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Rigolato. Il programma di Fabio D’ Andrea candidato sindaco. Per tornare a sognare.

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Incontro per caso venerdì nel tardo pomeriggio Fabio D’ Andrea all’autostazione di Tolmezzo e mi fermo a parlare con lui. Parliamo di Rigolato e della Carnia che muore, parliamo di cultura e del fondo fotografico di Bepo di Marc, di Giuseppe Di Sopra, e delle vecchie interviste a Rigoladotti che sto pubblicando. Mi dice che vuole candidarsi a sindaco di Rigolato, dopo aver già svolto questo compito per molti anni, per far rivivere il paese, per parlare di opportunità e rilancio, e mi invita ad un incontro con gli abitanti del paese al bar ‘Da Pochero’ per ascoltare la nuova progettualità politica per il suo comune. Ha già incontrato gli abitanti di Ludaria ed ora intende incontrare quelli di Rigolato. Mi faccio dare un indirizzo email, perché né io né lui abbiamo molto tempo per fermaci a parlare e gli scrivo in modo più dettagliato su quell’archivio della memoria che io e Angelo Candido, rientrato pensionato dal Belgio nella sua terra d’origine, vorremmo costruire, ma anche dei famosi affreschi della scuola di Vitale da Bologna, che si stanno rovinando nella chiesa di Vuezzis.

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Sabato alle 19 sono lì ad ascoltare, fra volti noti e non noti. La sala è piena di gente, uomini e donne, giovani e meno giovani, il che è di buon auspicio. Fabio D’ Andrea entra accompagnato da Massimo Moretuzzo e Luigi Cortolezzis.  Sono contenta di rivedere Moretuzzo: è un uomo che si impegna parecchio, e desidero davvero sentire cosa ci dirà Cortolezzis che fu di Secab cooperativa elettrica.

I primi a prendere la parola sono i consiglieri della minoranza Daniele Candido e Paola Di Sopra, sempre attiva con il suo albergo diffuso a Vuezzis, che in un anno ha visto più di 400 presenze. Lamentano lo stato di difficoltà del comune di Rigolato a causa della mancanza del tecnico, della ragioniera e persino dell’impiegata, (1) e chiedono di voltare pagina. 

Quindi prende la parola Fabio D’ Andrea. Egli esordisce ricordando non solo il suo impegno pregresso per il comune di Rigolato, ma anche che deve tutto a Rigolato, dove è vissuto, vive, ha frequentato le scuole elementari e medie, e dove ha potuto, bambino, persino andare al mare con la cassa edile a cui era iscritto suo padre. Ed il suo attaccamento al territorio lo ha portato a rimanere a vivere in paese con la famiglia.

Ma erano altri tempi, penso fra me e me, ricordando la vivacità di Rigolato quando conobbi mio marito, nel 1972: vi erano segherie, scuole, bar, due negozi di ‘tutto un po’’ per turisti e non, come quello di Mirca, e vi erano un paio di alberghi aperti, e si seguivano le tradizioni in modo più accurato di ora. Ma pure quando Umberto De Antoni dava lavoro a metà Val Degano ed una vera economia fioriva intorno a lui, erano altri tempi.

Per ritornare però a D’ Andrea, egli si sofferma sul fatto che l’ambiente in montagna è ora più vivibile di quello delle periferie delle città, ma bisogna approntare un progetto che lo tuteli e valorizzi e che coinvolga giovani e meno giovani. Naturalmente nulla si può fare di concreto se non si ricostruisce l’apparato tecnico amministrativo del comune, ma ciò potrebbe esser fatto accorpando lo stesso ad un altro od ad altri due, (par di capire Comeglians e Forni Avoltri) e riprendendo un discorso fattivo di vallata. (2). E ricorda che Luigi Cortolezzis è stato l’artefice della fusione positiva tra Ligosullo e Treppo Carnico, e vorrebbe parlasse poi di questa sua esperienza. Naturalmente la fusione dei servizi amministrativi e delle singole potenzialità per esempio in ambito sportivo, non contempla di togliere l’identità degli abitanti del paese, ma solo da un lato di garantire un servizio indispensabile che si presenta ora come “sigillato”, dall’altro di valorizzare le peculiarità di ogni municipio.

Per quanto riguarda alcune potenzialità presenti sul territorio, Fabio D’ Andrea cita la casa di riposo di Rigolato, con annesso centro diurno, che attende solo di essere presa in gestione; le potenzialità per le vallate dell’impiantistica del polo sportivo, anche se è inutile pensare di competere per alcuni aspetti con Forni Avoltri, famosa a livello internazionale per il Biathlon; o con Ovaro nel ramo manifatturiero. Invece bisogna fare cordata, in un discorso che accomuni perché la montagna diventi risorsa. (3).   

Il turismo ha già nello sviluppo di Piani di Vas, in particolare della sua baita, un punto fermo, così come nella riapertura, dopo adeguata ristrutturazione già affidata all’architetto Toson, e finanziata con due milioni di euro, dell’albergo D’Andrea. Per chi non lo sapesse, l’albergo fu fatto costruire da Giulio D’Andrea, commerciante di legname e titolare di una segheria veneziana in località “De Fario” oggi scomparsa. (4). E negli anni settanta esso era famoso per la sua cucina, a causa della gestione di una emiliana: Elena Grimaldi, davvero brava come cuoca.

Ma, per inciso, una storia particolare tutta da scrivere ha anche l’albergo San Giacomo, eretto, da quanto ricordo di aver sentito da Bruno Del Missier, che lo gestì per un periodo, da un noto imprenditore fascista, detto forse ‘Gino Bagolo’, che aveva con il fratello Guido una impresa edile che lottizzò interi versanti della Costa Azzurra e Massa Lubrense, in Campania, riempiendola di originali villette, ed era poi rientrato, ma non ho sottomano gli appunti. (5). Esso fu gestito, per un periodo, nel secondo dopoguerra anche da Alessandro Tarlao, istriano e gradese, che, per conto della Comunità Carnica, si recò pure in Svizzera per studiarne gli alberghi e la ristorazione da cui trarre utili consigli.

E così riporta Adelchi Puschiasis, affidandosi al ricordo di Danila Pochero: «Un signore triestino che era arrivato per gestire l’albergo S. Giacomo (un certo Tarlao) con molta iniziativa e con le sole sue forze fece di Rigolato «il fiore della Carnia», così era chiamato. Anche i cartelli all’inizio e fine del paese portavano questa dicitura. Fece degli spot pubblicitari, ogni due o tre paracarri e sui muretti che costeggiavano la strada mise delle casette di fiori. Lanciò il concorso balcone fiorito, per invogliare la gente del paese ad abbellire le case con dei fiori variopinti. E infatti in quel periodo Rigolato era così bello e colorato che passò nella storia come fiore della Carnia. Per dare movimento anche ai lunghi inverni allestì uno ski-lift su una collina fra Magnanins e Valpicetto, organizzava gare di sci, insomma non c’era di che annoiarsi e i villeggianti erano molto numerosi. Rigolato ad ogni stagione pullulava di gente che portava benessere e vita». (6).

Ma per ritornare al dunque, Fabio D’ Andrea sottolinea come ora anche i tempi di “Rigolato fiore della Carnia siano terminati e bisogna trovare una progettualità comune superando l’isolamento soggettivo in cui ogni paese della Carnia è caduto, e creando dei punti di ascolto ed aggregazione e di valorizzazione della caratteristica parlata con la ‘o’, la più antica. Ma mancano la pizzeria, ove amici e parenti si incontravano per mangiare qualcosa insieme, ed un’edicola, che si devono riportare in vita, e persino un bancomat.

Per quanto riguarda poi i piccoli negozi locali, essi potrebbero venir potenziati attraverso dei buoni spesa da consegnare alle famiglie per spenderli in loco, come per primo ha fatto Massimo Moretuzzo a Mereto di Tomba, quando era ivi sindaco, come egli ha poi ricordato.  Non fu cosa facile finanziare a livello comunale il progetto ma egli ci riuscì grazie al segretario comunale che lo aiutò a risolvere i problemi legali. E Tolmezzo ed altri comuni hanno poi solo ripreso detta esperienza. Inoltre Massimo Moretuzzo dice di aver presentato una proposta di legge in regione nel merito.

Seguendo le orme di Moretuzzo, D’ Andrea propone per Rigolato i buoni spesa sia per persone sotto un certo isee che sopra, sovvenzionati dal comune, in caso di sua elezione. Gli acquirenti nei negozi del comune convenzionati, verrebbero rimborsati per il 4% del totale acquistato per i detentori con una isee superiore ai 30.000,00 euro, mentre coloro che l’hanno inferiore per l’8%. Ed egli, se sindaco, intende finanziare per 40.000 euro il progetto. Per utilizzare i buoni, però, D’ Adrea propone una “identitycard”, su cui spende alcune parole.

Quindi il candidato sindaco parla anche delle realtà importanti presenti nel territorio di Rigolato e già attive come il ‘cral’ di Ludaria, e il ristorante aperto nella latteria di Givigliana, e precisa che egli ritiene importantissima l’Associazione per gli usi civici di Givigliana, esperienza di spessore. Ma ringrazia anche chi, foresto, è venuto ad investire a Rigolato, come il signor Screm.

Insomma egli punta alla partecipazione attiva, e, per raggiungere detto obiettivo, dice che intende tenere le sedute della giunta comunale nelle case del paese, e punta alla solidarietà attiva ed allo sviluppo delle potenzialità del territorio, trasformando i cittadini in “attori del loro futuro”. Basta “Tant a fasin lor!”, è ora di superare questo concetto, afferma.

Questo può accadere però solo se il paese diventerà attrattivo anche per giovani e per le famiglie. Ma per poter essere attrattivo ma anche solo vivibile, il paese deve mantenere i servizi ed i negozi essenziali. Ed in proposito ricorda i momenti passati da Rigolato quando aveva chiuso il panificio e le difficoltà ad avere adeguati servizi sociali, che devono venir potenziati perché senza i caposaldi per la vivibilità il tessuto sociale si perde. Inoltre le persone con capacità ed intelligenza devono venir supportate, non osteggiate, perché sono un valore aggiunto per la società.

Infine si sofferma sulle attività produttive parlando dell’importanza di sfruttare la risorsa legno, citando fra le persone esperte nel settore Patrick Candido, dottore forestale, e sull’importanza della presenza e dello sviluppo, sul territorio, di attività artigianali e produttive ad esso collegate.

Per quanto riguarda la viabilità, dice che è tema importante, e non pare contrario alla variante di Rigolato, ritenuta indispensabile e già finanziata, mentre Paola di Sopra aveva accennato alle condizioni pietose della strada che porta da Rigolato a Vuezzis.

A livello culturale, D’ Andrea cita il fondo fotografico di Giuseppe Di Sopra e la valorizzazione della tradizione da cui molto si può imparare, come dalla storia del proprio paese, e saluta pure la giornalista, addetta stampa del Soccorso Alpino Regionale, Melania Lunazzi, presente in sala. 

Quindi ha preso la parola, dopo l’ennesimo lungo applauso del pubblico, Massimo Moretuzzo, che ha parlato della sua esperienza pilota per il sostegno ai negozi di prossimità a Mereto di Tomba, negozi la cui presenza è importantissima per gli anziani anche se abitano a 15 chilometri da Udine. E rivendite e bar, che non devono chiudere alle 20, sono, per un paese, anche centri di comunità e relazione. Quindi ha detto che, nel suo comune, è stato fatto anche un mulino, per utilizzare farina prodotta in loco, guardando al futuro ed a quelli che verranno, e si tenta di porre sul mercato prodotti dell’agricoltura locale.  Per quanto riguarda la proposta di legge regionale che stabilisce per la regione i finanziamenti e le condizioni per il sostegno ai negozi paesani, ne ha tratteggiato le linee fondamentali. E con un certo orgoglio ha detto che è stato interpellato anche dalla città di Barcellona, interessata all’argomento ed alla sua realizzazione.

Ed ha concluso parlando dell’importanza di farsi sentire, e la Carnia ne ha particolare bisogno, e di formare gruppi di lavoro su turismo, foreste e viabilità. Infine ha citato solo brevemente il problema dei mutamenti climatici ed il fatto che abbiano solo 12 anni per decidere il nostro futuro.

Alla fine del lungo incontro è intervenuto brevemente anche Luigi Cortolezzis, per sottolineare l’importanza di valorizzare le risorse locali e territoriali ed a sostegno di quanto detto, senza dilungarsi sull’esperienza di fusione tra i comuni di Treppo Carnico e Ligosullo, ma citandone la positività.

Infine ci sono stati un paio di brevissimi interventi fra cui il mio per sottolineare l’importanza di salvare tradizioni come las cidulas, anche in funzione di attrazione turistica, oltre le processioni e feste locali, e di salvare gli affreschi su San Nicola del 1300, della scuola di Vitale da Bologna. A anche a Magnanins vi sono alcuni affreschi sui muri delle case che andrebbero salvati. E l’incontro si è concluso dicendo che esperienze come quella della serata non sono terminate, ma solo iniziate.

 E una polenta e frico per tutti, preceduta da due affettati ed un buon pane sono stati il corollario. 

Qualcuno di quelli che sono più realisti del re forse pensano che quanto detto sia solo un sogno, ma i relatori hanno sottolineato che si deve anche sognare e credere in un progetto se si vuole realizzarlo.

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Questa sintesi è frutto di miei appunti e se vi è qualche errore vi prego di segnalarmelo che correggerò.

L’immagine che accompagna l’articolo è mia e rappresenta un affresco su una facciata della ‘casa di Muse’, vicino al bar ‘da Mando’, come mi ha specificato giustamente Angelo Candido che ringrazio, e ritrae il leone di San Marco. 

Laura Matelda Puppini

 

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Invito all’incontro patrocinato dall’Anpi per presentare la pubblicazione della mia intervista ad Annibale Tosolini e parlare di contesti di vita e resistenza. Tarcento, 23 marzo 2019.

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‘E tu seis chi a contale Annibale’ … ho intitolato, utilizzando una frase della signora Bianca,  la pubblicazione della mia intervista ad Annibale Tosolini, che mi ha narrato di contesti di vita passata e presente e della sua esperienza resistenziale nella Divisione Natisone, btg. Manin, comandato da Gino Lizzero, fratello del più noto Andrea, nome di battaglia Ettore. L’ Anpi – sezione di Tarcento ha voluto pubblicarla in cartaceo, anche per rendere onore ad Annibale, vivente e che sarà presente all’incontro, suo presidente per molti anni.  Parlerò e parleremo di Ulianof  (questo era il nome di battaglia di Tosolini), della Disione Natisone sabato 23 marzo 2019 a Tarcento, ma anche della sua famiglia di origine, di come si viveva una volta in una famiglia di contadini fittavoli friulani, come quella del Tosolini, dove i valori fondamentali erano racchiusi nella famiglia, nella casa, nel pane, ed altro ancora.

PERTANTO VI INVITO 

A TARCENTO – SABATO 23 MARZO 2019 – PRESSO L’ALBERGO CENTRALE, IN VIA GARIBALDI 1, ALLE ORE 17.30.

PARLERANNO OTTAVIO DE MONTE PRESIDENTE ANPI TARCENTO E LAURA MATELDA PUPPINI.

(Ma potranno intervenire anche i presenti).

 

Attestato partigiano di Annibale Tosolini, Ulianof.

Era giovane Annibale Tosolini quando andò partigiano, ma aveva fatto già il soldato, era giovane allora Annibale, ma aveva già avuto un fratello morto in Grecia e sepolto poi nel sacrario del Bernadia, era giovane allora Annibale ma aveva già lavorato come ‘famei’ e carradore. E non voleva a nessun costo esser portato in Germania a lavorare, e lavorare per i tedeschi ed i cosacchi.

Annibale Tosolini ventenne.

 

Era originario di Leonacco Annibale, ma poi la sua famiglia si spostò a Molinis, era partigiano Annibale Tosolini, ma non era il solo di quella zona.

Molinis di Tarcento tanti anni fa. (Da: https://protarcentoud.com/galleria-fotografica/cartell049/).

E se volete sapere qualcos’altro, venite a Tarcento, vi attendiamo. 

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P. s. Un grazie di cuore all’Anpi Tarcento, al suo Presidente ed al curatore della pubblicazione.

Laura Matelda Puppini

Ritorna Innovalp. Ecco il programma da Cramars e come iscriversi ai tavoli che interessano.

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Ancora una volta Cramars ha organizzato Innovalp, per conoscere la montagna, per progettare im montagna, per guardare al futuro. Qui di seguito vi propongo il programma di Innovalp 2019, pregandovi di partecipare agli incontri, a cui però ci si deve iscrivere utilizzando il portale: https://www.innovalp.it. Questa la sequenza: vai a https://www.innovalp.it. Quindi scegli ‘Seminari’ e clicca. Comparirà la serie dei vari incontri. Clicca sulla freccia arancione sotto l’incontro che vuoi scegliere e quindi ancora sulla freccia arancione ‘Prenota seminario’. Per vedere meglio il programma potete zummare a 80%. Le frecce in alto a sinistra guardando la schermata permettono di scorrere il pdf.

CRAMARS. PROGRAMMA INNOVALP 2019.

programma Innovalp 2019-1

Laura Matelda Puppini

 

Domenica 3 dicembre 1944. L’incendio nazifascista a Collinetta di Forni Avoltri.

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Ci sono personaggi che sono stati dimenticati anche se hanno patito e combattuto per cacciare i tedeschi e scrivere la storia della nostra democrazia. Il vento antipartigiano del dopoguerra che fece scrivere parole tristi allo stesso Enzo Moro, Max della Osoppo, e l’abile gioco di scaricare ogni evento negativo della guerra su chi cacciò i nazisti e lottò contro i repubblichini collaborazionisti, non hanno fatto altro che sedimentare la visione fascista degli eventi, e creare una memoria distorta degli stessi, a cui spesso si appella l’opinione comune, contro la realtà dei fatti.  Così scriveva Max: «Abbiamo sentito il fango, che si lancia da parte di alcuni su di noi, sul nostro passato. Ma la mano che lo getta è purtroppo quella che ieri colpiva il fratello reso impotente. Non nutriamo sentimento di rancore o di vendetta, desidereremmo soltanto che costoro potessero offrire alla Nazione quanto è stato dato dal partigiano, perché la meta è sempre il benessere della collettività». (1).

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In questo articolo ricordo, grazie a Cristina Martinis, come sempre aiuto preziosissimo, ed a chi mi ha mandato le fotocopie delle pagine del giornalino del Circolo Culturale ‘Eugenio De Caneva’ di Collina di Forni Avoltri, l’incendio di casa ‘Titai’ a Collinetta (2) di Forni Avoltri. I nazifascisti dettero alle fiamme, il 26 maggio ’44, Forni di sotto, lasciando senza casa 1800 persone (3), e bruciarono le case di Esemon di Sotto l’8 giugno 1944 e di Bordano il 21 luglio 1944. Ed a questi deliberati incendi punitivi si aggiunsero quello di casa ‘Titai’ a Collinetta, che trascinò altre costruzioni nel rogo, e quello di casa Fabian il 15 dicembre 1944 ad opera dei cosacchi. E altre case in Carnia, come accadde anche in altre parti d’Italia (4), per vendetta e ritorsione andarono a fuoco per mano nazifascista e cosacca, durante la guerra di Liberazione.   

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Sintesi di cosa appreso da una fonte sui Barbolan e l’incendio di casa ‘Titai’.

