia, sulla Motocavalcata della Carnia, leggibili in: http://www.nonsolocarnia.info/marco-lepre-lettera-al-presidente-delluti-ed-ai-sindaci-della-carnia-sulla-motocavalcata-delle-alpi-carniche-2018/

Ma a questi aspetti se ne aggiungono degli altri, quali per esempio, il fatto che i motori rombanti spaventano pure il bestiame, e quindi implicano una ricaduta non di poco conto sull’economia della montagna; che spesso chi scorrazza può lasciare anche rifiuti, che questo voler essere liberi di andare dovunque con moto non pare assolutamente educativo. Le moto vadano sulle strade rispettando le regole ed i limiti di velocità, non arrischiando i loro guidatori sorpassi a destra e manca, e nei circuiti prefissati, non nei campi e sui monti, per sentirsi forse Dio, per riempirsi di quell’ebbrezza che credo dia violare il creato in sella ad una moto predisposta per farlo ed imporre ciò agli altri, alla popolazione stanziale. E vi prego, se ne avete il tempo, visionate alcuni siti su moto enduro, per vedere che messaggio educativo trasmettano! Altro che viandanti, Cammini, e vie franchigene! Infatti per esempio su: https://www.youtube.com/watch?v=V9iqPeNZdeQ, io avevo trovato che l’Hard Enduro è una competizione estrema di moto che si svolge in location altrettanto estreme. Una disciplina che parte dalle corse di endurance aggiungendovi elementi del trial e del motocross, e «condendo il tutto con una sana dose di sadismo».

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E dato che i cerchi non si quadrano, se ci saranno loro, i viandanti a piedi dovranno sloggiare. E mi ricordo tristemente una vecchia idea di Valter Marcon che voleva la Carnia divisa in ambiti per i motociclisti. Inoltre come non ricordare cosa è accaduto al povero Roberto De Stalis, recentemente?

Non da ultimo, l’Uti della Carnia, da che so, ma se erro correggetemi, ha vietato la moto cavalcata della Carnia (dopo di che, per inciso, la Val But si è data da fare per portare attività motoristiche in loco, di cui non sentivamo la mancanza), a causa della situazione creatasi con gli eventi calamitosi dell’ottobre/novembre 2019. E nessuno può ancora determinare sul nostro territorio montano e friabile in tutta la Carnia, l’impatto di continue e plurime percorrenze con moto da enduro e via dicendo.

Insomma da un lato la Carnia riceve migliaia di euro anche da privati per ripristinare il suo territorio e dall’altro qualcuno intende rovinarlo ancor di più per il proprio piacere chiamandolo diritto?

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Inoltre non si tiene conto di quali effetti potrebbe avere sul territorio alpino e montano, fra alberi prati e sentieri, il passaggio continuativo ed elevato di moto, ma anche quello di una sola gara, che smuove terra ed alza polvere, con i cambiamenti climatici in corso, ed il caldo forte presente. 

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E mi chiedo: ha forse a che fare questo incontro paularino con Stefano Mazzolini che, secondo il Messaggero Veneto del 28 maggio 2019 così si era espresso: «Lo stop ad una manifestazione capace di attirare migliaia di persone deciso dall’Uti della Carnia mi pare una scelta miope, basata soltanto su motivi politici, ma soprattutto una decisione contraria allo sviluppo turistico». Così Mazzolini spiega la sua decisione di presentare una interrogazione all’assessore Pierpaolo Roberti sull’annullamento di questa manifestazione che avrebbe dovuto tenersi l’8 e il 9 giugno. L’Uti della Carnia ha dato il suo parere negativo «ma si è forse dimenticata – sferza – che l’associazione Moctus che da 13 anni organizza l’evento ha sempre provveduto al ripristino del territorio, tant’è che ogni anno le è stata restituita la caparra versata. Il sodalizio ha sempre agito nel pieno rispetto delle vigenti normative e delle prescrizioni impartite dai soggetti interessati al rilascio di pareri ed autorizzazioni. Mi sfugge cosa sia cambiato per l’edizione del 2019» (http://ricerca.gelocal.it/messaggeroveneto/archivio/messaggeroveneto/2019/06/07/gorizia-motocavalcata-annullata-mazzolini-grave-danno-30.html?ref=search)?

Ai posteri l’ardua sentenza. Senza offesa per alcuno, ma per informare ed esprimere la mia opinione documentata. E se pensate non abbia capito di cosa si dovrebbe parlare nel convegno, vi dico che non sono l’unica ad aver capito che trattasi di creare un diritto delle moto ad andare e scorazzare sui sentieri, in primo luogo. E se erro correggetemi.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo rappresenta la pagina del Corriere della Sera del 2014. Laura Matelda Puppini 

P.S.: Ho appreso ora, dopo aver pubblicato l’articolo, da un pieghevole trovato per caso, che il 27 e 28 luglio 2019 si terrà a Paularo il campionato italiano di Trial, per svolgere il quale non si sa se servisse parere dell’Uti e se sì se esso sia stato positivo. Fra ciò che si svolge, nel settore, ad Arta Terme, Paularo ecc .ecc. c’è di che preoccuparsi e se concede tutto la val But, i motociclisti vorranno tutto dappertutto, secondo me. Siamo terra o colonia? Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Invito tutti il 22 agosto alle 11.30 a Treppo Carnico per un incontro sull’attualità del pensiero dei fratelli Rosselli.

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Pierpaolo Lupieri mi ha pregato di porre sul sito l’invito a tutti per questo incontro – conferenza stampa –  sui fratelli Rosselli, antifascisti uccisi dai fascisti, il cui pensiero è importante rivisitare, e lo faccio volentieri. Interverranno: Franco Corleone – deputato e senatore della Repubblica, già sottosegretario alla Giustizia e l’avvocato Gianni Ortis, presidente dell’ Ifsml. Presiderà l’incontro Luigi Cortolezzis, lo introdurrà Pierpaolo Lupieri. Laura Matelda Puppini

invito conf.stampa rosselli 22 agosto-1

Marco Lepre. Invece delle armi, insegniamo ai giovani ad usare pala, piccone e motosega.

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Dopo aver scritto: “Giovani e nichilismo, da “L’ospite inquietante” di Umberto Galimberti con qualche aggiunta”, ho deciso di pubblicare  un intervento non recente di Marco Lepre sul clima e sull’utilizzo dei giovani nella leva obbligatoria civile. Non mi paiono, lo confesso, argomenti nuovi, ed ho qualche problema sulla leva civile obbligatoria perchè mi pare che molti giovani di oggi abbiano dei problemi di disciplina in primo luogo, di apprendimento poi. E prima di dare una motosega, che non è una zappa, in mano a certi ragazzi, ci penserei davvero. Inoltre mi chiedo cosa potrebbero imparare in sei mesi, e se potrebbero anche svolgere, in un lasso di tempo così breve, e con la mania del cellulare in mano, un servizio utile per la comunità.  Però credo che ai ragazzi italiani debba essere data una educazione civile, civica  ed alla cittadinanza, e che essi dovrebbero, dai 14 anni in poi, esser maggiormente impiegati anche in attività socialmente utili e pratiche, cosicchè potrebbero sentirsi maggiormante responsabili e parte di una comunità, e potrebbero andar fieri di quanto fatto. Mi ricordo, infatti, di una signora incontrata in Carnia, che faceva da sola e non giovanissima covoni di fieno che, in un momento di riposo, mi disse che suo figlio, mi pare quattordicenne, non la voleva aiutare, e che lei non poteva obbligarlo a fare nulla, perchè la legge glielo impediva. Ed altri mi hanno narrato che a loro avviso un lavoretto a loro figlio, nel periodo estivo, non avrebbe fatto davvero male. E queste considerazioni mi pare siano importanti. Ma vediamo cosa scrive Marco Lepre.

«Invece delle armi, insegniamo ai giovani ad usare pala, piccone e motosega.

(…). Nove novembre 1966: sono trascorsi pochi giorni dalla gravissima alluvione che ha colpito intere regioni del Centro e del Nord Italia e che ha avuto il suo culmine con l’esondazione dell’Arno a Firenze e l’eccezionale acqua alta a Venezia. Il Governo nazionale emana il Decreto Legislativo n. 914 che contiene il primo elenco delle località colpite. Si tratta di un documento fondamentale, indispensabile per circoscrivere l’area interessata dal disastro, per individuare le priorità di intervento ed indirizzare gli aiuti. Della lista fanno parte anche 14 Comuni della Bassa Friulana, a cominciare da Latisana, che ha subìto la seconda esondazione nel giro di due anni, e la città di Pordenone, che all’epoca non è ancora Provincia. Clamorosamente, però, vengono dimenticati i 39 Comuni che appartengono alla Comunità Carnica, l’ente creato dal CLN dopo la guerra, che corrisponde al territorio di quelle che diventeranno in seguito le Comunità Montane della Carnia e della Val Canale-Canal del Ferro, più i Comuni di Venzone, Bordano e Trasaghis.

Eppure è proprio qui che si sono concentrati il maggior numero di danni e di vittime. Dei diciotto morti provocati in tutto il Friuli Venezia Giulia da quell’alluvione, ben dodici si devono registrare in Carnia: sette nella sola Forni Avoltri, compreso il Sindaco Riccardo Romanin, precipitato con l’auto nel Degano assieme ad un tecnico e due operai del Comune. Ne scaturisce una immediata e decisa protesta da parte dei Sindaci che rappresentano un territorio che sta scontando una fortissima emigrazione, gravato dalle servitù militari e che ha già in piedi tutta una serie di contenziosi con lo Stato e con la da poco costituita Regione, contenziosi destinati ad esplodere, l’anno seguente, in una clamorosa sollevazione popolare.

Ricordo questi fatti perché, come dimostra l’iniziale attenzione riservata, anche in occasione dell’ultima alluvione, ai rischi che può correre Latisana, le tante lezioni impartite all’indomani di ogni tragico evento atmosferico non sembra siano state sufficienti ad aumentare la consapevolezza che, anche per difendere la pianura, bisogna intervenire in primo luogo dove hanno origine i problemi, cioè in montagna. Dai drammatici eventi atmosferici dello scorso ottobre, che hanno gettato nella desolazione intere vallate alpine, trovano infatti conferma due dati inequivocabili.

Il primo è che sono soprattutto i territori montani a subire le conseguenze peggiori, sia per la loro obiettiva fragilità, dovuta alla morfologia, alle caratteristiche dei suoli e alla maggiore intensità delle precipitazioni, sia per la vulnerabilità, che è una conseguenza diretta dello spopolamento e dell’abbandono delle attività tradizionali prodotti dalle logiche economiche e politiche che ormai dominano da decenni.

Un secondo elemento, nuovo, ma non imprevisto, riguarda le caratteristiche dei fenomeni, sempre più estremi, che ci troviamo a fronteggiare. Rispetto alle tradizionali “montane dai sants”, quello che ha impressionato l’ultima volta e che ha prodotto i maggiori d’anni, non è stata la quantità d’acqua, ma l’intensità del vento. Trombe d’aria, che hanno interessato zone di limitata estensione, ne avevamo già viste, ma qui i venti sono arrivati a toccare i 200 chilometri orari sulle cime delle Prealpi Carniche e l’area alpina coinvolta – senza considerare quanto accaduto qualche ora prima nel Sud e Centro Italia o in Liguria – è vastissima. Fatte le debite proporzioni, abbiamo assistito ad una sorta di piccola “tempesta tropicale” del tipo di quelle che i telegiornali ci mostrano abbattersi in altre zone del pianeta. Ai più sfugge, ed è per questo opportuno ribadirlo, che la montagna in questo modo subisce un’altra volta le conseguenze di colpe altrui: delle città e della pianura, dei luoghi, cioé, in cui si concentrano la popolazione, le attività produttive ed il traffico e, conseguentemente, le emissioni dei gas responsabili dei cambiamenti climatici. La Montagna, in conclusione, “paga” due volte.

Come seppero fare i Sindaci della Comunità Carnica nel 1966, indipendentemente dalla loro collocazione politica, sarebbe necessario che gli amministratori locali si facessero nuovamente sentire, innanzitutto pretendendo dai rappresentanti istituzionali che vestono con disinvoltura i panni del “soccorritore” con tanto di divisa della protezione civile, una netta e decisa presa di distanze da Trump e dal presidente del Brasile Bolsonaro, vale a dire da quei potenti che non solo negano l’esistenza dei cambiamenti climatici, ma sembra vogliano fare di tutto per procurarci maggiori disastri in futuro, disattendendo anche i blandi accordi internazionali precedentemente sottoscritti dai loro Paesi. In secondo luogo, rivendicando un “risarcimento” per quello che i nostri territori hanno subìto e sono costretti a subire.

Noi crediamo, ad esempio, che, di fronte alla proposta di reintroduzione del servizio militare di leva, caldeggiata dall’attuale Ministro degli Interni e sostenuta anche da un voto favorevole espresso dal nostro Consiglio Regionale, sia giusto rivendicare, in alternativa, l’introduzione di un servizio civile. Non c’è bisogno ed è del tutto insensato insegnare ai nostri giovani a maneggiare le armi, sarebbe molto più utile fargli imparare ad utilizzare pala, piccone e motosega e a conoscere l’ambiente ed il territorio. Un servizio civile, della durata di alcuni mesi, che potrebbe in seguito diventare obbligatorio, potrebbe essere richiesto ed introdotto sperimentalmente proprio alla luce della recente emergenza. Si tratterebbe di un servizio alternativo a quello militare e diametralmente opposto rispetto alla naja del passato, che è legata all’imposizione di “servitù” e alla presenza di poligoni di tiro che, tra l’altro, da tempo le comunità locali chiedono di dismettere. Ci sarebbero vantaggi sia per i giovani – che oltre alle attività pratiche avrebbero la possibilità di conoscere il territorio e la sua storia e geografia – che per i territori – che vedrebbero svolte quelle attività di manutenzione che i pochi anziani rimasti non sono più in grado di effettuare e permetterebbero di rianimare i paesi, utilizzare alcune delle caserme che rischiano di andare in disfacimento e ospitare attività culturali che altrimenti non si potrebbero fare per mancanza di numeri sufficienti.

Insomma, a cento anni dalla fine del primo conflitto mondiale, si tratterebbe di capire che non è più tempo di difendere il “sacro suolo della Patria”, come successe sul Piave, dopo Caporetto, ma di difendere il “suolo” e basta.

Tolmezzo, 21 maggio 2019                                          

Marco Lepre – Presidente circolo Legambiente della Carnia».

L’immagine che correda l’articolo è tratta da: http://www.cemea.it/?p=1091 e rappresenta il logo del servizio civile nazionale.

Laura Matelda Puppini

 

Ieri, oggi e speriamo non domani. Storie di terre, contadini, leghe bianche e rosse, Libera, latifondi e mafie. Parte seconda.

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Ho pubblicato tempo fa la prima parte di “Ieri, oggi e speriamo non domani. Storie di terre, contadini, leghe bianche e rosse, Libera, latifondi e mafie […]”, che terminava in questo modo: «Così, fra pestaggi, roghi di sedi delle Camere del lavoro, intimidazioni e la distruzione delle giunte socialiste, oltre che occupazioni di città come accadde a Ferrara da parte delle squadracce dei Fasci di Combattimento, si giunse, accondiscendente il Re, al regime fascista, alle guerre di conquista, alla seconda guerra mondiale e quindi al movimento partigiano al centro nord». In quell’articolo parlavo di contadini alla fame che, uniti in cooperative bianche e rosse, chiedevano di lavorare, dopo la prima guerra mondiale le terre incolte dei latifondi, (che per inciso spesso altro non erano che terre demaniali di cui un signorotto o l’altro si erano impossessati), come prevedeva pure il decreto Visocchi, rimediando solo attacchi da parte delle forze dell’ordine, incarcerazioni, spari pure da parte dei possidenti, e ben pochi risultati.

Quindi il fascismo, che fece una politica di favoritismi e doni ai suoi sostenitori e di depredazione delle risorse anche naturali nelle sue colonie, per giungere infine a quella liberazione, di cui ho parlato nel mio: “Laura Matelda Puppini. “25 aprile: festa della Liberazione d’Italia. Da che cosa? – Tarcento 27 aprile 2019”. Ma che cosa accadde al Sud, dove la Liberazione avvenne nel 1943, ai contadini che sognavano di nuovo di lavorare le terre incolte? Lo vedremo in questo articolo, con riferimento in particolare alla Sicilia, perché siciliano era Placido Rizzotto e perché di questo argomento tratta l’interessantissimo saggio di Gabriele Montalbano, “La repressione del movimento contadino in Sicilia (1944-1950)” (1).

Ma ho trovato pure alcune valide considerazioni generali relativamente al secondo dopoguerra nel saggio di Valerio Castronovo “Dal dopoguerra ad oggi”, in: AA.VV., “Storia del movimento cooperativo in Italia 1886-1986”, Giulio Einaudi ed., 1987. (2).

L’autore scrive che, all’ indomani della Liberazione d’Italia, vi fu un «grande risveglio dal basso», che si concretizzò nel desidero che la cooperazione potesse contare di più. (3). Ed al Sud, man mano che avanzavano le truppe anglo-americane a liberare il territorio, si diffuse, come d’incanto, un vasto movimento cooperativo. Infatti anche in quel secondo dopoguerra nelle regioni meridionali, disoccupazione e sottoccupazione costituivano «l’amaro destino di vasti strati della popolazione contadina soprattutto nelle zone del latifondo, là dove si assommavano i maggiori squilibri sociali nella proprietà della terra e i peggiori arbitrii nei rapporti di lavoro. Esistevano quindi tutte le premesse per la propagazione dal basso, con forti accenti spontaneistici, di un movimento cooperativo che esprimesse soprattutto le istanze dei contadini poveri e senza terra, come del resto era già accaduto in precedenza. Perché non tutto era morto e sepolto con il fascismo e, appena lo stesso fu vinto, vecchie rivendicazioni si presentarono in una veste nuova e abitudinaria al tempo stesso. (4). E come dopo la prima guerra mondiale vi fu il decreto Visocchi (5), nel 1944, all’indomani della Liberazione da parte alleata del Sud, furono emanati due decreti dall’ allora Ministro dell’Agricoltura del governo Bonomi Fausto Gullo, nel luglio e nell’ottobre 1944. 

«Il primo di tali decreti- scrive Castronovo – dimezzava i canoni d’affitto in natura; il secondo – il più importante- autorizzava la concessione ai contadini di aree incolte o mal coltivate». (6). Tale concessione, come del resto deliberato anche in precedenza dal decreto Visocchi, poteva avvenire solo se i richiedenti erano associati in cooperative od altri enti. Però il decreto non si pronunciava sulla fase successiva, quella della gestione della terra avuta da coltivare, mentre fissava in quattro anni al massimo il periodo della concessione.  «In tal modo- sempre secondo Castronovo – si lasciavano in sospeso due questioni fondamentali strettamente intrecciate fra di loro: la sorte finale delle terre passate in gestione alle cooperative e le modalità della loro conduzione. (7).

Lotte contadine in Calabria. Mike Arruzza, L’assassinio di Giuditta Levato. (http://www.consiglioregionale.calabria.it/calabriainforma_3/dettaglio.asp?IDPaginaA=241,&Prov=lista&accessiunici=&F_Sezione=CALABRIA%20INFORMA&F_Data_A=&F_Data_R=&F_IDPagina=241). Giuditta Levato era una contadina calabrese. Il 28 novembre 1946 Giuditta si unì a un gruppo di persone che si scontrò con Pietro Mazza, latifondista del luogo. La contesa era stata causata da una mandria di buoi che il Mazza aveva lasciato pascolare nei campi assegnati ai contadini, impedendone quindi la coltivazione. Durante la protesta, dal fucile di una persona al servizio del Mazza partì un colpo che raggiunse la donna all’addome. Così morì all’età di 31 anni, mentre era incinta di sette mesi del suo terzo figlio.

Il decreto Gullo sulla concessione di terre incolte ai contadini organizzati, di fatto fece moltiplicare le cooperative agricole che miravano alla conduzione collettiva dei terreni incolti, innescò nuove lotte e battaglie per ottenerla, e come per il caso del decreto Vertocchi, comportò il boicottaggio dei grandi proprietari terrieri e le incertezze delle Commissioni preposte a concedere terre ai contadini. (8).  Inoltre vi erano problemi dati dai capitali del tutto insufficienti per iniziare il lavoro, e le banche non concedevano crediti alle cooperative agricole se non risicati, e ci si doveva accontentare di modeste largizioni da parte di enti pubblici od amministrazioni comunali. Ed a ciò si aggiungeva la mancanza di tecnici agrari che potessero impostare il progetto di recupero delle terre, ed il fatto che, in meridione in particolare, i terreni concessi alle cooperative agricole erano terre marginali isolate e scarne od abbandonate da tempo e sprovviste di casolari, stalle, magazzini per gli attrezzi e pozzi. (9). A ciò si aggiunse il fatto che le cooperative, a livello ideologico, si dividevano in quelle ad ispirazione cristiano-sociale, che puntavano a trasformare il contadino in piccolo proprietario terriero, in un’ottica privatistica, e quelle di ispirazione democratico socialista, che puntavano maggiormente alla proprietà ed al lavoro collettivo. (10).

E così il periodo che seguì la Liberazione avvenuta al sud grazie agli Angloamericani, fu caratterizzato da una cooperazione agricola che puntava a lotte radicali per il lavoro, alimentate da contadini poverissimi ed alla fame, e che intrecciava, nella sua progettualità, «associazionismo e rivendicazionismo, obiettivi di piena occupazione e progetti di colonizzazione interna, lotta la latifondo e riforma agraria […]». (11).

Ma il cooperativismo non fu detonatore politico ma, invece, contribuì ad incanalare i moti per l’occupazione delle terre cercando di trasformare il tradizionale ribellismo delle campagne meridionali in un movimento organizzato. (12). Detto questo, però, bisogna anche sottolineare come rappresentati politici di diversi partiti si occuparono di cooperazione, e fra questi spicca Giuseppe Di Vittorio, della Cgil, che ne rappresentò la voce più autorevole. Tra gli obiettivi della Cgil, infatti, vi era anche quello di espandere la propria sfera di influenza nelle campagne ed al di là dei cancelli delle fabbriche (13).