Da quanto mi è stato narrato, la casa detta di ‘Titai’ fu data alle fiamme a causa del fatto che si diceva che i Barbolan che vi abitavano erano simpatizzanti per la Resistenza, e che più di uno fosse partigiano. Quando i nazisti bruciarono la casa, andarono a fuoco anche altre costruzioni. Dopo l’incendio partigiani del comune di Forni Avoltri si consegnarono alle SS per evitare ritorsioni verso le loro famiglie: essi finirono in campo di concentramento, da cui ritornò vivo a casa solo ‘Bepi di Titai’. (3). Vi era poi un altro Giuseppe Barbolan: ‘Bepi di Rega’ figlio di Carlo e cugino di Bepi di Titai” e di Rita, madre di Cristina Martinis, che pare sia stato anche lui partigiano nelle file garibaldine. Dopo la fine della guerra, entrambi emigrarono dal comune di Forni Avoltri, ed il primo andò a Milano (forse con tappa in Piemonte), il secondo in Francia. Esisteva poi un terzo Giuseppe Barbolan, con secondo nome Eugenio, figlio di Giovanni, nato nel 1891 e morto nel 1968, detto Bepo di Caminòn, ben più anziano degli altri due. Egli era uno dei maggiorenti del paese, e non consta abbia sostenuto il movimento partigiano.

Relativamente all’incendio, si narra che la colonna nemica fu vista già da lontano, determinando la fuga dei giovani verso la montagna, mentre i nazisti (5) chiudevano gli uomini in canonica. Quindi il dispiegamento dei militari nemici intorno alla casa di ‘Titài’, ed i lanciafiamme in azione; il propagarsi dell’incendio dalla casa agli altri edifici…                                                                         

Intervista a Remo Tamussin di Cristina Martinis. Ricordi di un bimbo.  Quando mio fratello partigiano partì per non tornare più, e l’incendio di casa ‘Titai’.

«Mi ricordo di quando ero bambino ed avevo sette od otto anni. Finivamo scuola alle quattro del pomeriggio e, dopo l’uscita, io ed i miei amici andavamo a giocare. E mi ricordo ancora il giorno in cui è giunto lì mio fratello con Mario Sotto Corona (6), che andavano a Forni Avoltri a consegnarsi ai tedeschi, perché avevano sequestrato mio padre e quello di Mario. Mio fratello Amedeo, è stato poi mandato in campo di concentramento, dove è morto. Sono morti tutti e due lì, sia mio fratello che Mario. Sono andati subito a consegnarsi perché altrimenti avrebbero internato i loro padri.

Mi ricordo che avevano ambedue lo zaino. E mi ricordo che mio fratello aveva due paia di calzini, che gli aveva messo mia madre, e che non stavano dentro, e che aveva appeso all’esterno del sacco. E credo che mia madre avesse messo ancora qualcosa per loro, all’interno. È l’ultima volta che li ho visti.

È morto in aprile, pochi giorni prima della liberazione, mio fratello (7), in campo di concentramento, è morto di stenti e di dissenteria, e mi hanno raccontato che si è demoralizzato e si è lasciato andare. E poi lo hanno trasferito da Mauthausen a Sankt Aegyd (nella registrazione italianizzato in Sant’Egidio ndr), e lì e morto dopo pochi giorni, forse una quindicina. Era forte di corpo e di spirito mio fratello, aveva 19 anni, ma, come mi hanno raccontato, si è lasciato andare, si è demoralizzato e non è riuscito più a reagire. Ma stava male, aveva dissenteria, e quando stai male non ti senti di reagire.

Mario Sotto Corona era amico di mio fratello, e quando li ho visti l’ultima volta andavano giù insieme. Mario era di Collinetta, mio fratello di Collina. Credo che Mario sia salito a casa mia, e siano partiti da lì.

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Non so invece di azioni partigiane, perché noi eravamo bambini e cercavano di non coinvolgerci, di non parlare quando c’eravamo noi. Inoltre, allora, nessun partigiano si dichiarava tale, perché dichiararsi partigiani significava rischiare e far rischiare la famiglia. Ma in paese si sapeva tutto, ed i gerarchi e quelli che ‘erano preposti’ avevano già nomi e cognomi di tutti, e credo li abbiano denunciati loro ai tedeschi. Perché altrimenti come avrebbero fatto a sapere chi era andato partigiano? Invece hanno prelevato i genitori di tutti i partigiani, e loro si sono consegnati, e nessuno si è allora salvato dall’internamento. Sono ritornati vivi, a fine guerra, solo Bruno e Bepi (8), ma non so come, forse perché si sono consegnati un giorno dopo gli altri, e per un caso, per una combinazione, loro non sono stati penalizzati, e non hanno portato via né i loro genitori né loro.

Poi vi è stata una specie di allontanamento dei tedeschi dalla zona, se ben mi ricordo, e sono saliti qui i cosacchi, ed è una delle poche volte che ho visto a Collina i cosacchi, perché da noi non venivano su, ed infine vi è stata la ritirata vera e propria, e la guerra è finita.

Hanno anche incendiato le case di Collinetta, un gruppo di case che erano quelle di ‘Titai’. Mi ricordo benissimo perché ero fuori di casa mia, quella vecchia, e si vedeva giù Collinetta, e si vedevano le fiamme dell’incendio.  E poi si sentivano le persone: uno piangeva, l’altro … ero bambino, ma sentivo che era accaduto qualcosa fuori del consueto. E non hanno bruciato una casa sola, hanno bruciato un gruppo di case e stavoli. E sono finiti in fiamme gli stavoli di ‘Pirucelo’ e di ‘ Vigi di chei dal fari’ oltre la casa di ‘Titai’.

Li hanno poi rifatti gli stavoli. Il Consorzio di Collina ha dato ai proprietari il terreno. Prima aveva promesso una permuta il Comune, ma poi non se ne è fatto nulla. So che lo Stato ha risarcito mio padre per lo stavolo, e avrà dato qualcosa anche per la casa di ‘Titai’, perché se ha dato per le stalle …  E così i ‘Titai’ hanno ricostruito la casa.

Comunque del fuoco mi ricordo benissimo. Eravamo in tanti a guardare dall’alto, perché non si poteva raggiungere il paese, perché fra l’altro non ti permettevano di farlo e di andare a spegnere le fiamme. E quando i tedeschi se ne sono andati, allora la gente è scesa per spegnere l’incendio e mettere in sicurezza le costruzioni vicine, ma c’era un gruppo di edifici lì che erano completamente distrutti dal fuoco.

Non credo ci siano fotografie di quell’incendio. Forse qualcuno potrà aver anche fatto qualche foto dell’incendio, ma allora … E poi che senso aveva fotografare macerie? Era notte, e nessuno andava a fotografare macerie». (Intervista a Remo Tamussin di Cristina Martinis, cugina di Giuseppe Barbolan 2017).

Nella foto sono ritratti, guardando da dx a sx: Barbolan Giuseppe detto ‘Bepi di Rega’, cugino della madre di Cristina; Barbolan Giuseppe detto sia ‘Bepi di Giarèto’ che Bepi di Titài’, fratello di Aldo, Lucia, Adilia e Bruno; Giuseppe Gaier, ‘Bepi di Chini’, cognato di Remo Tamussin; Marcello Sotto Corona, ‘Marzil de Zuâno’; Bruno Barbolan, detto ‘Bruno di Gjareto’ fratello di Aldo Lucia, Adilia Barbolan. Immagine speditami da Cristina Martinis.

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Testimonianze sull’ incendio di casa Barbolan da due numeri del Giornale sociale del Circolo Culturale Eugenio Caneva di Collina, detto “Il giornalino di Collina”. 

«Nelio Toch. L’incendio di Collinetta.

Collinetta, qualche anno dopo l’incendio.

Domenica 3 dicembre 1944. Verso le 8 di mattina venne a casa nostra ‘Anna di Betan’; disse che arrivavano i tedeschi. Li aveva visti dal ‘Rimer’. Aveva tanta paura, come tutti del resto, perché si sapeva cosa era successo a Forni di Sotto e in altri paesi dove i tedeschi avevano fatto dei rastrellamenti. Subito dopo uscii di casa e guardando su verso ‘la Nava’ vidi un tedesco armato; da ciò capii che il paese era stato circondato già prima dell’alba.

I tedeschi poi passarono per ogni casa alla ricerca dei partigiani e tutti gli uomini presenti in paese furono radunati in canonica. Gli uomini giovani erano tutti scappati nei boschi e in montagna perché temevano di essere presi e internati in Germania. Nella canonica, il comandante tedesco, a quanto riferì poi chi era presente, disse che lo scopo del rastrellamento era di prendere i partigiani di Collina, e che, qualora non si fossero consegnati prigionieri, per rappresaglia avrebbero bruciato casa ‘Titai’ a Collinetta, dove abitavano tre partigiani; a suo dire in quella casa qualche giorno prima aveva avuto luogo una riunione. Fu fatto presente che se fosse bruciata ci sarebbe stato pericolo per gli altri edifici vicini, case e stalle costruiti per la maggior parte in legno.

L’ufficiale fu irremovibile. Quel giorno benché fosse domenica non ci fu la Messa e quelli che erano scappati nei boschi, come poi dissero, non sentendo suonare le campane, ne trassero un cattivo presagio.

Verso mezzogiorno mio padre tornò a casa dalla canonica e quasi piangendo ci disse quello che i tedeschi avevano deciso di fare. Subito dopo uscii e vidi che la casa di ‘Titai’ era tutta in fiamme, e subito dopo con il grande calore vidi incendiarsi anche la stalla nuova di ‘Pirucelo’.

In seguito tutti gli uomini presenti in paese, donne e ragazzi corsero a Collinetta per cercare di salvare le case vicino a quella di ‘Titai’ facendo la catena coi secchi. Io non ci andai perché ero rimasto con i fratelli piccoli a casa.

Quando verso sera l’incendio fu domato, risultò che erano andate distrutte la casa di ‘Titai’ dove abitavano tre famiglie, la casa ‘De Martino’ più sette stalle col fienile. Le case adiacenti ebbero sì dei danni ma si salvarono perché costruite in muratura.

Il comandante tedesco aveva minacciato che qualora i partigiani, entro un termine di tempo, non si fossero consegnati prigionieri, avrebbe bruciato l’intero paese. Si consegnarono tutti e l’indomani, mentre tornavamo su da Collinetta, io e Faustino incontrammo Mario Caneva e Amedeo Tamussin che andavano a Forni per consegnarsi ai tedeschi. Non sarebbero più tornati. Furono internati e con Mario Sotto Corona morirono nel lager di Mauthausen».

(Giornale sociale del Circolo Culturale Eugenio Caneva di Collina, detto “Il giornalino di Collina”, numero dell’anno 1994).

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Adilia Barbolan di Titài, sorella di Bepi di Titài partigiano, e Luciano Caneva.  3 dicembre 1944: l’incendio di Collinetta.

Era domenica ed aveva suonato al 2aper la Santa Messa. Mia mamma, Marina Agostinis, stava raccomandando di sbrigarmi, altrimenti sarei arrivata tardi. All’improvviso entrò un giovane di circa vent’anni, si sedette vicino a mia madre e disse: «Mamma, sono un soldato tedesco, ho ordine di bruciare la casa. Se non lo faccio, al rientro mi fucilano! Uno di Collina, (di cui ometto nome e cognome solo perché rispetto i morti), è venuto già tre volte al comando a dire che bisogna bruciare ‘Titai’.  Dice che ogni sera qui si riuniscono i partigiani». Gli rispose mia madre: «Non è vero, non ci sono mai state riunioni in ‘Titai’, è solo che mia nipote ha il fidanzato partigiano, ma non viene ogni sera perché è pericoloso andare in giro!».

Il giovane soldato rispose: «Ah, adesso capisco qualcosa!». Mia madre già disperata, continuò: «E poi devi bruciarmi la casa, noi viviamo solo con la pensione di mio marito e non abbiamo altro!». In quell’istante si spalancò la porta e comparve un uomo grande e grosso, con la camicia nera (9), armato sino ai denti e ordinò: «Fuori i soldi e l’oro!». Il giovane tedesco urlò: «Vergognati italiano!». L’omone, stizzito da quelle parole, strappò di mano al giovane il lanciafiamme e andò nel corridoio (tal puarti) e lì cominciò l’inferno, con le fiamme che divoravano la casa.

Facemmo in tempo a scappare solo con i vestiti che avevamo addosso e ‘ju scarpets’.

Non bruciò solo ‘Titai’, ma si danneggiò anche parte del vicinato nonostante la catena d’acqua coi secchi che partiva in ‘Glerio’ (dal greto del fiume ndr) per cercare di estinguere il fuoco. Fu una prova molto dura che segnò per sempre la nostra vita. La nostra famiglia fu divisa ed accolta dai paesani: io da ‘Ano de Blaso’; i miei genitori da ‘Emma de Balo’ e Aldo in Chini. Ci ospitarono fin quando trovammo una sistemazione da ‘Catinuto’. Non era ancora finita però, perché arrivarono anche i Mongoli a terrorizzare ulteriormente la gente, perlustrando le case in cerca di partigiani.

Poco alla volta la casa fu ricostruita con tanti sacrifici vista anche l’anzianità dei miei genitori. Mio fratello Bepi fu deportato a Mauthausen da dove solo per miracolo riuscì a tornare vivo, ma in condizioni pietose. Non volle mai raccontarci cosa vide in quei posti di morte. Sono rimasta l’ultima dei ‘Titai’, e volevo far conoscere ai miei paesani la VERA storia del fuoco a Culino Piçulo.

Vivo a Codenons, ma il mio cuore è sempre a Culino. Concludo con: «Un mandi di côr a duç iu paesjans». “

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Testimonianza di Luciano Caneva (dal Cont).

“Ore 8 del 3 dicembre 1966, ancora col buio ci si alza dal letto e ci si trova circondati dai tedeschi impegnati in un rastrellamento per via dei partigiani: come prima cosa portano tutti gli uomini in canonica e in paese rimasero solo donne e bambini.  Verso le 11.30 il comandante con il suo monocolo disse: «La casa dei Barbolan brucerà dalle fondamenta! Uscii di casa e vidi il mio più grande amico, che per me era come un fratello, passare di corsa tutto giulivo (simpatizzava infatti per i fascisti) dicendo: «Hai saputo che i tedeschi bruciano la casa di Tita?» facendo così cessare immediatamente la nostra amicizia. Abitavo vicino alla scuola e mi precipitai nel cortile dal quale è ben visibile Collinetta, come arrivai già una colonna di fumo si alzava dal tetto di ‘Titai’. Nel frattempo mia madre era andata a far visita alla mucca che doveva figliare. Tornando, quando era sotto la canonica, un tedesco le disse: «Signora, perché non va a spenghere?» suscitando una risata tra i commilitoni (brava gente). Lei ed io ci armammo di secchi e andammo a fare il nostro dovere: strada facendo si sentiva tutto un vociare. ‘Nardin di Pirucelo’ era andato ad aprire l’acqua all’acquedotto ma, nella confusione, invece di aprire chiuse la condotta.

Trovai per strada un bambino della mia età che correva ad avvisare Nardin dell’errore commesso. Arrivato a Collinetta su luogo del disastro, incontrai le mie due zie Marie che portavano nonno Zef in Cjamavour, il poveretto pesava poco perché afflitto da un tumore (erano tre anni che non si alzava dal letto). I pochi uomini che non erano stati rastrellati, se non ricordo male, furono ‘Rubert di Tusi’, che come pompiere era molto valido, ‘Milio di Flec’ che lo era un po’ meno, come vedremo in seguito, ed altri due o tre, che non ricordo più chi fossero. Faceva un caldo infernale, i secchi, in gran parte in legno, pesavano da matti da vuoti, figuriamoci da pieni, io a un certo momento, mentre ero alla fontana nella piazzetta d sotto, mi feci la pipì addosso per il grande calore. Bruciarono nell’ordine: la stalla di Pasqualut, quella di Daniele e quella di ‘Nardin di Pirucelo’, poi vai a sapere come mai presero fuoco il ‘stâli vecju’, che era abbastanza distante dall’incendio, e per finire la stalla di ‘Bielo’, che scoppiò letteralmente ed i pezzi del tetto furono proiettati in alto ad una altezza considerevole. Andarono su interi per poi incendiarsi in aria e ricadere in terra come torce.

Successivamente mi trasferii a far catena in Peç, perché bruciava la sporgenza della casa di ‘Picjut’: si sentì tossire sul solaio e poi Milio di Flec, arresosi, scese dalle scale, o meglio ‘Robert di Tusj’ (11) lo prese per una gamba e lo tirò giù letteralmente dalla stessa: dopo che si fu ripreso, sì che dalla sporgenza del tetto pioveva bene. Realizzai che se non ci fosse stato Rubert, addio Collinetta! … Ma non era finita, prese fuoco anche il porcile de ‘Bielo’, che era attiguo alla stalla, c’era dentro il maiale di ‘Marino di Giareto’. Il tettuccio in legno era ormai una torcia e il maiale diede un colpo alla porta con il muso e uscì mezzo abbrustolito, non ricordo se lo macellarono al ‘Mulin di Matio’ o in quello di ‘Zuan da Šoe’. Alle quattro e mezzo stava ormai per imbrunire, fecero ritorno gli eroi teutonici, i più avevano un ghigno sorridente, ma uno di loro piangeva, portavano con loro numerosi ostaggi, specialmente quelli che avevano cognome Barbolan, Caneva e Tamussin».

(Giornale sociale del Circolo Culturale Eugenio Caneva di Collina, detto “Il giornalino di Collina”, con titolo ‘Collina’, numero dell’anno 2012).

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In chiusura …

L’orrore della seconda guerra mondiale è racchiuso anche in quel bruciare le case, unica dimora per le famiglie, perpetrata dai nazifascisti, in quel distruggere suppellettili, mobili, tavoli sedie degli oppositori, propria dei fascisti; in quel impossessarsi di lenzuola, asciugamani, biancheria ricamata a mano dalle donne. Talvolta le donne riuscivano a piazzare la biancheria da vicini, ma poi poteva accadere che questi la rubassero, dicendo che era stato il nemico. E secondo Michele Gortani anche i cosacchi, al loro arrivo, fecero di tutto e bruciarono quattro case all’inizio del ponte di Caneva di Tolmezzo (11). Ed oltre Cadunea e Cedarchis, furono saccheggiati altri 11 paesi della Carnia, e depredazioni avvennero un po’ dappertutto. Vennero incendiate quattro case sopra Verzegnis, cinque ad Esemon di Sopra, e furono saccheggiati e poi incendiati casolari e case, circa una cinquantina, collocati lungo le strade rotabili di fondo valle o collocati in alto, che potevano dare rifugio ai partigiani. Complessivamente, con l’entrata dei cosacchi, le razzie furono tali che circa duemila persone restarono senza vesti, senza coperte, senza masserizie, senza gli animali indispensabili per la sopravvivenza, senza attrezzi da lavoro e senza riserve alimentari. (12). Ma allora la popolazione e le comunità, tranne pochi soggetti magari fascisti o spie, o collaborazionisti, sapevano cosa voleva dire solidarietà. Questa fu allora la guerra, questa è ora, morte, lutto, perdita.

Laura Matelda Puppini

 Note.