Dino Divaccaro, Sangue rosso,1º maggio a Portella della Ginestra.
(Divaccaro [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0]); (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sangue_rosso.jpg)

Non posso qui riassumere tutte le vicende politiche che interessarono il mondo della cooperazione nei primi anni del secondo dopoguerra ed ai tempi della Costituente, e che interessarono sia la Lega delle Cooperative, prima del regime fascista in mano ai socialisti riformisti,  sia l’Ente Cooperativo Approvvigionamenti Italiano, presieduto da Augusto De Gasperi, fratello del ben più noto Alcide, segnate dalla dicotomia fra socialisti e comunisti da un lato, fino alla scissione d palazzo Barberini ed alla creazione del Partito Socialdemocratico, e Democrazia Cristiana dall’altro, e da compromessi e silenzi tattici, e collegata alle vicende nazionali, che Valerio Castronovo ha ben descritto nel suo articolo citato alle pagine 519 – 602. Quello che invece si sa è che la cooperazione agricola era maggiormente in mano ai socialisti anche nel secondo dopoguerra, mentre il Pci aveva la sua base nelle fabbriche ed era sempre meno interessato ai braccianti ed alle loro rivendicazioni, e che, con il  passar del tempo, si andò diffondendo la teoria della piccola proprietà, caldeggiata dalla Democrazia Cristiana e dai cattolici, ed ampiamente sostenuta a livello governativo, a scapito del possesso delle terre e del lavoro collettivo. (14).

Ma subito dopo la fine della guerra, mentre i socialisti pensavano ancora che occorresse sottolineare la funzione sociale della cooperazione, identificandola, come avevano fatto Vittorio Cella ed i cooperatori carnici, sia nel miglioramento individuale che intellettuale e morale dei lavoratori, il Partito Comunista Italiano cercò una via di apertura anche al privatistico, spiazzando la componente socialista, e piano piano, con l’andar del tempo, si iniziò a disinteressare alla cooperazione agricola e bracciantile, ove i socialisti avevano la loro base, interessandosi sempre più al proletariato operaio delle fabbriche. Inoltre ciò che i comunisti non potevano condividere «era una rinascita del movimento cooperativo che tornasse ad agitare le bandiere della “cooperazione integrale” di Prampolini e di Vergnanini e che si incamminasse di nuovo sulla via del riformismo».  Ma di fatto lo stesso Luigi Longo ammise che ben poco il P.c.i. aveva fatto per il movimento cooperativo, avendovi prestato ben poca attenzione. (15).

Ed altre cose che si sanno è che i decreti Gullo furono propedeutici alla successiva riforma agraria, che non risolsero il problema della precarietà e della provvisorietà delle concessioni, che il padronato si oppose sempre alla loro applicazione. (16).

Ma ritorniamo al movimento per le terre incolte, in meridione, ben consci che il problema del lavoro e della cooperazione agricoli, dell’utilizzo delle terre incolte, mal coltivate od insufficientemente coltivate, della mezzadria e del bracciantato non fu solo e tipicamente meridionale ma fu nazionale, come il movimento a cui dette luogo, anche se l’80% dello stesso si collocò al sud. (17). E non si può negare, sempre secondo Renda, che «il cooperativismo siciliano del secondo dopoguerra fu soggetto alle insufficienze strutturali connesse ad una crescita vertiginosa ed incontrollata». (18) ma anche che esso rappresentò «un grande fattore di cambiamento per la realtà agraria isolana, allora dominata dai latifondisti e dai gabellotti che ne gestivano i feudi». (19). 

Donne partecipanti alle lotte contadine in Sicilia. (http://www.losservatorio.info/274-storie-di-donne-che-hanno-alzato-la-testa).

Gabriele Montalbano, nel suo saggio, con riferimento alla Sicilia, parla di terrorismo agrario-mafioso, come reazione alla possibilità che i contadini occupassero e lavorassero anche legalmente le terre incolte. «L’emergere del movimento contadino per la terra, prima in maniera turbolenta e indisciplinata poi con forma sempre più organizzata e strutturata attraverso la cooperazione agricola, allarmò tutti i grandi feudatari che temettero sempre di più l’avanzata contadina e il rischio che questa potesse spazzare via il loro potere economico e sociale». (20). Ed i giornali locali dell’epoca, dalla liberazione fino agli anni cinquanta, come “La voce della Sicilia” e “L’Ora” riportavano quasi quotidianamente notizie di attentati, intimidazioni, uccisioni, sparatorie contro i dirigenti del movimento contadino, dei partiti di sinistra, del sindacato, atte a smantellare le organizzazioni contadine.

«L’attentato che può essere considerato come una dichiarazione di guerra della mafia ai partiti social- comunisti, fu quello di Villalba del 16 settembre 1944 – scrive Montalbano. – L’occasione fu un comizio del partito comunista proprio nel paese del capomafia Vizzini in cui a parlare era Girolamo Li Causi, il segretario del Partito in Sicilia. Durante il comizio, Li Causi denunziò il patto fra agrari e mafiosi, prendendo ad esempio il citato feudo Micciché, gestito da Vizzini. Quest’ ultimo rispose immediatamente alla provocazione con una sparatoria nella piazza del comizio a cui prese parte anche il sindaco democristiano di Villalba, Beniamino Farina, nipote di Vizzini, che lanciò una bomba a mano contro i comunisti […]». (21). E, sempre secondo Castronovo, «il caso dell’attentato di Villaba preannunciava il pesante intreccio tra la mafia e alcuni esponenti della Democrazia Cristiana che divenne ben preso una costante della politica siciliana». (22).

Ma tendenzialmente furono i socialisti, più legati alle lotte per la terra e per i braccianti, a subire le violenze mafiose, così da far in modo che rompessero il loro legame con i comunisti (23), e ben 52 dirigenti politici e sindacali vennero uccisi dalla mafia a causa del loro ruolo nelle lotte contadine, tra il 1944 ed il 1960. (24).

Inoltre nel secondo dopoguerra il potere mafioso che si espletò allora anche attraverso la nomina di sindaci mafiosi, fu visto come una garanzia, anche da parte degli Alleati, di ordine e stabilità. (25). E mentre la legge garantiva le terre incolte ai contadini uniti in associazioni, molti agrari assunsero come gestori dei loro terreni, come gabellotti, noti personaggi legati alla mafia, perché ne esercitassero il controllo con ogni forma ed impedissero la cessione di terre da lavorare ai contadini. (26).  
E su “La Voce Socialista” già il 7 ottobre 1944 vi era chi si chiedeva come mai in provincia di Caltanisetta, da un anno in mano ai democristiani, le cricche reazionarie, latifondiste, mafiose e fasciste avessero potuto continuare a dominare indisturbate il territorio, e riteneva che ciò potesse esser avvenuto grazie al favore dalle stesse ottenuto presso le autorità, un tempo liberali, poi, nel dopoguerra, democristiane. (27). Non solo, esse spesso trovarono anche l’appoggio delle forze dell’ordine e dei prefetti. (28).

Renato Gottuso. L’occupazione delle terre. (http://www.eccellente.org/la-lotta-al-feudo-nella-sicilia-del-dominio-della-mafia-della-terra/).

La situazione che si andava configurando dal 1943 in Sicilia era simile a quella di uno stato di guerra civile, ed ai dirigenti sindacalisti e politici di sinistra uccisi si dovevano aggiungere gli uccisi ed i feriti che non occupavano ruoli dirigenziali, i falcidiati dalle forze dell’ordine durate alcune manifestazioni come quella di Caccamo, gli attentati alle sedi di partito e sindacali, la distruzione dei raccolti dei contadini, gli attentati nel corso di comizi. (29). Inoltre tristemente famosa resterà l’azione della banda di Salvatore Giuliano, manovrata dalla mafia e dall’eversione neofascista, che continuerà a compiere i suoi atti di criminalità fra cui rapine, sequestri, omicidi come quelli di Portella delle ginestre il primo maggio 1947 e che continuò ad infondere terrore fino al 1950, anno in cui Giuliano venne ucciso in circostanze ancora non del tutto chiarite. (30).

Eppure tanta violenza non appariva giustificata dal tenore che spesso avevano le occupazioni anche preventive di terre, dove spesso in prima linea si trovavano donne e bambini, ed i contadini marciavano sotto l’egida di una bandiera tricolore, rossa o bianca.

In questo contesto si realizzò pure l’azione politica e sindacale di Placido Rizzotto, socialista e segretario della Camera del Lavoro di Corleone, ucciso dalla mafia dopo esser stato rapito il 10 marzo 1948, con una iniezione letale.  Il 7 luglio 2009 furono rinvenuti, dopo lunga indagine, nella foiba di Rocca Busambra a Corleone, dei resti umani che il Dna accertò essere di Placido Rizzotto, che fu sepolto con tutti gli onori e la presenza del Presidente della Repubblica. (31). E nel contesto qui descritto si mosse ed operò Rizzotto. (32).

Laura Matelda Puppini

Note:

  1. Gabriele Montalbano, La repressione del movimento contadino in Sicilia (1944- 1950), in Diacronie, Studi di Storia Contemporanea: Sulle tracce delle idee, 29/12/2012, URL:< http://www.studistorici.com/2012/12/29/montalbano_numero_12/ >.
  2. Il volume ben documentato e davvero interessante, regalatomi da Legacoop dopo la pubblicazione del mio: “Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le cooperative carniche 1906- 1938”, comprende tre lunghi saggi divisi in capitoli, il primo dei quali è di Renato Zangheri e si intitola: “Nascita e primi sviluppi”; il secondo è di Giuseppe Galasso e si intitola: “Gli anni della grande espansione e la crisi del sistema”, il terzo è quello già citato di Valerio Castronovo. In generale per le lotte contadine per la terra cfr. anche: https://www.centroimpastato.com/movimento-contadino-e-sindacale/.
  3. Valerio Castronovo, op. cit., p. 501.
  4. Ivi, p. 504.
  5. Il cosiddetto “decreto Visocchi, cioè il regio decreto legge 2 settembre 1919 n. 1633, recava provvedimenti per l’incremento della produzione agraria, che prendeva nome dall’allora ministro dell’agricoltura Achille Visocchi. Esso attribuiva ai prefetti la facoltà di assegnare, seguendo il parere di una commissione formata sia da latifondisti che contadini, previo parere del direttore della cattedra ambulante di agricoltura, e dopo aver stabilito un prezzo di locazione, in occupazione temporanea, sino a un massimo di quattro anni, terreni incolti o mal coltivati a contadini organizzati in associazioni o enti agrari legalmente costituiti. Il decreto prevedeva, inoltre, un’estensione a tempo indeterminato della concessione per i terreni con obbligo di bonifica o che richiedevano cambiamenti di colture. Ma l’applicazione del decreto ebbe effetti assai limitati: dopo sette mesi era stato applicato a meno di 30.000 ettari di incolto. Il decreto Visocchi fu seguito, a breve distanza dall’analogo “decreto Falcioni” e quindi da un non dissimile “decreto Mauri”. Inoltre alcuni ritengono che il successivo decreto Gullo, firmato nel 1944 dal catanzarese Fausto Gullo, avvocato comunista, relativo all’utilizzo di terre incolte, non fosse dissimile da quello Visocchi (https://it.wikipedia.org/wiki/Decreto_Visocchi). Ma Valerio Castronovo non è di questo avviso. (Valerio Castronovo, op. cit., p. 505).
  6. Valerio Castronovo, op. cit., p. 504.
  7. Ivi, pp. 504-505.
  8. Ivi, p. 505.
  9. Ivi, p. 507.
  10. Ivi, p. 509 e pp. 518-519.
  11. Ivi, p. 505.
  12. Ibid.
  13. Ivi, p. 518.
  14. Ivi, p. 634.
  15. Ivi, p. 513 e p. 515.
  16. Cfr. anche Francesco Renda, La cooperazione agricola dai decreti Gullo-Segni alla riforma agraria, Rubettino, 1992, p. 382.
  17. Ibid.
  18. Ivi, p. 383.
  19. Gabriele Montalbano, op. cit., p. 1.
  20. Ivi, p. 7.
  21. Ivi, pp. 9-10.
  22. Ivi, p. 10.
  23. Ivi, p. 9.
  24. Ivi, pp. 9-10.
  25. Ivi, pp. 7-8.
  26. Ivi, pp. 8 -9.
  27. Ivi, p. 10.
  28. Ivi, p. 11.
  29. Ibid.
  30. Ibid.
  31. https://it.wikipedia.org/wiki/Placido_Rizzotto.

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta il quadro di Dino Divaccaro, intitolato Sangue rosso,1º maggio a Portella della Ginestra, ed è già stata posta all’interno del testo. Laura Matelda Puppini

Quando il pensiero vola e si attua al tempo stesso. Storia incentrata sui fratelli Rosselli, il liberalsocialismo e Giustizia e Libertà.

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Ci sono storie che non sono favole, e quella che qui racconto è una di queste, ci sono stati anche in Italia uomini coraggiosi che hanno lottato per l’Italia con determinazione  e che si opposero con pensiero ed azione al fascismo che aveva messo in ginocchio l’Italia e si era imposto con la violenza e la sopraffazione e grazie al re, ed i fratelli Rosselli furono fra questi, come del resto i più noti fratelli Cervi, la cui storia è narrata nello struggente romanzo di Adelmo Cervi: Io che conosco il tuo cuore; ci sono storie che toccano luoghi diversi e si incontrano, e la storia dei fratelli Rosselli, per un piccolo tratto, incontrò la Carnia.

Il 22 agosto 2019 si è tenuto, a Treppo Carnico, come corollario ai pannelli della mostra sui fratelli Rosselli, allestita grazie alla fondazione che porta il loro nome presieduta da Valdo Spini, e a conclusione del ciclo di manifestazioni a ricordo dell’eccidi della Val But, un incontro – conferenza stampa intitolato “La crisi della democrazia e della politica: l’attualità dei fratelli Rosselli”, con relatori Franco Corleone e Gianni Ortis, da cui cui deriva questo mio articolo.

Questa volta vi posso garantire che avevo il registratore ed anche possibili pile di ricambio, ma purtroppo mi ero dimenticata di scaricare precedenti materiali, e così mi sono improvvisamente trovata davanti alla laconica e perentoria scritta: “Full”! Giocoforza ho dovuto armarmi di fogli e penna, che porto sempre di riserva e cercare di trascrivere a mano. Ma non sono una stenografa, pertanto mi scuso subito con i relatori se quanto da loro detto non fosse precisissimo, ma ho fatto del mio meglio, e se vi è qualcosa di errato correggetelo. Ma questo articolo riporta anche considerazioni mie di approfondimento grazie agli stimoli datimi.  

I fratelli Rosselli: Aldo, Carlo e Nello (che in realtà si chiamava, per l’anagrafe, Sabatino Enrico), appartenevano ad una agiata famiglia ebraica, mazziniana, tanto che a casa di Pellegrino Rosselli, a Pisa, era morto, sotto falso nome, Giuseppe Mazzini. Il padre Giuseppe Emanuele, livornese, aveva studiato composizione musicale, la madre Amelia Pincherle, scrittrice, apparteneva anche lei ad una benestante famiglia ebraica ma veneziana, ed era sorella del noto architetto Carlo Pincherle, operativo a Roma. (1). Dopo la separazione della coppia per motivi economici, i tre figli restarono con la madre, che si trasferì a Firenze, ambiente dove i fratelli crebbero anche intellettualmente e dove Carlo e Nello incontreranno e frequenteranno Gaetano Salvemini. 

Ai tempi dello scoppio della prima guerra mondiale, i fratelli Rosselli e la madre si posero fra quelli che sposarono l’”interventismo democratico”, proprio anche dei socialisti riformisti che vedevano nella fine degli imperi centrali l’inizio di una nuova era di pace, prosperità e giustizia sociale (2).  Aldo si arruolò come sottotenente volontario di fanteria, perdendo la vita sul Pal Piccolo nel 1916, Carlo partecipò al primo conflitto mondiale nell’artiglieria alpina dal 1917, e fu congedato nel novembre 1920 con il grado di sottotenente. 

Alla fine del primo conflitto mondiale, Carlo e Nello ritornarono a Firenze. Carlo, che nelle trincee aveva scoperto l’Italia povera e proletaria, si laureò nel 1921 in scienze politiche e quindi, nel 1923, in legge a Siena. Per lui fu di grande importanza l’incontro con Alessandro Levi, filosofo seguace di Filippo Turati (3), attraverso il quale si avvicinò al socialismo. Nello, invece, tornato agli studi, nel 1919 si legò con affetto filiale a Salvemini, confidandogli la propria scelta di dedicarsi alla ricerca storica; nella primavera del 1920 questi gli affidava una tesi su Mazzini ed il movimento operaio, che gli faceva stendere per ben tre volte prima di consentirgli di laurearsi, nel marzo 1923, in filosofia e filologia. Carlo invece, invece, dopo essersi laureato a pieni voti in scienze sociali con una tesi sul sindacalismo e poi in legge (4), diventava prima assistente nel corso di economia politica di Luigi Einaudi presso l’Università Bocconi di Milano, poi, nel 1924, docente incaricato di istituzioni di economia politica presso la facoltà di Economia di Genova. Nel 1926 sposerà l’inglese Marion Cave, dalla quale avrà tre figli, mentre nello stesso anno Nello sposerà Maria Todesco, dalla quale avrà quattro figli. Entrambi – e con loro Piero Calamandrei – fecero parte sin dalla fondazione del gruppo che costituì il primo nucleo organizzato dell’antifascismo italiano. (4).

Ma per ritornare all’ incontro carnico, Franco Corleone ha iniziato sottolineando due aspetti: il momento di crisi istituzionale che sta attraversando l’Italia ove più che mai è importante rivisitare il pensiero degli antifascisti Fratelli Roselli, e l’inedito legame tra i fratelli Rosselli e il piccolo paese carnico Timau.

Infatti Aldo Rosselli studente di medicina, che ho già scritto esser stato interventista, morì da ufficiale volontario sul Pal Piccolo il 20 marzo 1916. Ma la madre lasciò che il corpo del figlio, insignito della medaglia di argento, giacesse nel cimitero di guerra nei pressi, e quindi le sue spoglie furono tumulate nel tempio Ossario di Timau, assieme a quelle di tanti altri. In ricordo del figlio, la Signora Amelia volle donare una piccola biblioteca alla scuola elementare di Timau, che però è andata perduta con la recente demolizione dell’edificio dopo le lesioni dei terremoti del ’76, in quanto in loco non se ne era mantenuta memoria. (5). Ed invero non si sa perché in Carnia molta memoria di fatti, aspetti o persone collegati all’antifascismo sia stata affossata. Questo dono, inoltre, fa riflettere sull’importanza della lettura attraverso la realizzazione di biblioteche del popolo ma anche parrocchiali che è stata sempre sostenuta in Carnia, come l’attività, legata se non erro ai doposcuola scolastici, dei bibliobus o biblioteche ambulanti degli anni cinquanta e sessanta. La sinistra operaia era orgogliosa di sapere e poter leggere.

Anche Giovanni Candido di Rigolato ci ha narrato che molti operai cercavano di leggere nelle pause del lavoro, ed egli comperava, in Svizzera, la “Domenica del Corriere”, che nel secondo dopoguerra giungeva là il giovedì. Ed in Carnia vi era chi leggeva “I Miserabili”, chi “Il Lavoratore” come Beppo di Marc, chi “La Voce della Cooperazione”, chi, come i fratelli Lucchini appunti sul materialismo storico, chi vite di santi e storie di chiese, chi Carlina Invernizio, chi Dostoevskij come Romano Marchetti ed altro ancora. Nei primi Novecento e fra una guerra e l’altra, la Carnia, affamata di pane, cercava di alimentare il pensiero e ad inizio secolo riuscì a creare, con l’aiuto di altri cooperatori e della Lega delle Cooperative, quell’esperienza unica nel suo genere, frutto di una borghesia illuminata, che fu il gruppo delle “Carniche”, che si comportava, se pur suddiviso in comparti, come «un intreccio molto saldo e ben congegnato, visto nel suo insieme come un tutto unico e mosso da un unico centro motore». (6).

Il Novecento è stato un secolo su cui meditare, ricco di eventi storici, di pensiero, di azioni, di lotte, di massacri, di terrore ed orrore, di rinascita e democrazia anche nella nostra terra. Ma che senso ha, in questo nostro 2019, rileggere la storia di una famiglia come quella Rosselli ed analizzare storia e storie appartenenti ad un passato non recente?  Serve per recuperare memoria, concetti e contesti, per approfondire e per analizzare. E se, in fin dei conti, siamo nell’era del digitale, siamo nell’era di internet, non si deve dimenticare che la rete è uno strumento, si regge sui motori di ricerca, e bisogna saper cercare, e qualcuno carica ciò che troviamo, che non sempre è il top.

E non si può non rammentare l’importanza di visitare il passato per pensare all’oggi, per non dimenticare certi errori e come sono scaturiti. (7).  Riferendosi poi ai giovani, si nota come, fra le due guerre, vi fu in Italia e non solo una produzione di pensiero anche analitico profondo ed articolato da parte di persone che avevano appena passato la trentina come i fratelli Rosselli, che furono uccisi a Bagnoles-de-l’Orne da una squadra di “cagoulards”, miliziani della “Cagoule”, formazione eversiva di destra francese, su mandato dei servizi segreti fascisti e di Galeazzo Ciano quando avevano rispettivamente 37 e 38 anni.

Cosa riuscirebbero a produrre intellettualmente ora in Italia trentenni? È vero altresì però che allora nelle famiglie ebraiche i giovani rivendicavano  il proprio “essere geni o anche benemeriti dell’umanità”, come scrive Hannah Arendt ed ogni caso si ritenevano superiori intellettualmente ai loro coetanei non ebrei e/o non ricchi, e particolarmente quelli abitanti in suolo tedesco si consideravano l’”Intellighenzia” mitteleuropea, e sposavano quanto detto da Moritz Goldstein: «Noi ebrei amministriamo la ricchezza intellettuale di un popolo che non ce ne riconosce l’autorizzazione e le capacità». (8). Studiavano allora i giovani intellettuali, spronati da docenti universitari di spessore, e pure in Italia la prima parte del Novecento produsse esperienze di alto livello sia per la riflessione che per la ricerca scientifica, basti pensare al gruppo dei ragazzi di via Panisperna, sia per l’impegno sociale e politico.

Ma per ritornare ai fratelli Rosselli, essi, quando morirono, avevano già scritto e riflettuto, avevano votato sé stessi all’impegno politico, avevano diretto o fondato con altri testate antifasciste, ed erano stati anche al confino, Carlo a Lipari, Nello a Ustica e Ponza, da cui riuscirono a fuggire grazie al gruppo di antifascisti a loro collegati. E, come sottolineava nel corso dell’incontro Franco Corleone, un paese non può crescere se, come ora in Italia, vi è chi disprezza il sapere e la cultura, se vi è un appiattimento culturale verso il basso, se in una nazione vi è una sistematica distruzione di una classe dirigente colta e preparata.

E Nello così scrisse a Salvemini: «Forse non avrà apparentemente alcuna positiva efficacia, ma io sento che abbiamo da assolvere una grande funzione, dando esempi di carattere e di forza morale alla generazione che viene dopo di noi». (9).
Egli, già nel 1917, aveva diretto con l’amico Gualtiero Cividalli il mensile politico “Noi giovani” e, dopo essersi laureato con Gaetano Salvemini, nel 1923, aveva incominciato a collaborare a riviste storiche italiane ed aveva scritto il saggio “Mazzini e Bakunin”. Nel 1932 aveva pure pubblicato in Francia il saggio “Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano”. E suo è pure: “Saggi sul Risorgimento ed altri scritti”. (10).