  1. Enzo Moro, La verità sul movimento partigiano in Carnia, (a cura di Ermes Dorigo) in Almanacco culturale della Carnia, Tolmezzo 1985, p.163).
  2. La frazione di Collina di Forni Avoltri è composta da Culina Parva (Collinetta) e Culina Magna (Collina). (Enrico Agostinis, Le anime e le pietre. Storie e vite di case e casate, di uomini e famiglie. Piccolo grande zibaldone della villa di Culina in Cargna, 2001 in: http://www.cjargne.it/libri/AnimePietre.htm). La casa dei Barbolan ‘Titai’ si trovava a Collinetta.
  3. Testo di Pietro Pascoli, redatto subito dopo l’evento. (http://www.comune.fornidisotto.ud.it/index.php?id=3324&L=0J%0AMappa%20sitoJJ%0AMappa%20sito).
  4. Bruciare paesi, borgate, case e cascinali, per snidare partigiani, per ritorsione e vendetta da parte dei nazifascisti fu pratica comune nell’Italia occupata e repubblichina.
  5. Certa vulgata corrente ha spesso dimenticato il ruolo svolto nelle rappresaglie e negli incendi dai fascisti, ben raccontato anche da Nuto Revelli: «Non sono i fascisti che ci preoccupano. I fascisti – lo grido ben forte perché li ho visti con i miei occhi – non sono dei combattenti. I fascisti li temiamo e li odiamo, sottolineo “li odiamo” perché arrivano sempre dopo le operazioni di guerra, arrivano sempre dopo i rastrellamenti, al seguito dei tedeschi. I fascisti sono feroci nelle rappresaglie contro la popolazione, contro gli inermi». (Nuto Revelli, Le due guerre, Einaudi, 2003, p.147). Infatti la signora Adilia Barbolan di Titai, allora bambina, rammenta di una camicia nera, entrata in casa dopo l’inviato dai tedeschi a dire che la casa sarebbe stata bruciata a chiedere soldi ed oro.
  6. Mario Sotto Corona, figlio di Felice e Maddalena Tamussin, era nato il 19 marzo 1921 a Collina di Forni Avoltri. Partigiano della Garibaldi con nome di battaglia ‘Toti’, si consegnò con altri partigiani garibaldini alle SS il 4 dicembre 1944, per evitare la morte di ostaggi, pur non essendoci fra gli stessi suoi parenti e fu internato nel lager di Mauthausen, ove morì il 5 maggio 1945. (Egidio Del Fabbro, op. cit., pp. 17- 18; VV. (a cura dell’I.F.S.M.L.), Caduti, dispersi e vittime civili dei comuni della regione Friuli-Venezia Giulia nella seconda guerra mondiale, Udine, IFSML, provincia di Udine, 2 tomi, 1987, tomo 1, p 340).
  7. Amedeo Tamussin, figlio di Angelo e di Angela Tamussin, fratello di Remo, era nato a Collina di Forni Avoltri il 25 agosto 1925, ed era giovanissimo quando morì. Partigiano garibaldino, nome di battaglia ‘Rane’, si consegnò con altri partigiani garibaldini alle SS il 4 dicembre 1944, perché non uccidessero gli ostaggi che avevano preso, tra cui c’era suo padre, e fu internato nel campo di concentramento di Sankt Aegyd, sottocampo dipendente da Mauthausen, che prendeva il nome dalla località dove era posto: Sankt Aegyd am Neuwalde, comune della Bassa Austria nel distretto di Lilienfeld. Qui morì il 30 marzo 1945. (Egidio Del Fabbro, Ricordi storici del 13 ottobre e dell’1°dicembre 1944, Forni Avoltri 7 ottobre 1973, 17- 18; AA.VV., Caduti, dispersi, op. cit., tomo 1, p 341, e https://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_concentramento_di_Sankt_Aegyd).
  8. Secondo Remo Tamussin, forse per uno scherzo del destino, ritornarono vivi dal campo di concentramento solo i fratelli Barbolan di ‘Titai’ Giuseppe e Bruno. Per i partigiani garibaldini deportati cfr. Del Fabbro Egidio, Ricordi storici del 13 ottobre e dell’1°dicembre 1944, Forni Avoltri 7 ottobre 1973. E pare fosse partigiano anche Bruno Barbolan, detto presumibilmente ‘Bruno di Titai’, fratello di Giuseppe Barbolan detto ‘Bepo di Titai’.
  9. Mentre i partigiani sono stati denigrati in lungo ed in largo dai soliti noti, gran parte di chi aveva subito angherie e vere torture dai fascisti ne ha omesso il nome, il che fa pensare al fatto che fossero potenti anche nel dopoguerra ed impuniti, e che potessero far ritorsioni contro l’uno e l’altro. Sarebbe interessante che chi ha denigrato i partigiani dimenticando i fascisti facesse magari una ricerca anche sui nomi di chi qui vessò per un ventennio la popolazione carnica con ogni tipo di angheria, sopraffazione, umiliazione, e via dicendo.
  10. Rubert di Tusj’ e ‘Robert di Tusj’ sono qui, la stessa persona.
  11. Michele Gortani, Il Martirio della Carnia, Leonardo ed., p. 34.
  12. Ivi, pp. 48-49.

L’immagine che accompagna l’articolo è l’unica scattata sull’incendio di Bordano, fa parte dell’ archivio Anpi, è stata pubblicata da Aviani&Aviani in: 1943-1945 in: Immagini della Resistenza friulana, ed è tratta da: http://cjalcor.blogspot.com/2012/07/como-vue-68-anni-fa-lincendio-di-bordano.html Laura Matelda Puppini.

 

Giovanni Sarubbi, ‘Liberiamoci dal pensiero unico capitalistico’

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Pubblico qui una sintesi dell’articolo di Giovanni Sarubbi, ‘Liberiamoci dal pensiero unico capitalistico’ (a cui chiedo venia per qualche parentesi forse di troppo, quadra e tonda), per riflettere su questo mondo e su questa società e sulle parole ‘cancellate’, come comunismo, capitalismo, classe, che aumenta le divisioni e la distanza fra gruppi sociali e tende a distruggere il pianeta.

Giovanni Sarubbi, ‘Liberiamoci dal pensiero unico capitalistico’

«Nella politica italiana quasi tutti i partiti politici si affollano a destra. C’è una gara a chi si genuflette di più di fronte a quegli strati sociali che possiedono una ricchezza spropositata, come le 47 persone che hanno un patrimonio personale di 150 miliardi di euro, o che per il solo fatto di essere etichettati come “imprenditori” sono coccolati e vezzeggiati con provvedimenti e promesse che vanno dai condoni tombali sulle loro evasioni fiscali, a riduzioni consistenti di tasse con la cosiddetta Flattax.

Sì perché quelli che io mi ostino a chiamare “padroni”, come facevo nel ‘68, sono in genere evasori fiscali, intolleranti alle regole e alle leggi che vogliono tutelare coloro che lavorano alle loro dipendenze. Ai “padroni” e ai “padroncini” […] si promette che non ci sarà alcuna patrimoniale e che possono dormire sonni tranquilli. Questo governo, come tutti quelli che lo hanno preceduto, le mani in tasca le sta mettendo ai soliti pensionati dai 1500 euro lordi in su, cioè a tutti gli ex lavoratori dipendenti (altro che pensioni d’oro) e ai soliti lavoratori dipendenti attivi. […].

L’affollamento a destra è il segno che la destra ha vinto sul piano culturale. Anche in ciò che rimane della sinistra, e non mi riferisco certo al PD che dalla sua fondazione, il 14 ottobre 2007, ha sempre dichiarato di voler occupare un ruolo “centrale” nella politica italiana rinnovando la vecchia tradizione democratico cristiana, non c’è più né la capacità di una analisi della realtà socio-economica alternativa a quella capitalistica, né un linguaggio diverso da quello imperante basato sul cosiddetto “pensiero unico capitalistico”.

L’unica ideologia ammessa è quella liberista, quella basata sugli interessi del grande capitale. Anche a sinistra si usano parole come “buonismo”, “clandestini”, “scafisti”, “trafficanti di esseri umani” e, per ultima, quella di “sovranismo”. Parole basate sul nulla, finalizzate solo a creare paura e odio e a diffondere il virus del razzismo. (…).

La paura condisce la politica di tutti. E nonostante si viva nel paese più sgarrupato possibile, dove ai capitalisti non viene torto un capello nemmeno se li trovano a rubare o per i morti sul lavoro, grazie ad un sistema giudiziario finalizzato alla prescrizione, c’è chi sostiene che ci sia troppo poco liberalismo. Bisognerebbe dare, secondo costoro, ancora più potere e soldi pubblici ai “padroni” per liberarli definitivamente da lacci e laccioli e privatizzare ancora di più tutto ciò che di “pubblico” esiste ancora nel nostro paese. Ma io sono sicuro che anche in quel caso i padroni non sarebbero contenti e troverebbero ancora altri lacci da rompere e vorrebbero ancora più soldi pubblici.

Si ha paura ad usare termini come “padroni”, “lotta di classe” o “classi sociali”, “imperialismo”, “socialismo” e meno che mai “comunismo”. Se li si usa si viene etichettati immediatamente come “vetero comunisti”, come capita al sottoscritto un giorno sì e l’altro pure.

“Non c’è alternativa” mi ha detto un amico qualche giorno fa, concludendo con una secca affermazione: “il comunismo è morto nel 1990”. Ma cosa è morto nel 1990? E cosa è vivo da quella data in poi? Il sistema sociale capitalistico che dopo il 1990 sembra trionfante ha forse perso la sua caratteristica di sistema sociale ingiusto e basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? La schiavitù salariale è stata abolita? E cosa sono quelle realtà del nostro paese dove vige la legge del caporalato più feroce e disumano? I cosiddetti “diritti umani” vengono rispettati dalle multinazionali imperialistiche che dominano il mercato mondiale e che riempiono i nostri cibi di pesticidi di tutti i tipi e del sangue di chi lavora nei campi? Questo sistema sociale ha forse smesso di attaccare in tutti i modi possibili gli stati che hanno un sistema sociale socialista, vedi Venezuela?

Quello del mio amico è un ragionamento tipico di un approccio filosofico “idealistico”, che considera la realtà materiale come apparente mentre la realtà vera sarebbero invece le idee immutabili e definitive che vivono nell’iperuranio. Secondo questa concezione filosofica nessuna rivoluzione sarebbe mai stata possibile, né quella francese né quelle che le sono seguite, né le rivolte degli schiavi o la guerra dei contadini del 1500. L’umanità sarebbe ancora all’età della pietra e niente di nuovo sarebbe mai apparso sotto il Sole. Tutto ciò che è dialettico è inconcepibile per gli idealisti che ragionano solo rispetto a ciò che torna loro utile e si oppongono a ciò che a loro non giova.

Ma gli scontri sociali hanno caratterizzato la vita di tutte le società da millenni a questa parte. E non potevano fare eccezione alla dinamica dello scontro sociale neppure le società socialiste il cui primo prototipo è nato in Russia nel 1917 con la Rivoluzione d’Ottobre. Lo scontro di classe non è andato in pensione e il capitalismo sul piano mondiale non è stato sconfitto definitivamente né nel 1917 né alla fine della seconda guerra mondiale con la sconfitta del nazismo e del fascismo. Nè si può dire che il crollo dei paesi socialisti dell’est europeo e dell’Unione Sovietica abbia posto fine alle esperienze socialiste e alla prospettiva di un mondo senza più sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Il sistema imperialistico mondiale ha vinto nel 1990 una battaglia e si è preso la rivincita per tutte le sconfitte che ha dovuto subire dal 1945 in poi con la fine del colonialismo e con la nascita di una miriade di stati nazionali. (…). Ma tutti gli ideali socialisti che affondano nella notte dei tempi sono forse morti? Il fatto che una gran parte dei dirigenti dell’ex PCI, poi divenuto PDS, poi DS, poi PD, abbiano venduto la loro anima all’imperialismo ha distrutto per caso le aspirazioni ad un mondo giusto, senza guerre e sfruttamento? Penso proprio di no. (…).

È morta invece la capacità di analisi scientifica della realtà della sinistra che ha capitolato completamente rispetto ad un imperialismo mondiale, capeggiato dagli USA, che ha fatto crollare i paesi del cosiddetto “socialismo reale” su se stessi con attacchi continui sul piano economico, su quello militare, con la corsa agli armamenti, sul piano politico e culturale. Attacchi a cui i dirigenti dei paesi del cosiddetto socialismo reale non hanno saputo rispondere […] incapaci di costruire una cultura in grado di sconfiggere l’ideologia capitalista che si ciba di edonismo ed ingordigia, di odio e di violenza mascherati in mille modi diversi. (…).

Ma nel 1990 non è nato un nuovo sistema sociale mondiale migliore né nei paesi ex socialisti né nei paesi capitalisti. La caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS e del cosiddetto “Patto di Varsavia” ha portato alla prima guerra del Golfo contro l’Iraq e poi al Kosovo e alle guerre nella ex Jugoslavia che si è anch’essa sbriciolata. E poi nel 2001, l’11 settembre, è iniziata quella che noi da subito abbiamo chiamato “terza guerra mondiale” e che solo nel 2013, ad opera di Papa Francesco, è stata denominata come “terza guerra mondiale a pezzi”. La “vittoria” del sistema capitalistico sui paesi dell’est Europa si può definire come positiva? È migliorata la condizione di vita di quelle popolazioni? Mi pare proprio di no. È aumentata a dismisura la disoccupazione e l’emigrazione verso l’ovest.

Da allora il mondo capitalistico è stato attraversato da ripetute crisi economiche mondiali di sovrapproduzione e finanziarie, con il crollo della finanza mondiale e recessioni devastanti e l’ultima la stiamo vivendo proprio in questi mesi, vedi scioperi dei “Gilet Gialli” in Francia o dei pastori sardi in Italia. Altro che morte del “comunismo”. Stiamo vivendo l’agonia di un sistema sociale, quello capitalistico, che non può in alcun modo risolvere le proprie contraddizioni se non ricorrendo a guerre e distruzioni.

La pretesa “vittoria” del capitalismo imperialistico mondiale sta provocando guerre distruttive in ogni angolo del globo ed è aumentato a dismisura il pericolo di una guerra nucleare che sarebbe la fine dell’umanità. E il comunismo sarebbe morto? Quali degli ideali di giustizia sociale “comunisti” o evangelici o islamici sono morti? Quali delle contraddizioni sociali messe a nudo dall’analisi marxista è stata risolta? Quali delle analisi sul capitalismo di Marx, Engels, Lenin è stata messa in discussione e non è ancora valida? Il “capitale” funziona ancora secondo ciò che Marx ed Engels analizzarono nel loro libro più famoso che è per l’appunto “Il capitale”. E così dicasi per l’imperialismo analizzato da Lenin nel suo libro “Imperialismo fase suprema del capitalismo” del 1916 che sembra scritto per l’oggi se solo lo si sa leggere nel modo giusto attualizzandolo alla realtà attuale. (…).

Possibile che non ci sia una organizzazione di ispirazione socialista o comunista in Sardegna in grado di far capire questo ai pastori e spingerli verso forme diverse quali quello di vendere direttamente il loro latte ai cittadini a prezzi sostenibili per loro che lo producono e per i cittadini che lo acquistano? Possibile che non sappiamo più coniugare solidarietà e umanità?

Il fallimento e la capitolazione della sinistra è tutto qui. E finché non ci libereremo del pensiero unico capitalistico e non ricominceremo ad occuparci delle classi sociali diseredate non avremo alcuna prospettiva politica. Continueremo a ragionare in termini elettorali e a cercare il capopopolo di turno attorno a cui aggregarsi nella speranza che si riesca a conquistare un posto in una qualsiasi istituzione statale o europea. Ma questo è la morte dell’idea stessa di sinistra che è innanzitutto lotta per la giustizia sociale, contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, per la pace ed il disarmo generalizzato, per la salvaguardia e la cura della nostra Madre Terra, l’unica che abbiamo e che continuamente maltrattiamo. (…). ».

GIOVANNI SARUBBI.

 https://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/editoriali/direttore_1551044882.htm

 Conclusioni personali.

Non ditemi che perché pubblico queste righe sono una sporca rossa comunista, perché cerco solo di far riflettere e pensare, ma forse anche il pensare è vietato nella società liberista, e l’etichettare è persino troppo facile … e una società socialista che permetta a tutti di avere il pane sembra relegata nel cassetto. E per terminare mi chiedo perché mi sia venuta la voglia di pubblicare questo articolo mentre si è aperta la più moscia campagna elettorale anche per le amministrative che si sia mai vista, centrata sulle personalità invece che sulle idee e sul confronto e ben lontana dall’essere partecipata. Quanto desidererei a Tolmezzo vedere un comizio oceanico come quello di Pannella tanti anni fa … invece mi trovo pagine di ‘cosa ho fatto e come sono stato bravo’ del sindaco uscente a Tolmezzo, che si ripresenta, e non ho ancora letto il programma almeno indicativo per Tolmezzo di Laura D’ Orlando. Non da ultimo il programma elettorale pare a senso unico, il che non fa ben sperare. Vorrei una Tolmezzo più rossa? Non so cosa vuol dire. Vorrei invece una Tolmezzo non addormentata ma più vivace, e una Carnia meno attenta al becjut. Provocatoriamente …. Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo ritrae l’autore, Giovanni Sarubbi, ed è tratta da: https://www.emi.it/sarubbi-giovanni.

Chi è Giovanni Sarubbi? Giovanni Sarubbi è nato in Lucania nel 1951. Giornalista, diplomato in teologia, si occupa di dialogo ecumenico ed interreligioso, e oltre che direttore di ‘Il dialogo’, punto di riferimento nazionale del dialogo cristiano-islamico, è membro della redazione di ‘Tempi di Fraternità’, e collabora con vari giornali locali e nazionali sui temi della pace e del dialogo. (http://www.emi.it/sarubbi-giovanni). Laura Matelda Puppini.

Incredibile ma forse vero. Nel merito di tre segnalazioni giuntemi, due delle quali da Legambiente Carnia.

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LEGAMBIENTE CARNIA SOTTO I PONTI COME I CLOCHARDS?

In queste due giornate mi sono giunte più segnalazioni che prendo in considerazione perché riportano ad argomenti generali, e credo che si debba dare voce a tutti.

Da settimane Marco Lepre, presidente di Legambiente Carnia, è alla caccia di una nuova sede per la sezione, essendogli stato notificato di abbandonare anche l’ultima, posta negli scantinati, se ho ben compreso, dell’ex-scuola elementare, poi sede del liceo pedagogico. Per la verità quando ho visto le immagini di detta sede, quasi direi tugurio, ho pensato che non era neppure il caso di proporgliela prima, ma ormai ciò che è fatto è fatto.

Foto scattata da Marco Lepre

Il problema non è però questo. Non si sa perché Legambiente sezione carnica non abbia avuto sinora a Tolmezzo, capitale della Carnia, una sede data dal comune. Marco mi dice che ne aveva una, ma che poi la stessa, per un qualche motivo, non fu più disponibile ai tempi di Sergio Cuzzi sindaco. Quindi e per fortuna, gli fu messo a disposizione un locale dal comune di Cavazzo Carnico, ma poi, recentemente ha dovuto lasciare anche detta sede, e quindi gli è stata assegnata, a Tolmezzo, una stanza che, mi scusi il sindaco del capoluogo subito se la definisco così, mi pare proprio una topaia. Ora per grazia di Dio è stato sfrattato a causa di lavori imminenti nell’edificio. Ma dove andare? Ogni ‘albergo’ è pieno, e nessuna stalla è più libera?

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Per inciso ricordo che Marco Lepre e Legambiente, sezione locale, molto hanno fatto per il territorio: i campi di Legambiente, organizzati e portati avanti con tanta fatica in particolare da Marco ma non solo, hanno contribuito a far conoscere la Carnia in Italia, hanno portato presenze, hanno permesso di pulire, a livello di volontariato, sentieri e ne hanno ripristinati. Ma quando c’è stato l’incontro “1998-2018: VENT’ANNI  DI CAMPI DI VOLONTARIATO IN FRIULI VENEZIA GIULIA”, tenutosi in quella disgraziata giornata in cui iniziò il quasi biblico ultimo alluvione della Carnia, e cioè il 28 ottobre 2018, in sala non c’era alcun rappresentante del comune di Tolmezzo, almeno per salutare i pochi venuti da fuori ed il Presidente Regionale di Legambiente Sandro Cargnelutti. A me non è parso poi che il comune abbia fatto una figurona, ma … e non era ancora iniziato a piovere.

Inoltre senza una sede, cioè senza senza un luogo fisico ove porre documentazione ed oggetti, e dove lavorare, come farà Legambiente Carnia ad organizzare i campi? Mistero. Magari vorrà dire che con i vent’ anni si chiuderà anche questa esperienza, tanto basta che resti la costosissima mostra di Illegio, che non mi pare attiri a vivere, per una settimana, sul territorio i giovani. Ma è parere mio.

Foto scattata da Alido Candido il 28 ottobre 2018.

Per inciso, poi, Legambiente organizza pure “Puliamo il mondo in… Carnia” attività di volontariato per la raccolta dei rifiuti disseminati sui territori, che ha coinvolto, sabato 28 aprile 2018, Tolmezzo e frazioni.  Vorrà dire che i rifiuti resteranno lì, se non vi è sede degna per organizzare l’attività. Ma suggerirei al comune di chiedere magari alle associazioni sportive e motociclistiche, che hanno sede e sfruttano il territorio per il loro divertimento, di fare questa opera meritoria di raccolta gratuita spazzature distribuite qui e là.  Chissà, forse qualche volontario si trova.