Sia Carlo che Nello Rosselli, poi, parteciparono all’esperienza di “Non mollare”, del 1925, foglio clandestino di battaglia che «esce quando può», fondato dal gruppo di intellettuali salviniani, (di cui facevano parte anche i fratelli Rosselli), uscito dall’esperienza fiorentina del “Circolo della cultura”, destinata ad essere bruscamente interrotta da una violenta incursione delle camicie nere nella sede in Borgo Santi Apostoli alla fine del 1924. E Nello Rosselli fece parte anche di “Italia Libera”, movimento antifascista (11).
L’esistenza del foglio “Non mollare” fu però denunciato ai fascisti da un tipografo: a questo punto  alcuni collaboratori e fondatori riuscirono a fuggire: Ernesto Rossi riparò a Parigi, Dino Vannucci in Brasile, mentre Gaetano Salvemini fu arrestato l’8 giugno a Roma e denunciato per «vilipendio del governo». In attesa del processo, messo in libertà provvisoria passò una notte a Firenze in casa dei Rosselli; gli squadristi però, venuti a conoscenza del fatto, devastarono l’abitazione il giorno dopo. Ed ormai preso di mira dai fascisti, Carlo Rosselli fu aggredito a Genova mentre si recava all’Università e poi disturbato durante una sua lezione, con la richiesta del suo allontanamento. Nel luglio del 1926 si attivò infine lo stesso Ministro dell’economia, Giuseppe Belluzzo, che chiese il suo licenziamento. A questo punto, preferì dimettersi.

Il 29 novembre 1925, Carlo Rosselli fondò con Claudio Treves e Giuseppe Saragat il Partito Socialista dei Lavoratori; nel 1926, con Pietro Nenni, dette vita al periodico “Quarto Stato”, ed alla fine dello stesso anno organizzò con Italo Oxilia, Sandro Pertini e Ferruccio Parri l’espatrio di Filippo Turati a Calvi nella francese Corsica, con un motoscafo partito da Savona. Il processo a Carlo per la fuga di Filippo Turati diventerà, però, una aperta accusa al fascismo. (12).

Confinato a Lipari, Carlo Rosselli scrisse “Socialismo Liberale”, (13) poi pubblicato in Francia nel 1930 con Librarie Valois, che doveva rappresentare il testo teorico del movimento Giustizia e Libertà da lui fondato con Emilio Lussu (14), ove tratteggia un nuovo mondo economico e politico basato sul liberalsocialismo, che contemplava, pure, la rottura fra socialismo e marxismo. Ed indubbiamente il liberalsocialismo risentì sia dell’influenza del pensiero liberale sia di quello socialista e marxista.
«Il socialismo inteso come ideale di libertà non per pochi ma per i più, non solo non è incompatibile con il liberalismo, ma ne è teoricamente la logica conclusione, praticamente e storicamente la continuazione. Il marxismo, e ancora una volta bisogna intendere per marxismo una visione rigorosamente deterministica della storia, ha condotto il movimento operaio a subire l’iniziativa dell’avversario, e una sconfitta senza precedenti». (15). Ed ancora: «Il liberalismo si è investito progressivamente del problema sociale e non sembra piú necessariamente legato ai principi della economia classica, manchesteriana. Il socialismo si va spogliando, sia pure faticosamente, del suo utopismo ed è venuto acquistando una sensibilità nuova per i problemi di libertà e di autonomia. È il liberalismo che si fa socialista, o è il socialismo che si fa liberale? Le due cose assieme. Sono due visioni altissime ma unilaterali della vita che tendono a compenetrarsi e a completarsi». (16).

Ma il liberalsocialismo non è idea condivisa solo dei fratelli Rosselli, ma anche da altri fra cui Aldo Capitini, che scrisse un corposo volume intitolato “Liberalsocialismo”. (17).

Cosa implicava il Liberalsocialismo? Nel 1937 Aldo Capitini, che rimase sempre in Italia,  espose anche lui, in forma scritta, le basi di detta ipotesi politico – sociale, nata dalla profonda avversione per ogni sistema totalitario, autoritario, centralistico, che puntava alla libertà di informazione, di critica, di associazione; allo sviluppo culturale basato, in particolare, sull’educazione permanente e sulla diffusione dell’istruzione tecnica a tutti; allo sviluppo politico, retto da un sistema parlamentare, controllato direttamente dal basso. Libertà e socialità si univano nella costruzione di un mondo nuovo, ed avrebbero creato «l’atmosfera politica ed economica delle nuove genti» che l’avrebbero raggiunta attraverso l’educazione di fatto cancellata dal fascismo. (18).

E sempre nel 1937 Aldo Capitini, con altri fra cui Giuseppe Saragat, fondò, fra la fine dell’anno ’36 e inizio ’37, a Perugia il Movimento Liberalsocialista, che propugnava «massima libertà sul piano giuridico e culturale e massimo socialismo sul piano economico», (19), e che poi si trasformò successivamente nel Partito d’Azione nel 1942. Capitini, però, rimase sempre contrario alla trasformazione del movimento in Partito, e la distruzione del 1947 del Pd’A con molti sui membri confluiti nel Psdi, parebbe dargli ragione.

Presumibilmente la formulazione delle idee base del liberalsocialismo affonda le sue radici in quel “Circolo della cultura” crogiolo di antifascismo, fondato a Firenze nel 1920 e distrutto alla fine del 1924 dai fascisti, e che aveva tra i suoi adepti sia i fratelli Rosselli sia Aldo Capitini. Firenze, scrive Aldo Capitini, divenne il fulcro dell’antifascismo e nell’opposizione al regime confluirono «correnti liberaleggianti; correnti repubblicano – democratiche; correnti socialistiche e quella più strenuamente religiosa e non violenta, molto esigua, minima ma attiva. (…). Converse ai nostri gruppi anche ciò che rimaneva, dopo arresti ed esili, dei nuclei formati da elementi di prim’ordine, di “Giustizia e Libertà”. Con i comunisti avevamo contatti, ma non una fusione». (20).

Ma per ritornare a Carlo Rosselli, egli è noto in particolare per aver fondato, con Emilio Lussu,  il movimento “Giustizia e Libertà”, intorno a cui si compattarono, poi, le file della resistenza laica ma non comunista. Ed uno dei maggiori esponenti nella Resistenza di detto movimento fu Fermo Solari, carnico della Val Pesarina. E da “Giustizia e Libertà” prese il fazzoletto verde anche la Divisione partigiana Osoppo, che non fu mai autonoma ma fece parte del Corpo Volontari della Libertà.  Detto movimento svolse anche un’importantissima funzione di informazione e sensibilizzazione nei confronti dell’opinione pubblica internazionale, svelando la realtà dell’Italia fascista che si nascondeva dietro la propaganda di regime. (21).

«Provenienti da diverse correnti politiche, archiviamo per ora le tessere dei partiti e fondiamo un’unità di azione. Movimento rivoluzionario, non partito, “Giustizia e libertà” è il nome e il simbolo. Repubblicani, socialisti e democratici, ci battiamo per la libertà, per la repubblica, per la giustizia sociale. Non siamo più tre espressioni differenti ma un trinomio inscindibile». (22).

Nello, invece, secondo Franco Corleone, partecipò pure a lanci di volantini antifascisti in territorio italiano, coniugando pensiero ed azione.  Ma qualche anno dopo, il 9 giugno 1937, in Francia, la vita dei fratelli Rosselli veniva cancellata dai sicari del Duce, a due passi dall’emanazione, in Italia, delle leggi antiebraiche.

Franco Corleone, nel corso dell’ incontro del 22 agosto, ha sottolineato l’importanza di valorizzare, in questa Italia che volge alla semplificazione culturale, all’imbarbarimento dei linguaggi in un mondo che io ho definito “di culi e tette, di rutti e puzze” (23) ed alla violenza come mezzo di comunicazione personale ed interpersonale che ci porta diritti ad un nuovo fascismo, la memoria attraverso una analisi puntuale e corretta della storia d’Italia, fatta di contesti di storie e di storia che si intrecciano, perché il nostro paese non è mera espressione geografica. Inoltre come dimenticare il motto dei Rosselli: «Tentate sempre?», che viene ora vanificato dal nichilismo giovanile e non solo? (24).

E così scrivevo nel novembre 2017 su nonsolocarnia.info: «La violenza ci circonda ed appartiene alla nuova cultura globalizzata, ne è uno degli elementi portanti, ed è, assieme al denaro, uno dei fattori che permette, sempre secondo una nuova etica che vuole Mr. Hyde sopraffare Jekyll, al singolo di affermarsi con la prepotenza e la prevaricazione, e di fare del possedere il nuovo fine dell’esistenza, cancellando diritti e doveri ed il rispetto dell’altro. Basta possedere, basta far vedere “chi sono io”, in barba a qualsiasi legge morale e codice di comportamento. (…). Inoltre non si riesce più a dare il giusto valore ai comportamenti, a furia di minimizzare, di cercar di far superare, senza che la vittima abbia mai giustizia. L’ etica del ‘Eh ma …’ è sotto gli occhi di tutti.  Così una azione chiara di bullismo diventa uno scherzo da ragazzi; una violenza alla compagna un non esser riusciti a controllarsi, invocando poi la teoria del raptus dopo aver acquistato la benzina; e uno sfregio alla dignità di un anziano viene giustificato da un ‘Ma se l’è cercata’e via dicendo. A forza di giustificare guerre, massacri, pedofili, assassini, ed anche i fautori dei bunga bunga, ormai ci siamo abituati a tutto. Ci siamo abituati a tutto … ripeto fra me e me … questo è l’aspetto da distruggere, questo non voler vedere, sentire, parlare …» (25).

E come dimenticare poi, quel titolo: “Non mollare”, del periodico antifascista fiorentino, sorto e cancellato nel 1925, programmatico, simile a quei motti alpini del tipo “O lâ o rompi”, a cui i Rosselli e non solo restarono fedeli, e quel loro voler partecipare alla storia d’Italia, espresso anche in “Tentate sempre”? (26). La nostra nazione – secondo l’avvocato Corleone, non può essere “una povera patria”, come intitola una canzone di Franco Battiato, ma deve essere, sia a livello globale che nelle piccole comunità che la costituiscono, una fucina di incontro anche di idee, non di odio generalizzato. E Corleone ha ribadito che il problema della nostra nazione ora non è la sua governabilità ma il suo governo, oltre che l’avere un sogno, una idealità per la stessa. (27).

Ed ancora: Carlo Rosselli scriveva da Lipari alla madre, in occasione della traslazione del corpo del fratello Aldo dal piccolo cimitero di guerra ad uno più grande che ella aveva creato tre vite, tre forze, tre anime che non avrebbero lasciato l’ambiente come lo avevano trovato e che magari essi si sarebbero bruciati ma per essersi troppo avvicinati alla luce. (28).

Riporto, qui, infine, per far comprendere lo spessore di questi personaggi, stralci del discorso di Carlo Rosselli in sostegno dei democratici, tra cui anch’egli si trovava, che lottavano in Spagna contro i generali, fra cui Francisco Franco, che volevano distruggere il governo legittimo e democratico affiancati dai fascisti, tenuto a radio Barcellona nel 1936.

«Compagni, fratelli, italiani, ascoltate. Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per portarvi il saluto delle migliaia di antifascisti italiani esuli che si battono nelle file dell’armata rivoluzionaria. Una colonna italiana combatte da tre mesi sul fronte di Aragona. Undici morti, venti feriti, la stima dei compagni spagnuoli : ecco la testimonianza del suo sacrificio.
Una seconda colonna italiana, formatasi in questi giorni, difende eroicamente Madrid. In tutti i reparti si trovano volontari italiani, uomini che avendo perduto la libertà nella propria terra, cominciano col riconquistarla in Ispagna, fucile alla mano. Giornalmente arrivano volontari italiani: dalla Francia, dal Belgio. dalla Svizzera, dalle lontane Americhe.
Dovunque sono comunità italiane, si formano comitati per la Spagna proletaria. Anche dall’Italia oppressa partono volontari. Nelle nostre file contiamo a decine i compagni che, a prezzo di mille pericoli, hanno varcato clandestinamente la frontiera. Accanto ai veterani dell’antifascismo lottano i Giovanissimi che hanno abbandonato l’università, la fabbrica e perfino la caserma. Hanno disertato la Guerra borghese per partecipare alla guerra rivoluzionaria. (…).

Oggi una nuova tirannia, assai più feroce ed umiliante dell’antica, ci opprime. Non è più lo straniero che domina. Siamo noi che ci siamo lasciati mettere il piede sul collo da una minoranza faziosa, che utilizzando tutte le forze del privilegio tiene in ceppi la classe lavoratrice ed il pensiero italiani.
Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. La Spagna ce ne fornisce la palpitante riprova. Nessuno parla più di de Rivera. Nessuna parlerà più domani di Mussolini. È come nel Risorgimento, nell’ epoca più buia, quando quasi nessuno osava sperare, dall’estero vennero l’esempio e l’incitamento, cosi oggi noi siamo convinti che da questo sforzo modesto, ma virile dei volontari italiani, troverà alimento domani una possente volontà di riscatto. È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia». (29).

E chiudo qui questa prima parte di riflessioni e informazioni derivate dall’incontro sui Fratelli Rosselli, per non rendere troppo lungo il testo, a cui seguirà altro articolo che prenderà spunto da quello che ci ha detto l’avvocato Gianni Ortis. Se vi è qualche errore anche sulla vita dei Rosselli, sui quali si trovano anche siti con svarioni per confusione tra Carlo e Nello, e dato che non avevo registratore, vi prego di avvisarmi per correggere. 

Laura Matelda Puppini

Note:

  1. http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-e-nello-rosselli_(altro)/ e https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Rosselli. Per Carlo Pincherle, cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-pincherle_(Dizionario-Biografico)/.
  2. http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-e-nello-rosselli_(altro). Per il pensiero dei socialisti riformisti, dei repubblicani romani e dei radicali in merito alla guerra, cfr. O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra.”, Andrea Moro ed., 2016, pp. 14-16.
  3. Uomo politico e di cultura italiano, di formazione democratica e positivista, aderì al marxismo e fu tra i fondatori della rivista Critica sociale (1891) e del Partito socialista dei lavoratori italiani (1892). In età giolittiana promosse l’ascesa del movimento operaio per via gradualista e parlamentare. Leader dei riformisti, fu espulso dal PSI nel 1922. In esilio a Parigi, promosse la nascita della Concentrazione antifascista e la riunificazione del partito. Bisogna pure ricordare che si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, sua compagna dal 1885. (http://www.treccani.it/enciclopedia/filippo-turati/).
  4. http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-e-nello-rosselli_(altro)/
  5. https://www.rosselli.org/importante-convegno-su-aldo-rosselli/, e intervento del sindaco di Paluzza Massimo Mentil al convegno “La crisi della democrazia e della politica: l’attualità dei fratelli Rosselli”, Treppo Carnico 22 agosto 2019.
  6. Laura (Matelda) Puppini, Cooperare per vivere. Vittorio Cella e le Cooperative Carniche (1906-1938) p. 46. On line in www.nonsolocarnia.info.
  7. Cfr. l’attualità delle considerazioni di Piero Calamandrei e Rossana Rossanda che ho riassunto nel mio: «“Fascismo”: così lontano così vicino?», in www.nonsolocarnia.info, pubblicato il 22 marzo 2016.
  8. Annalisa Candido, Il mio popolo se ne ho uno. La condizione dei giovani ebrei di lingua tedesca tra fine Ottocento e primi Novecento. Alcune considerazioni da Hannah Arendt “Il futuro alle spalle”, relazione per il tirocinio presso il Centro ebraico “G. e V. Pitigliani” di Roma, 23 maggio 2006, inedito.
  9. https://it.wikipedia.org/wiki/Nello_Rosselli.
  10. Ibid.
  11. https://it.wikipedia.org/wiki/Non_Mollare; http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-e-nello-rosselli_(altro)/.
  12. https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Rosselli.
  13. Carlo Rosselli, Socialismo Liberale, prima edizione pubblicata in Francia ed in francese, con Librarie Valois, 1930, leggibile in italiano on- line in: https://www.liberliber.it/mediateca/libri/r/rosselli_carlo/socialismo_liberale/pdf/rosselli_carlo_socialismo_liberale.pdf.
  14. https://it.wikipedia.org/wiki/Giustizia_e_Libertà.
  15. Carlo Rosselli, Socialismo Liberale, introduzione e saggi critici di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 1997, p. XXVI.
  16. Carlo Rosselli, Socialismo Liberale, p.7 edizione online cit.
  17. Aldo Capitini,” Di un lavoro per la società di tutti “, 1949, in: Aldo Capitini, Liberalsocialismo, ed e/o, 1996. La prima parte del testo, che è formato da due, venne pubblicato negli Stati Uniti d’America, nel 1942. Essa risultava firmata solo: dall’Italia. (Aldo Capitini, Liberalsocialismo, op. cit.” p. 17).
  18. Annalisa Candido, Aldo Capitini, religioso, antifascista. non violento fautore di un radicale rinnovamento della società, inedito, Liceo Scientifico Pio Paschini, Tolmezzo, 2003, pp. 8-9.
  19. https://anpcnazionale.com/2013/01/31/aldo-capitini-ed-il-liberal-socialismo-di-pino-ferrarini/
  20. Annalisa Candido, Aldo Capitini, op. cit., p. 8.
  21. https://it.wikipedia.org/wiki/Giustizia_e_Libertà.
  22. Ibid.
  23. Laura Matelda Puppini, In un mondo di ‘rutti e puzze’, ove madre e padre sono perduti, e Hide ha vinto su Jekyll, in: www.nonsoocarnia.info.
  24. Per il nichilismo giovanile, cfr. Laura Matelda Puppini, Giovani e nichilismo, da “L’ospite inquietante” di Umberto Galimberti con qualche aggiunta, in: www.nonsolocarnia.info.
  25. “Non mollare” è il titolo del periodico antifascista, già citato nell’ articolo, creato e coordinato da un gruppo di antifascisti di cui facevano parte anche i fratelli Rosselli. (https://it.wikipedia.org/wiki/Non_Mollare).
  26. Intervento di Franco Corleone il 22 agosto 2019 a Treppo Carnico.
  27. Ibid.
  28. Ibid.
  29. http://www.storiaxxisecolo.it/antifascismo/Guerraspagna1.htm).

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: https://www.ilpost.it/2017/06/09/morte-fratelli-carlo-nello-rosselli/. Laura Matelda Puppini

 

Su Capitini il liberalsocialismo, l’antifascismo e problemi contemporanei.

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Gianni Ortis, presidente dell’Istituto Friulano di Storia del Movimento di Liberazione, ha esordito a Treppo Carnico ricordando che Nello ed in particolare Carlo Rosselli ci hanno insegnato l’importanza dell’impegno, costante a sostegno della democrazia in Italia, ed ha ripreso il tema del liberalsocialismo.  

ANTIFASCISMO E LIBERALSOCIALISMO DA ALDO CAPITINI.

Sul liberalsocialismo mi pare importante però proporre alcuni spunti da una vecchia ricerca di mia figlia Annalisa Candido, svolta al Liceo Scientifico Pio Paschini d Tolmezzo che ha come oggetto il liberalsocialismo, intitolata: “Aldo Capitini, religioso, antifascista. non violento fautore di un radicale rinnovamento della società”, Liceo Scientifico Pio Paschini, Tolmezzo, 2003, inedita che forse presto pubblicherò su www.nonsolocarnia.info previo permesso di Annalisa.  

In essa Annalisa inizia la parte su Aldo Capitini citando quel Circolo della Cultura, sorto a Firenze nel 1920, di cui facevano parte anche i fratelli Rosselli, a cui ho già accennato nell’articolo precedente.
«Nel 1920 veniva fondato, a Firenze, un Circolo di cultura, che si era posto, inizialmente, l’obiettivo di discutere di argomenti di attualità. La sua finalità era quella di studiare e seguire lo sviluppo delle idee contemporanee nei suoi molteplici aspetti, e per questo si leggevano testi e giornali italiani e stranieri e si tenevano conferenze e discussioni su argomenti di attualità. Dopo la marcia su Roma, esso divenne luogo di incontro di uomini di diverso ceto sociale e di diversa cultura, che sentivano l’esigenza di ritrovarsi per cercare di capire cosa stesse succedendo in Italia. L’attività del Circolo si svolse indisturbata sino alla fine del 1924. L’ultimo giorno dell’anno la sede venne assalita e distrutta dai fascisti, al termine di un’adunata che aveva raccolto squadristi provenienti da tutta la Toscana: il Circolo, infatti era malvisto perché era composto da persone che si permettevano, ancora, di ragionare con la loro testa. Essa fa una delle prime esperienze di critica al fascismo nella città toscana. (Tiziana Borgognini  Migani, Introduzione, in: Aldo Capitini-Tristano Codignola. Lettere 1940-1968, (a cura di Tiziana Borgognini  Migani), Scandicci, La nuova Italia, Firenze 1997, p. XXV.)». (1)

Ed io ritengo che proprio questo Circolo di Cultura sia diventato il crogiolo ove si forgiò inizialmente l’idea liberalsocialista, che Carlo Rosselli per primo precisò in uno scritto pubblicato in Francia, seguito da Aldo Capitini, che lo codificò nel 1937.

Quel circolo di cultura fu anche fucina di antifascismo. «I sostenitori del movimento antifascista, a cui aderiva anche Capitini, raggiunsero, nel 1937, il consenso intorno ad una formula politica che venne chiamate, provvisoriamente, “Liberalsocialismo”. “Allora -scrive Capitini – c’era lo statalismo fascista e sorgeva, perciò, l’esigenza di un socialismo decentrato, strutturato democraticamente. Allora c’era il totalitarismo che generava l’avversione al dominio di un solo partito, di una sola idea, e di una sola interpretazione di essa, di un solo capo, despota di tutta la stampa, della radio, dei tribunali, della polizia, della tortura. Allora c’era la corsa agli armamenti, la teoria che il fine giustifica i mezzi, che la vendetta è un dovere, e noi (antifascisti religiosi – non violenti) sentivamo la nostra opposizione andare a cercare le sue carte d’appoggio, le sue consolazioni, nelle espressioni più vere del Vangelo, di San Francesco, di Mazzini, di Tolstoj, di Gandhi, sentivamo, cioè, che al male del fascismo si poteva e si doveva contrapporre un profondo bene, e che questo, prima che politico, era etico religioso, prima che propagandistico era intimo. Ma solo così toccammo una profondità che squalificava, radicalmente, il fascismo.” (“Complessità del liberalsocialismo”, 1945, in Aldo Capitini, “Liberalsocialismo, edizioni e/o. Roma, 1996, pp. 59-60).