Vorrei poi sapere quanti locali sono a disposizione del comune di Tolmezzo dati per sedi varie e magari sottoutilizzati. Per esempio l’Anfaas potrebbe convivere in uno spirito di collaborazione, ma pare voglia più locali in esclusiva. E Marco narra che, quando il comune gli ha proposto di andare in una stanza lì, subito è giunta una lettera della presidentessa che diceva che non voleva altri lì. Io spero che non sia vero, perché proprio l’Anfaas parla di solidarietà, aiuto reciproco ecc. ecc., e mi dispiace sentire certe cose. E qui, capite, il problema non è cosa risolvere con un:  “Non rompere e prenditelo a casa tua Lepre con le sue carte” – come magari pensa qualcuno, perché il comune è al servizio, notoriamente, dei cittadini, di tutti i cittadini, e se una sede occupata non si sa per quanti giorni l’anno l’ha anche Carnia Live, mi si dice, non si sa perché non debba averla Legambiente, sezione di un ente a livello nazionale, magari in condivisione.  

Gruppo di ‘Puliamo il mondo’ a Braulins. Da: http://cjalcor.blogspot.com/2014/09/puliamo-il-mondo-dal-tagliamento-ad.html

Inoltre io vorrei sapere chi sta occupando tutti i locali della vecchia stazione ferroviaria al primo piano, ma anche sotto. Legambiente non credo abbia preclusioni a condividerne uno. Inoltre ci sono i locali della ex caserma della finanza, e credo qualche locale sotto utilizzato stia anche dietro gli uffici comunali di Palazzo ex-  D’Orlando. Anzi, per la trasparenza, sarebbe interessante che il comune ci ricordasse quali associazioni stanno occupando spazi suoi cioè dei cittadini di Tolmezzo, e in base a quali criteri hanno avuto l’assegnazione.

INTANTO VISTA, ALMENO DA CHE MI SCRIVE MARCO, L’INDISPONIBILITÀ DI UN LOCALE PER LA SEDE DA PARTE DEL COMUNE DI TOLMEZZO, IO CREDO CHE MARCO DEBBA CHIEDERE AIUTO AI COMUNI LIMITROFI: ARTA TERME, ZUGLIO, VILLA  SANTINA, VERZEGNIS, e vorrà dire che organizzerà le giornate “Pulire il mondo” lì non per ripicca, ma per aiutare chi aiuta, in uno spirito di solidarietà reciproca. In fin dei conti è vecchio il detto che “Una mano lava l’altra e due lavano il viso”.

Senza voler offendere alcuno, sperando che infine una sede in comune di Tolmezzo, anche condivisa con altri, si troverà, mi scuso per la franchezza, e se ho scritto cose imprecise, per cortesia correggetemi. Laura Matelda Puppini

QUEL PALAZZO LINUSSIO VISITABILE, NON VISITABILE …

Sempre Marco Lepre, che, come presidente di Legambiente Carnia ha più di un sassolino da cavarsi dalla scarpa, mi scrive pure che la sua domanda di visitare con un gruppo di specialisti “Palazzo Linussio” è stata negata dal sindaco, ma forse la domanda doveva essere inviata alla giunta, o che ne so. Mica è Palazzo Linussio la casa del sindaco di Tolmezzo! Il bello è che, avendo letto solo quanto mi ha scritto Marco Lepre, non si capisce perché.

«Il 18 febbraio scorso, Legambiente del Friuli Venezia Giulia, attraverso il circolo della Carnia, avanza al Sindaco di Tolmezzo una richiesta per poter effettuare “con l’accompagnamento di personale dell’Amministrazione Comunale” e con tutti gli accorgimenti eventualmente necessari, “una visita a Palazzo Linussio e al complesso della ex Caserma Cantore”.
La richiesta è motivata “sia dall’esigenza di rendersi conto della situazione dell’intero complesso e degli edifici e delle opere d’arte presenti al suo interno, sia di raccogliere elementi per valutare ipotesi di riutilizzo e recupero dell’area, che costituiscono uno degli obiettivi del progetto ‘Tolmezzo Città Alpina 2017’”. Alla visita si precisa che dovrebbe partecipare una delegazione composta da non più di “una decina di persone, comprendente professionisti, esperti ed ex funzionari della Soprintendenza”.

Qualche giorno fa è arrivata la imprevista e sorprendente risposta di Francesco Brollo che, annunciando che la richiesta “non può essere accolta”, motiva la sua decisione con il fatto che, “da un lato, il sito, temporaneamente consegnato all’Ente, non è in generale accessibile a Terzi e, dall’altro, non si rinviene una motivazione che possa giustificare visite da parte di soggetti che non abbiano titolo istituzionale ad intervenire e svolgere le valutazioni da Voi indicate». Di quanto mi avvisava Marco Lepre.

L’incontro in Palazzo Linussio, per l’inaugurazione di Tolmezzo – città alpina. Da: https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2016/11/12/news/tolmezzo-avra-la-cantore-tanti-progetti-per-la-carnia-1.14402258.

Ma detta risposta lascia invero me perplessa, intanto per quel ‘in generale’, che pare presuppore che comunque vi sia possibile discrezionalità nel decidere, poi per quel “soggetti istituzionali” che non si sa che significhi. Forse che solo i politici possono entrarvi? Boh!!!!

Non pare che l’accesso sia stato negato per motivi di sicurezza, i lavori di restauro iniziati nel dicembre 2017 secondo Marco Lepre sono terminati, e credo che se si fosse potuto portare qui, a visitare detta sede prestigiosa, magari Serena Pellegrino e Moreno Baccichet, ambedue architetti, Tolmezzo ne avrebbe avuto solo da guadagnare. Insomma va a finire che Palazzo Linussio era più godibile quando c’era la caserma, che ha permesso concerti e manifestazioni, che ora!  E se vi è un motivo valido per negare l’entrata ad esperti nel palazzo, allora vorrei saperla, per essere anche in ciò che scrivo il più obiettiva possibile.

In sintesi io credo che il comune dovrebbe dare a tutti i cittadini una risposta chiara su chi sono i soggetti istituzionali che possono entrare nel Palazzo per una visita (gli interni sono stati negati anche al FAI nel 2017 e non consta siano stati oggetto di visite per le due giornate FAI di primavera 2019) e si vorrebbe sapere il perchè la visita, con accompagnatori, sia negata a terzi. E se Palazzo Linussio è comunale allora è della comunità, e la comunità ha diritto di sapere che si intende fare e se si può visitare. Inoltre il progetto per Palazzo Linussio doveva essere un «Cantiere di rigenerazione territoriale per la Carnia» e prevedeva «Il coinvolgimento dei cittadini, delle associazioni e di gruppi (formali e non), degli operatori della cultura, della scuola e della formazione, del mondo imprenditoriale e del turismo, di giovani studenti delle scuole e dell’università» (http://www.udinetoday.it/cronaca/villa-opificio-linussio-cantiere-rigenerazione-territoriale-carnia-tolmezzo.html).  Tutto finito già nel cassetto?

Senza offesa per alcuno, ma in attesa di capire. Laura Matelda Puppini

‘NUOVA ALABARDA’ FACEBOOK CHIUSO DAL TEAM FACEBOOK, O È ACKERAGGIO?

Mi giunge una terza segnalazione che mi informa che l’account “Nuova Alabarda” è stato chiuso dal team di facebook, ma non si capisce se sia così o se ‘il file sia corrotto’, in sintesi vi sia stata una azione di ackeraggio.

La prima cosa da sapere da Claudia Cernigoi che gestisce detto sito, poco amata da molti ma che ha il sacrosanto diritto, sancito dalla Costituzione, di esprimere le proprie idee, è se questa è la prima volta che accade che qualcosa le venga rimosso da facebook o no, perché non credo proprio che facebook chiuda un account senza che rientri nelle 5 grandi tipologie previste: contenuti con violenza e comportamenti criminali; contenuti deplorevoli; contenuti relativi alla sicurezza; contenuti che violino integrità ed autenticità ed il rispetto della proprietà intellettuale. (https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-04-24/facebook-rivela-come-censura-post-e-utenti-possono-fare-appello-174907.shtml?uuid=AEnmdxdE).

L’immagine correda un articolo di La Repubblica che mostra uno degli aspetti positivi di facebook che ha lanciato un servizio per leggere ai ciechi immagini. Da: https://www.repubblica.it/tecnologia/social-network/2016/04/05/news/facebook_foto_ciechi-136952080/

In sintesi vengono censurati contenuti comportanti: Terrorismo, Odio organizzato, Omicidio di massa o seriale, Traffico di esseri umani, Violenza organizzata o attività criminale, Suicidio e autolesionismo, Nudità e sfruttamento sessuale di bambini, Sfruttamento sessuale di adulti, Bullismo, Molestie, Violazione della privacy e diritti di privacy sulle immagini, Contenuti che incitano all’odio, Contenuti visivi violenti,  Immagini di nudo (adulti) e atti sessuali, Contenuti che esprimono crudeltà e insensibilità.  Naturalmente uno può chiedere a facebook di chiudere il proprio account personale o quello di un parente deceduto, e il legale rappresentante quello di un invalido.

E fin qui credo che non ci sia niente da dire. Non so invece perché avrebbe dovuto oscurare Nuova Alabarda facebook, che vi dico subito non sapevo neppure esistesse fino a stamani, in toto. Pertanto consiglio Claudia Cernigoi di rivolgersi subito al team di facebook per vedere cosa sia accaduto. Può darsi che qualcuno abbia segnalato per qualche motivo l’account di Nuova Alabarda, ma per rimuovere non un articolo ma l’intero account credo ci voglia un ben valido motivo del quale, in democrazia, chi lo ha aperto dovrebbe essere messo a conoscenza. Mi pare che in altro caso il soggetto fosse stato avvertito dei motivi per cui correva detto rischio, ed avendo perseverato, infine facebook gli avesse notificato la chiusura. E resta sempre possibile una azione di ackeraggio attraverso virus ecc. ecc.

Comunque Claudia Cernigoi tienici informati sui risvolti e contatta subito facebook, che non sia magari ackeraggio. Laura Matelda Puppini.

CONCLUSIONI

Terminate le tre segnalazioni, saluto i lettori, e invito a non prendersela con me per quanto scritto, perché è solo finalizzato a cercare risposte a problemi comuni: una sede che non si trova, l’uso dei luoghi e degli spazi comunali per associazioni locali ed il possibile loro sottoutilizzo, la friubilità dei monumenti e palazzi locali, con garanzia che nessuno li imbratti; la possibilità di esprimere le proprie idee se non vanno contro la legge ed il decoro, ed il problema di facebook, che non è di oggi.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è quella già posta all’interno dello stesso, ed è tratta da il Messaggero Veneto. LMP

 

Tra mondo reale e virtuale. Quale futuro? Riflessioni sull’intervento di Roberto Siagri ad Innovalp.

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Ho ascoltato oggi, 27 marzo 2019,  un interessante incontro presso l’isis F. Solari di Tolmezzo, promosso da Cramars nel contesto di Innovalp. Esso si intitolava: “La montagna nelle traiettorie del futuro”.

Vorrei proporre in questo mio articolo alcune considerazioni  sull‘intervento di Roberto Siagri, che ci ha mostrato scenari inimmaginabili anche negli anni ottanta del secolo scorso: robotica, tecnologia, stampanti 3 D, intelligenza artificiale hanno cambiato il mondo, portando a quella che viene definita la quarta rivoluzione industriale, e quindi ancora centrata sulla produzione e sul prodotto.

Le rette non bastano più a rappresentare su di un piano cartesiano il progredire di alcune funzioni, e le curve tendenti all’infinito hanno preso il posto delle prime, troppo limitate e limitanti. Ora per una sola ricerca su google si utilizza lo stesso numero di calcoli che servirono per il programma Apollo, che portò l’uomo sulla luna, mentre cellulari e computer hanno riempito le nostre case e quello al silicio rappresenta la sfida del domani, assieme ai calcolatori quantistici. L’economia ormai viaggia sull’immateriale, su dati e calcoli ‘senza peso’, così come la finanza, che ebbe inizio con gli studi fatti dal monaco francescano fra Luca Bartolomeo de Pacioli, padre della ragioneria, che voleva salvare anime, e viaggiava fra pratico e speculativo. (https://it.wikipedia.org/wiki/Luca_Pacioli).

A questo punto, di fronte a queste meraviglie, uno potrebbe chiedersi se il senso del limite, nel mondo della tecnologia, della digitalizzazione, del calcolatore, abbia un senso. Eppure lo ha, se si considerano più variabili interagenti nel sistema virtuale collegato alla realtà. Un giorno lessi da qualche parte che anche la combinazione delle note per creare armonie non era infinita. Ed ancora: il mondo virtuale potrebbe condizionare quello politico e la democrazia stessa; potrebbe cambiare le regole del gioco e portare a scenari autoritari alla Orwell, ed i giovani potrebbero iniziare a confondere mondo virtuale e reale pensando di poter fare nella realtà tutto ciò che è virtualmente possibile.
E poi quelle immagini di bimbi e adulti che muoiono, oggi, per fame e guerre ci porta ad una triste realtà di sopraffazione e possesso di beni comuni, di accentramento di ricchezze che, per un motivo o per l’altro, si è sviluppata negli ultimi tempi a livello vertiginoso, ma presente anche prima solo non evidenziata ed in sottofondo. E se mancherà l’acqua moriremo tutti, perché temo che nessuno sia riuscito ancora a produrla, non si sa a che costi, con una stampante 3 D, ed a farla circolare come Dio volle sul pianeta. Può darsi che un giorno qualche laboratorio ci riuscirà ma forse sarò troppo tardi per l’umanità.

Il tempo delle ‘cose’ e dei ‘processi’, il lento adeguamento della società a nuovi schemi di vita, (che potrebbe essere anche un bene), e l’inquinamento possono essere i limiti del sogno del progresso in funzione dell’uomo e dell’umanità in cui crede Siagri. Scrivevano Marx ed Engels, che il mutare della struttura produttiva e dei rapporti produttivi è molto più veloce della modificazione della sovrastruttura sociale, cioè del modo di pensare, del diritto, della politica, dell’etica, della religione, dei rapporti sociali che tendono ad adeguarvisi. E per loro la sovrastruttura dipende direttamente dalla struttura, cioè la vita sociale ed il pensiero dipendono strettamente dall’economia e dal sistema produttivo. Quanto marxisti sono i nuovi capitalisti! Ed un nuovo modo di vivere e pensare, plasmato sul mondo economico, si forma per passaggi successivi e progredenti. In sintesi struttura e sovrastruttura sono in continuo rapporto dialettico, nella concezione materialistica della storia, (cfr. https://www.lacittafutura.it/cultura/struttura-e-sovrastrutture), e, per Marx ed Engels, è  il modo di produzione della vita materiale a condizionare il processo sociale, politico e spirituale, non viceversa. (http://www.treccani.it/enciclopedia/struttura-sovrastruttura_(Dizionario-di-filosofia)/

Corrono a due velocità diverse struttura e sovrastruttura, mentre, in un discorso meramente materialistico, le idealità paiono escluse. Insomma prima mutano i sistemi economici e di produzione poi la società e l’uomo li recepiscono.

Le finalità della vita paiono non dipendere dai sistemi produttivi ma non è così. Può il capitalismo conciliarsi con il pane ed il benessere per tutti? Può conciliarsi con la pace nel mondo? Perché vi è anche chi, non credendo in tutto quello che ci narrano sulle possibilità della robotica e della scienza e sui risparmi possibili in un futuro non lontano, si accaparra intanto tutto, e poi si vedrà.

La parola ‘progresso’ ora si è riempita di significati diversissimi dai primi Novecento, quando era il treno a vapore che correva sulle nuove rotaie a rappresentarlo. Ora si vola, ora milioni di informazioni vengono scambiate in un attimo, ora, però, la comunicazione non ha più la salvaguardia del sigillo del re.

Prima il mulino era mosso da forza animale ed umana, e si viaggiava a piedi o a cavallo, i tempi di percorrenza dei tragitti erano lunghissimi, la vita trascorreva in un battito d’ali. E questi mondi e società, improntati su tribù in cammino, in opposizione, in relazione, in interscambio fra loro, in convivenza anche pacifica senza mille confini, rappresentano per noi una sfida nel cercare di immedesimarsi per capire, per comprendere, per non confondere ciò che per noi è immaginario e per loro fu realtà. Perché le popolazioni antiche credevano davvero che un dio potesse avere la forma del cane, o che Zeus fosse l’artefice del lancio dei fulmini.  Poi, attraverso il Rinascimento, nuove conoscenze anche meccaniche presero piede in una Europa che si avviava verso l’industrializzazione, dopo aver creato il razzismo. E l’energia prodotta dal carbone ne fu l’artefice.
Ma mentre la vaporiera ed i battelli a vapore cambiavano l’universo del possibile, uomini che avevano vissuto in simbiosi produttiva con la natura venivano spazzati via assieme ad equilibri ancestrali, senza che ne si vedessero dei nuovi e dei possibili, anche perché il sistema produttivo industriale, sinora, non si è retto sull’eguaglianza fra gli uomini, ma sulla diseguaglianza, fra pochi ricchi e molti poveri.

Quindi la terza rivoluzione industriale con l’energia elettrica, che ha però prosciugato fiumi e corsi d’acqua e violato paesaggi anche con gli elettrodotti, ed infine la quarta rivoluzione che si regge su computer, stampanti 3 D, economia globalizzata come la finanza, ma che si è distaccata sempre più dai valori etici, che alcuni ritengono prioritari, come riferimento, anche in un processo di progresso tecnologico avanzato, ma purtroppo altri no. Con la tecnologia moderna presto daremo da mangiare a tutti, diceva Siagri, consumeremo meno energia, e sostituiremo il concetto di proprietà con quello d’uso in condivisione, perchè non possiamo più utilizzare tante materie prime, ma intanto il soggettivismo e l’individualismo diventano sempre più esasperati, senza lasciar spazio a cooperazione e condivisione alcuna. Ed il ‘coworking’ e tante altre forme di collaborazione restano spesso solo sulla carta.

Pare quasi che i neoliberisti siano più materialisti e marxisti di quei quattro poveri comunisti che lottarono per un pane per tutti, concetto molto cristiano, e che invece furono avversati dalla chiesa stessa.

Negli anni sessanta produrre un iPad sarebbe costato milioni di dollari, ora molti ce l’hanno. Ma a cosa gli serve se non hanno la libertà? Ed una società dei consumi ne produce anche di fittizi, come sottolineato pure da Siagri. Ma in questa era simbiotica fra uomo e macchina, tra mondo della tecnologia e della vita reale, che ha delle sue regole, dei suoi confini, dei suoi limiti, che ruolo possono avere la spiritualità, il sogno, la religione, le grandi finalità dell’esistenza umana sulla terra? Perché quello che ci ha descritto Siagri  è un mondo sempre contenuto in una visione materialistica dell’essere e della storia, che tende ad imporsi cancellando il resto.

Roberto Siagri ha anche sottolineato la valenza della creatività per una società futura, ma paradossalmente sempre di più le persone tendono all’appiattimento del pensiero, ad essere uomini – robot, medici robot, e via dicendo, il che non comporta il pensare. Perché pensare implica cogliere le differenze, sviluppare con disciplina e intelligenza le proprie conoscenze, unendole in modo strutturato, saper applicare il metodo scientifico, saper usare il ‘pensiero divergente’, cioè esser capaci di trovare soluzioni diverse ad un problema modificandone la percezione, il che è difficilissimo, utilizzare il ‘problem solving’. E finchè Copernico non superò la concezione antica del moto degli astri e dell’etere nei cieli, e riportò il sole al centro, non ci si avvicinò mai ad una visione più corretta del sistema che ora chiamiamo solare.  Non per nulla si dice che si andò dal sistema tolemaico alla rivoluzione copernicana. Invece la sovrastruttura sociale basata sui consumi non trova nello sviluppo dello studio e delle capacità intellettuali grossi sostenitori, ed è costretta ad ammassare tutti entro confini di emotività soggettiva, di vincenti e perdenti, di sopravalutazione della prestanza fisica, per forza di cose circoscritta nel tempo, rispetto ad altre possibilità, e si è sempre più convinti che basta sapere quattro cose ed avere un pizzico di infarinatura insieme ad un pizzico di sballo, per essere felici.
Inoltre la capacità di pensare e ragionare va coltivata, mentre a conoscenza si aggiunge conoscenza, ad elaborazione elaborazione, in un sistema sempre più strutturato ma anche volto al diverso dal noto. E ci vogliono curiosità intellettuale e scambio reciproco per poter coltivare questo giardino. Non per nulla ora si parla di progettazione in team.