E “L’aver preso in questo senso l’opposizione al fascismo, l’averla derivata da un insieme di motivi ben complesso, l’averci messo una consapevolezza non solo dei riferimenti italiani, ma dell’orizzonte universale, costituì un nucleo di possibilità religiose, etiche, politiche, che fece del liberalsocialismo una confluenza di diverse provenienze, un movimento più che un partito.” (Ivi, p.61)».  (2). 

Ed ancora, prendendo sempre da Annalisa Candido: «Il problema sociale e politico rimanda a due aspetti fondamentali: la libertà e la socialità. La ricerca e l’affermazione del valore della libertà devono avvenire in tutti i campi di vita; la socialità fa partecipi tutti dei valori fondamentali, quelli su cui si deve fondare uno stato. L’importanza della libertà e della socialità sono fondamentali per una situazione di benessere e giustizia, per la “gioia di celebrare la presenza infinita dell’umanità nelle singole persone”. (Aldo Capitini, Liberalsocialismo, 1937, in “Liberalsocialismo, edizioni e/o. Roma, 1996, p. 19)». (3). Però: «Gli ordinamenti sociali sono certamente importanti e devono venir studiati e attuati in modo che la libertà e la socialità divengano “l’atmosfera politica ed economica delle nuove genti”, le strade attraverso cui concretizzare ed organizzare, giuridicamente, queste due “supreme aspirazioni”. Esiste, secondo Capitini, un patrimonio di esperienze, schemi, piani, che potrebbero venire in soccorso per fondare la nuova società: essi giacciono nelle biblioteche, nelle direzioni dei partiti e dei giornali. Ma ciò che impedisce a molti di attingervi è l’animo che è turbato, incerto, stravolto, dall’attuale esperienza storica. Bisogna, pertanto, educare gli animi al rinnovamento, soprattutto gli animi di quelle persone che “vedono” queste nuova società ” che verrà dopo decenni o secoli”, ma temono le forze reazionarie. Per questo diventa, sin d’ora, importante, il ruolo degli educatori: infatti “senza educazione e rivoluzione intima, gli innovatori di domani assomiglierebbero troppo ai reazionari […] di oggi, dai quali è bene scindersi.” (Ibid., p.20)». (4).

E se da un lato Capitini nega validità reale alle tesi marxiste o del socialismo estremo, dall’altra si chiede: «“Dov’è il liberale oggi?” I liberali, a suo avviso, sono in crisi perché intendono in modo “atomistico ed individualista ” l’affermazione della persona e non ne difendono il valore spirituale; ciò ha portato “certi liberali” a “farsi sostenitori di regimi autoritari e, non poche volte, tirannici.” (Ivi, p.23). Essi, in tal modo, hanno difeso la loro proprietà e l’ordine tradizionale, ma non sono stati dei veri liberali, cioè dei reali sostenitori della libertà. (Ivi, p.23)». (5).

E sempre secondo Capitini, «la società è impregnata del culto della personalità individuale; ma vi è anche una “personalità della nazione” che viene esaltata, esasperata, e quando ciò accade la produzione dei valori umani viene depressa. Diventa fondamentale l’assolutizzazione di Sé, della propria tradizione, dei propri costumi. La critica del filosofo perugino alle teorie che, all’epoca, si basavano sul “Volksgeist”, sulla prevalenza dello spirito nazionale, è più che chiara. Egli ritiene necessario, obbligatorio, opporsi ad una tale visione della “Nazione” e rivendica l’importanza di avere gruppi dirigenti “privi di quell’enfasi che poi diventa potenza e ricchezza personalistica.” (Ivi., p. 23). Questi ultimi dovrebbero essere “austeri, quasi anonimi”; porsi l’obiettivo di stabilire l’equilibrio ed il senso della probità; essere costantemente dediti al loro compito. Perché la sfera politico – economica non divenga assoluta è necessario che essa rimanga sempre in contatto con i valori morali e religiosi, validi per tutti gli uomini. Questi ultimi dovrebbero essere “austeri, quasi anonimi”; porsi l’obiettivo di stabilire l’equilibrio ed il senso della probità; essere costantemente dediti al loro compito. Perché la sfera politico – economica non divenga assoluta – sostiene Capitini – è necessario che essa rimanga sempre in contatto con i valori morali e religiosi, validi per tutti gli uomini». (6).

Per quanto riguarda l’organizzazione del mondo economico, Capitini auspica il passaggio dei capitali dai pochi ricchi ad organismi collettivi che abbiano come fondamento “la socialità infinita e libera” e  la socializzazione dei mezzi di produzione e ricorda che «coloro che non offrono che il lavoro, cioè gli operai ed i braccianti agricoli in particolare, prima del fascismo avessero cercato di associarsi, avessero proposto contratti collettivi, conducendo una lotta per non essere considerati come cose da “accettare o rifiutare” e per il passaggio della proprietà e dell’iniziativa in campo economico, dai padroni alle organizzazioni dei lavoratori. (Ivi, p.24)». (7).

E «Questi sono dei fini condivisibili anche dal liberalsocialismo, cosi come la lotta alla disoccupazione, che all’epoca raggiungeva punte notevoli. “Ai disoccupati non si può rispondere in modo generico – sostiene il filosofo – non si può dire a due milioni di uomini di starsene in disparte perché l’industria e l’agricoltura non hanno bisogno di loro.” (Ibid.). Né si può sostenere, davanti a loro, che, essendo libera l’iniziativa, essi, teoricamente, possono diventare ricchi. L’assurdità di questo principio è palese già nello stesso momento in cui viene formulato, baste pensarci su e guardarsi intorno.

Per uscire dalla situazione presente è necessario, in primo luogo, che gli individui non si sentano “come atomi staccati dagli altri e perciò paurosi e violenti.”. (Ivi, p.25). Il principale problema da risolvere è quello di “fondare, nell’individuo stesso, un centro di universalità e di valore”, è, quindi, un problema attinente alla sfera religiosa ed intima di ciascuno. Ma è, allo stesso tempo, un problema di istituzioni, perché esse, in vario modo, concorrono alla visione che l’uomo ha di sé stesso ed al potenziamento di alcuni aspetti rispetto agli altri: gli organismi sociali, pertanto, debbono essere la conferma di questa visione della società e dell’individuo». (8).

Ed ancora: «Oggi si tende […] a far coincidere capitale e lavoro, ma ciò non può avvenire nel mondo moderno se il lavoro non si solleva fino ad essere “coscienza e capacità tecnica”, non il rozzo lavoro idoleggiato. La critica al mito del forte e bellissimo coltivatore ariano, che lavora la terra duramente e da essa ricava il “profitto”, diffuso soprattutto in Germania, è palese.

Capitini guarda, invece, con una certa simpatia, al formarsi di una classe di tecnici che si collochi tra gli operai ed i dirigenti: una classe nuova che può portare avanti istanze precedentemente inesistenti. Comunque, ormai, secondo il filosofo, l’addestramento tecnico è diventato un’esigenza per tutti e deve venire sviluppato in ogni settore produttivo. Egli auspica la creazione di veri e propri “centri tecnici” che mantengano, negli associati, la consapevolezza dell’importanza del loro lavoro, dell’apporto personale che ciascuno può dare, secondo la propria responsabilità e capacitò settoriale. Questo vale per l’operaio ed il contadino come per il docente universitario. In questo modo ogni campo lavorativo usufruirebbe dell’apporto dell’intelligenza dei vari individui che vi operano». (9).

Ma perché il liberalsocialismo non accetta il marxismo? Utilizzo ancora alcune frasi dallo studio di Annalisa: «Capitini non sostiene le tesi dei comunisti, non appoggia la lotta di classe, che è avvalorata da esigenze meramente economiche, e che non dà risposta alcuna alla realizzazione dei valori fondamentali per l’animo umano. “Dobbiamo pur vivere queste poche ore o pochi anni, – egli scrive – esplicare al massimo la nostra fede […]; non dobbiamo lasciare che venga un’ondata di materialismo, di dittatura, di economicismo di massa, lasciare che trionfi il regno della necessità poi, forse, quello della libertà. ” (Ivi, p.21).
Per questo è importante a suo avviso, sostenere la diffusione della cultura perché essa permette l’evoluzione dell’animo umano attraverso l’apprendimento di idee diverse ed il loro successivo confronto, ed aiuta la persona a realizzarsi nella sua pienezza. “L’insufficienza di cultura porta, sempre – secondo Capitini – al prevalere della burocrazia e del militarismo.” (Ivi, p.21)». (10).
Ma ricordo che Romano Marchetti, molto vicino al liberalsocialismo, da anziano parlando con me diceva che forse il suo giudizio globale sul marxismo e sul comunismo era stato influenzato da tutta la sua educazione in epoca fascista, impregnata di anticomunismo, ed imperniata sull’anticomunismo.

Bisogna, inoltre, secondo Capitini, sostenere un “liberalismo aperto” e non chiuso, rispondente ai bisogni ulteriori dell’uomo, intervenendo anche nel mondo sociale, rinnovando continuamente gli sforzi per permearlo della persuasione dell’importanza della libertà come valore fondamentale». (11).
E «L’ideale della teoria liberalsocialista è che tutti partecipino, col più profondo e continuo apporto, alla vita comune: per es. le aziende agricole e le industrie, socializzate, possono reggersi sui consigli, sulle proposte di tutti i partecipanti, in base alle loro specifiche competenze. (12).

GIANNI ORTIS: LIBERALSOCIALISMO ED IL RIFERIMENTO ALL’ OGGI.

Gianni Ortis ha richiamato, nel corso dell’incontro a Treppo Carnico, il principio dell’ autogoverno dei popoli, tanto caro anche ai liberalsocialisti, che si trova in inizialmente tra i “14 punti” elencati dal presidente americano Woodrow Wilson, davanti al congresso, l’8 gennaio 1918, e che comprendono pure la creazione di una «associazione delle nazioni, in virtù di convenzioni formali, allo scopo di promuovere a tutti gli stati, grandi e piccoli indistintamente, mutue garanzie d’indipendenza e di integrità territoriale». (13).

Quando però l’avvocato Ortis parla della differenza fra democrazia popolare e rappresentativa, sostenendo quest’ultima, non capisco invero ora come ora, di cosa stia parlando, ma è limite mio. Infatti da che so per democrazia popolare si intende una forma di governo presente in stati del patto di Varsavia ed iniziata da Josip Broz detto Tito nella Repubblica Socialista Federale jugoslava, che implicava che i partiti comunisti fossero al potere in coalizione con altri partiti popolari e «democratico-borghesi» (14), mentre la democrazia rappresentativa è una forma di governo nella quale i cittadini, aventi diritto di voto, eleggono dei rappresentanti per essere governati», come in Italia. (15). Ma ci sono anche altre forme di governo considerate democratiche, per esempio la democrazia diretta, propria di alcuni Comunità elvetiche. Ora è chiaro che in Italia vige una democrazia rappresentativa, almeno sulla carta, mentre alcuni politici, non da oggi vorrebbero instaurare una repubblica presidenziale, a cui sono nettamente contraria. (16). Ma nella democrazia rappresentativa gli eletti devono affrontare i problemi dei cittadini, non i loro problemi elettorali, personali, di immagine. I politici stanno sempre più staccandosi dalla gente, penso tra me e me, ma alla gente devono ritornare.

Ma in Italia a mio avviso, oltre la tendenza a far volgere la nazione verso la repubblica presidenziale, ci sono altri problemi: il mantenere distinti i tre poteri legislativo, esecutivo, giudiziario, aspetto ben sancito dai padri costituenti, che avevano visto cosa poteva significare l’accentramento dei tre poteri in mano ad un solo partito e come esso fosse di fatto una delle caratteristiche della dittatura; il non permettere leggi elettorali come la Rosato, tanto simile alla cosiddetta ‘legge truffa’ del 1953, che tendono a portare un partito unico al potere ed a cercare di cancellare, in nome del fare, ogni dibattito sia esterno che interno, come peraltro ipotizzato da Renzi pure con il patto del Nazareno; fare in modo che esista il più possibile stabilità di governo fino a fine mandato (17); avere dei politici pronti ad affrontare i problemi della popolazione ed a cercare di risolverli, non che si perdano in selfie, felpe, sgambetti, twitterate, battutine e scemate varie quando il paese è sempre più alle strette, puntando solo al potere anche creando crisi per andare a nuove elezioni “per dar voce agli italiani” come ha detto Matteo Salvini, guidati peraltro ora da un parlamento eletto con il loro regolare voto, e che quindi la loro voce l’hanno fatta sentire. E scrivo quanto senza voler offendere alcuno.

Ed è importante l’appello di molte personalità di spicco pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” il 27 agosto 2019, che si intitola “Il governo riparta dalla Costituzione”, e che invoca la proporzionale pura togliendo il maggioritario; la salvaguardia dell’ambiente da porre al primo posto; la lotta alle mafie ed alla corruzione; la lotta alla povertà; la libertà alle donne; la parità di diritti ai lavoratori; la lotta alla precarietà; il progressivo rifinanziamento del Sistema sanitario nazionale; l’ abolizione del reato di immigrazione clandestina (su cui non sono però d’accordo, perché non ritengo che ciò possa servire ad affrontare il problema degli immigrati); ed il restituire alla scuola il suo valore formativo.

Ed un altro punto mi resta oscuro, ed anche questo è un mio problema: cosa significhi “populismo” nell’uso attuale dei politologi italici, in quanto, come ha scritto Peter Wiles nel suo volume “Populism: Its Meanings and National Characteristics”: «A ognuno la sua definizione di populismo, a seconda del suo approccio e interessi di ricerca», mentre «Diversi autori hanno evidenziato la strumentalizzazione politica del termine, come Francis Fukuyama, che ha definito il “populismo” «l’etichetta che le élite mettono alle politiche che a loro non piacciono ma che hanno il sostegno dei cittadini» (18). Pertanto vi prego, studiosi, giornalisti ecc. ecc.  eliminate il populismo ed i populisti dal vocabolario, non serve a chiarire nulla ma pare serva a denigrare. Infatti ammesso anche che uno riesca a leggere tutto l’articolo di Marco Tarchi su: Il Fatto Quotidiano del 17 agosto 2019 intitolato: “Così il populista di governo diventa “sbiadito”” tanto per citare uno dei più recenti nel merito, nulla si capisce se non che detto aggettivo è stato affibbiato non si sa perché ai 5 stelle in senso dispregiativo.

Invece i Rosselli, nell’ottica liberale del loro pensiero, sostenevano principi che anche ora bisogna sottolineare come la sovranità popolare, la partecipazione delle persone alla vita sociale del loro paese, la legalità condivisa la promozione e la garanzia a tutti i cittadini dei diritti della persona, il veto in modo esplicito a tortura e violenza.  Questi aspetti, secondo Gianni Ortis, sono assicurati dalla fedeltà al metodo di governo. (19).

Concordo invece con Ortis quando dice che il socialismo deve ora riacquistare etica, e non deve esser confuso con la socialità ma porsi come fine principalmente quello di dare a tutti uguali basi di vita e libertà. Ed a proposito di questo concetto, egli ha citato Pankaj Mishra, scrittore indiano che vive a Londra, collabora anche con il “Guardian”, ed è autore del best seller “The Age of Anger”, che ha proposto un’etica socialista contro la destra, facendo una rigorosa critica del sistema liberista. (20).

Quindi Ortis ha citato Giacomo Matteotti, il suo rigore, la sua aperta critica a Mussolini ed al fascismo, che lo hanno portato alla morte per mano dei sicari. Mussolini era impotente davanti ai critici, e conosceva bene questa sua personale debolezza, secondo l’avvocato Ortis, pertanto ha fatto uccidere Matteotti, non sapendo tenergli testa, ma forse, a mio avviso, non solo per questo, perché tutti i regimi coloniali e quelli dittatoriali da quello franchista a quello cileno, hanno torturato ed ucciso gli oppositori, e ciò rientra nella pratica di governo degli stessi. (21).

SPUNTI CONTEMPORANEI DALL’ INTERVISTA DEL FINANCIAL TIME A VLADIMIR PUTIN.

Secondo Gianni Ortis anche Nello e Carlo Rosselli volevano portare gli uomini a partecipare alla vita sociale, ed all’inizio dell’intervento ha citato pure alcune asserzioni dall’intervista che Vladimir Putin ha concesso al Financial Times in vista del G20 e di un possibile accordo economico con il Regno Unito, che ho visto, dopo avere saputo della sua esistenza dall’avvocato Ortis, seguendo la traduzione in inglese in sovrimpressione, e mi è parsa molto interessante. Sottolineo però che alcune risposte, come in ogni intervista, dipendevano dal modo con cui venivano formulate le domande. Inoltre detta intervista si è svolta il 27 giugno 2019, e le date delle interviste sono aspetto importante.

Per esempio, nel quadro di domande sui suoi rapporti con Trump, Putin ha detto che Trump non proviene dalla carriera politica, e vede solo il vantaggio per gli Usa, e così egli non può esser d’accordo con lui, con il suo modo di fare, per il suo approccio ai problemi. Ed è sicuro pure che Trump conosce bene ciò che il suo elettorato si attende da lui. (22). Questo mi ha fatto riflettere su come anche in Italia vi sia chi ha spesso pensato primieramente al suo elettorato piuttosto che ai problemi del paese intero, creando situazioni anche difficili per la popolazione, e pure al fatto che, quando la politica si concentra in poche mani o è dettata principalmente da una persona sola, va a finire che questi potrebbe agire e muoversi solo sulla base dell’interesse del suo elettorato o per ampliare i consensi, magari facendo aperta guerra ai critici al suo agire. E tristemente penso ai ‘gufi’ di renziana invenzione.

Ha risposto poi, sempre su sollecitazione dell’intervistatore, che i popoli americano e russo non sono identici, non hanno le stesse impronte digitali. Ma la di là di questo, egli ha mantenuto sempre rapporti con i presidenti americani, anche se è stato più facile comunicare con alcuni di loro piuttosto che con altri, e ha citato la sua esperienza positiva con Bill Clinton, il primo con cui ha avuto relazioni fattive.

Ma poi ha aggiunto che non sa se quello che Trump sta facendo sia giusto o meno, perché non è suo compito discutere questo aspetto, anche se pure lui vorrebbe capire i motivi che hanno spinto Trump a fare alcune scelte. In sintesi ha precisato che egli non è la persona giusta per rispondere a domande sulle motivazioni che hanno portato il presidente Usa a compiere alcune opzioni piuttosto che altre, ma che lo si dovrebbe chiedere direttamente a lui.
E situazioni del genere si verificano spesso anche in contesti di diverso tipo, penso fra me e me, dove viene posta una domanda all’ interlocutore sbagliato, senza rivolgersi direttamente a chi potrebbe sapere qualcosa realmente. Basti pensare ad un padre che chiede al figlio spiegazioni su cosa ha fatto sua madre. Ma per fare un altro esempio, a semplici partigiani sono state poste domande su contesti e scenari internazionali o su scelte dei loro comandanti divisionali di cui nulla sapevano, per poi prendere risposte dettate dal letto poi, dal sentito dire, da ipotesi personali magari suggerite da qualche linea politica come verità vera, perché affermazioni di un testimone dell’epoca.

Quindi Putin ha pure identificato, nella storia e filosofia dei rispettivi popoli, le principali differenze che non permettono piattaforme identiche di sviluppo per Cina e Stati Uniti. (23).  Quindi storia e filosofia non sono usciti mai né dalla porta né dalla finestra, penso fra me e me, e vi è qualcuno ancora disposto a citarle. Il problema per l’Italia è però che la storia si unifica dopo l’Unità, e che in precedenza la nostra nazione era formata da una serie di stati con diversa organizzazione politica e cultura.

Non mi dilungo qui su cosa ha detto Putin, solo aggiungo che egli ha detto che i salari possono anche aumentare come in Russia, ma il reddito familiare diminuire in particolare a causa del costo dei prestiti, molto diffusi in Russia, ed a causa dell’inflazione, ed una soluzione proposta per i pensionati è che se l’inflazione si porta in un anno al 4,3 % si deve calcolare, l’anno successivo, un aumento delle pensioni ipotizzando una inflazione al 7,5, ed in Russia hanno pensato di fare così. (23).

Ma Putin ha anche parlato di crisi del liberalismo, quando ha detto che Trump pensa solo che si debba fare qualcosa relativamente al problema dei migranti. Ma è come quando parlano dell’idea liberale. Dicono che tutto nel liberalismo è positivo, che ogni cosa è come si vorrebbe, ma poi i teorici e coloro che lo propongono non fanno di fatto nulla per attuarlo, perché stanno chiusi nei loro accoglienti uffici, mentre quelli che si trovano di fronte i problemi reali ogni giorno, sommano difficoltà a difficoltà.

Inoltre ha precisato che la Cina ha utilizzato la globalizzazione per portare milioni di cinesi fuori dalla povertà. Cosa è successo e cosa non è successo invece negli Stati Uniti? Le compagnie, ed i loro manager i loro partners hanno utilizzato la globalizzazione per i loro profitti, ma la classe media non ne ha beneficiato, a differenza di coloro che hanno saputo approfittarne. E quando c’è stata da dividere la torta, essa è stata lasciata fuori.  Non da ultimo ha detto, rispetto all’autodeterminazione dei popoli: «Cosa fare della Cina lo decida il popolo cinese, nessuno lo può fare per lui. La Russia con i suoi milioni di abitanti ha i suoi principi e le sue regole di vita, e la Cina con i suoi 1.35 bilioni di abitanti ha i propri. Ed è necessario dare al popolo cinese la opportunità di decidere come organizzare la propria vita». (24).

Capitini, relativamente alla situazione che si trovava a vivere, ha sostenuto che «la situazione economica, ancora in mano al sistema capitalistico, potrà aggravarsi e si manifesteranno, in modo deciso, le conseguenze delle barriere economiche, delle spese militari, della produzione autartica di prodotti costosissimi. «E quando tutta questa gente, riempita di armi, privata di scrupoli, si scatenerà, il mondo vedrà moltiplicato il numero delle persone che vivono dell’avventura guerriera.” (Aldo Capitini, Liberalsocialismo, 1937, op. cit., p. 34). Spetta a chi ha già avvertito questi pericoli continuare a cercare di innovare gli animi, studiando, pure, a fondo, i problemi emergenti. Questo non significa, però, aspettare, quasi indefinitamente, che i tempi per il rinnovamento siano maturi, significa prepararli: ” i tempi non vengono se le forze non sono pronte.” (Ibid.). E non si prepara un nuovo ordine se non si sono generate delle forze che aiutino altre a staccarsi dai vecchi ordinamenti». (17).

Ma delle idee del liberalsocialismo ha certamente risentito notevolmente anche Romano Marchetti, mazziniano, su cui ritornerò in altro articolo.

Brucia La foresta ammazzonica del Brasile, il polmone della terra, che si configura come un disastro epocale per il mondo tutto, per quattro privi di senno e criminali internazionali che vogliono piantare soia uccidendo il mondo, pensando che dopo i vastissimi incendi il clima si comporterà come prima. Ma non sarà così. Brucia la foresta amazzonica senza che ci si interessi più di tanto al problema per un discorso di mero denaro. Anche per questo è importante parlare di valori, di cultura, di conoscenza, di socializzazione dei temi e dei problemi, prima che sia troppo tardi se non lo è già ora.

Laura Matelda Puppini

  1. Annalisa Candido, Aldo Capitini, religioso, antifascista. non violento fautore di un radicale rinnovamento della società, inedito, in: Liceo Scientifico Pio Paschini, Tolmezzo, 2003, p. 6.
  2. Ivi, pp. 7-8.
  3. Ivi, p. 8
  4. Ivi, p. 9.
  5. Ibid.
  6. Ibid.
  7. Ibid.
  8. Ivi, pp. 9-10.
  9. Ivi, p. 10.
  10. Ivi, p.9.
  11. Ibid.
  12. Ivi, p. 25.
  13. https://it.wikipedia.org/wiki/Quattordici_punti.
  14. http://www.treccani.it/enciclopedia/democrazie-popolari_(Dizionario-di-Storia)/.
  15. https://it.wikipedia.org/wiki/Democrazia_rappresentativa.
  16. Laura Matelda Puppini, 2 giugno 2018. Contro l’ipotesi di Repubblica presidenziale, in: www.nonsolocarnia.info, ed anche: Laura Matelda Puppini, Sul 2 giugno e la Repubblica, in: www.nonsolocarnia.info.
  17. “La Fed: l’Italia fra i rischi globali. L’instabilità preoccupa anche gli Usa. Intanto Pechino impone nuovi dazi, in Avvenire, 24 agosto 2019.
  18. https://it.wikipedia.org/wiki/Populismo – Paragrafo: critiche.
  19. Gianni Ortis, intervento a Treppo Carnico il 22 agosto 2019.
  20. https://it.clonline.org/storie/incontri/2018/02/28/pankaj-mishra-era-della-rabbia
  21. Gianni Ortis, intervento a Treppo Carnico il 22 agosto 2019.
  22. Vladimir Putin the full interview, https://www.youtube.com/watch?v=FbY0VpyjtuI.
  23. Ibid.
  24. Ibid.
  25. Annalisa Candido, op. cit., p. 12.
  26. Vladimir Putin the full interview, https://www.youtube.com/watch?v=FbY0VpyjtuI.

L’immagine che accompagna l’articolo, rappresenta la copertina di una vecchia edizione del volume di Guido Calogero: Liberalsocialismo, ed è tratta dal sito: https://prodottitop.com/?q=liberalsocialismo. Laura Matelda Puppini. 

 

 

 

 


Divagando sulla sanità aziendalizzata locale e nazionale, che vacilla sull’orlo dell’abisso.

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Vorrei, mentre preparo per l’ennesima volta le valige, ritornare al tema a me tanto caro della sanità locale e nazionale. Ho letto sul Messaggero Veneto che l’Azienda Ospedaliera Udinese ha i conti in rosso anche per i farmaci pure oncologici salvavita, (“Spese per farmaci specialistici alle stelle Buco da 5,8 milioni all’azienda ospedaliera” in: Messaggero Veneto, 26 agosto 2019) ma, se leggiamo il Messaggero Veneto del 9 ottobre 2016, vediamo che allora ci narravano la stessa storia. Infatti troviamo un articolo intitolato: “Sanità regionale, conti in rosso per i farmaci”, (https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2016/10/09/news/i-farmaci-salvavita-affossano-i-conti-1.14221793), ove il contenuto rimanda a quello attuale, ripreso pure in: “Azienda sanitaria, rosso da 6,9 milioni a causa degli elevati costi dei medicinali” (Messaggero Veneto, 27 agosto 2019). Quindi non è certo una novità che la spesa per i farmaci di ultima generazione da quelli per l’epatite virale a quelli per la emofilia costino parecchio, (ma per grazia di Dio gli emofilitici non sono migliaia, presumo), il mistero è perché in questi tre anni nessuno abbia seriamente affrontato il problema, cercando una via di acquisto nazionale o tagliando, per far fronte a dette spese, gli sprechi e le spese superflue, che pare esistano ancora anche se non conosco la situazione a livello regionale, oppure accorpando quei reparti super specialistici che sono fonte di ampie spese, a fronte di non tantissimi interventi, dopo una fredda analisi razionale e nazionale. Questione di parrocchie e sagrestie? Forse sì, forse no, ma non è tempo di pensare ad orti ed orticelli, ed a separatismi. Invece che accade? Ci continuano ad annoiare con gli articoli replay, facendoci capire che la politica aziendale non cerca neppure una risposta al problema, ma ce lo ripropone tout court, una volta, due volte, tre volte. Allora, io se avessi un buco di bilancio a casa mia, mi rimboccherei le maniche e cercherei una soluzione logica e possibile, non certo quella del tappabuchi, che in sanità è invero pericolosa, magari confrontandomi con altri, e se ogni anno sforo, invece di fare lamentazioni periodiche, cercherei di studiare il problema globalmente, contestualizzandolo nell’insieme delle voci di bilancio. E prego il Messaggero Veneto, la prossima volta, di informarci come il manager della Ass4 e Asuiud intenda risolvere detto problema, senza pesare sui pazienti per i farmaci salvavita. Per inciso però , questi non sono problemi che un singolo può affrontare da solo, e ben vengano incontri con altre regioni e con esperti, e quelle analisi situazionali che non si vedono da anni, a fini di progettare, conoscere, capire.

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Caliamo poi un velo pietoso di silenzio sulle ipotesi peregrine di Daniele Minerva, che ha scritto ben cose migliori (Cfr. Daniela Minerva: “L’ultima spiaggia: il dottore col cronometro” da RSalute. Medici come Cipputi?, in:www.nonsolocarnia.info) che su Live, allegato al Messaggero Veneto del 29 agosto 2019 e da obbligatoriamente acquistarsi con il giornale locale, scrive testualmente, relativamente agli antiacidi, da tempo sotto accusa non per inefficienza del prodotto ma perché fanno aumentare la spesa farmaceutica: «proviamo a chiedere al medico, quando ce li prescrive […] se possiamo farne a meno». E brava la Minerva, penso fra me e me, che grande ideona! Poi continua dicendo che, in fin dei conti, si potrà sempre prenderli quando il mal di stomaco si farà insopportabile. Oddio, e se intanto ti è venuta una esofagite, un’ulcera gastrica, ti si è riempita la bocca di simil afte, che sono magari erosioni da acido, e il tuo stomaco inizia a sviluppare una metaplasia? Tranquilli, avete fatto risparmiare soldini alla voce sanità! Perché cara Minerva, lo stomaco non fa dolori insopportabili ai più, e le gastriti sono spesso causate dalle vagonate di stress della vita moderna. Magari ce lo togliessero, e ci permettessero di riposare e di rilassarci, così da poter privarci di qualche antiacido o inibitore di pompa!

Inoltre la giornalista Minerva continua invitando a non prendere farmaci che abbassino il colesterolo, non si sa però se compreso il riso rosso fermentato che va per la maggiore, richiedendo magari agli infartuati di trovare un medico che tolga loro le statine: il tutto nella saga della scriteriatezza! Ma invece la nostra chiama questa “consapevolezza”, di che cosa non è dato sapere. E questa sarebbe la sua ricetta per permettere l’acquisto di farmaci salvavita! Ma forse la direttrice di Live, che è sempre Lei, Daniele Minerva, non sa che il problema è più complesso, e che questa ricetta, non da San Martino che dà metà del mantello al povero, ma praticamente tutto, presumibilmente non solo non risolverebbe il problema del costo dei farmaci salvavita, che la ricerca produce sempre più, ma riempirebbe pure di ulteriori malati gli ospedali già in affanno, con esiti catastrofici per tutti. Ed anche la teoria dell’uso risicato di antibiotici è pura follia, da far ribaltare Alexander Fleming nella tomba, perché si sa quali parametri e sintomi indicano infezioni ed anche quali esami fare per evidenziarle, e le infezioni sono patologie serie, maledettamente serie, che non si possono risolvere come le risolveva l’uomo di Neanderthal. Invece mentre una volta le infezioni venivano curate anche a domicilio con iniezioni, ora il medico di base, da cui comunque sei costretto ad andare mezzo moribondo, non volendo venire in casa, ti prescrive quattro pilloline, che quelle sì, essendo dose inadeguata, creano ceppi resistenti, e i microbi vanno a nozze! In compenso, però, di cure antibiotiche, per motivi di mercato, beneficiano i pulcini, i maiali, le vacche, ecc. ecc. degli allevamenti intensivi! (Batteri antibiotico-resistenti da animali a uomo. L’ uso massiccio di antibiotici nell’allevamento animale ed i pericoli per la salute umana, in : www.nonsolocarnia.info).
Inoltre sarà preferibile lasciar perdere subito altre belle idee, come quella che le infezioni da streptococco agalactiae, anche se evidenziate, non si curano se non nelle donne incinte, e che le infezioni nella donna si prevengono con il mirtillo rosso quando esso potrebbe in alcuni casi, per ben che vada, solo impedire l’adesività alle pareti dell’escherichia coli, ma anche, per mal che vada, creare una serie di problemi per iperacidificazione delle urine, e credetemi, non sono leggende metropolitane!

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Ma per tornare a cosa si sa della sanità locale, a fronte della assoluta mancanza di informazioni dirette (tranne che per esempio io non ho potuto prenotare una visita specialistica perché le agende in Friuli erano chiuse), si legge sempre sul Messaggero Veneto di un documento informale regionale che circola fra gli addetti ai lavori, che non essendo ufficiale, vale quanto un mio foglietto di appunti da siti vari, da cui si apprende che all’ospedale di Tolmezzo si vorrebbe consolidare, se ben mi ricordo, il punto nascita, mentre mancano assolutamente posti sufficienti per medicina interna che tutto assomma, come da anni si va dicendo, manca il laboratorio analisi, che servirebbe pure per non aspettare 4 o 5 giorni l’esame di una pipì, che si sta meno ad utilizzare da soli gli stick, ma i medici giustamente vogliono esami di laboratorio. Inoltre vorremmo avere qualche notizia, sempre per quanto riguarda il nosocomio Tolmezzino, dato che il sito dell’Aas3 non riporta nulla, su come funzionino le chirurgie, su chi siano i medici che lavorano al nosocomio, quali dipartimenti siano ancora presenti, che servizi e prestazioni offra, e chi lavori all’interno della struttura in regime di libera professione. Il sito dell’Azienda Ospedaliera di Udine lo dice, quella di Trieste pure, anche se con la scusa di Insiel siamo passati da siti chiari a siti oscuri per la ricerca. Così va a finire che vai a cercare qualche prestazione sul sito di casa di cura città Udine, che almeno si capisce qualcosa.

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Comunque il Messaggero Veneto, creandoci un crescendo di angoscia estiva, già aumentata dai reparti e dalle agende chiusi, dai medici e dal personale in ferie, dalle notizie sui farmaci che non si trovano più, e sui nostri conti domestici che tendono al rosso anche per le nuove spese sanitarie, il 14 agosto 2019 ha pubblicato un articolo, dopo mi pare mesi di silenzio, sull’Aas3 intitolato: “Conti ancora in rosso all’ Aas3 entro l’anno via 50 dipendenti”, firmato da Alessandra Ceschia.

L’articolo ci illumina sul fatto che, anche se si sono bloccate le sostituzioni del personale per contenere i costi, la spesa farmaceutica e le prestazioni sanitarie hanno portato ad un passivo di 3,5 milioni di euro in sei mesi, come mai Dio solo lo sa. Perché o il manager dell’Ass4 e Azienda Ospedaliera Udinese ha talmente ridotto le entrate per la nostra quasi defunta azienda facendoci capire cosa sarà il futuro, cioè una politica di tagli indiscriminati alla periferia e “la palla al solo centro”, o non si vede come si possa avere un passivo del genere, mentre continuiamo a sognare Benetollo. E mentre si invocano soldi per Udine, almeno così pare, l’Aas3 inesistente e commissariata, di cui per ora Tonutti ha detto di non volersi interessare perché deve mettere a posto i conti udinesi, se ho ben capito (https://www.youtube.com/watch?v=GmGPahcpxdc) «imbocca la strada dell’austerity», secondo Alessandra Ceschia, quasi non lo avesse già fatto prima, basta vedere il fu ospedale di Gemona morto e defunto. Ma io credo che Tonutti voglia anche tagliare il più possibile l’ospedale tolmezzino, mentre non si può, umanamente, in una situazione di sanità disagiata ed in affanno, tagliare ancora personale non dirigenziale. Ma quali sono le voci che hanno fatto andare in rosso la defunta Ass3, ora assemblata al Friuli centrale? Quella relativa all’acquisto di beni sanitari e di farmaci, problema nazionale, e quella relativa alla sfera socio assistenziale, ma qui si dovrebbe vedere perché. Cosa pensa di fare il manager di tutta la sanità friulana? Non sembra  proprio analizzare bene la causa di detta situazione, magari separando spesa sanitaria da socio assistenziale, ma revisionare, ridurre, tagliare, qui e là, “zac, zac”. O forse si pensa di ridurre la prescrizione di farmaci, e di far acquistare rosari, che costano di meno? E poi che si pensa nelle alte sfere? Forse che ora i medici prescrivono farmaci così a caso? E si è notato che i farmaci nella fascia a totale carico del ssn stanno riducendosi sempre più? E poi, Daniela Minerva, secondo Lei il paziente dovrebbe analizzare da solo i benefici rischi di un farmaco, e cercare di rinunciarvi, con il placet di un professionista che gli dia una pacca sulla spalla e gli dica: “Proviamo a farlo”, per sanare i conti pubblici? Mica viviamo nel paese delle Meraviglie di Alice. Ma sapete cosa significa tenere il colesterolo alto per non prendere una statina, o rischiare anche alterazioni al sistema immunitario, oltre che di “Tirâ su i scarpets” per dirla alla friulana, per limitare l’uso degli antibiotici, quando non sappiamo neppure, come ho scritto più volte che pesti ci saranno un domani, o che germi portano e porteranno a casa quelli che vanno in Medio Oriente a cercare magari non si sa quali emozioni, senza aver fatto le vaccinazioni di rito, o cosa ci riserveranno le mutazioni climatiche? Non da ultimo anche le vaccinazioni obbligatorie gratuite per i bimbi pesano sul bilancio delle Ass, ma secondo me sono importanti. E sembra che ora alcuni, che non si sa come si possano definire chirurghi, preferiscano dare farmaci piuttosto che operare, e i medici di base, di fatto, non fanno in genere neppure un taglietto ai loro pazienti. Eppure le operazioni servono e curano.

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Altra ricetta proposta per far cassa: diminuire gli esami e le visite prericovero, con il rischio, dico io, di aumentare i morti in ospedale. Perché se magari a G. C., aldilà di altri errori, avessero fatto qualche accertamento in più prima di operarla ad Udine per una angiodisplasia del colon, comune nell’anziano, ed un esame radiografico immediato post- operatorio per vedere se era tutto a posto, forse sarebbe ancora qui a raccontarcela. E G.C. era fortemente cardiopatica ed aveva globuli bianchi  quasi costantemente tra 2000 e 3000, anche dopo ripetute trasfusioni, quindi prima di portarla in sala operatoria si sarebbe dovuto magari fare qualche ulteriore accertamento. Non si può morire così, non si può morire dopo una operazione per displasia al colon, e non per emorragia. E non voglio offendere alcuno, dovete credermi. E porto questo caso solo come esempio. E certamente un altro problema è quel ‘platâ dut, in sanitât», che non permette di conoscere ed analizzare gli errori e le manchevolezze, per migliorare e spendere in modo più oculato, e che toglie fiducia ai pazienti.

Ma per ritornare a noi, il Messaggero Veneto ha mai pensato che i problemi della sanità e dei suoi costi non siano solo locali ma anche nazionali, e che in tal senso siamo in buona compagnia e che magari qualche tipo di soluzione l’hanno cercata anche altri, come pure per tagliare le liste di attesa? Ma come le si può tagliare, se si taglia il personale? Mistero.
Inoltre i lettori del noto quotidiano che risiedono in Aas3 semi defunta, potrebbero pensare o come l’anziano di Zovello sintetizzabile in “Quando verrà, verrà”, che evidenzia un aspetto deterministico, o di cercare soluzioni concrete nel privato od altrove, con il risultato di creare ancora meno benessere economico all’Ass ora accorpata a quella del Friuli centrale, mentre i problemi della sanità nella città di Udine ed in pianura sono diversi da quelli della montagna. (Cfr. Gianni Borghi su: “La nuova proposta per la salute in territorio montano”, in: www.nonsolocarnia.info).

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Per scrivere questo testo, poi, ho smanettato un po’ nei soliti siti a me cari, ed ho trovato che viviamo in Italia gli stessi problemi in sanità, di cui il primo è lo scarso finanziamento, che rischia di far scricchiolare l’intera struttura del sistema sanitario nazionale. Ero partita da Gutgeld e Telesca, e siamo ancora lì. E dagli anni delle vacche grasse in sanità, siamo passati a quelli delle vacche magrissime, che muoiono per fame, perché sono restate senza alimento. E come non dar ragione a chi, su “Il Fatto Quotidiano”, del 12 settembre 2016 ha intitolato un articolo di Thomas Mackinson: “Sanità, salva i conti prima dei pazienti: il diritto a cure adeguate messo a rischio dalla corsa al risparmio”? L’articolo poi mette in guardia dalle centrali uniche di acquisto in sanità, che attuano la logica del ribasso della spesa, e così inizia: «Una foto, un tessuto, due cerniere. La prima è il prodotto di una “pinzatrice” cinese che costa circa 150 euro e per questo va per la maggiore, nonostante il risultato. L’altra è occidentale, costa almeno il doppio, e per questo fatica a stare sul mercato delle pubbliche forniture, nonostante la resa e la tenuta siano visibilmente migliori. La fotografia del problema parte da qui. Perché quelle non sono cerniere dei jeans: sono punti metallici per la sutura dopo un intervento chirurgico. Quella foto, in altre parole, tocca la carne stessa degli italiani. Al pari di defibrillatori, valvole cardiache, pompe di insulina per i diabetici, stent e altro ancora». – A questo porta il gioco al ribasso, che non è solo della spesa, ma anche del servizio – penso fra me e me.

«Un grande discount della salute, – continua l’articolo appena citato – senza più limiti. È il rischio che corre l’ultimo tentativo di razionalizzare la spesa pubblica. Dopo anni di tagli lineari e spending review la forbice passa oggi per 33 “centrali d’acquisto”, in sostituzione di 35mila stazioni appaltanti, che sono ormai il fulcro del processo decisionale di approvvigionamento di beni e servizi nella pubblica amministrazione. Dopo due anni di gestazione, la riforma è operativa da gennaio: per legge, le nuove centrali (21 regionali, una nazionale, 9 città metropolitane e due province) esperiscono gare in base a criteri individuati da Consip con gare unificate a livello nazionale. Le centrali d’acquisto regionali (Arca) li utilizzano poi come parametro per le loro procedure d’acquisto. Un meccanismo che – nelle intenzioni – punta a migliorare la trasparenza nel mercato delle forniture e ridurre i costi con economie di scala» (Ivi) ma che «finisce per attribuire al prezzo un peso ponderale sproporzionato rispetto alla componente qualititativa». (Ivi). E lo sbilanciamento deriva pure dalla genericità dei capitolati che si limitano a indicare caratteristiche tecniche “di base”, senza dettagliare sub-criteri qualitativi e tecnici, così da consentire a chiunque di parteciparvi, grandi e piccoli che siano, perché tutti li raggiungono. (Ivi). «La vera gara, a quel punto, si gioca solo ed esclusivamente sull’offerta economica più vantaggiosa. Il risultato è un profluvio di procedure d’acquisto dove a vincere sono proprio produttori, terzisti o rivenditori di marchi d’importazione che propongono materiali e dispositivi di prezzo e qualità inferiori. Che poi però finiscono in sala operatoria: dalla valvola cardiaca al defibrillatore». (Ivi). Ma basta che ci siano, ma basta che costino poco, ma …. A questo porta l’ottica dei conti. Ma poi magari c’è la direttiva europea 2014/24/UE, che introduce modalità innovative nella interazione tra Pubblica amministrazione e fornitori, come il cosiddetto “dialogo competitivo”, che punta a tutelare l’innovazione nei sistemi, proprio al fine di trovare la soluzione più adeguata in termini di qualità e di prezzo e non solo di prezzo, (Ivi) ma in Italia viene applicata?

Ed anche nell’ attuazione del Lea, non stiamo proprio bene. «Intanto secondo la Fondazione Gimbe, […] nel nostro paese i livelli sanitari di assistenza […] spesso sono garantiti solo sulla carta e le famiglie sono costrette a spendere sempre di più a causa degli sprechi e delle inefficienze di un sistema che sta “cadendo a pezzi”. La colpa, si scrive nel rapporto presentato oggi in Senato, è soprattutto della politica. Nel periodo 2010-2019 sono stati tagliati 37 miliardi di euro a fronte di un incremento del fabbisogno sanitario nazionale”, lamenta Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, secondo cui la situazione non migliorerà nel futuro prossimo. “Il Def 2019 riduce il rapporto spesa sanitaria/Pil dal 6,6% nel 2019-2020 al 6,5% nel 2021 e 6,4% nel 2022 e l’aumento di 8,5 miliardi in tre anni previsto dalla legge di bilancio 2019 è subordinato alle ardite previsioni di crescita». (https://www.wired.it/lifestyle/salute/2019/06/11/sistema-sanitario-italia-cade-pezzi-report-gimbe/).

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Non solo: non a caso l’articolo da cui ho preso queste frasi intitola e sottotitola: «Il sistema sanitario italiano sta “cadendo a pezzi”. Lo dice un report della Fondazione Gimbe, secondo cui l’Italia spende troppo poco e spreca molto. E per questo motivo oggi molte cure essenziali non sono più garantite». (Ivi). E sempre secondo il rapporto Gimbe «l’Italia spende poca e spreca molto: circa 21 miliardi. A pesare sul bilancio sono l’inadeguato coordinamento dell’assistenza, le inefficienze amministrative, il sovrautilizzo di servizi e prestazioni sanitarie inefficaci o inappropriate, e le frodi e gli abusi che spesso fanno sì che vengano acquistati prodotti con prezzi eccessivi». (Ivi). Ed ancora: «secondo la Fondazione Gimbe, dietro questo collasso del sistema sanitario nazionale c’è soprattutto una cronica mancanza di fondi. “L’Italia siede nel G7 tra le potenze economiche del mondo, ma la politica ha fatto precipitare il finanziamento pubblico per la sanità ai livelli dei paesi dell’Europa orientale”, dichiara Cartabellotta. “E così, mentre il mondo professionale e i pazienti aspirano alle grandi (e costose) conquiste della scienza e l’industria investe in questa direzione, l’entità del definanziamento pubblico allontana sempre di più l’accessibilità per tutti alle straordinarie innovazioni farmacologiche e tecnologiche oggi disponibili». (Ivi). E mi vengono alla mente da un lato due uomini di una certa età che discutevano in autobus ad Udine sulle meraviglie della tecnica in sanità, pensando che comunque ora morire é molto più difficile anche in presenza di malattie gravi, e dall’altra il signore anziano di Zovello, già da me citato, che mi diceva: «Noi abbiamo il medico di base 2 ore sole a settimana a Zovello, e talvolta vengono anche da Cercivento, ove è qualche altra giornata. Io, signora, per ora sto bene e finché sto bene …», dove il finale è più eloquente di ogni parola. (Cfr. http://www.nonsolocarnia.info/sanita-in-montagna-verso-il-nulla-targato-risparmio/).