E mentre il denaro sta diventando il parametro su cui si discriminano vincenti e perdenti, come fossimo ritornati ai tempi degli antichi romani, paradossalmente la gran massa dei viventi sul pianeta ne ha sempre di meno, ed il lavoro, che lo permette, tende a sparire, senza che si capisca come si risolverà questa antinomia.  Possiamo immaginare il futuro del 2040 o 2060? Forse no, forse la tecnologia, come diceva Siagri, viaggia a velocità tale da non permetterlo, ma è anche vero che non sappiamo cosa inquinamento, nuove malattie, nuovi rapporti di vita ci riservano. E neppure la tecnologia lo sa o forse lo sa e non vuole dircelo.

Ancora una considerazione sul ‘gap’ tra sviluppo esponenziale tecnologico e la realtà del mondo presente. Un giorno sentivo, ad Udine, su di un autobus, due signori non giovanissimi parlare dello sviluppo delle tecnologie mediche. «Ora, diceva uno, se hai un problema hanno macchinari talmente sofisticati che ti salvano sicuramente», sposando così un concetto di potenzialità della tecnica superlativo, quasi avesse vinto la morte. Ma la morte non si può vincere. E poi la realtà è ben diversa ed ogni persona è unica, anche se il mondo medico tecnologico tende alla massificazione ed ai protocolli diagnostico- curativi, che rappresentano secondo me e dalla mia personale esperienza, una aberrazione, rischiando fra l’altro di seguire mode e mercati. Inoltre mentre macchinari sempre più sofisticati vengono prodotti, ben poche aziende sanitarie riescono a comperarli per i noti limiti di bilancio, ed ad avere personale specializzato per utilizzarli al meglio. Inoltre l’ultimo alluvione ci ha dimostrato che se gli sbarramenti dei fiumi possono essere controllati da computer, proprio quando vi è una situazione di emergenza essi possono andare in tilt per mancanza di corrente elettrica. E vi fu un caso sicuramente, forse in Veneto, in cui lo sbarramento rimase chiuso provocando il mancato deflusso regolare delle acque e più danni. Inoltre se vi è stato un errore da parte della tecnologia, qualora esso venisse rilevato, si potrebbe prendere in considerazione come correggerlo, ma nella società odierna, per motivi assicurativi , di prestigio, di responsabilità civili e penali spesso informazioni su errori anche da parte di macchinari possono venir occultate, impedendo di volgere ad ulteriori miglioramenti. Inoltre l’uomo ha bisogno di comunicare con l’uomo, non di vivere in uno spazio virtuale che rischia di trasformarsi nel meraviglioso mondo di Amely con ben pochi contatti con la realtà, con cui tutti dobbiamo fare i conti. Non da ultimo Siagri ha detto che la sostenibilità del futuro non appartiene più ai grandi agglomerati ma alle periferie, non appartiene alla concentrazione ma al decentramento, ma intanto la realtà sta andando in senso opposto. E le sei D che egli vede nel futuro (Digitalization, Deceptive, Disruption, Demateralization, Demonetization, Democratization) non si sa che impatto avranno sul contesto reale e sociale, o almeno io non l’ho capito. Per esempio vi è chi, anni fa, ha sottolineato il rischio di non avere moneta reale, che comporta di non valutare bene la spesa. E poi che senso ha togliere realtà alla vita? E cosa significa democratizzazione in questo contesto fortemente globalizzato e tecnocratico?

In sintesi ed in chiusura a me pare che la realtà non segua l’andamento dei sogni di chi crede che tecnica e scienza modificheranno in positivo il mondo reale, e che sempre più un modo di vedere le cose appartenga anch’ esso al mondo virtuale, mentre a livello sociale alla perdita dei valori tradizionali si è sostituito un nulla, pericoloso e tendente al soggettivismo esasperato. E non è tutto ingegneristicamente definito nella vita umana e funzionale ai commerci: ci vogliono anche i sogni, le idealità, l’etica, la filosofia per realizzare un mondo nuovo.

E per ora mi fermo qui, rimandando, se ne avrò il tempo e le forze, alcune considerazioni sugli altri due interventi al prossimo articolo.

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L’immagine che correda l’articolo rappresenta gente in affari nel mondo virtuale, è libera da diritti ed è tratta da: https://it.dreamstime.com/illustrazione-di-stock-gente-di-affari-di-internet-mondo-virtuale-image80244740

Laura Matelda Puppini

 

 

 

Romano Marchetti è morto. Romano Marchetti vive in noi e con noi.

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É morto il grande Romano Marchetti, uomo di cultura ed intellettualmente curioso, ufficiale dell’esercito italiano ed organizzatore della formazione Osoppo in Carnia. Ma egli vive e vivrà tra noi e con noi attraverso i suoi insegnamenti e nella sua strenua difesa della democrazia e della Costituzione italiana, nata dalla resistenza. Io giurerò sempre su questa, diceva ad Ampezzo sollevandone il testo.

Romano Marchetti, ufficiale dell’Esercito Italiano.

Cinque punti da lui sostenuti mi vengono in mente, pensando a Romano:

  • La sua difesa della montagna contro il centralismo udinese, ed i suoi studi sui raggi di pendolarità per mantenere popolazione in loco;

Romano Marchetti mostra la mappa da lui realizzata con i raggi di pendolarità possibili per mantenere la popolazione in montagna.

  • L’importanza della cultura, della scienza, della scuola di qualità pure professionale, da riproporre in Carnia, per riacquistare bagagli di saperi anche perduti e l’aiuto ai più meritevoli.

Romano Marchetti partigiano.

  • Avere il coraggio di esprimere le proprie idee.

Copia di antica carta della Carnia datami da Romano e poi resa, che dimostra il suo amore per la sua terra.

  • La ricerca della verità, in un mondo che vive di opinioni;

Romano Marchetti alla mostra del lavoro carnico, promossa dalla Comunità Carnica, 1952.

  • L’importanza della libertà, della democrazia, e di una Europa dei popoli che si tengano per mano e camminino insieme, non della finanza.

Romano Marchetti parla dei problemi della montagna al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Hasta la vista siempre, Romano, partigiano, socialista, fautore della cooperazione, riferimento per noi tutti. Laura Matelda Puppini


Considerazioni su di una mozione per togliere, in Fvg, finanziamenti regionali ai cosiddetti negazionisti e riduzionisti delle ‘foibe’.

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Mi dicono: «Laura, stai attenta, non scrivere neppure più la ‘f’ di ‘foibe’ perché non sai che ti può accadere». Ma io non credo che in Italia siano stati cancellati la democrazia e il diritto di esprimere anche in forma scritta la propria opinione. In fin dei conti siamo in Europa e nel 2019.

Da tempo la destra italiana e regionale cerca di condizionare la lettura storica dei fatti accaduti nel 1943 (dopo il 25 luglio 1943, caduta del fascismo) e 1945 (fine della guerra) detti volgarmente e non con linguaggio scientifico “foibe” sostenendo spettacoli e forme di comunicazione che utilizzano l’emotività e l’immedesimazione, per trasmettere uno stereotipo dello sloveno, comunista ed assetato di sangue italiano, che lascia pochi spazi interpretativi.

Al di là della bontà di questi prodotti, ed anche del fatto che vi è libertà di espressione e scelta del soggetto nell’arte e nello spettacolo, il problema è che essi possono venir diffusi nelle scuole, come accaduto in Veneto con il fumetto ‘Foiba rossa. Norma Cossetto storia di un’italiana” in occasione della giornata del ricordo, che non ha come oggetto il soffermarsi su casi singoli onde produrre un’onda emotiva di sentimento antisloveno e men che meno mettere in imbarazzo i  premier della Slovenia e della Croazia, provocando la loro secca reazione con il grido «Viva Trieste, viva l’Istria italiana, viva la Dalmazia viva gli eredi degli esuli italiani» di Antonio Tajani, (Cfr. “Viva Istria e Dalmazia italiane”, polemica in Croazia e Slovenia per le frasi di Antonio Tajani, in: https://www.repubblica.it/esteri/2019/02/11/news/tajani_foibe_slovenia_croazia_dalmazia_croazia_italiane-218882551/), che non ha neppure chiesto agli istriani e dalmati se fossero d’accordo, ma lo ha detto così, credo per partito preso.

E ogni 10 febbraio si continua così, sulla stessa via, senza rispetto per chi fu vittima della seconda guerra mondiale e non di una guerra di confini ed ideologie, favorendo a mio avviso letture fasciste della storia ed alimentando un anticomunismo ormai troppo facile da cavalcare, privo di senso e fuori dal tempo, e facendo un uso smaccato della storia a fini politici. E intanto ci si allontana sia dal linguaggio dello storico sia dall’analisi dei fatti su fonti sia italiane che slovene, rigorosamente scelte e studiate. Infatti gli autori di testi improntati ad un certo psicologismo ed i giornalisti, in particolare quelli da rotocalco, sanno che l’emozione è aspetto importante per coinvolgere, per far immedesimare, ma con l’emozione si crea visione soggettiva degli eventi, non una loro rigorosa descrizione. E se erro correggetemi.

L’utilizzo della “strategia dell’emozione” a fini politici e di trasmissione dell’informazione viene raccontata nell’articolo di Anne Cecile Robert, intitolato, appunto “La strategia dell’emozione” in: Le monde diplomatique, Il Manifesto, febbraio 2016. Non a caso il filosofo Christophe Godin parla di «crisi della società» – si legge ivi – caratterizzata «dal dominio delle emozioni», che comporta l’idealizzazione di una vittima reale o presunta, volta per volta, che viene descritta e percepita come ripiena di virtù, dimenticando contesti, situazioni, e percorsi. Spettacolarizzazione di casi singoli e sentimento, che si sostituisce a ragione, pongono seri problemi anche alla democrazia attuale, e fanno perdere ad uomini e donne la dimensione collettiva, puntando a realizzazioni individualistiche, ed a giudizi dati sull’onda emotiva. E così «il senso critico, la cultura, la ricerca della verità si degradano».  (Anne Cecile Robert, op. cit.). Vittime sacrificali di questo iper-sentimentalismo sono spesso le donne, che sono portate sempre più a leggere stampa che favoleggia casi singoli di vip e meno vip, scordandosi l’importanza della crescita personale civile e comunitaria, non necessariamente solo individuale. (Ivi).

E mi si creda, questa nuova società, proprio perché punta all’emozione, «al fremere anziché riflettere» (Ivi), porta a poter essere maggiormente influenzati da chi sa, abilmente e disinvoltamente, usare i sentimenti ed il sentire altrui, e scrivo questo in generale. (Cfr. il mio: Donne fra sogni maschili e realtà femminili, in: www.nonsolocarnia.info).

Questo modo di procedere nulla ha a che fare con l’analisi dei fatti storici. Ma benché un dirigente scolastico credo dovrebbe sapere distinguere un testo storico da un testo letterario, come il dirigente di un Ufficio Scolastico, in Veneto il fumetto “Foiba rossa. Norma Cossetto storia di un’italiana”, che fin dal titolo propone che i fatti del 1945 siano stati determinati dall’odio sloveno verso gli italiani solo ed unicamente perché italiani, è stato distribuito nelle scuole in occasione del Giorno del Ricordo, (https://veronasettegiorni.it/attualita/giorno-del-ricordo-2019-il-comune-di-verona-dona-foiba-rossa-alle-scuole/ e ww.trevisotoday.it/attualita/giorno-del-ricordo-fumetto-norma-cossetto-30-gennaio-2019.html e http://www.padovaoggi.it/politica/fumetto-foiba-rossa-scuole-regione-veneto-padova-31-gennaio-2019.html), grazie ad un accordo fra la Regione Veneto, lUfficio scolastico regionale, lassociazione Venezia Giulia e Dalmazia, che ha sponsorizzato anche Magazzino 18 e che lo ha fatto girare per l’Italia, e la federazione delle Associazioni degli esuli. E nonostante che, notoriamente, le regioni siano in bolletta a tal punto da spremere soldi dappertutto per far quadrare i bilanci, detta iniziativa è stata finanziata con 15.000 euro, grazie a Elena Donazzan, Assessore all’ Istruzione, Formazione, Lavoro, Trasporti nella Giunta Zaia, famosa per aver, in occasione dell’inaugurazione, a Saccol di Valdobbiadene, di un cippo dedicato ai caduti della collaborazionista  X Mas per mano partigiana nel corso della seconda guerra mondiale, sostenuto che «La storia va analizzata […]  comprese le pagine più buie, e per farlo a volte sarebbe più utile, quando possibile, sentire il racconto di chi c’era piuttosto che limitarsi a quello che si legge sui libri»,  (http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cronaca/2015/14-settembre-2015/scoperta-lapide-la-x-mas-saccol-interviene-elena-donazzan-2301919338108.shtml), dimenticando che la storia si scrive, primieramente, sui documenti, e che il mero utilizzo di narrazioni orali fa precipitare la descrizione di fatti storici nel caos dell’opinabile, e favorisce guerre di opinioni e travisamenti  invece che serie ricostruzioni di eventi e contesti. Ed ora ha chiesto, udite, udite, di sciogliere l’Anpi a Mattarella. (Cfr. L’assessore Donazzan “Foibe negate, Mattarella valuti di sciogliere l’Anpi, in: Il Gazzettino, 5 febbraio 2019).

E qui finisce una puntata della telenovela, che porta dritta alla mozione proposta al consiglio regionale del Fvg.

Ma chi aveva fatto innervosire l’assessore regionale del Veneto Elena Donazzan, a tal punto da farle chiedere la testa dell’intera Associazione Partigiani d’Italia? Il fatto che la sezione Anpi di Parma avesse dato il logo per patrocinare un incontro da tenersi in spazi privati cioè al cinema Astra, per la giornata del ricordo, in cui sarebbero intervenuti Sandi Volk, per parlare su: I morti delle foibe riconosciuti dalla legge, 354, quasi tutti delle forze armate dell’Italia fascista, Alessandra Kersevan con il suo filmato La foiba di Basovizza: un falso storico, e Claudia Cernigoi con il suo: Norma Cossetto: un caso tutt’altro che chiaro”, e che contemplava  la lettura di una serie di “testimonianze di antifascisti e partigiani. (http://www.ilgiornale.it/news/cronache/foibe-lanpi-parma-diventa-sponsor-convegno-revisionista-1638673.html). Ora io non entro nel merito di detti materiali, perché non li conosco, e pare che Kersevan e Cernigoi intervengano, in questo caso, ed a mio avviso, in un’ottica di botta e risposta e di contro-azione emotiva; ma quando leggo della solita reazione politica sproporzionata a loro, penso ai soliti corsi e ricorsi storici ogni volta che queste due studiose cercano di aprire la bocca, per dare una versione diversa da quella della destra anche cattolica. “Dalli alle untrici!”, “negazioniste!”, rimbomba nell’aria, e Claudia Cernigoi pare abbia ricevuto anche minacce di morte, che spero vivamente abbia segnalato ai carabinieri. Ma cosa vuoi che sia …

Così i soliti hanno iniziato, anche quest’ anno e come ogni anno, ad urlare, preventivamente,  ‘Al lupo, al lupo”: tutto già visto, tutto già sentito, accusando Kersevan e Cernigoi come il solito, come accade anno dopo anno, di negazionismo delle foibe, senza uno straccio di prova, per partito preso, tanto da far pensare a forme di persecuzione verso le due studiose da parte della destra, che, chiusa nei suoi circoli, non aspetta altro che di tappare loro la bocca e fargliela pagare perché non dicono esattamente quello che vogliono loro. Il tempo della caccia alle streghe non è finito, penso tra me e me. E pare che alcuni, forse anche di qualche associazione, abbiano fatto della lotta alle due il loro fine principale. (Cfr., relativamente all’anno scorso, il mio, pubblicato su www.nonsolocarnia.info:10 febbraio a Torino. Su quel convegno che, per qualcuno, “non s’ha da fare”, ma non si capisce perchè.).

In fin dei conti secondo Antonio Russo, assicuratore del Basento, alcuni giornalisti o studiosi triestini, ed il riferimento pare proprio sia anche a Claudia Cernigoi, «chiaramente di ideologie estremiste comuniste e spiccatamente di tendenza slovena», potrebbero andarsene a vivere oltre confine, invece che continuare a restare in Italia, quasi che noi dovessimo essere tutti antisloveni per avere il diritto di vivere sul suolo patrio, salvo poi andare in Slovenia e Croazia a cercare massaggi, mare e quant’altro. Ma è il successivo passaggio in questa logica perversa che fa paura: perché pare che quasi quasi, se non sei ferocemente antisloveno e antislavo, tu sia un negazionista delle foibe. Ma negazionista che significa? E di che? E questo atteggiamento, propugnato da alcuni, non si potrebbe configurare come una forma di razzismo e discriminazione, e di incitamento all’odio verso il popolo sloveno?

E negazionismo e riduzionismo sono due termini con cui Raoul Pupo e Roberto Spazzali intitolano un paragrafo del loro volume ‘Foibe’, scritto nel 2003, in cui attribuiscono, senza però prove di alcun tipo, alla storiografia jugoslava il fatto di accompagnarsi «in genere a valutazioni riduttive del numero degli uccisi». (Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, ed. Il Giornale, 2018, prima ed. 2003, p. 126). Ma successivamente, e cioè nel 2012, Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha, storici dell’Università di Lubiana, nel loro: “La Slovenia durante la seconda guerra mondiale, ifsml, 2012”, a p. 382 precisano che «È molto difficile stilare elenchi esatti dei deportati scomparsi, sia per la mancanza di fonti d’archivio o di testimonianze, che per la difficoltà di mettere ordine nel susseguirsi dei fatti». E comunque Raoul Pupo e Roberto Spazzali non criminalizzano la storiografia jugoslava, anzi la valorizzano, parlando di nuova storiografia italiana e slovena, come «punto di riferimento fondamentale per comprendere cosa sia stato il fenomeno delle foibe». (Raoul Pupo, Roberto Spazzali, op. cit., pp. 163-164).

Non solo: mille problemi paiono proprio sorgere dal termine improprio ‘foibe’ «di significato simbolico e non letterale» (Raoul Pupo, Roberto Spazzali, op. cit., p. 2-3), scelto per indicare precisi fatti storici. Infatti se uno nega che quella comunemente detta la foiba di Basovizza sia una foiba ha ragione, perché dal punto di vista strutturale non è una cavità naturale carsica ma un pozzo minerario (Ivi, p. 225). Se invece si vuole intendere che in detta cavità artificiale siano stati gettati dei cadaveri di uccisi dai militari Jugoslavi, è altro paio di maniche, ed anche Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha, storici dell’ Università di Lubiana, nel loro: “La Slovenia durante la seconda guerra mondiale, ifsml, 2012” così scrivono a p. 381: «Rispetto al problema di quale atteggiamento avere nei confronti delle persone coinvolte nel regime fascista e di occupazione o presunte tali, il gruppo dirigente comunista centrale richiese all’amministrazione militare jugoslava nella Venezia Giulia di “Iniziare subito a ripulire, ma non su basi nazionali, bensì in base al fascismo”.( …).
Gli arresti furono massicci tra il 2 e l’8 maggio 1945 e furono eseguiti sulla base di elenchi preparati già durante la guerra che venivano costantemente aggiornati. Chi fu trattenuto nelle carceri, e in parte anche chi fu fucilato nei giorni successivi, era stato prima interrogato nelle sedi della Difesa popolare o dell’OZNA.