Già perché un altro problema è che fra un po’ mancheranno pure i medici di base, che avevano una professione ambita ma ora non più, e nel prossimo decennio, secondo Mario Vella, un terzo degli italiani non potrà più fare riferimento al medico di famiglia. (http://www.vita.it/it/article/2019/07/03/effetti-collaterali-delle-carenze-della-sanita-pubblica-in-italia/152096/). Infine non si può dimenticare la tendenza che si potrebbe instaurare lentamente a rinunciare alle cure per le difficoltà varie presenti nel ssn e nei ssr che dovrebbero essere aboliti non potenziati perchè generano il caos, ed un turista pur con prescrizione medica, potrebbe trovarsi, in regione diversa da quella di residenza, a dover pagare un farmaco salvavita od a non poterlo acquistare per qualche balzello. E vorrei sapere se i parlamentari hanno ancora tutte le cure gratis sia per sè che per i propri familari, perchè se si tagliasse detto privilegio sicuramente qualche euro in più si ricaverebbe. Non da ultimo io sostengo in modo ferreo il ssn, ricordando che se siamo finiti in vortici di debiti in sanità è stato a causa delle regioni.  

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Non da ultimo, il fabbisogno sanitario degli italiani cresce e si ridefinisce per invecchiamento e cronicità mentre la sanità pubblica subisce una continua erosione e, non potendo coprire tutto il fabbisogno sanitario, raziona l’offerta delle prestazioni. Il SSN deve perciò essere riorganizzato, sulla base di un modello multi-pilastro, con nuove regole ed operatori che possano preservare i fondamentali del nostro Sistema Sanitario, garantendo una risposta universale e tutelare il diritto alla Salute anche per le future generazioni. (Ivi).

Vi è chi invoca la costruzione di mutue della salute, con versamento di quote pro-capite, sistema valido ai primi Novecento ma che ora creerebbe grossi problemi, anche causati da precarietà lavorativa che non permetterebbe a molti di pagare le quote, e da chi dovrebbe scegliere il rimborsabile o meno ed a chi, e che non fa che proporre in altra forma le assicurazioni, infatti dette mutue, ipotizzate, vengono chiamate una forma di sanità integrativa, e quindi da scartare nell’ottica del mantenimento di un ssn. (http://www.vita.it/it/article/2019/07/03/effetti-collaterali-delle-carenze-della-sanita-pubblica-in-italia/152096/). Inoltre faccio presente che noi lavoratori abbiamo pagato continuativamente e mensilmente le nostre quote per il ssn, che viste ora, sono state un pessimo investimento.

Inoltre non si sono ancora risolti i problemi dei pronto soccorso, che non possono esser sanati con azioni deterrenti all’uso degli stessi stesso, ma con ambulatori per i codici bianchi, da me proposti già nel 2006,  e una efficiente sanità di base, per la quale però si prevede un crollo dato dall’assenza di personale disposto a coprire detto ruolo. E così anche «Quest’anno, a latere dell’ulteriore aumento delle disparità regionali, in termini del costo dei ticket e delle liste di attesa e della spesa sanitaria privata nel 2018 (lievitata del +7,2% in termini reali rispetto al 2014 a fronte del -0,3% della spesa sanitaria pubblica) è emersa un ulteriore effetto comportamentale (sempre a causa dell’accentuarsi dei dati negativi): il ripiegamento degli italiani nel Pronto Soccorso (anche in caso di non emergenza), a cui si è rivolto il 38,9% degli italiani perché non erano disponibili altri servizi come il medico di medicina generale, la guardia medica o l’ambulatorio di cure primarie; il 17,3% lo ha fatto perché ha maggiore fiducia nel Pronto Soccorso dell’ospedale rispetto agli altri servizi e solo il 29,7% si è rivolto al Pronto Soccorso per una condizione di effettiva emergenza e di bisogno». (http://www.vita.it/it/article/2019/07/03/effetti-collaterali-delle-carenze-della-sanita-pubblica-in-italia/152096/).

Ed i manager ed i politici dovrebbero leggere attentamente la parte del rapporto Gimbe  che così recita: I Governi « hanno considerato la sanità come un costo e non come un investimento per la salute e il benessere delle persone, oltre che per la crescita economica del Paese; hanno ridotto il perimetro delle tutele pubbliche per aumentare forme di sussidio individuale […]; hanno permesso alla politica partitica (politics) di avvilupparsi in maniera indissolubile alle politiche sanitarie (policies), con decisioni condizionate da interessi di varia natura; hanno fatto scelte in contrasto con il principio dell’health in all policies, che impone di orientare tutte le decisioni politiche – non solo sanitarie – ma anche industriali, ambientali, sociali, economiche e fiscali, mettendo sempre al centro la salute dei cittadini; hanno accettato troppi compromessi con l’industria, […]». (Gimbe, 4° Rapporto sulla sostenibilità del servizio sanitario nazionale, 2019, p. 2).

Ed in chiusura rimando ai miei : “Considerazioni sul bilancio consuntivo dell’Aas3 per il 2017”; FVG. AAS3 E SANITÀ IN MONTAGNA; Fvg. Ospedali marginali, fra “polvere di stelle” e macete; ed ad altri che potete trovare alla voce “Economia, servizi, sanità”, in www.nonsolocarnia.info. 

Chiedo subito scusa sia a Daniela Minerva che al manager dell’Ass “Friuli Centrale Tonutti, ed eventualmente ad altri che si sentissero troppo criticati per quanto ho scritto, ma non era mia intenzione offendere alcuno, solo porre problemi sul tappeto, in scienza e coscienza.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: https://www.tpi.it/2019/01/17/malasanita-ospedale-sessa-aurunca-caserta/. Laura Matelda Puppini

 

 

6 settembre 2019: a Mena di Cavazzo Carnico: incontro sull’acqua nostra. Invito.

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Ricevo e volentieri pubblico, ritenendo che forse tale argomento meritasse un’ampia sala. L’immagine che accompagna  l’articolo è una di quelle da me già utilizzate. Laura Matelda Puppini.

A4 Acqua 06092019-Mail

Marco Puppini. “Matanza de los Frailes” (uccisione dei monaci) e Guerra di Spagna. Due precisazioni”. Versione rivista dall’ autore.

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Ricevo da Marco Puppini, che ringrazio, una versione da lui rivista del suo articolo intitolato: “Matanza de los Frailes” (uccisione dei monaci) e Guerra di Spagna. Due precisazioni”, già pubblicato l’ 8 settembre 2019 da: http://www.storiastoriepn.it/, che pubblico volentieri anche perchè mi ha dato lo spunto per ulteriori approfondimenti, pure su alcuni problemi sulle storie trasmesse, di cui vi farò presto partecipi. E per prima cosa mi chiedo: «Erano davvero tutti pii ed innocenti religiosi dediti solo alla preghiera, i frati e preti che parteciparono alla guerra di Spagna o erano anche sacerdoti soldati, armati e zelanti partecipanti ad una nuova crociata, lanciata dalla chiesa?» Infatti la Chiesa in Spagna, con determinazione e prontezza aveva benedetto, nella sua sostanza, l’Alzamiento nacional ed aveva esortato i cattolici a sostenerlo, prima con un’Istruzione pastorale dei vescovi di Vitoria e Pamplona (6-8-36), poi con una lettera pastorale del vescovo di Salamanca (30-9-36), e con quella del Cardinal Isidro Gomá y Tomás (1869-1940), arcivescovo di Toledo e Primate di Spagna (30-1-37). Poi, con la famosa “Lettera collettiva dell’Episcopato spagnolo ai vescovi di tutto il mondo” dell’1 luglio 1937. (https://www.radiospada.org/2019/07/por-dios-y-por-espana-la-rivoluzione-e-la-crociata-spagnola/). Pertanto saremmo in errore se pensassimo che la chiesa non ebbe parte attiva nel conflitto spagnolo e che fu solamente agnello sacrificale indifeso. Basta guardare questa foto, pubblicata da Gian Luigi Bettoli a corredo dell’ articolo di Marco Puppini su storiastoriepn.it, per capire che i sacerdoti parteciparono anche in armi alla lotta, e del resto non erano forse i cappellani militari equiparati a capitani dell’esercito, dotati di arma e attivi anche in scelte militari? Ma su questo aspetto mi soffermerò in seguito.

Foto di preti armati di fucile ritrovata nella casa del conte di Vallellano e pubblicata su “Solidaridad Obrera” del 1 agosto 1936 usata poi dal Commissariato per la Propaganda della Generalitat catalana. Ora all’International Institute of Social History ad Amsterdam.

Ed Alberto Caminiti nel suo: “La guerra civile in Spagna” in: https://www.ilpostalista.it/spagna/spagna_494.htm, ci ricorda che Padre Pietro da Varzi era un centurione fascista, ed un acceso sostenitore del Duce, e pubblica un volantino da lui firmato, rivolto ai Legionari miliziani fascisti, in cui il sacerdote afferma, in sintesi, che la fede e l’avvicinarsi ai sacramenti sono espressione del bravo Legionario. 

Ma passiamo al testo di Marco Puppini.

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«Leggo che nelle parrocchie di Pieve d’Asio e Pinzano – Manazzons si è svolta il 18 agosto una memoria liturgica dedicata a don Martin Martinez Pascual, ucciso il 18 agosto 1936 da miliziani antifranchisti durante la guerra di Spagna. Non so se la cerimonia era pensata in relazione o contrapposizione a quella che si svolgerà il 29 settembre a Castelnovo del Friuli in ricordo dei volontari antifranchisti della zona di Spilimbergo che partirono per combattere quella guerra. Qualche riflessione sulle violenze anticlericali che avvennero in quel periodo va però comunque a mio parere fatta.

Certamente, le uccisioni di alcune migliaia (furono quasi 7.000, quasi tutti maschi, le monache furono pochissime) di frati e membri del clero durante la guerra di Spagna ad opera delle milizie repubblicane non è certo un fatto che faccia onore a chi le ha compiute ma che hanno cause e radici lontane. Uccisioni che avvennero tra luglio 1936 e gennaio 1937, poi si ridussero moltissimo di numero, come tutte le uccisioni di civili da parte antifascista, grazie all’azione dei governi repubblicani che avevano progressivamente riacquistato influenza. Appare ugualmente evidente che i combattenti delle Brigate Internazionali, di cui i volontari provenienti da Castelnovo fecero parte, non c’entrano con queste uccisioni, ed ancora meno con quella di don Martinez Pascual. I primi volontari delle Brigate arrivarono in Spagna alla fine di ottobre 1936, quando don Martinez era già morto da più di due mesi, e furono presenti quasi esclusivamente al fronte fino al febbraio 1939. In ogni modo qualche precisazione va fatta. Ricavo quasi tutte le notizie che riporto qui sotto dal bel volume collettivo curato da Alfonso Botti, Clero e guerre spagnole in età contemporanea (1808 – 1939) Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011 che consiglio di leggere per eventuali approfondimenti.

Il clero spagnolo è stato per secoli un clero strettamente legato al potere monarchico, e nei momenti di crisi un clero politicizzato e combattente che cercava di influire in tutti i modi sulla vita politica e sociale anche con le armi. L’Ottocento è ricco di esempi in questo senso, a partire dalle tre sanguinose guerre carliste che devastarono la Spagna in quel secolo. Guerre combattute tra i sostenitori della successione al trono della figlia di Ferdinando VII, Isabella II^ (i “cristini” dal nome della reggente Maria Cristina, madre di Isabella), o del fratello, don Carlos di Borbone (i “carlisti”). Ma in realtà divisi da una visione contrapposta della società, progressisti e orientati verso la secolarizzazione i primi, conservatori e ultra tradizionalisti i secondi. Gli esponenti del clero, in particolare del basso clero mentre l’alto, con alcune eccezioni, tenne un profilo prudente,  appoggiarono i carlisti con le armi, rivestendo pure cariche importanti nell’esercito. Le figure di preti e monaci a capo di bande armate che scorrazzavano trucidando i nemici sono diventate leggendarie con i romanzi di Ramón del Valle-Inclán (ad esempio il cura guerrillero, il prete guerrigliero Manuel Ignacio Santa Cruz, personaggio reale che aveva combattuto durante la terza guerra carlista). Un esempio di prete guerrigliero di lungo corso fu il cura Merino, già governatore militare di Burgos e poi guerrigliero, prima assolutista e poi carlista. E soprattutto il clero appoggiò i carlisti con la propaganda, dai pulpiti, dipingendo la loro guerra contro liberalismo e massoneria (poi quelle contro anarchismo, socialismo e  comunismo) come una guerra santa. I carlisti alla fine persero le loro guerre (ma rimasero presenti ed armati in alcune zone della Spagna, appoggiando nel 1936 il colpo di stato militare che darà inizio alla guerra civile) ma il Concordato del 1851 garantì alla chiesa cattolica una situazione di indubbio privilegio.

Questa situazione non era sostanzialmente cambiata sino agli anni della guerra civile del 1936 – 39. La “Lettera collettiva” dell’episcopato spagnolo del 1 luglio 1937 dava la misura dell’adesione della chiesa spagnola al colpo di stato militare di Franco giustificato anch’esso come “guerra santa”. Nell’estate del 1937 il canonico metropolitano di Buenos Aires, Gustavo Franceschi, dopo una visita in Spagna scriveva alla Santa Sede; “Credo di non calunniare il clero spagnolo, peraltro ammirevole nel martirio (…) se affermo che non sempre comprese fino in fondo la propria missione (,,,) è evidente che da ora in avanti dovrà lasciare in parte la politica per lanciarsi in un apostolato senza limiti” (Botti, p.37).  I vertici vaticani furono più cauti rispetto ai vescovi spagnoli nel loro appoggio a Franco, ma già nel 1953 il concordato tra Santa Sede e stato spagnolo legittimava definitivamente la dittatura franchista nella nuova Europa post-bellica. Questo clero politicizzato ed armato non era certo un esempio di vita morale, tanto meno di cultura, come dimostrano le numerose prese di posizione all’interno del mondo ecclesiastico su questi temi nel corso dell’Ottocento e della prima metà del Novecento.

Per reazione, vi erano state uccisioni di esponenti del clero da parte di chi si opponeva ad una visione tradizionalista della società, ed ogni moto popolare in Spagna era iniziato con incendi di chiese e caccia ai religiosi. La prima matanza de frailes (uccisione di monaci) dell’epoca contemporanea è del 1834 (un anno dopo lo scoppio della prima guerra carlista) ed avvenne a Madrid, in risposta anche a voci  che alludevano alla possibilità che i preti avessero avvelenato le fonti d’acqua potabile. Accuse certo false, che ricalcavano però singolarmente in forma rovesciata le accuse di avere avvelenato le riserve d’acqua che preti e monaci avevano rivolto nel medioevo ad ebrei ed eretici per giustificare le repressioni. E’ appena il caso di ricordare che al tempo delle guerre carliste non esisteva né partito socialista né le organizzazioni anarchiche, tanto meno il partito comunista. Incendi di chiese e uccisione di religiosi avvennero in seguito periodicamente sino allo scoppio della guerra civile nel 1936. Nel 1909, per protesta contro il decreto di arruolamento nelle truppe coloniali, a Barcellona scoppiò una rivolta repressa dalle truppe con le armi, nel corso della quale i rivoltosi incendiarono chiese e conventi e fecero un’ottantina di vittime tra i religiosi. Nel maggio 1931, dopo la proclamazione della Repubblica, si ripeterono analoghi episodi anticlericali in tutta la Spagna.

E questo si è ripetuto dopo il 18 luglio 1936, con la rivoluzione scoppiata dopo il fallito colpo di stato militare. Le violenze anticlericali avvennero nei primi mesi di guerra, quando il governo repubblicano aveva perso la sua autorità e le campagne erano in mano alle varie milizie. In seguito si ridussero di moltissimo, sia il governo centrale repubblicano che quelli autonomi, catalano e basco, si opposero a tali violenze, salvarono la vita a vari religiosi imbarcandoli su navi dirette all’estero. Nel frattempo anche i franchisti iniziarono a fucilare esponenti del clero. Alfonso Botti ne ha elencati 25, di cui 13 baschi, perché appoggiavano la Repubblica che aveva concesso l’autonomia alla loro terra. Come si vede, una storia complessa e secolare che ha caratterizzato la Spagna e che possiamo datare ben prima dell’epoca contemporanea.

Questo ovviamente non significa giustificare a priori l’uccisione di don Martinez Pascual, ma solo portare elementi di riflessione. Uccisione che non riguarda in ogni modo i volontari dello spilimberghese che andarono a rischiare e talvolta perdere la vita in Spagna per difendere libertà, democrazia, giustizia sociale, solidarietà internazionale».

Marco Puppini – Storico e Vicepresidente nazionale Aicvas (Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna).

L’immagine che correda l’articolo rappresenta “Guernica” di Pablo Piccasso, ed è tratta da: http://www.artemagazine.it/attualita/item/274-guernica-il-reina-sofia-museum-di-madrid-nel-2017-celebra-con-una-grande-mostra-i-suoi-80-anni. Ho scelto questo dipinto a corredo, come fatto altre volte, per la sua forza evocativa pure delle violenze di ogni guerra. Laura M Puppini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un requiem per i ghiacciai? L’iniziativa di Legambiente a sostegno dello sciopero mondiale per il clima, ed altri appuntamenti.

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Ricevo da Marco Lepre e volentieri pubblico, ponendo queste iniziative e considerazioni alla vostra attenzione.

«Lo scioglimento dei ghiacci è senza dubbio uno dei segnali più evidenti e preoccupanti del riscaldamento globale in atto.
 Quello che sta accadendo ai Poli e nelle aree ad essi limitrofe si tradurrà, secondo gli scienziati, in un innalzamento del livello dei mari, nella scomparsa di ambienti unici e nell’intensificarsi di eventi atmosferici estremi, con conseguenze ancora inimmaginabili.
Anche un territorio particolare e delicato come quello alpino è sottoposto ad una pressione che rischia di comprometterne gravemente le caratteristiche e la biodiversità.
Al di là di quello che la cronaca ci documenta, proprio in queste ore, sul versante italiano del Gruppo del Monte Bianco, il regresso dei ghiacciai, che sta procedendo in tempi sempre più rapidi, porterà ad una trasformazione del paesaggio, ad una riduzione delle disponibilità idriche, ad un aumento dell’erosione del suolo ed al cambiamento del regime dei fiumi.
Recarsi a piedi al loro “capezzale” è un modo, allora, innanzitutto per rendersi conto della situazione e per sensibilizzare l’opinione pubblica, e poi per rinnovare l’impegno a rinunciare a quelle che Greta definisce “cattive abitudini” e sollecitare un cambiamento negli stili di vita dei paesi ricchi e nelle politiche dei governi.

Foto giuntami senza didascalie da Marco Lepre che mostra il lento sparire di un ghiacciaio.

 Gli appuntamenti di questo fine settimana.

Come è noto il prossimo venerdì 27 settembre, in coincidenza con il summit dell’ONU dedicato ai cambiamenti climatici, si svolgerà lo sciopero mondiale per il clima, su iniziativa del movimento Fridays For Future, ispirato a Greta Thunberg e di altre organizzazioni che hanno a cuore il nostro futuro sul pianeta.
Legambiente, che aderisce alle manifestazioni programmate un po’ ovunque anche in Italia, ha deciso di lanciare la proposta, subito accolta e fatta propria da numerosi circoli che operano in montagna, di un’iniziativa a sostegno di queste battaglie ambientali, rivolta specificamente ai territori alpini.

Prendendo spunto dal “funerale del ghiacciaio scomparso”, svoltosi recentemente in Islanda, con la partecipazione di un Ministro, ed essendo evidente un collegamento con la situazione dei nostri ghiacciai agonizzanti, è stata decisa l’organizzazione di un evento analogo sulle Alpi.
Il 27, 28 e 29 settembre sono state così programmate varie “veglie per i ghiacciai” che avranno luogo ai piedi dei ghiacciai del Lys (Val d’Aosta), del Monviso (Piemonte), dello Stelvio (provincia di Bolzano), del Brenta (Trentino), della Marmolada (Veneto) e del Montasio (Friuli Venezia Giulia).

La meta che abbiamo individuato nella nostra regione – il piccolo ghiacciaio del Montasio –  è particolarmente significativa, perché si tratta del ghiacciaio che si trova alla quota più bassa dell’intero arco alpino. Date le sue caratteristiche e la sua disposizione, ha dimostrato finora una maggiore resilienza ed il suo stato di salute è momentaneamente meno grave rispetto a quello di altri ghiacciai che hanno subito una notevole riduzione della loro superficie. Se non interverranno a breve termine modifiche significative nella riduzione delle emissioni di CO2, però, il suo destino appare segnato. Secondo gli esperti alla fine del secolo sarà rimasto solo il 20% di quello che vediamo oggi.

Foto giuntami senza didascalie da Marco Lepre che mostra il lento sparire di un ghiacciaio.

Il programma in Friuli.

Abbiamo pensato in sostanza di organizzare un’escursione con la partecipazione di esperti ed alpinisti ed il coinvolgimento di giovani e appassionati della montagna.
La manifestazione si suddividerà in due giornate: venerdì 27, giorno dello sciopero mondiale per il clima, che sarà dedicata ai valligiani e agli studenti del Tarvisiano, che saliranno dalla Val Saisera e domenica 29 (riservata a chi venerdì e sabato mattina lavora e a chi proviene da lontano), quando si potrà lasciare i mezzi di trasporto a Sella Sompdogna.
Contemporaneamente, nelle giornate di venerdì e sabato, il Centro Balducci organizzerà a Zugliano vari laboratori e incontri su questi temi, dedicati agli allievi delle scuole superiori. La nostra intenzione, oltre a quella di far conoscere, a chi non l’ha visitata, una bellissima parte delle nostre Alpi, è quella di approfittare dell’iniziativa per provocare una riflessione su alcune di quelle “cattive abitudini” – come le chiamerebbe Greta – che fanno del male alla montagna e
all’ambiente.

Appuntamenti.

Venerdì 27 – ritrovo al termine della Val Saisera alle ore 9.30. Da lì salita a piedi lungo i sentieri segnavia CAI 616, 639 e 611 fino al Bivacco Stuparich (altitudine 1578 m.) in circa due ore. Dal bivacco i più allenati ed esperti potranno raggiungere il ghiacciaio del Montasio in meno di un’ora. Pranzo al sacco a cura dei partecipanti. Rientro per il Rifugio Grego.

Domenica 29 – ritrovo alle ore 10 presso il Rifugio Grego, raggiungibile in circa dieci minuti dal parcheggio di Sella Sompdogna. Da lì lungo il sentiero segnavia CAI 611 si arriva in circa un’ora e mezza al Bivacco Stuparich e si può salire al ghiacciaio. Per i più allenati possibilità di rientrare al rifugio Grego dopo aver toccato la cima dello Jof di Sompdogna (altitudine m. 1889) con i sentieri segnavia CAI 652 e 610. Pranzo al sacco a cura dei partecipanti. Al rientro sosta al Rifugio Grego.
Necessario abbigliamento e calzature da montagna. Per conoscere nel dettaglio il programma contattare Marco Lepre (cell.327.3505829) o scrivere a: carnia@legambientefvg.it e a info@legambientefvg.it.

Tolmezzo, 25 settembre 2019.

Circolo Legambiente della Carnia, Val Canale, Canal del Ferro. 

Come la sanità risparmia sulla “pelle”dei lavoratori anche medici. Uno studio di ANAAO Assomed.

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Nell’ invitarvi a leggere su Quotidiano Sanità le proposte di cinesizzazione dei servizi sanitari nazionale e  regionali in: Carenza medici. Incarichi di lavoro autonomo, assunzione specializzandi e accesso al Ssn in sovrannumero per 3 anni ai medici esclusi dalle scuole. Ecco le 16 mosse delle Regioni, ed il mio “Sanità: sui risparmi e sulle competenze. Verso la “cinesizzazione” del lavoro nel ssn?”, in: nonsolocarnia.info, vi offro queste interessanti considerazioni di ANAAO – ASSOMED, che ringrazio per avermene concesso la pubblicazione. Per una visione buona porre lo zoom all’ 80%. Laura Matelda Puppini

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Laura M. Puppini. Cenni sul ruolo della chiesa nella guerra civile spagnola. (1936-1939).

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Secondo Américo Castro, la Guerra Civile Spagnola  è stata «la lotta fra la vecchia religiosità ispanica, pietrificata nei secoli, e il saggio di una nuova religiosità, creazione di un’altra sfera trascendente, vaga e nebulosa, nella quale il capriccioso modo di volere del popolo spagnolo si accordasse con un progetto utopistico di felicità universale» (Citazione in Alfonso Botti, Chiesa e religione nella guerra civile spagnola, Italia Contemporanea, marzo 1987, n. 166 p. 73), mentre per Pierre Vilar «qualsiasi analisi della guerra di Spagna che non fosse una analisi delle lotte di classe sul piano mondiale  non avrebbe nessuna importanza». (Citazione, ibid.). Ma nella guerra di Spagna certamente un grosso ruolo fu svolto dalla chiesa cattolica, e non si può che concordare con Alfonso Botti quando scrive che «Dalle differenti letture della guerra deriva ovviamente una articolazione notevole delle interpretazioni sul ruolo in essa ricoperto dalla Chiesa e svolto dal fattore religioso».  (Ibid.).

Botti, poi, continua scrivendo che, alcuni anni or sono, Garcìa de Cortázar, in un ottimo bilancio sulla storiografia sulla Chiesa e la religione nell’Ottocento e Novecento spagnolo, non aveva mancato di osservare come in confronto allo straordinario protagonismo ecclesiastico, la ricerca fosse stata “muy tacaña” e prevalentemente preoccupata dei risvolti politico-istituzionali inerenti le relazioni tra la Chiesa e lo Stato. (Ivi, p. 74).

E aggiunge che la storiografia laica e marxista sconta coi silenzi e la vaghezza lo scotto di una sorta di senso di colpa per il feroce anticlericalismo della tradizione politico-culturale di appartenenza, mentre la storiografia cattolica ha dovuto pagare un prezzo equivalente stentando a fuoriuscire dalla prospettiva apologetica che l’aveva in precedenza contraddistinta. (Ibid.).

Oggi però anche quest’ ultima pare aver rinunciato ad interpretare la ricerca come continuazione della “crociata” di allora con altri mezzi, ma non ha ancora completamente smesso gli abiti della reticenza. Prova ne sia il fatto – dice sempre Botti- che uno storico della Chiesa spagnola contemporanea come Cuenca Toribio ha da poco pubblicato sulla guerra civile uno studio dal taglio divulgativo in cui al comportamento della istituzione ecclesiastica e dei cattolici in quel frangente sono dedicati solo alcuni cenni evasivi. (Ibid.).

Botti sostiene, poi, che prima della morte di Franco, la letteratura relativa al ruolo della chiesa nella guerra di Spagna era di tipo apologetico, tranne alcuni studi che si salvano per alcune informazioni, come per esempio quello di Antonio Lizarza Iribarren, “Memorias de la conspiración. Como se preparó en Navarra la Cruzada”, sul ruolo della chiesa nei preparativi della ribellione militare nella Navarra, dove forte era la tradizione del carlismo, e l’opera di Gerad Brenan, “The spanish labirint”, perché l’autore di sofferma «sulla sedimentazione lungo il corso dei secoli degli odi anticlericali che esplodono poi ferocemente nel corso del XIX secolo, durante la settimana tragica barcellonese del 1909, durante la Seconda Repubblica nel 1934 e poi nella guerra civile». (Ivi, p. 75).

Infine Botti ricorda gli studi di Iturralde cioè di Juan de Usabiaga che trattano del prezzo alto che pagò il clero basco per non esser stato al fianco delle truppe ora dette franchiste, non seguendo così gli orientamenti nazionalistici prevalenti nella gerarchia. (Ivi, p. 75). E fra i baschi, spicca la figura del vescovo Francisco de Asìs Vidal i Barraquer, che aveva cercato, sin dal 1931, un modus vivendi con la Repubblica, sostenendo una lunga mediazione tra esponenti repubblicani baschi ed il Vaticano, e rifiutandosi di firmare la lettera collettiva dell’episcopato spagnolo, voluta da Franco e dal cardinale primate Isidro Gomá y Tomás, nel 1937, con il risultato di dover lasciare la Spagna da esule per rifugiarsi in Svizzera, ove morì. (Ivi, p. 76 e https://it.wikipedia.org/wiki/Francisco_de_Asís_Vidal_y_Barraquer).

Per quanto riguarda il cardinale primate Gomá, Ramon Sugranyes de Franch nel suo: “Dalla guerra di Spagna al Concilio. Memorie di un protagonista del XX secolo”, ed. Rubbettino 2003, (titolo originale “Militant par la justicìa. Memoríes dialogades amb el pare Hilari Raguer) pubblica una testimonianza a p. 219 da cui si evince che egli chiedeva ad altri preti di fare collette per la chiesa perseguitata di Spagna, con cui, poi, secondo il primate di Irlanda, che si rifiutò di aderire all’ennesima richiesta di denaro, comperava armi per i nazionalisti antirepubblicani. Ed il bello fu che lo stesso Gomá pubblicò sul Bollettino della diocesi di Toledo l’epistolario con detto primate, dicendo che il modo per aiutare la chiesa perseguitata di Spagna era proprio quello di acquistare armi per i militari golpisti. (Alfonso Botti, op. cit., p. 76).

Comunque anche per Alfonso Botti fu lo spirito del Concilio Vaticano Secondo che permise un nuovo approccio storiografico. (Ibid.). Inoltre Botti si sofferma pure sulla definizione di “nazionalcattolicesimo” come “teologia politica”, con chiaro riferimento alla posizione della chiesa nella guerra spagnola, data dal gesuita Álvarez Bolado, che evidenzia sia come lo stesso fosse stato una risposta della chiesa alla ricerca, da parte del popolo,  di modernità e secolarizzazione della società; sia come il nazionalcattolicesimo fosse divenuto allora elemento di mediazione della fede e avesse apportato una relazione ecclesiocratica nella società civile. (Alfonso Botti, op. cit., p. 77).

Ma è a partire dagli anni settanta, quindi dopo il Concilio Vaticano secondo, che si colloca il numero maggiore di studi sul ruolo della Chiesa nel conflitto spagnolo che tendono a non essere agiografici e fra questi spiccano quelli che parlano delle significative frange cattoliche rimaste fedeli alla Repubblica, e fra queste il Botti cita “La Unió Democràtica de Catalunya” ed il “Partido Nacionalista Vasco”.  (Ivi, p. 77). Ed anche il Ministro della Giustizia spagnolo ai tempi della Repubblica era un cattolico, come il basco Manuel Carrasco i Formiguera, poi ucciso dai franchisti, e dirigente del “Partido Nacionalista Vasco”. E si sa che vi fu un tentativo di mediazione voluta dal ministro cattolico Irujo, tramite contatti con Josep Torrent, che sostituiva Vidal i Barraquer, fra le forze repubblicane del legittimo governo ed il Vaticano, e se esso fallì fu a causa dei tentennamenti di Torrent e, principalmente, dal fatto non ebbe accoglienza presso la Santa Sede, che non si degnò di risposta. Il che, precisa Botti riferendosi a quanto riportato nel volume del religioso Hilari Ragueri i Suñer, “La Unìó Democratica de Catalunya” i el seu temps (1931- 1939), Barcelona, 1976, lascia intendere che «la riconciliazione non fallì […] a causa delle autorità repubblicane». (Ivi, p. 78).

E sempre Hilari Ragueri i Suñer, nel suo: “La espada y la cruz” si sofferma sul ruolo svolto nel corso della guerra spagnola dal movimento di destra “Confederación Española de Derechas Autonomas”, di ispirazione cattolica, capeggiata da José Maria Gil-Robles y Quiñones, e sul ruolo di questi, come Ministro della guerra, nel favorire la salita al potere di Francisco Franco, e di fatto l’Alziamento, cioè il golpe militare del 1936. (Ibid e https://it.wikipedia.org/wiki/José_María_Gil-Robles_y_Quiñones).

Uno degli aspetti più importanti sottolineato da Hilari Ragueri i Suñer, poi, è che la guerra spagnola non può essere interpretata come una crociata perché non vi fu alcun complotto comunista che potesse avvalorare detta tesi. Infatti i golpisti del luglio 1936, detti franchisti ma guidati anche da Miguel Cabanellas, e da Emilio Mola, avevano sostenuto che il loro movimento ed il loro agire avevano avuto un carattere preventivo, anticipando di pochi giorni un’insurrezione di ispirazione comunista (Pablo Alberto Baisotti, Sacralizzazione politica e politicizzazione del sacro durante la Guerra civile e il primo franchismo (1936-1943), tesi di dottorato di ricerca in Politica, Istituzioni, Storia, Alma Mater Studiorum- Università di Bologna, relatore Alfonso Botti, 2015, p. 2), che Hilari Ragueri i Suñer dimostra non essere mai esistita.

Lo stesso autore, poi, si sofferma su figure di sacerdoti ed intellettuali cattolici non ancora ben studiate che non sostennero la “guerra santa”, e non si allinearono al “cattolicesimo di guerra”, (Alfonso Botti, op. cit., p. 78), anche se credo che il loro numero fosse esiguo, se si contano i nomi citati, di cui il più noto è quello di José Bergamín, animatore della rivista “Cuz y Raia”. (Per la sua figura, cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/José_Bergamín).  

L’atteggiamento volto al dialogo del clero basco e la presenza del Partito Nazionale Basco, fino alla caduta di Bilbao al fianco del Fronte Popolare, permisero, inoltre, che in due province Vizcaja e Guizpuzcoa, fosse praticamente assente la persecuzione religiosa. Ma questo cattolicesimo non schierato con i franchisti fu invero frangia minoritaria, e non deve far dimenticare le reali proporzioni del filo nazionalismo cattolico nella guerra di Spagna. (Ivi, p. 79). E anche il cattolicesimo non schierato fu perseguitato tanto che si sa che certamente 14 sacerdoti baschi furono uccisi dai nazionalisti di Franco nel 1937. (Ivi, p. 82). 

Ma quali erano i limiti della chiesa spagnola e non solo, all’epoca? Gli studiosi che hanno affrontato questo tema hanno evidenziato il ritardo culturale della Chiesa rispetto ai problemi sociali; l’enorme potere politico ed economico della stessa; la sua compromissione con la dittatura di Primo de Rivera; l’infelice scelta del cardinale Gomá come primate di Spagna in un momento in cui sarebbe servito invece, a ricoprire tale carica, un uomo più portato al dialogo ed alla tolleranza. (Ivi, pp. 79-80). E Isidro Gomá y Tomás non fece che supportare massicciamente Francisco Franco. Inoltre Alberto Caminiti sottolinea come la chiesa cattolica non gradisse la soppressione dell’Ordine dei Gesuiti, la trasformazione delle scuole in cooperative fra genitori e docenti, il divieto delle sagre religiose, l’introduzione del divorzio, la requisizione dei suoi beni. (Alberto Caminiti, La guerra civile in Spagna – 1936-1939, in: https://www.ilpostalista.it/spagna/spagna_494.htm).

Così andò a finire che detta guerra fu vista da alcuni come «una lotta tra il Bene e il Male, tra la luce e l’ombra, nella quale il “caudillo por la gracia de Dios” aveva trovato la sua “Santissima Trinità” nell’Esercito, nella Chiesa e nella Falange unificata […]». (Pablo Alberto Baisotti, op. cit., p. 2). E sempre secondo Baisotti se l’esercito fu indispensabile per vincere la guerra cosiddetta civile e per instaurare la dittatura franchista e mantenerla, l’appoggio massiccio della Chiesa fu indispensabile perché fornì una base militante e belligerante, continuando pure a perseguire una “sacralizzazione della politica”. (Ivi, p. 3). Ma se per sacralizzazione della politica si può intendere la creazione di religioni civili, proprie anche di regimi totalitari, basta vedere la divinizzazione del Duce, e ricordare che «Mussolini parlava del fascismo come un’idea religiosa e della politica del regime come una politica religiosa» (Ivi, p. 23), con detta dicitura si può intendere, secondo me, anche la massiccia ingerenza, fin dal Sacro Romano Impero ed ante, della chiesa cattolica in affari temporali e di potere politico, dimenticando di “dare a Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello che è di Dio”, e nonostante i numerosi pronunciamenti sul regno spirituale di Dio perseguito.

Foto di preti armati di fucile ritrovata nella casa del conte di Vallellano e pubblicata su “Solidaridad Obrera” del 1 agosto 1936 usata poi dal Commissariato per la Propaganda della Generalitat catalana. Ora all’International Institute of Social History ad Amsterdam. (Pubblicata su storiastoriepn.it, da cui è presa pure la didascalia).

E così anche in Spagna «Il giornale cattolico “Signo” affermò nel luglio del 1938 che Franco non era un uomo comune, ma provvidenziale e che si trovava un gradino al di sopra di qualsiasi essere umano» (Ivi, p. 91) e feste tradizionali molto sentite furono giocate per sostenere il Caudillo e farlo passare per uomo di Dio. (Ivi, pp. 88- 93). E sempre Pablo Alberto Baisotti cita alla nota 181 a p. 83 un articolo: “Franco, el Santo”, datato 14 ottobre 1938 pubblicato da Azul. (Ritaglio di un giornale trovato nell’A.D.T., Pontificados, Cardenal Isidro Gomá y Tomás 1933-1940, caja 37, sección M, carpeta 6).

Inoltre si utilizzò a fini politici la figura di Santiago. Infatti «Durante la guerra civile il culto di Santiago venne rilanciato nella dimensione patriottico-militare, accompagnata da tutte le credenze che fecero di lui un santo nazionale e internazionale […]». (Ivi, p. 96). E non a caso si può notare come il termine “santiaguista” venne paragonato a “falangista”. (Ivi, p. 102). Infine nel dicembre del 1938, Franco si recò a Santiago di Compostela per riaffermare i suoi “legami” con l’Apostolo. (Ivi, p. 106).

Ma i nazionalisti e la chiesa utilizzarono a loro uso e consumo anche il culto della Madonna. «Il rilancio del culto mariano a partire dalla guerra civile fu legato allo sviluppo degli eventi bellici e alle esigenze di legittimazione e poi di consolidamento dello “Stato Nuovo”». (Ivi, p. 119). Infine «Durante la guerra, nella zona ribelle, alle vergini locali (nel senso di Madonne ndr) fu affidato il compito di mediatrici della vittoria attribuendo loro molte pratiche devozionali. Processioni, offerte, pellegrinaggi, atti votivi assumono, durante il conflitto, il ruolo di riti propiziatori e con la vittoria divennero azioni di ringraziamento e atti di riparazione». (Ivi, pp. 119- 120). Ma un ruolo particolare nella “mistica franchista” assunse la Madonna del Pilar. (Ivi, pp. 120- 137).

Non da ultimo, vennero utilizzate, a sostegno di Francisco Franco e del suo golpe, le “Feste di Cristo”, cioè: la festa del Corpus Christi, quella del Sacro Cuore e quella di Cristo Re, con processioni che permettevano di andare verso il popolo con «un impatto fortemente emotivo, senza il bisogno di alcuna spiegazione razionale o intellettuale». (Ivi, pp. 138 e p. 142. Cfr. inoltre per approfondimenti sull’ argomento, anche “Un Corpus per il “caudillo”, in Pablo Alberto Baisotti, op. cit., pp. 142- 168; Il Sacro Cuore di Gesù, ivi, pp. 168-175, “Il Sacro Cuore in guerra”, ivi, pp. 175- 195; e “Cristo Re”, ivi, pp. 195-202). E vi fu chi lesse l’impegno cattolico alla guerra civile al fianco di Francisco Franco come quello per la “crociata” spagnola, «nella quale i soldati di Cristo rappresentavano l’amore contro l’odio marxista». (Ivi, p. 185). Ed in particolare, come già scritto, i franchisti golpisti utilizzarono a loro uso e consumo pure la festa di Cristo Re, fortemente voluta dal sacerdote spagnolo José Gras y Granollers, che contemplava anche il suo regno sull’individuo. E, nel 1876 sorse, proprio in Spagna, l’Istituto de Hijas de Cristo Rey, orientato all’istruzione con il fine di promuovere il regno di Cristo sull’individuo, sulla famiglia e sulla società attraverso l’educazione cristiana dell’infanzia e della gioventù. (Ivi, p. 196).

E, dopo l’istituzione della festa di Cristo Re da parte di Pio XI nel dicembre del 1925, «la questione della regalità di Cristo si determinò in un senso un po’ diverso rispetto al XIX° secolo. Si cominciò a parlare del suo regno sociale, vale a dire un insieme di privilegi che la comunità umana avrebbe dovuto riconoscergli e che si sarebbero concretizzate nel rispettare le sue leggi divine e rendendogli un culto collettivo e sociale. Secondo questo criterio le leggi e le istituzioni pubbliche avrebbero dovuto sottomettersi all’insegnamento della Chiesa, unica società perfetta in grado di indicare agli uomini il cammino della civiltà. Il riconoscimento del regno sociale venne ad essere la risposta a ciò che in quel periodo sostenne – e ottenne – il liberalismo: la separazione tra religione e politica». (Ivi, p. 199).

Immagine di Cristo Re da: http://www.missagregoriana.it/?page_id=887. Elaborazione cromatica di Laura Matelda Puppini.

Ed in Spagna, il tema di Cristo Re spesso si associò con un certo cattolicesimo di “destra”, e, come in Francia, con il culto del Sacro Cuore. Ma fu anche interpretato come l’emblema di un cristianesimo combattivo, militante e trionfalista, di “crociata”, mentre il franchismo si appropriava del discorso del regno sociale di Cristo (Ivi, p. 200) a proprio uso e consumo. E nel 1931, Papa Pio XI celebrò la solennità di Cristo Re per la Chiesa in Spagna, mentre le circolari di preparazione alla festa misero in evidenza come i percorsi allora presenti nella politica statale andassero nella direzione opposta a quella del regno sociale di Cristo. (Ivi, p. 202).

Pablo Alberto Baisotti giunge sino a parlare di “manipolazione della festa di Cristo Re” (Ivi, p. 202), in relazione al contesto spagnolo della guerra civile. Infatti egli continua dicendo che «Le feste di Cristo Re furono fonte di esaltazione e devozione assoluta per la cattolicità della Spagna “nazionale”», l’aiuto di Cristo Re fu ritenuto determinante per la vittoria delle destre golpiste e il sostegno di Cristo Re fu considerato la risposta alla sfida della Spagna dei “senza Dio e senza Patria”. (Ivi, pp. 202-203).

E vi fu anche un villaggio: Olvega vicino a Soria, ove, per celebrare la Festa di Cristo Re, vennero predisposte tre impalcature: «alla prima appesero la bandiera spagnola, alla seconda i ritratti di Franco e di Mola e la scritta “Viva España” e“Honor y gloria a Cristo Rey” e nell’ultima fu sistemata un’effigie del Sacro Cuore». (Ivi, p. 204) ma non fu caso unico.

E questo si poteva leggere allora: «Nuestros soldados y nuestros voluntarios que defienden con su vida los derechos de Cristo Rey y de su Iglesia, es natural que no hayan encontrado otro nombre más divino ni más exacto para sus anhelos de renovación que el nombre y la fiesta de Cristo Rey. Por eso, ellos son en esta hora nuestros grandes cruzados de una acción católica genérica, que es Cruzada a honra y gloria del mismo Cristo», (I nostri soldati e i nostri volontari che difendono con la loro vita i diritti di Cristo e della sua Chiesa, è naturale che non abbiano incontrato altro nome più divino ed esatto per rappresentare il loro desiderio di rinnovamento che il nome di Cristo Re. In nome suo essi in questo momento sono i nostri grandi crociati di una azione cattolica che è una reale Crociata a onore e gloria di Cristo stesso), unendo sacro a profano. (Citazione, ivi, p. 205).

Ed ancora: «Vitoreando Cristo rey y España han muerto la mayoría de nuestros mártires caídos bajo el dominio de las hordas rojas. Con este doble grito salieron los voluntarios el 19 de julio histórico. Los quisieron arreglar el mundo a espalda de Dios llevaron en su pecado la semilla del fracaso, el mundo necesita un gobernante con un código que sea la ley de Dios. Una España grande y libre conducida con firmeza por su caudillo. Ese grito condensan síntesis admirable el carácter religioso nuestra cruzada ese sello inconfundible de espiritualidad y de fervor que la que lanzaron nuestros hombres a la lucha». (Per Cristo Re molto acclamato e per la Spagna è morta la maggior parte dei nostri martiri, caduti sotto il dominio delle orde rosse. Con questo grido (per Cristo Re e per la Spagna) partirono i volontari lo storico 19 luglio. Essi volevano condurre il mondo sotto il dominio di Dio, e considerarono come loro peccato il seme del fallimento, perché il mondo ha necessità di un governante con un codice che sia la legge di Dio. Hanno bisogno di una Spagna grande e libera condotta con fermezza dal suo Caudillo. E quel grido riassume, in una sintesi mirabile, il carattere religioso della nostra crociata che è segno inconfondibile della spiritualità e del fervore ed attraverso cui lanceremo i nostri uomini verso la lotta).  (Citazione, ivi, pp. 206-207).