Gli arrestati facenti parte di unità militari furono inviati in campi per prigionieri di guerra, fatta eccezione per quelli che vennero fucilati nei giorni immediatamente successivi all’arresto ovvero per quelli che furono sospettati di crimini di guerra e di collaborazionismo con le truppe occupanti». Ma anche Raoul Pupo e Roberto Spazzali scrivono che: «bersagli della repressione furono gli esponenti del fascismo e del collaborazionismo locale» (Raoul Pupo, Roberto Spazzali, op. cit., p. 19), ricordano che i pezzi grossi del fascismo erano però già riusciti a fuggire e così andò a finire che «vennero ricercati i “pesci piccoli”, gli ex- squadristi in generale ben conosciuti dalla popolazione» (Ibid.), e che molti furono inviati in campi di concentramento.

Non da ultimo, anche secondo Pupo e Spazzali, studi sono stati compiuti e pubblicati da Galliano Fogar, da Giovanni Miccoli (Ivi, p. 147), il sostenitore della pacificazione che mai ci fu, e da altri, ma essi li definiscono esponenti appartenenti alla vecchia storiografia, mentre essi stessi parlano poi, nel 2003, nell’ottica di una “storiografia nuova”, revisionista, che però, a mio avviso, cancella contesti e resistenza. (Ivi, p. 162).

Questa presenza di una vecchia storiografia porta a contestare chi scrive, ancor oggi, contro ogni evidenza, che di ‘foibe’ non si parlò mai. La svolta fra nuova e vecchia storiografia, relativamente alla reazione slovena e slava del 1943 e 1945, risale al 1988, con l’uscita prima del volume di Elio Apih “Trieste”, quindi, nel 1990, successivamente da quella del volume di Roberto Spazzali: “Foibe. Un dibattito ancora aperto”. (Ivi, pp. 162-163).

Ed è questa nuova storiografia che pare abbia generato la giornata del ricordo. In cosa si differenzia questa nuova storiografia dalla vecchia? Dal fatto che considera uccisioni e arresti da parte jugoslava alla fine della seconda guerra mondiale come una epurazione preventiva, dove un ruolo non secondario è stato giocato pure dall’appartenenza nazionale.  (Ivi, p. 164). E che le cosiddette ‘ foibe’ incominciassero ad essere oggetto di attenzione da parte di tutti i partiti politici che cercavano di convergere verso un’interpretazione condivisa ma non storicamente provata, ce lo narrano Pupo e Spazzali a p. 204 del loro volume. Pare che allora ci fosse la fretta di chiudere sull’argomento, e lo si fece con l’istituzione della giornata del ricordo, che data 2004, figlia del proprio tempo. «Risiera e foibe: fenomeni distinti ma percepiti e giudicati come frutto di ideologie, metodi di lotta e sistemi politici radicalmente estranei agli ideali liberal – democratici cui si ispiravano le istituzioni dello stato italiano; non a caso è nell’ambito di quella storiografia democratica e non di altre che è partito il rinnovamento degli studi sulle foibe come pure su quello dell’esodo istriano» – scrivono Pupo e Spazzali, semplificando anche loro e decontestualizzando. (Ivi, p. 204). Nell’ambito dello studio, della ricerca, della scienza, la fretta è cattiva consigliera, penso fra me e me, e “storiografia democratica” non so cosa voglia dire.  

Perché a mio avviso non esiste storiografia democratica, ma devono esistere, in Germania, come in Francia, come in Italia, rigorosi studi storici seri e documentati che tengano conto di eventi, contesti e periodizzazione, mentre pare che sia andata a finire, con detta storiografia ‘democratica’, che la politica si sia assunta il compito dello storico.

Comunque anche Pupo e Spazzali scrivono che, per quanto riguarda il numero di persone che fu coinvolta nel 1945 in detto fenomeno storico, esso non è facilmente quantificabile, in quanto alcuni hanno parificato il numero degli scomparsi italiani a quello degli infoibati, altri hanno ampliato i numeri parlando di olocausto, altri hanno usato semplificazioni discutibili, con il solo risultato di ingenerare confusione. (Ivi, p. 24).  E se uno è stato infoibato dai militare dell’Esercito di Liberazione Sloveno, o dopo processo dei tribunali popolari è stato infoibato, dopo esser stato ucciso però, precisano Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha, op. cit., a p. 381, se di uno non si è più saputo nulla non si è più saputo nulla, ma può esser, in ipotesi da dimostrare,  finito nei campi di concentramento o nelle foibe, se uno è stato per errore posto in un elenco dove non doveva stare, è stato messo in un elenco dove non doveva stare. Ma Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha pubblicano anche dei dati: «In base ai dati forniti dalle autorità jugoslave alla Croce rossa internazionale, in Jugoslavia c’erano, nell’ ottobre 1945, 17.000 prigionieri di guerra italiani, nel gennaio 1946 ancora 12.000, nel febbraio 1947 si erano ridotti a 1000, che furono quasi tutti liberati entro il settembre dello stesso anno. Nel gennaio 1946 la Croce Rossa internazionale diffuse un elenco di italiani prigionieri di guerra o incarcerati in Jugoslavia che comprendeva complessivamente, 9.892 nomi». (Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha, op. cit., p. 374). Per quanto riguarda i corpi gettati nelle foibe o in pozzi minerari abbandonati come quello di Basovizza, si sa, da fonti orali, che una parte degli stessi erano di persone condannate dopo esser state giudicate dalla 4a armata jugoslava. E quello che pure si sa è che «le ricerche finora eseguite consentono di stabilire con sufficiente esattezza i dati riguardanti gli arrestati scomparsi che avevano, nel 1940, la loro residenza nelle province di Trieste e Gorizia. Si tratta di 1.500 persone o poco più». (Ivi, p. 382).

A me però resta un dubbio: “È solo un caso che la nuova storiografia, ad impronta nazionalistica (per la valenza che dà, nell’analisi dei fatti, all’appartenenza nazionale, come ben sottolineano Raoul Pupo e Roberto Spazzali, in: op. cit., p.164),  nasca in Italia alla morte del socialismo ed all’avvento di Berlusconi al potere? Me lo chiedo mentre la mia mente ritorna all’ articolo che ho scritto ed intitolato: “Mode storiche resistenziali e non solo: via i fatti, largo alle opinioni, preferibilmente politicamente connotate” in: www.nonsolocarnia.info, a cui rimando e che vi invito a leggere.  

E nazionale e popolare non sono la stessa cosa, come non è la stessa cosa un movimento nazionalistico ed un movimento popolare. Infatti popolo e nazione si identificano solo nel ‘Volk’ e quindi in visioni dell’ultra destra e filo naziste. Per esempio l’”Osvobodilna Fronta” viene tradotto in italiano: “Fronte di Liberazione del Popolo Sloveno”, mentre in: Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha, op. cit., a p. 82 viene tradotto: “Fronte di liberazione della nazione slovena”, forse a causa del traduttore stesso.  Ma, in attesa di sapere quale sia la versione corretta, bisogna ricordare che nazionalisti non mancavano già allora nelle file partigiane, mentre i comunisti filo Urss erano in genere internazionalisti, almeno teoricamente. Perché è anche vero che, in ogni luogo, chi è stato invaso, come gli jugoslavi nel 1941, lotta per mandar via l’invasore, nello specifico i nazifascisti, ed è principalmente definibile come un patriota.

Ma andiamo oltre e ritorniamo all’oggi, a quel convegno tenutosi a Parma.

Il logo dell’Anpi per quel convegno, intitolato “Foibe e fascismo” preventivamente faceva scattare l’ira di Matteo Salvini, che, nel 2015, a Roma, sosteneva che «Nelle scuole i nostri figli studiano i fenici ma non sanno niente delle foibe» aggiungendo poi che ci sono alcuni libri che dovrebbero essere inseriti nei programmi scolastici, senza precisare però quali. «Ma del resto i professori di sinistra non hanno alcun interesse a insegnare quegli episodi della storia». (https://www.corriere.it/politica/cards/salvini-piazza-roma-citazioni-insulti-nuovo-pantheon/foibe-che-sinistra-non-racconta.shtml). Ma presentare ai ragazzi cosa accadde allora, non è a mio avviso questione di destra o sinistra, ma di analisi seria, comparata, contestualizzata, e questo vale per ogni argomento.

Inoltre, come ho già scritto, si rischia di inculcare odio per gli sloveni, sporchi rossi persecutori di italiani perché italiani. Ma poi, tra l’altro, chi si poteva allora definire italiano in Venezia Giulia?  Perché l’Italia aveva invaso, nel 1941, il Regno di Jugoslavia, e aveva già, dopo la prima guerra mondiale, deciso di trasformare chi era sotto la sua egida in italianissimo. E allora chi era italiano, allora? Chi aveva un cognome italiano? Ma vi era stata l’italianizzazione dei cognomi. Chi era fascistissimo? Poteva essere anche un italianizzato. Chi abitava in un luogo? Ma vi era stato un tale rimescolamento, che sarebbe stato arduo definire chi era veramente italiano in base al luogo di residenza. Inoltre gli sloveni ce l’avevano, a fine guerra, con chi aveva fatto loro qualcosa ed era stato collaborazionista, sia che fosse italiano, sia che fosse croato, e quindi anche con i domobranci e con i nazisti. «La fine della guerra significò […] anche una resa dei conti e fu un periodo di vendette contro il nemico sconfitto» – scrivono Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha nel volume citato a p. 374. E ci si ricordava sia le spie che i collaborazionisti, sia i nazisti sia il fiscalismo degli italiani che «le prevaricazioni nazionalistiche e poliziesche» degli stessi. (Raoul Pupo, Roberto Spazzali, op. cit., p. 10). 

Non da ultimo, sempre Pupo e Spazzali dicono che la tesi «delle foibe come atto di “genocidio nazionale”, era già presente nella propaganda dell’R.S.I., che riprese fiato nel corso del lungo dopoguerra giuliano, e che è rimasta patrimonio stabile nella cultura nazionalista giuliana «perché si inserisce perfettamente nei suoi tipici schemi di lettura dei rapporti tra italiani e slavi, imperniati sulla contrapposizione fra la civiltà latina, veneta ed italiana da un lato, e la barbarie slava volta a sradicare con ogni mezzo la presenza italiana dall’Adriatico orientale, dall’altro». (Ivi, p. 111).   

Ma quando la lettura e l’interpretazione di fatti storici viene imposta dall’alto da associazioni private e da politici di parte, non si sa come si andrà a finire.

Così Matteo Salvini, il 4 febbraio 2019 minacciava di togliere qualsiasi contributo ai negazionisti delle foibe, ma pare che coloro che egli e certa vulgata definivano così, almeno secondo il Presidente dell’Anpi di Parma, non ne avessero mai ricevuti. (https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/02/04/foibe-fdi-e-lega-accusano-lanpi-parma-promuove-evento-negazionista-falso-salvini-rivedere-i-contributi/4946159/).

Ma nel gennaio 2015, secondo il Giornale, Matteo Salvini aveva detto anche che, relativamente alla giornata della memoria, non avrebbe accettato lezioni dalla sinistra, (http://www.ilgiornale.it/news/politica/matteo-salvini-sulla-giornata-memoria-lezioni-bont-dai-1086568.html) facendo un discorso prettamente politico, figurasi per la giornata del ricordo, penso io.

 Ma per ritornare al post 4 febbraio 2019, dopo la presa di posizione di Salvini, Ministro degli Interni, troppo velocemente Debora Serracchiani interveniva al suo fianco, senza analizzare bene cosa stesse accadendo e non avendo, temo, ascoltato una parola dell’incontro su “Foibe e fascismo”. «Il giustificazionismo o peggio il negazionismo delle Foibe non sono accettabili, da qualunque parte vengano e a prescindere da un film su cui ognuno può avere la sua opinione» affermava, (https://parma.repubblica.it/cronaca/2019/02/04/news/foibe_e_fascimo_anpi_parma_nessun_negazionismo_ne_sponsorizzazione-218267367/) aggiungendo ai termini negazionismo e riduzionismo quello di giustificazionismo, in una saga degli ‘ismi’ da far paura. Perché se uno che fa una ricerca che non vada nel senso voluto dalle destre è o negazionista, o riduzionista o giustificazionista, allora si deve sposare la versione di stato e stop. Ma allora gli storici italiani possono fare le valige e smettere di cercare.

Non da ultimo, Volk, Kersevan e Cernigoi avrebbero o hanno tenuto un convegno privato e finanziato da privati, e quindi qui non si sa come lo stato o la regione sarebbero potuti intervenire se non con una azione di limitazione od ostacolo all’iniziativa privata, e forse si potrebbe parlare di violazione dell’art. 17 della Costituzione tale da poter creare un precedente e volgere verso comportamenti da regime, mentre, se di azione delittuosa trattavasi, la competenza sarebbe stata delle forze dell’ordine e dei giudici. «È necessario rivedere i contributi alle associazioni, come l’Anpi, che negano le stragi fatte dai comunisti nel dopoguerra — afferma Salvini […]». (https://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/partigiani-qualita-ndash-rsquo-anpi-nega-foibe-194700.htm). Ma non mi consta che l’Anpi sia negazionista, tanto che si è data da fare a produrre un lungo documento intitolato “Il confine italo – sloveno. Analisi e riflessioni.”, che ho pubblicato anche in www.nonsolocarnia.info, e che invito a leggere con attenzione perché ripropone anche il clima e gli intenti comuni delle forze politiche all’atto di approvare l’istituzione della giornata del ricordo. Ma poi …  Infine la Costituzione Italiana così recita all’articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

E non si può definire uno negazionista, termine che la legge ha introdotto, secondo me sbagliando, per la shoah, su bla bla bla, per sentito dire. (Cfr. il mio: L. M. Puppini. Lu ha dit lui, lu ha dit iei. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica. La storia di pochi la storia di tanti, in: www.nonsolocarnia.info).

E, pare che, per un qualche ignoto motivo, quest’ anno sia finito nel calderone degli insultati pesantemente, perché ritenuto negazionista, anche Eric Gobetti, insospettabile. Di questo passo, una manica di violenti si permetterà di offendere qualsiasi appaia loro “negazionista, riduzionista, giustificazionista delle foibe” e via dicendo, e questo fa paura. Io vorrei che qualcuno leggesse certe violenze gratuite che vennero per esempio scritte come commento ad articoli sul confine orientale su storiastoriepn.it., anche se credo siano stati ora cancellati. Si parlava allora della famosa poesiola: «A Pola xe l’Arena, la Foiba xe a Pisin, che i buta zò in quel fondo chi ga zerto morbin. E a chi con zerte storie fra i piè ne vegnerà, diseghe ciaro e tondo: feve più in là, più in là», ritenuta da alcuni una fonte per le uccisioni del 1945, ma essa è stata pubblicata da Giulio Italico, al secolo Giuseppe Cobol (poi italianizzatosi in “Cobolli Gigli”, al quale è dedicato uno dei ricreatori triestini), nel 1919 in un libretto dal titolo “Trieste. La fedele di Roma”.

Ma per ritornare ancora una volta all’oggi, alle dichiarazioni di Salvini seguivano quelle di Massimiliano Fedriga, presidente della Regione Fvg, che così si esprimeva: «La Regione […] si dissocia e condanna formalmente convegni come quello promosso dall’Anpi a Parma, il cui unico fine non è la ricerca di verità storiche bensì lo svilimento di un dramma vissuto dalle comunità italiane sul territorio nazionale e su quello dell’ex Jugoslavia». (https://parma.repubblica.it/cronaca/2019/02/04/news/foibe_e_fascimo_anpi_parma_nessun_negazionismo_ne_sponsorizzazione-218267367/).

Quindi si giungeva alla mozione presentata da Pietro Camber e Giuseppe Gersinich, avente come oggetto: “Sospendere ogni contributo finanziario, patrocinio o concessione a soggetti pubblici e privati che, direttamente od indirettamente, concorrano, con qualunque mezzo, a negare o ridurre il dramma delle Foibe e dell’Esodo”, che già nel titolo pone un grosso problema legale. Chi decide infatti, se vi sia negazione o riduzione del dramma delle foibe da parte di uno o dell’altro? In sintesi può la regione esercitare il potere giudiziario, punendo poi i ritenuti colpevoli? E rispetto a quale versione dei fatti, e da chi definita, si può tacciare uno di essere negazionista o riduzionista delle foibe?  Detta mozione è stata approvata secondo me un po’ troppo velocemente, senza che molti consiglieri avessero compreso la problematica legale soggiacente, e non ha fatto che dividere gli animi, con l’Unione degli Istriani che, ritenendola una proposta di legge non si sa come, ha deciso di raccogliere ‘urbi et orbi’ firme, in contrapposizione ad altra raccolta iniziata (https://www.triesteprima.it/cronaca/foibe-legge-regionale-fvg-raccolta-firme-per-dire-no-unione-degli-istriani-2-aprile-2019.html), con il risultato che sentiremo per mesi parlare solo di confine orientale ecc. ecc. anche a causa di chi, come Kersevan e Cernigoi, non riesce a non cadere nel tranello di rispondere immediatamente, e con le stesse armi. Insomma andrà a finire che fra un po’ vorremmo davvero risentire parlare dei Fenici.  

Queste sono solo due mie considerazioni in base a quanto ho letto, avvisando che non ho mai fatto e non intendo fare ricerche sul confine orientale e sui fatti detti ‘foibe’ perché non è mio campo di indagine. Prego le associazioni degli esuli e dei giuliano dalmati, potentissime all’interno dello stato italiano, almeno a me così pare, di non mettermi fra le streghe, in un mondo che parla di lotta alla violenza verso le donne, e di ricordare che mi interesso di storia resistenziale, e spero che non mi accada, per avere espresso delle mie perplessità su di una mozione, perché da questo input è partito questo mio scritto, di trovarmi riempita di ingiurie gratuite. Inoltre preciso che il gruppo Gli Ultimi di cui ho fatto parte e di cui ero l’unica donna, ha fatto prodotti di altissima qualità senza avere un centesimo di finanziamento pubblico, ed investendo soldi propri.

Senza offesa per alcuno, solo per chiarire alcune mie personalissime perplessità, vi invito a leggere queste righe. E se le ritenete negazioniste o riduzioniste, almeno ditemi perché e rispetto a quale versione dei fatti. Sempre pronta al dialogo ed alla critica costruttiva,

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta la copertina del volume di Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, prima ed. 2003, seconda 2018, ed è tratta da: http://store.ilgiornale.it/prodotto/foibe/. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

L’intervento dell’ingegnere idraulico Matteo Cuffolo il 1° dicembre all’isis F. Solari. Previsione e manutenzione sullo scorrimento delle acque.

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Pare forse un po’ strano che io proponga a mesi di distanza riflessioni sull’ambiente di vecchia data, ma se avessi offerto tutte le relazioni del primo dicembre al convegno “La montane dai Sants: alluvione 2018” in pochi giorni, poi l’argomento sarebbe sparito dal vostro interesse. Inoltre, tanto per non annoiarci, il territorio carnico ha ripreso a franare, il che significa che non è stato messo in sicurezza. Ci si è illusi che non sarebbe più accaduto nulla fino al prossimo alluvione, ma se a piaga si aggiunge piaga, a ferita ferita, senza cura adeguata, ad alterazione del clima alterazione del clima, non si può pensare che tutto si risolva in un attimo, con il ripristino del passaggio da Forni Avoltri a Tolmezzo dei camion di Goccia di Carnia ed altri. Abbiamo sognato, o meglio la politica locale ha sognato che tutto fosse finito, ma poi è giunto il brusco risveglio. E così la Val Degano è di nuovo in difficoltà.

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Ma sentiamo cosa ci narrava, quel primo dicembre 2018, Matteo Cuffolo, ingegnere ambientale.

Egli ha esordito dicendo che, attualmente, siamo ancora in una fase di analisi su come intervenire a livello di manutenzione ordinaria del territorio, non per evitare fenomeni della portata dell’alluvione, il che è impossibile, ma per studiare come attenuare i danni possibili od allontanarli nel tempo.
Poi, mostrando una mappatura dei bacini del Triveneto dal punto di vista idraulico, egli ha introdotto il concetto di ‘tempo di ritorno’, cioè la frequenza con cui questi accadimenti avvengono, e ha precisato che in genere le alluvioni colpiscono sia il Veneto che il Friuli.
Quindi ha iniziato a spiegare la sequenza dei fenomeni nell’area,con l’aiuto di fotografie.

Guardando per esempio una serie di immagini scattate nel 2002, si può vedere cosa è accaduto allora alla confluenza tra il Meduna ed il Noncello, nel pordenonese, a causa di eventi calamitosi atmosferici.
Poi, nel 2003, ad esser colpita da una tremenda alluvione fu la Val Canale, e l’ing. Cuffolo ha mostrato immagini d’epoca di Malborghetto e Pietra Tagliata.
Nel 2004, invece, l’alluvione ha avuto luogo in ottobre, e ha colpito la Val Cellina, ove anche quest’ anno la situazione si è presentata particolarmente critica.
Nel 2009, invece, gli eventi calamitosi si sono presentati a dicembre, quando una piovosità non peraltro eccezionale, è andata a coincidere con temperature elevate per il periodo, che hanno sciolto, anche in quota, le nevi. In questo caso, però i danni hanno colpito la pianura.
Infatti essi talvolta avvengono in piano, talvolta nelle valli alpine, con diversa intensità. Per esempio i danni per l’alluvione di fine ottobre e primi di novembre 2018 si collocano tra bellunese e Carnia. Nel 2010, 2012, 2013, alluvioni hanno colpito in modo particolare il Veneto, provocando molti danni.

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Che considerazioni potremmo trarre, quindi, sui tempi di ritorno dei fenomeni calamitosi, ovvero sulla loro possibilità di ripresentarsi in un dato lasso di tempo?  Applicando una formula matematica, si può dare una risposta alla domanda, e prevedere il riverificarsi di un’alluvione su di un dato territorio. Ma come fanno gli ingegneri a dimensionare e scegliere, tra quelli prevedibili, quale sarà l’evento importante da tenere sotto controllo? In base a precisi calcoli, che danno la possibilità nel tempo che esso accada.

Ma se un tempo un evento disastroso atmosferico del tipo di quello appena successo colpiva un luogo ogni 50 o 100 anni, e questo quindi era allora il tempo di ritorno, (l’alluvione a Malborghetto si è verificata 100 anni dopo la precedente, tanto per fare un esempio), ora i fenomeni si presentano molto più ravvicinati, e quindi, su scala regionale o di bacino, che è la scala idraulica di riferimento, il tempo di ritorno è di circa cinque anni. Ma i danni che fanno possono esser valutati come se i tempi di ritorno fossero di centinaia di anni. In sintesi si deve agire in modo da limitare i danni, dimensionando le opere ai tempi di ritorno.

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Ma senza spiegare come si può intervenire a livello idraulico, introducendo pure l’equazione fondamentale dell’idraulica: la portata è una velocità per una sezione, non si può capire la tipologia di intervento. Quindi l’ing. Cuffolo ha mostrato l’esempio di due portate non commisurabili. Da una parte vi è un rio, piccolo. È l’Urana Soima, (che scorre tra Magnano e Tarcento ndr), che ha sezione ridotta e velocità alta a pari portata. Dall’altra parte vi è il Tagliamento, con sezione enorme e velocità molto più bassa, a parità di portata. Questo permette di capire anche l’influenza della presenza di un ‘isola vegetata in alveo, ed il riferimento è all’esempio portato da Massimo Valent, geologo. (Cfr. Massimo Valent, geologo. Su quella montagna troppo friabile e su quelle piogge intense, in: www.nonsolocarnia.info.). In presenza di un restringimento, il comportamento dell’acqua è dettato da quell’equazione. La velocità, in questo caso, in presenza di una sezione di canale, come nell’Urana Soima, è comandata dall’energia, e l’acqua non si comporta casualmente, non sbatte qua e là a caso, ma il suo movimento è comandato da equazioni energetiche, con un bilancio fra valle e monte, cosicché possiamo prevedere cosa accadrà.

In pratica l’acqua ‘cammina’ per la sua pendenza, in base alla velocità che ha, e questo dà l’indicazione del tirante che raggiungerà l’acqua. (In campo idraulico si definisce tirante idrico l’altezza dell’acqua nella sezione fluviale, ovvero la distanza del pelo libero dal fondo di un alveo. Da: http://www.wikitecnica.com/tirante/). Ma perché è importante capire a che velocità ‘cammina’ l’acqua? Perché conoscere la velocità dell’acqua permette di fare delle previsioni sul tipo di moto che essa avrà e quindi sul tirante idrico; in sintesi su quale sarà la distanza fra il fondo dell’alveo e la superfice, il che non è di poco conto.

Quindi Cuffolo è passato ad illustrare alcuni esempi di tipo di moto che potrebbe avere un corso d’acqua, servendosi di semplificazioni in uso in ambito ingegneristico, per poter affrontare il problema. Il moto può essere ‘uniforme’ o ‘permanente’, cioè che non cambiare con il tempo, o ‘vario’, cioè che cambia con il tempo, che muta anche a livello energetico, e che si presenta come il più complesso da studiare
Questi tre tipi di moto sono attualmente analizzabili e modellabili anche con software che sono a disposizione di tutti, anche se, prodotti in America, essi sono messi a disposizione a prezzi accessibili, mentre poi, portati da qualcuno in Italia, vengono riproposti con veste grafica diversa ed un considerevole aumento di prezzo. Comunque vi sono modellazioni idrauliche anche scaricabili sul computer da un programma degli ingegneri militari americani che li pongono a disposizione di tutti. Attraverso questi software essi rappresentano le varie problematiche idrauliche, formulando ipotesi per il caso di moto permanente e per il caso di moto vario.

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Ma un altro approfondimento merita il concetto di ‘dominio’ in idraulica. Per esempio, come consideriamo, a livello di modello, un fiume? Come un filo che si sviluppa in un’unica direzione, o come una vasta area in cui si generano correnti trasversali? Certamente la rappresentazione monodimensionale è semplificata ma è la più semplice per affrontare i problemi, ed è funzionale alla costruzione di alcune opere idrauliche. Invece la modellazione bidimensionale è molto complessa perché implica di avere alcuni livelli idraulici per tarare il modello. Per questo motivo, in genere, nelle opere di manutenzione, si addotta l’ipotesi di monodimensionalità. Quindi l’ingegnere propone un esempio relativo alla zona di Venzone, realizzato nella località ove si tengono le esercitazioni militari. La modellazione, nel caso specifico, ha fornito l’ingombro dell’acqua, le sezioni con i tiranti a livello dell’acqua, il livello dell’energia, il profilo del fondo con i relativi livelli dei tiranti e dell’energia.

Inoltre il fondo del fiume non è fisso, non è come il fondo di un tubo. Se fosse così, infatti, calcolando la portata e la pendenza si potrebbe ricavare, automaticamente, il tirante. Invece vi è una evoluzione del fiume, che va ad incidere, mentre passa, sul fondo alveo. E vi è il fenomeno del trasporto solido.
E ciò comporta un continuo riaggiornarsi del calcolo, perché la velocità è in grado di movimentare un certo tipo di classi granulometriche, e quindi va a cambiare la sezione, che va a cambiare, a sua volta, la velocità, così da presentare problemi non di poco conto nel modellare.

Quante combinazioni possiamo avere? ‘Fondo fisso’, ‘fondo mobile’, ‘moto vario’ e ‘moto stazionario’.
Vi è quindi un metodo che di solito si usa nelle manutenzioni idrauliche, uno che si usa a livello scolastico, che è quello che si rifà al moto uniforme, un altro metodo che tratta il problema in modo più completo, ma in questo caso non esistono software commerciabili ed è a disposizione solo delle università.
Per la verità è stata fatta una modellazione A1 B1, cioè complessa per il Reno ma è ancora in corso di taratura.
Non è banale, quindi, una modellazione così complessa, e non serve per quello che si deve fare in Carnia oggi come oggi.

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Un altro problema è quello del trasporto solido. Ci sono diverse trattazioni dello stesso, che hanno cercato di dare una formulazione a quale sia la portata solida che viene mobilitata , a seconda del tipo di portata che passa, della pendenza e della velocità.

La difficoltà ad affrontare ingegneristicamente questo problema, è data anche dal fatto che, nel corso della mobilitazione della portata solida, cambia la sezione, per cui ogni frazione di portata deve essere rimodellata. Ma affrontare così il problema diventa oneroso, e così il calcolo della portata solida di un fiume non può esser affrontato con un software.

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Quindi per passare alle manutenzioni idrauliche, esse sono uno strumento che è stato introdotto previo decreto, che consente al privato sotto il controllo dell’ente pubblico, di svolgere degli asporti di materiale o delle movimentazioni, andando a pagare un canone allo stato ed al comune. Il controllo spetta, ovviamente, a chi ora svolge il compito di ufficiale idraulico. Sono questi interventi che, proprio perché manutentivi, non implicano in genere la realizzazione di opere, o almeno di opere che possono essere superate nel giro di pochi anni.

Ma vediamo il caso di Venzone: sponda destra: metanodotto, alcuni pannelli (con pennello o o repellente si intende un’opera sporgente che allontana il vivo della corrente dalla sponda ove posta. Da: http://www.adbpo.it/PAI/5%20-%20Quaderno%20opere%20tipo/A12.pdf).
Il filone del Tagliamento veniva richiamato, a causa di alcune opere, tutto sulla destra. Questo comportava una continua erosione ed approfondimento della sezione idraulica verso destra. Così il fiume autoalimentandosi, continuava ad aumentare la velocità, ad aumentare la capacità di trasporto, ad erodere il fondo, e continuava, quindi, ad incidere il pilone di destra del ponte. Nello stesso tempo le magre e le morbide, quindi le portate non eccezionali, tendevano ad accumulare il materiale al centro, che si stava consolidando con delle isole vegetali.

Cosa accadeva a questo punto all’acqua? L’ acqua continuava l’incisione di destra, ma iniziava anche ad intaccare la sponda sinistra, andando quindi ad erodere beni demaniali che però non erano di pertinenza fluviale, cioè non erano classificati come alveo. In questo caso i tecnici hanno proposto un intervento di staggio delle acque, cercando di portare parte dell’acqua al centro, per creare una ‘savanella’ cioè un canale centrale in alveo (https://it.wiktionary.org/wiki/savanella), che andasse a ridurre la velocità della sezione di destra del fiume e quindi, di conseguenza, la sua capacità di trasporto. Nel contempo hanno pure proposto di chiudere con un pennello l’incisione iniziata in sponda sinistra.

L’intervento sul Tagliamento a Venzone ha funzionato, e la pendenza che il fiume ha preso dopo l’intervento tecnico non è più naturale, e quindi il fiume riprenderà fra un po’ di tempo a muoversi verso destra, a causa di quanto costruito per far passare il metanodotto.
Quindi la manutenzione delle opere idrauliche ha il ruolo di allontanare il tempo di morte o di crisi delle stesse.

Un tipo di manutenzione è la manutenzione mediante movimentazione ed asporto di inerti, che è uno degli strumenti atti a mantenere efficiente il reticolo idrografico. Questo è un metodo che evita la costruzione di opere tenendo conto di una cosa: i fiumi sono sistemi antropizzati, non sono sistemi naturali che possono essere lasciati a loro stessi, devono essere gestiti e curati dall’uomo.

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Per esempio il ponte di Comeglians è un tipo di opera importante che non è però stata, evidentemente, oggetto di manutenzione dal punto di vista idraulico, non dal punto di vista strutturale. Quindi, alla luce dell’aumento degli eventi alluvionali, che sono un dato di fatto ormai, come muta la produzione solida dei bacini? Perché un dato è certo: eventi come l’alluvione recentissimo vanno ad aumentare la produzione solida nei bacini.

Come cambia, quindi, con la nuova situazione, l’equilibrio gestionale di questi fiumi, che hanno lungo il loro corso anche dighe e chiusure?  Abbiamo Barcis, abbiamo Ovaro. Lì la ghiaia non passa. Così si continua ad incrementare la produzione solida.
Prendiamo per esempio il caso di Barcis. Come si possono rendere adeguati i ponti e la viabilità, a fronte del sovralluvionamento? Infatti un tirante d’acqua di un metro, che qualche anno fa passava, nel caso di un continuo apporto solido che non viene asportato manda in crisi la viabilità. Nel 2008 a Barcis è stato fatto un intervento che è costato allo stato e quindi a tutti noi un milione e mezzo di euro, non per sghiaiare, ma per alzare la strada. E si è visto l’effetto che ha avuto: quasi nullo. Sono le opere di questo tipo che costano e che sono sbagliate, perché tendono ad agire con forza contro il naturale comportamento delle acque.

Non si deve però pensare che la manutenzione sia una soluzione completa dei problemi, perché è solo uno strumento che va intelligentemente impiegato.

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A questo punto solo un’ultima nota. Un tempo la manutenzione idraulica era regolata dalla presenza sul territorio dell’ufficiale idraulico. Siccome i fiumi sono strutture vive, e vanno tenuti monitorati, questa presenza sul territorio avrebbe dovuto essere mantenuta ed invece non c’è più, o è molto molto frazionata.
Ed anche la responsabilità idraulica del fiume è stata divisa tra mille competenze.

Quindi quello che ci si augura è che dal punto di vista legislativo questi accadimenti riescano almeno a dare centralità alla figura della direzione idraulica, privilegiando, negli interventi, l’aspetto idraulico piuttosto che quello ambientale. Essi sono sì legati tra loro, ma non possiamo permetterci di lasciare isole in alveo, vegetate, ad ogni costo, perché la funzionalità del fiume non le comporta.

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Con questa considerazione l’ingegnere idraulico Matteo Cuffolo, ha chiuso, il primo dicembre 2018, all’isis F. Solari di Tolmezzo, il suo intervento. Spero di aver esposto in modo chiaro le sue parole, grazie alla registrazione, e se non ho ben capito qualcosa di tecnico fatemelo presente.

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A completamento di queste considerazioni, riporto quanto scritto nell’articolo intitolato: “Dissesto idrogeologico: ecco le aree a rischio”, in: Il Friuli, 2 marzo 2016, sulle zone di maggior dissesto idrogeologico.

Lo stato di salute della nostra regione? Non è dei migliori, almeno stando alla fotografia che emerge dal Rapporto sul dissesto idrogeologico in Italia pubblicato dall’Ispra, l’Istituto per la protezione e la ricerca ambientale, che ha analizzato i dati relativi al 2015. Il rischio combinato tra frane e dissesto idrico è marcato, con 184 Comuni su 218 a elevata o molto elevata pericolosità, pari all’84,4 per cento.

Entrando nel dettaglio, le zone a più alta pericolosità idraulica sono quelle costiere, con una superficie che interessa il 7,5 per cento del territorio regionale. L’area maggiormente esposta a frane, invece, è quella montana, pari a una superficie di 188,2 chilometri quadrati. Tra i Comuni più a rischio figurano, in provincia di Udine, Bordano (10,3 per cento del territorio amministrato), Cavazzo Carnico (8,9%), Chiusaforte (10,2%), Drenchia (12,2%), Malborghetto Valbruna (11,4%), Ovaro (7,9%), Paluzza (8,5%), Pontebba (12,8%), Raveo (16,2%), Resiutta (17,9%), Trasaghis (9%), Venzone (11,1%) e Villa Santina (17,5%); Erto e Casso (12,8%) e Vito d’Asio (8,8%) in provincia di Pordenone. (http://www.ilfriuli.it/articolo/cronaca/dissesto-idrogeologico-points–ecco-le-aree-a-rischio/2/152531).

Laura Matelda Puppini

Ho già pubblicato diversi articoli relativi all’alluvione della Carnia su: www.nonsolocarnia.info, che qui ricordo per chi non li avesse ancora letti:

Massimo Valent, geologo. Su quella montagna troppo friabile e su quelle piogge intense.

Marco Virgilio su: La montana dei Santi, alluvione 2018. Una cosa così non si era mai vista prima, davvero.

Stati generali della montagna. Sabato 24 novembre 2018. Sintesi dell’intervento conclusivo del presidente Massimiliano Fedriga.

Gregorio Piccin. Bombardamento climatico: necessario ripensare i concetti di “difesa e sicurezza”.

Mario Di Gallo. Sulle sistemazioni idraulico forestali.

Discorsi vecchi per l’alluvione nuovo, ed alcune considerazioni sugli interventi in Carnia e bellunese.

Gianpaolo Carbonetto. Le friabilità di un Paese.

Sandro Cargnelutti, Legambiente. Muta il clima: sì ad un piano regionale di prevenzione ed adattamento ai mutamenti climatici sovraordinato.

Considerazioni sull’alluvione in Carnia e su alcuni problemi non solo carnici, mentre fuori ha ripreso a piovere.

L’immagine di presentazione dell’articolo è tratta da: https://it.geosnews.com/p/it/friuli-venezia-giulia/maltempo-in-friuli-a-ovaro-dove–esondato-il-degano-situazione-critica-a-prato-carnico_21878390, e rappresenta il torrente Degano in piena ad Ovaro nel corso dell’ultimo alluvione della Carnia. Laura Matelda Puppini 

 

Perché voterei NO alla proposta di legge regionale Fvg su interventi culturali e scolastici per la conoscenza ed il ricordo del dramma post- bellico al confine orientale e delle ‘foibe’ .

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Non intendevo più scrivere una parola sui fenomeni avvenuti al confine ad est d’ Italia alla fine della seconda guerra mondiale, perchè preferisco interessarmi delle nostre acque, della resistenza, della montagna come risorsa e di pubblicare le mie interviste anni ’70, ma poi ho letto ieri, 8 aprile 2019, sul Messaggero Veneto, un articoletto intitolato: “Edilizia scolastica, foibe e sostegno alle Pro Loco nell’agenda del Consiglio”.  In esso si legge: «(…). Giovedì la V commissione (Autonomie locali, Affari istituzionali e attività sportive) alle 14.30 discuterà la proposta di legge sugli interventi per la conoscenza, la diffusione e il ricordo del dramma delle foibe, e dell’esodo istriano – fiumano – dalmata».

La proposta di legge regionale Friuli Venezia Giulia in oggetto è quella n. 21 del 4 ottobre 2018, presentata da Claudio Giacomelli di Fratelli d’Italia ed Alessandro Basso, pure di Fratelli d’Italia. Ora già di per se stesso il fatto che una proposta di legge su materia storica sia frutto di un partito solo dovrebbe dar da pensare circa la possibilità che in tal modo possa venir introdotta una specie di ortodossia nella lettura di argomento storico, secondo una chiave di lettura partitica, ma se poi detto partito è ‘Fratelli d’Italia’, non credo che si possa far peccato se si dice che detta lettura potrebbe essere quella dell’estrema destra.
Infatti ‘Fratelli d’Italia’, partito fondato da Giorgia Meloni, si chiamò, dal 2014 al 2017, ‘Fratelli d’Italia – Alleanza Nazionale’ ed è Il partito che «sostiene posizioni di destra, ispirandosi all’esperienza di Alleanza Nazionale e mantenendo naturalmente legami storici con il Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale». (https://it.wikipedia.org/wiki/Fratelli_d’Italia_(partito_politico)).

Questo il testo della proposta di legge, che ha per oggetto: “Interventi volti alla conoscenza, alla diffusione e al ricordo del dramma delle foibe e dell’esodo istriano-fiumano-dalmata”.