Ed infine: «En este día en que todos los españoles celebran con orgullo y satisfacción Fiesta de CRISTO REY, nosotros españoles cien por cien católicos, como los que más, ofrecemos nuestro vasallaje al UNICO REY, que ha de hacer, iluminando a nuestro Jefe supremo EL CAUDILLO, que su trono presida los tribunales de Justicia, las escuelas, las calles y las plazas, para que muy pronto su reinado de paz traiga la Victoria definitiva y el triunfo a nuestras armas y para que detrás de esto, se consolide la España UNA, GRANDE Y LIBRE que estamos empezando a edificar». (In questo giorno in cui tutti gli spagnoli celebrano con orgoglio e soddisfazione la Festa del Cristo Re, noi spagnoli, al cento per cento cattolici, e sempre più ferventi, offriamo il nostro vassallaggio all’unico re che deve agire, illuminando il nostro generale supremo El Caudillo, che dal suo trono presidia i tribunali di giustizia, le scuole, le vie e la piazze, perché molto presto il suo regno di pace giunga alla vittoria definitiva ed al trionfo delle nostre armi, e perché così si consolidi la Spagna, una, grande e libera, che stiamo iniziando a costruire).  (Citazione, ivi, p. 207).

Ora, alla luce di queste considerazioni, si può capire forse un po’ di più perché il racconto agiografico della vita di Martin Martinez Pascual, a cui fa riferimento Marco Puppini nel suo articolo, narri che egli morì gridando: “Viva Cristo Re, essendo fra l’altro forse un sacerdote della Fraternità Operaia del Sacro Cuore di Gesù, magari molto zelante.

E nel 1931, Papa Pio XI celebrò la solennità di Cristo Re per la Chiesa in Spagna mentre le circolari di preparazione alla festa misero in evidenza che i percorsi della politica andavano nella direzione opposta a quella del regno sociale di Cristo. E non a caso vi è un volume di José Andrés-Gallego intitolato:” Fascismo o estado católico?…,  Ideología, religión y censura en la España de Franco (1937-1941)”, Ediciones Encuentro, S.A., 1997.
Sempre secondo Baisotti, poi, non vi fu un unico caso di prete – falangista camerata, anche se il più noto risulta essere Fermín Yzurdiaga. (Pablo Alberto Baisotti, op. cit., pp. 61- 62. Per la figura di Fermín Yzurdiaga, cfr. https://es.wikipedia.org/wiki/Fermín_Yzurdiaga).

Infine mediante il decreto del 6 novembre 1936, il Comitato Tecnico dello Stato «costituì una società che aveva il compito di prendersi cura dell’Editoriale Cattolica e indirizzarla verso l’ortodossia del Movimento Nazionale. Questo cambiamento puntava alla sottomissione della stampa cattolica: niente doveva sfuggire al controllo statale. La commissione divenne Consiglio di Amministrazione con il marchese de Larios come presidente e Francisco Herrera Oria come consigliere delegato, incaricanti di gestire i tre giornali che erano sopravvissuti nella zona “nazionale”: “Hoy di Badajoz”, “El Ideal” di Granada e “El Ideal Gallego” di La Coruña». (Pablo Alberto Baisotti, op. cit., p. 68).
Ma «contemporaneamente la stampa cattolica seguì una linea dettata dalle gerarchie ecclesiastiche spagnole, stimolando l’idea di una crociata religiosa per favorire la vittoria di Franco. Un altro obiettivo era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sostenendo che i “nazionali” erano il gruppo amato da Dio, a fianco del “caudillo” scoraggiando iniziative popolari che non corrispondessero al sentimento tradizionale e cattolico. La personificazione in Franco delle virtù del guerriero cristiano e del politico dedicato alla salvezza della Patria fu una costante nelle pubblicazioni cattoliche d’allora». (Ibid.).

“Guernica” di Pablo Piccasso, da: http://www.artemagazine.it/attualita/item/274-guernica-il-reina-sofia-museum-di-madrid-nel-2017-celebra-con-una-grande-mostra-i-suoi-80-anni.

Ma cosa temeva in concreto la Chiesa Cattolica, oltre la perdita di privilegi non di poco conto?

Secondo Baisotti una perdita nella religiosità nel popolo e una virata verso il laicismo sociale (Ivi, p. 34), tanto criticato da Papa Pio XI nella sua: “Lettera enciclica ‘Quas Primas’. Ai Venerabili Fratelli Patriarchi Primati Arcivescovi Vescovi e agli altri ordinari aventi con l’apostolica sede pace e comunione: sulla Regalità di Cristo. 11 Dicembre dell’Anno Santo, quarto del Nostro Pontificato. (1925), che istitutiva la festa di Cristo Re.  In essa infatti si legge che: «La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso. (…). Noi lamentammo nella Enciclica “Ubi arcano Dei” e anche oggi lamentiamo: i semi cioè della discordia sparsi dappertutto; accesi quegli odii e quelle rivalità tra i popoli, che tanto indugio ancora frappongono al ristabilimento della pace; l’intemperanza delle passioni che così spesso si nascondono sotto le apparenze del pubblico bene e dell’amor patrio; le discordie civili che ne derivarono, insieme a quel cieco e smoderato egoismo sì largamente diffuso, il quale, tendendo solo al bene privato ed al proprio comodo, tutto misura alla stregua di questo; la pace domestica profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari; l’unione e la stabilità delle famiglie infrante, infine la stessa società scossa e spinta verso la rovina».

Ed in un articolo si giunse fino a definire la Spagna come il braccio di Dio, ritenendo quello spagnolo «il primo popolo al mondo deciso ad annientare il materialismo russo, ateo e selvaggio». (Pablo Alberto Baisotti, op. cit., p.265). Non da ultimo, l’instaurarsi della dittatura del Caudillo portò pure a configurare la Stato spagnolo come “cooperatore nell’opera di Redenzione del mondo” (Ivi, p. 274), e Francisco Franco parlò della Spagna, dopo la sua vittoria, come la Nazione preferita da Dio (Ivi, p. 275), mentre l’avvento al potere dei nazionalisti portava pure a parlare di “guerra civile come riaffermazione dell’Hispanidad” (Ivi, p. 276), mentre, d’altro canto, «sia la Falange, sia la Chiesa cattolica tentarono di approfittarsi dell’Hispanidad, visto che questo termine fu interpretato in un modo molto libero». (Ivi, p. 284).

Ed una volta instaurato il regime, come accade, fu instaurato anche in Spagna un culto dei caduti per la causa vincente (Ivi, p. 295), mentre nel corso del conflitto la morte veniva esaltata in questo modo: «Viva la muerte!” prima di subire la schiavitù marxista». (Citazione ivi, p. 306).

A sinistra guardando in toni di grigio il vero don Martin Martinez Pascual, a destra il democratico reppubblicano sulla cui immagine si è costruito il mito di don Martin Martinez Pascual. (https://www.elmundo.es/cronica/2016/10/21/57f8ea4b468aebbc628b4649.html). Esiste anche un articolo nel New York Times che sottolinea l’errore nell’attribuzione della seconda immagine. (https://www.nytimes.com/es/2018/02/04/opinion-martin-caparros-martir-martinez-pascual-guerra-civil/). Gli articoli sono in spagnolo e ringrazio Marco Puppini per avermi fatto una sintesi del contenuto. Ma le agiografie si costruivano e si costruiscono anche sulle immagini. 

Credo quindi che, umanamente, nessuno possa dire che la Chiesa restò estranea al conflitto o che ne fu unicamente una vittima sacrificale. E chiudo questo mio, con queste parole di Alfonso Botti: «Certa storiografia recente, indubbiamente frutto di una coscienza pacificata, tende ora a distribuire equamente nei due campi ragioni e torti, eroismi e brutalità, il peso degli aiuti internazionali e persino il numero dei caduti. Più utile sarebbe invece verificare, da una parte il grado di integrazione della Chiesa spagnola nella struttura economica del paese e la profondità del suo scollamento dal mondo operaio e popolare, seguendo la notevolissima varietà delle situazioni socio- economiche regionali. Indagare in profondità, dall’altra, la base materiale di quel meccanismo simbolico che porta grandi masse popolari ad identificare spontaneamente la Chiesa con un potere ingiusto; la morfologia sociale ed ideologica dell’anticlericalismo spagnolo ancora insufficientemente studiato; infine i motivi della mancata elaborazione di una realistica politica religiosa da parte della sinistra spagnola […]».   (Alfonso Botti, op. cit., pp. 82-83). Non da ultimo il discorso religioso della gerarchia spagnola durante la guerra detta civile ‘36-’39 cela, secondo Frances Lannon, ma credo non solo per lei, la difesa da parte della chiesa di un particolare modello di società, come del resto accadde nel corso della rivoluzione francese, di rapporti economici di proprietà consolidati, facendo in sintesi gli interessi di aristocratici, grandi proprietari terrieri, e della ricca borghesia. (ivi, p. 82).

Prego i lettori di scusarmi se vi è qualche errore nelle mie traduzioni dallo spagnolo, di cui vi prego di avvisarmi per correggere, e con chi meglio di me conosce la guerra di Spagna, sperando intervenga con commenti onde approfondire l’argomento o precisare.

L’immagine che correda l’articolo è tratta da: https://www.imgpress.it/culture/87242/.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Maurizio Ionico, urbanista. “Aree interne” un progetto da portare a compimento.

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Con il permesso del Comitât pe Autonomie e par il Rilanç dal Friûl, che mi comunica comunque che questo testo di Maurizio Ionico, urbanista, è di dominio pubblico, dopo avervi invitato a leggere anche il mio  “Economia, beni primari, ed Aree dette ora “interne”, nel quadro dell’ Europa della finanza” su www.nonsolocarnia.info, pubblico queste interessanti riflessioni. L’immagine che accompagna l’articolo, con una scritta omessa per questioni di editing, è il logo dell’agenzia per la coesione territoriale. Laura Matelda Puppini

Portare a compimento il progetto Aree Interne Fvg m ionico urbanista sett2019.doc-2


Gianpaolo Carbonetto. Fvg. Disagio mentale e sociale: Basaglia smantellato dalla Regione?”

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«Il sospetto è che siamo tanto distratti dal tentare di capire quello che sta accadendo nel mondo politico a livello nazionale, che lasciamo passare senza grandi reazioni collettive quello che avviene nella nostra Regione.

Guardiamo, per esempio, a quello che sta succedendo nel campo sanitario e segnatamente nel settore delle cure del disagio, o disturbo, mentale. In questi giorni – lo segnala Il Piccolo – le associazioni dei familiari di sofferenti psichici di Trieste e dell’Isontino denunciano «fatti concreti» che sembrano preludere «allo smantellamento di un modello» che riceve apprezzamenti nazionali e internazionali ma, «paradossalmente», è guardato con freddezza dal governo del Friuli Venezia Giulia.

A denunciare questa situazione, che ovviamente riguarda anche i territori delle ex provincie di Udine e di Pordenone, non sono soltanto firme sconosciute, ma anche personaggi come Peppe Dell’Acqua, braccio destro di Franco Basaglia, il riformatore della disciplina in Italia, che afferma: «Sembra quasi che gli amministratori in carica la vogliano finire con lui». O come Roberto Mezzina, pure lui nel gruppo di lavoro basagliano, fino a ieri, prima di andare in pensione, direttore del Dipartimento di salute mentale e primario del Csm di Barcola, che, citando il piano regionale approvato nel febbraio 2018, lo definisce «il più brillante che io abbia mai visto in Italia nei miei quarant’anni di carriera », per poi affermare: «Questo piano si è sostanzialmente fermato e non ci sono certezze su ciò che verrà».

Insomma, le ipotesi di indebolimento dei Dipartimenti di salute mentale, che nella regione si occupano di circa 20 mila utenti con disturbi severi, fanno temere la crisi dei servizi tesi a sostituire l’ospedale psichiatrico e costruiti con grande fatica nel corso degli anni.

A tutto questo l’assessore regionale alla Sanità, Riccardo Riccardi, risponde negando che ci sia una bozza di riforma anche se poi, però, afferma che sarà resa nota entro questa settimana. Ma poi continua: «Ho grande rispetto per le conquiste che il sistema della salute mentale è riuscito a ottenere in questi anni, ma non posso non rilevare come ci sia una sorta di azione diretta e indiretta che avanza. Ma il mondo va avanti e gli psichiatri non possono pensare anche di governare. Perché, a decidere, è il Consiglio regionale. Sia chiaro che non funziona più così. Non funziona come quando Rotelli dettava la linea».

Cioè, detto in soldoni, non sono gli esperti a dire quello che è più giusto fare, anche in campi così delicati e specialistici come la psichiatria, ma sono soltanto i politici, o gli amministratori, a decidere quello che a loro sembra meglio. Un ottimo sistema per dilatare il disagio mentale fino a farlo diventare disagio sociale».

Gianpaolo Carbonetto.

Da: http://carbonetto-udine.blogautore.repubblica.it/2019/10/01/disagio-mentale-e-sociale/. Titolo orginale: “Disagio mentale e sociale”, da me modificato previo consenso dell’autore. Pubblicato con il permesso dell’autore. L’immagine che correda l’articolo raprresenta Marco cavallo, simbolo della rivoluzione basagliana (dahttps://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Cavallo) cancellato. MA SI PUÓ CANCELLARE UNA RIFORMA EPOCALE IN UNA REGIONE SÍ, NELL’ ALTRA NO, COSÍ, A PIACIMENTO, “INTUN LAMP”, PER DIRLA ALLA FRIULANA? INOLTRE CHI LA CANCELLA CHI É? MA COSA STA SUCCEDENDO IN ITALIA? E POI O RIAPRONO I MANICOMI, FACENDOCI RIDERE IN TUTTA EUROPA, O SI INTASANO I PRONTO SOCCORSI CHIAMATI A FARE UN LAVORO NON LORO … Ma cosa vuoi che sia … Laura Matelda Puppini

 

PIANO D’AZIONE PER LA SALUTE MENTALE 2013-2020, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

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Perchè si conosca prima di parlare, non facendo di un problema serissimo, quello dell’approccio ai problemi della salute mentale, una questione solo di decisione politica e di predominio dei politici sui tecnici, (Cfr. Marco Balico, “Riccardi: «Ho rispetto e ascolto, ma la psichiatria triestina non pensi di governare»”, in: Il Piccolo, 30 settembre 2019), e come se le leggi dello stato non esistessero ( il riferimento è alla legge dello Stato Italiano 13 maggio 1978, n. 180, leggibile in: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_normativa_888_allegato.pdf ) e come nessun altro avesse mai parlato di questi temi, pubblico questo testo programmatico.Per una buona lettura, portate lo zoom all’80%. L’immagine di Marco Cavallo è tratta da: https://www.corriere.it/buone-notizie/18_aprile_29/da-marco-cavallo-oggi-40-anni-legge-basaglia-4e0e2aa6-4bc5-11e8-8cfa-f9edba92b6ed.shtml?refresh_ce-cp).

C_17_pubblicazioni_2448_allegato

Reti di cura e disagio psichico. Ricerca del 2016. Roma.

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Con gli stessi intenti che mi hanno mosso a porre sul sito: “PIANO D’AZIONE PER LA SALUTE MENTALE 2013-2020”, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, riporto anche una sintesi dello studio intitolato: “RETI DI CURA E DISAGIO PSICHICO”, pubblicato a Roma nel 2016, che ha, quale responsabile della ricerca, Renato Frisanco, e che è stato voluto dalla Fondazione internazionale don Luigi di Liegro e dalla Fondation d’Harcourt – givin value to intangible needs, e che ho tratto da: http://180gradi.org/wp-content/uploads/2018/04/Sintesi-della-Ricerca-%E2%80%9CReti-di-cura-e-disagio-psichico%E2%80%9D-Roma.pdf. L’immagine che correda l’articolo è tratta da: https://www.santegidio.org/pageID/30284/langID/it/itemID/30712/Salute-mentale-non-c-%C3%A8-cura-senza-inclusione-sociale-Convegno-alla-Regione-Lazio-a-41-anni-dalla-legge-Basaglia.html. Per leggere bene il testo porre zoom a 80%. Laura Matelda Puppini

Sintesi-della-Ricerca-“Reti-di-cura-e-disagio-psichico”-Roma

Marco Lepre. Due giornate sul ghiacciaio, e una proposta di incontro il 19 ottobre ad Udine da Legambiente.

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In coincidenza ed in appoggio allo sciopero mondiale per il clima dello scorso venerdì 27 settembre, Legambiente ha deciso di non limitarsi alla partecipazione alle manifestazioni che si sono svolte in numerose città italiane e ha proposto una specifica iniziativa volta a sottolineare la situazione dei territori alpini.

Uno dei fenomeni più evidenti e preoccupanti del riscaldamento globale è dato, infatti, dallo scioglimento dei ghiacci e questo, come dimostrano gli avvenimenti saliti alla ribalta della cronaca proprio in questi giorni sul versante italiano delle Grandes Jorasses, riguarda sia le aree attorno ai Poli, che un ambiente particolare e delicato come quello delle nostre Alpi. Sull’esempio del “funerale per il ghiacciaio scomparso”, svoltosi in Islanda qualche settimana fa, si sono organizzati così in varie località – il Lys in Valle d’Aosta, il Monviso in Piemonte, lo Stelvio tra Alto Adige e Lombardia, il Brenta in Trentino, la Marmolada in Veneto ed il Montasio in Friuli Venezia Giulia –  dei “requiem” per dei monumenti paesaggistici e naturali che rischiamo di perdere per sempre.

Gli esperti del CNR hanno calcolato che i ghiacciai delle Alpi si sono dimezzati nell’ultimo secolo e che entro il 2050, se non interverranno a breve termine modifiche significative nella riduzione delle emissioni di CO2, quelli posti al di sotto di 3.500 metri di altitudine sono destinati a sparire. Non possiamo far finta di niente. Oltre alla perdita di biodiversità e di paesaggi ed ambienti unici, questo è un segnale dei terribili cambiamenti che ci aspettano a livello planetario.

Sul versante italiano delle Alpi Giulie, ai piedi della parete Nord della montagna prediletta da Julius Kugy, si trova il ghiacciaio situato alla quota più bassa dell’intero arco alpino. Rispetto ai suoi “fratelli” più grandi e famosi, quello del Montasio ha dimostrato finora, grazie alla sua disposizione e all’accumulo garantito dalle slavine nel periodo invernale, una maggior “resilienza” e uno stato di salute meno grave. Il nostro ghiacciaio per ora “resiste, resiste, resiste”, ma fino a quando? Salire al suo “capezzale”, in un ambiente naturale straordinario, ci ha resi ancor più consapevoli della necessità di rompere l’assedio a cui è sottoposto. Il ghiacciaio del Montasio ci chiede in sostanza di passare al contrattacco, di denunciare – come ha fatto Greta Thumberg – tutti i negazionisti e gli amici dei negazionisti del riscaldamento globale e di pretendere dalle istituzioni, oltre che praticare nei nostri comportamenti quotidiani, la rinuncia a tutte quelle politiche e scelte che non sono più sostenibili né giustificabili. Per chi qui vive e per chi ama la montagna, questo significa innanzitutto rispettarla e tenere ben lontano dalle sue vette tutto quello che di negativo produce la città: cementificazione, inquinamento, rumore, dispersione di rifiuti, transito di veicoli a motore.

Le due giornate sul ghiacciaio si sono svolte secondo i programmi. Venerdì 27 la salita è avvenuta dalla Val Saisera e ha visto la partecipazione di appassionati, tra i quali il consigliere comunale di Tarvisio Stefano Floreanini e di una classe con indirizzo ambientale dell’ISIS Solari di Tolmezzo, che analizzerà un campione di ghiaccio appositamente prelevato. L’associazione culturale “Età dell’Acquario – Tree House” di Tarvisio ha curato invece le riprese video.

Nonostante le iniziali condizioni meteo non proprio ideali di domenica mattina, anche il programma della seconda giornata è stato rispettato. Al Rifugio Grego i convenuti hanno potuto ascoltare le interessantissime relazioni di Daniele Moro (responsabile servizio Neve e Valanghe della Regione) e di Giovanni Andrea Baldassi (autore, qualche anno fa, di una tesi di laurea proprio sul ghiacciaio del Montasio), che hanno proiettato dati statistici e immagini storiche. Dopo l’apprezzato intervento musicale di Sergio Zarabara (che ha eseguito alla chitarra brani tratti dalla colonna sonora di “In the wild”), i partecipanti, tra i quali rappresentanti della Commissione Tutela Ambiente Montano del CAI, approfittando del miglioramento delle condizioni meteorologiche e della visibilità, sono saliti al bivacco Stuparich e da lì al ghiacciaio. Nel pomeriggio, i più “allenati” sono rientrati al rifugio Grego passando per la cima dello Jof di Somdogna, dalla quale si ha una splendida visione frontale del ghiacciaio.                                       

Tolmezzo, 2 ottobre 2019.   

Marco Lepre. Presidente Legambiente Carnia. 

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Ho notato solo dopo la prima pubblicazione, che Marco mi aveva mandato, con precedente email, anche un invito da porre sul sito per un incontro per i giovani il 19 ottobre. Lo pongo qui. Laura Matelda Puppini.

Mi raccomando, diffondete l’iniziativa e partecipate numerosi. Laura Matelda Puppini.

AA.VV. I campi (di concentramento) fascisti dalle guerre in Africa alla Repubblica di Salò. A cura di Roman Herzog e Andrea Giuseppini.

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Gli atti del convegno tenutosi a Roma nel 2013, intitolato”I campi fascisti. Dalla  guerra in Africa alla Repubblica di Salò, redatti a cura di Roman Herzog e Andrea Giuseppini, mi paiono molto interessanti e ringrazio davvero Andrea Giuseppini, cultore ed esperto della materia, per avermi detto dove potevo scaricarli  (http://campifascisti.it/pagina.php?id_pag=2) e per avermi permesso di riprenderli qui. Se non riuscite a visualizzare bene vi prego di ridurre lo zoom al 90-80%. Ricordo inoltre il mio “Terremoti del 1976, ricostruzione museo Gortani e campi di prigionieri militari alleati a Sauris ed Ampezzo, uniti in un’unica storia, in: www.nonsolocarnia.info. L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://www.reteparri.it/in_evidenza/i-campi-di-concentramento-fascisti-1159/. Laura Matelda Puppini

Atti del convegno I campi fascisti

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