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IL TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE DI FRATELLI

Art. 1 (Principi)

  1. La Regione Friuli Venezia Giulia attua, promuove e sostiene attività dirette a diffondere e valorizzare il patrimonio storico, culturale, letterario e artistico della memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati, tragedia nazionale e testimonianza della brutale violazione dei principi di libertà, rispetto dei diritti umani, autodeterminazione dei popoli proclamati dalla Carta dell’ONU e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
  1. La Regione Friuli Venezia Giulia, per le finalità di cui al comma 1, anche in conformità a quanto previsto dalla legge 30 marzo 2004, n. 92 (Istituzione del “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale), promuove azioni volte a diffondere, con mezzi idonei, la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado e delle università.
  1. Le attività di cui al presente articolo sono realizzate anche al fine di promuovere tra le giovani generazioni la diffusione del sentimento di appartenenza alla Patria e la valorizzazione dei principi di Libertà, Democrazia ed Unità Nazionale sanciti dalla Costituzione, favorendo una maggiore conoscenza delle radici storiche e culturali della Regione Friuli Venezia Giulia e della Repubblica italiana nel suo complesso.

Art. 2 (Attività)

Le attività di cui all’articolo 1 possono riguardare la pubblicazione di studi, ricerche, saggi e di materiale audiovisivo, raccolta di materiali e testimonianze in ordine alle vicende delle vittime delle foibe e dell’esodo istriano-fiumano-dalmata, iniziative volte a diffondere fra i giovani, nella scuola, nell’università e nei luoghi di lavoro, la conoscenza storica della tragedia delle foibe e dell’esodo istriano-fiumano-dalmata;

l’allestimento di mostre e l’organizzazione di convegni di studio, di dibattiti e di viaggi d’istruzione nei luoghi della memoria in Italia e in quelli oggi ricompresi nel territorio statuale della Repubblica di Slovenia e della Repubblica di Croazia; concorsi, premi e contributi a tesi di laurea, opere letterarie, cinematografiche e teatrali; manifestazioni celebrative nelle località giuliane, istriane, fiumane e dalmate, teatro di episodi significativi della tragedia dell’esodo e delle foibe, con il coinvolgimento delle associazioni costituitesi per diffondere le attività come indicati all’articolo 1 comma 1;  momenti d’incontro con le comunità e le scuole italiane presenti nelle Repubbliche di Croazia e Slovenia; iniziative diverse da quelle previste dal presente articolo che siano però ispirate alle finalità e ai principi di cui all’articolo 1.

Art. 3 (Concorso regionale delle scuole del Friuli Venezia Giulia “Giorno del Ricordo”)

L’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia indice annualmente un concorso denominato “Foibe ed esodo: Un Ricordo da non dimenticare”, riservato agli studenti delle scuole primarie e secondarie, di primo e di secondo grado, statali e paritarie, e i corsi di Istruzione e Formazione presso gli Istituti Professionali di Stato e gli Organismi di Formazione Accreditati del Friuli Venezia Giulia. I progetti potranno essere presentati in formato testuale, grafico o multimediale. La commissione giudicatrice è normalmente presieduta dal Presidente del Consiglio regionale o da un componente dell’Ufficio di Presidenza da lui delegato; ne fanno parte altri due consiglieri regionali, di cui uno di minoranza, designati dall’Ufficio di Presidenza, nonché quattro esperti designati, uno ciascuno, dalle seguenti associazioni: Lega Nazionale Trieste; Comitato 10 Febbraio; Istituto Regionale per la Cultura Istriana-fiumana-dalmata; Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia; Possono inoltre essere designati dalla Direzione scolastica regionale, nell’ambito delle proprie funzioni, un componente, scelto fra il personale docente. L’incarico di commissario è a titolo gratuito, fatta eccezione per le spese di viaggio effettivamente sostenute, nel limite di quanto previsto per i dipendenti regionali. Il bando di concorso è indetto e comunicato a tutte le scuole del Friuli Venezia Giulia, come definite dal comma 1, entro il 30 novembre di ogni anno, e gli elaborati devono essere trasmessi alla struttura consiliare appositamente individuata entro la data indicata nel bando, stabilita in modo da consentire la valutazione e la proclamazione entro la fine del mese di gennaio dell’anno successivo. La premiazione dei vincitori è effettuata il giorno 10 febbraio di ogni anno, o il primo giorno lavorativo utile, in occasione della celebrazione del “Giorno del Ricordo” istituito con la legge 92/2004.

Al fine della valutazione dei progetti saranno individuate tre categorie, in base ai gradi di istruzione, per ognuna delle quali saranno designati due progetti vincitori. Gli studenti proclamati vincitori del concorso, in numero non superiore a 6, e i loro accompagnatori, uno a persona, sono premiati con un viaggio, a spese del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, nelle terre della Venezia Giulia, Istria, Fiume e della Dalmazia, secondo itinerari predisposti annualmente, con visite alle Foibe di Basovizza e Monrupino, al Museo Centro Raccolta Profughi di Padriciano e al Magazzino 18, nonché agli altri luoghi simbolo della tragedia giuliano-dalmata di volta in volta individuati ed accessibili.

Il “Giorno del Ricordo” di ogni anno si commemora con manifestazione ufficiale nell’Aula consiliare organizzata anche con il patrocinio dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale. In concomitanza con la manifestazione ufficiale avverrà la cerimonia di premiazione dei vincitori del concorso. Il regolamento del concorso sarà stabilito con apposita delibera della Presidenza del Consiglio regionale.

Art. 4 (Approvazione e finanziamento dei programmi di attività). L’approvazione dei programmi di attività, di cui all’articolo 2, concordati con la Lega Nazionale Trieste, il Comitato 10 Febbraio, l’Istituto Regionale per la Cultura Istrana-fiumana-dalmata e l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, compete all’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale, che, valutati i mezzi occorrenti al loro finanziamento, determina la misura della partecipazione del Consiglio regionale alla copertura delle relative spese.

Art. 5 (Norma finanziaria)

Per le finalità previste dall’articolo 2 è autorizzata la spesa complessiva di 90.000 euro, suddivisa in ragione di 30.000 euro per l’anno 2019, di 30.000 euro per l’anno 2020 e di 30.000 euro per l’anno 2021, a valere sulla Missione n. … (………………………………) – Programma n. … (………………………………) – Titolo n. 1 (Spese correnti) dello stato di previsione della spesa del bilancio per gli anni 2018-2020. Per le finalità di cui all’articolo 3, comma 2, è autorizzata la spesa complessiva di 7.500 euro, suddivisa in ragione di 2.500 euro per l’anno 2019, di 2.500 euro per l’anno 2020 e di 2.500 euro per l’anno 2021, a valere sulla Missione n. ..(………………………………) – Programma n. … (………………………………) – Titolo n. (Spese correnti) dello stato di previsione della spesa del bilancio per gli anni 2018-2020.Per le finalità di cui all’articolo 3, commi 3, 4 e 5, è autorizzata la spesa complessiva di 52.500 euro, suddivisa in ragione di 17.500 euro per l’anno 2019, di 17.500 euro per l’anno 2020 e di 17.500 euro per l’anno 2021, a valere sulla Missione n. … (………………………………) – Programma n. … (………………………………) – Titolo n. 1 (Spese correnti) dello stato di previsione della spesa del bilancio per gli anni 2019-2021. Agli oneri derivanti dal disposto di cui al comma 1, 2 e 3 per complessivi 150.000 euro si fa fronte mediante storno di pari importo dalla Missione n. 20 (Fondi e accantonamenti) – Programma n. 03 (Altri fondi) – Titolo n. 1 (Spese correnti) dello stato di previsione della spesa del bilancio per l’anno 2018 (s/97090). Consiglio regionale Friuli Venezia Giulia – 2 – XII Legislatura”.

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PROBLEMI E COSTI NON INDIFFERENTI.

Questo testo, unito a quello della mozione approvata il 26 marzo 2019, appare come dettante la possibilità di stravolgere l’intero insegnamento della storia e chi lo deve fare in Fvg, e quali eventi debbano esser ricordati o meno. Infatti se nessuno spicciolo regionale può esser dato all’ ANPI, associazione di categoria, neppure per ricordare i suoi morti partigiani e per il 25 aprile, se nessuno spicciolo regionale potrà essere dato all’Irsml e magari, poi, all’ifsml, se gli storici non potranno più intervenire in materia storica, senza che la politica li possa definire ‘negazionisti’ o ‘minimalisti’ o ‘giustificazionisti’ allora giocoforza la storia della seconda guerra mondiale verrà scritta dalle destre e da 3 o 4 associazioni private di categoria, legate alla destra visto il testo di legge, che avranno, ope legis, per la distrazione ed ignoranza altrui, accaparrato anche preventivamente soldi regionali, cioè nostri, che si potevano invero destinare ad altro, per il loro programma che dilata la giornata del ricordo ad un anno intero, visti i programmi, a cui seguirà un altro anno del ricordo e via dicendo. Ma la legge dello Stato parla di 24 ore, non di mesi. E non stiamo parlando di cifre piccole. Infatti oggi, 9 aprile 2019, il Messaggero Veneto pubblica un articolo di Mattia Pertoldi intitolato”Studi, premi e concorsi per far conoscere la Foibe nelle scuole”. Sottotitolo: “Chiesti 150.000 euro in tre anni”. Ora vorrei vedere quanti poveri italiani le vincenziane o la Caritas riuscirebbero ad aiutare con una cifra del genere, lasciando che la storia venga analizzata e studiata dagli storici e insegnata dai docenti già pagati per farlo! E scusatemi la franchezza, ma siamo in tempi di magra, e molte famiglie hanno bisogno concreto del pane o del pagamento di una bolletta dell’acqua o del gas, o della mensa scolastica per un bambino.

Ora che questo disegno di legge sia l’espressione del sogno di Fratelli d’Italia non mi trova stupita, mentre mi trova più che stupita il fatto che le sinistre od altri democratici non abbiamo compreso la pericolosità di azioni di questo tipo, che portano, come già l’istituzione in fretta e furia della giornata del ricordo, ad una storia di stato, come accadde ai tempi di Augusto imperatore e del fascismo ed in Unione sovietica, ed accade in genere nelle dittature e nei regimi totalitari, che hanno i loro dei ed i loro demoni, decisi dall’alto.

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Bisogna condizionare la mente dei giovani virgulti, par di capire dalla proposta di legge, ma a detto intendimento soggiace, a mio avviso, un pensiero simile a quello che portò a creare i ‘Figli della lupa’ ed i ‘Balilla’, oltre che le ‘Piccole italiane’ forgiati da un partito non da insegnanti preparati. Basti ricordare le ore di lezione di storia e politica che dovevano esser obbligatoriamente seguite sotto il Fascio. Ed anche gli accademici, per non perdere il posto di lavoro, dovettero giurare fedeltà al fascismo ed ai suoi dogmi, alle sue visioni della storia e della società, al suo potere di decidere, condizionare, censurare. Solo pochi coraggiosamente, si rifiutarono, e fra questi Aldo Capitini ed Ernesto Bonaiuti, assieme ad altri 16, che tutti dovremmo ricordare ogni giorno. (https://it.wikipedia.org/wiki/Giuramento_di_fedelt%C3%A0_al_fascismo).  Altra cosa sono, rispetto a questa proposta di legge ed a mio avviso, l’insegnamento e l’apprendimento della ricerca che spettano, in uno stato democratico, alla classe docente sulla base dei programmi e della libertà di insegnamento mentre detto disegno di legge di Fratelli d’ Italia  impone persino gite scolastiche obbligatorie.

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IO, SE FOSSI UN CONSIGLIERE REGIONALE, VOTEREI NO A QUESTA PROPOSTA DI LEGGE.

Ed io, io se fossi un consigliere regionale voterei no a questa proposta di legge, perché amplifica oltre il giorno del ricordo, che giorno rimane, l’attenzione ai fatti che si svolsero in un fazzoletto di terra al confine orientale, sostituisce persone scelte da associazioni di categoria ai docenti, impone una versione obbligatoria di stato, dimentica non solo i contesti ma anche le zone ‘A’ e ‘B’ e gli Alleati con la loro politica, e può indurre un forte spirito antisloveno, sul quale, in base al testo di legge, dovrebbe fondarsi, in contrapposizione par di capire, il forte spirito italiano e l’amor di Patria.  Ma a mio avviso non è in questo modo, in contrapposizione, che si crea un amore di Patria per l’Italia nei giovani, ma insegnando l’affetto ed il rispetto per il proprio paese veicolati attraverso la famiglia, la scuola, la società, ed introducendo nuovamente l’educazione civica allargata all’educazione alla cittadinanza attiva nelle scuole. Io non voglio che i miei nipoti siano educati all’amor di Patria da esuli e dalmati, perché io so educare all’amore per l’Italia, mia Patria “sì bella” e mai perduta.

Inoltre detta proposta di legge, a mio avviso, pone ancora una volta la censura, e quindi è anticostituzionale, dà alla regione potere in materia non sua, perché i compiti della Regione Fvg sono codificati, e non possono interferire con la Costituzione e le leggi dello Stato, implica che, solo perché una persona, che magari fa l’imprenditore o il contadino o che ne so, è tesserato di una precisa associazione possa trasformarsi in storico ed esperto in fatti storici, letti in modo unilaterale, perché presuppone che ogni altra versione dei fatti, (tranne quella sposata dalle associazioni di esuli dalmati, istriani, a cui spetta il compito di giudicare, e di Fratelli d’ Italia proponente la legge), possa finire sotto processo, avocando così a sè la Regione, o attraverso la delega ad Associazioni private di categoria, il compito di giudicare, che non è suo.  Sarebbe poi come, in sintesi, sostenere che solo i soci Ana possano parlare di alpini, solo Anpi e l’Apo di partigiani, e via dicendo, e chi se ne frega degli storici, delle università, dei laureati in storia, degli studi che accomunano a studiosi di altri stati. E si crea un pericoloso precedente.

Non da ultimo detta proposta di legge altera massicciamente i fatti, perché parla di attentato, se così possiamo dire, all’autoderminazione dei popoli ma il popolo sloveno non voleva assolutamente stare con l’Italia, e se i cognomi erano italiani era anche perché erano stati italianizzati quelli sloveni. E fin dall’annessione di territori all’Italia dopo la prima guerra mondiale, organizzazioni nazionaliste come Orjuna, non comunista, che ebbe vita dal 1921 al 1929, o Tigr, organizzazione clandestina nazionalista, irredentista e antifascista, che si batteva contro la politica di snazionalizzazione di sloveni e croati perseguita dal regime fascista italiano, (https://en.wikipedia.org/wiki/Organization_of_Yugoslav_Nationalists e https://it.wikipedia.org/wiki/TIGR) ed altre indicarono in modo preciso cosa volesse allora il popolo sloveno e croato. (Ivi).

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I VERI PATRIOTI FURONO I PARTIGIANI, NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE.

Inoltre chi lottò per la PATRIA, nel corso della seconda guerra mondiale, furono I PARTIGIANI, tanto che il Decreto Legislativo Luogotenenziale n° 158 del 05.04.1945, che aveva come oggetto l’”Assistenza ai patrioti dell’Italia liberata”, (GU Serie Generale n° 53 del 02.05.1945), indica come allora venissero definiti a livello istituzionale i partigiani: PATRIOTI. E nessuno, allora, all’indomani dei fatti, si sarebbe sognato di dire o pensare che i partigiani francesi, greci, albanesi, belgi, in sintesi appartenenti alla resistenza europea, non si potessero definire patrioti indipendentemente dal loro credo politico, in quanto avevano lottato per la liberazione della loro terra, della loro Patria occupata dai nazisti con l’aiuto di collaborazionisti o dei fascisti. (Cfr. Seconda Guerra Mondiale. Friuli e Carnia in Ozak, Bretagna nella Francia occupata: Terre diverse, esperienze similari, in: www.nonsolocarnia.info).

E CHI LOTTÒ IN ITALIA PER LA DEMOCRAZIA FURONO SEMPRE I PARTIGIANI, non coloro che poi se ne andarono dalla Slovenia, in cui dramma personale può esser comprensibile, ma resta il fatto che essi non collaborarono alla cacciata dei nazifascisti come fecero invece i partigiani – patrioti, pagando magari con la vita o con la tortura la loro scelta. E se erro correggetemi. Infine questa vulgata destrorsa della storia del confine orientale d’ Italia dimentica la zona A e la zona B, la presenza degli alleati, i tentennamenti della politica italiana, e che l’Italia aveva perso la guerra, e parla di diritti umani a senso unico, quando in ogni guerra essi non vengono rispettati. Ma in questo modo l’unico diritto a non essere rispettato, a mio avviso, è quello dei cittadini e delle nuove generazioni, che hanno il diritto di conoscere la verità storica dei fatti al confine orientale, contestualizzati, e che non possono esser veicolati da Magazzino 18 o da un film su Norma Cossetto, con tutto il rispetto per lei. Perché così si confondono anche le fonti, che in storia restano primieramente documentaristiche; si porta l’emotività in primo piano, ed insieme alla stessa una cancellazione della conoscenza scientifica e rigorosa, sostituita da un tentativo di far immedesimare lo spettatore, con tutto ciò che questo implica. (Cfr. i miei Considerazioni su guerra, resistenza, dopoguerra con riferimento all’incontro tolmezzino con Paola Del Din e Considerazioni su di una mozione per togliere, in Fvg, finanziamenti regionali ai cosiddetti negazionisti e riduzionisti delle ‘foibe’.).

Insomma una possibile legge sulla giornata del ricordo non deve cambiare la storia, chi la insegna, il modo di insegnarla, non deve far volgere ad una verità di stato.

COSA NON CI VIENE NARRATO.

Questa vulgata della storia postbellica al confine orientale non ci narra di una Italia dove la crisi del porto di Trieste riempì le navi di Triestini che salpavano verso l’Australia e le Americhe in cerca di fortuna (Cfr. Francesco Cirasa, L’accoglimento degli esuli giuliani e dalmati in Italia), non ci narra delle difficoltà che incontrò l’Italia intera, con migliaia di persone che, spesso a piedi, rientravano, denutrite ed in condizioni penose, dai campi di concentramento, della popolazione alla fame e stremata, degli ospedali senza nulla tranne la buona volontà di medici ed infermieri, degli alleati che viaggiavano su e giù.

 Inoltre la storia, codificata da alcuni, di quella fuga, presentata come un esodo in un momento storico e non come un lungo esodo, frammentato, come fu (Cfr. Raoul Pupo, Il lungo esodo, Rizzoli ed., 2006), non ci racconta poi quanto l’Italia, una Italia uscita dalla guerra poverissima, lacerata ma democratica, cercò di venire incontro, con norme successive, ai problemi dei profughi giuliano dalmati ed ai loro figli e nipoti, sia nell’avere un posto pubblico che nell’avere una casa popolare. (Per le leggi sugli esuli e profughi cfr. Decreto Legge (DL) n. 556 del 19.4.1948, Legge 4 marzo 1952, n. 137, avente come oggetto:  Assistenza a favore dei profughi, Legge 910 del 27 ottobre 1950, citata in: Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, storia di un esodo, Istria, 1945-1956, Irsml, 1980; Legge n. 1080 del 28 dicembre 1950; Legge n. 9 del 4 gennaio 1951, Legge 1 luglio 1951 che per la prima volta prevedeva che Gli IACP, l’UNRRA-Casas  e l’INCIS (quest’ ultimo solo per i profughi dipendenti statali) dovevano riservare ai profughi per quattro anni il 15% degli alloggi costruiti dopo il 1.1.1952; Legge 4 marzo 1952, n. 137; Legge n. 594 del 17.7.1954; Legge n. 240 del 31.3.1955; Legge n. 130 del 27.2.1958, avente come oggetto: Norme per l’assunzione obbligatoria al lavoro dei profughi dai territori ceduti allo Stato jugoslavo con il trattato di pace e dalla zona B del territorio di Trieste e delle altre categorie di profughi; Legge del 14.10.1960).

A questo punto, con tutto il rispetto per le Associazioni di Istriani e Dalmati, e di profughi che dovrebbero gestire i programmi di storia in Italia, mi pare che un po’ di gratitudine verso lo Stato italiano lo potrebbero dimostrare.

E per concludere il perché io non voterei quella proposta di legge, aggiungo solo che la regione non può legiferare chi dovrebbe, a suon di migliaia di euro, sostituire i criminalizzati professori di lettere pagati per insegnare storia, non solo una parte della stessa. Inoltre gli organismi che valuterebbero i lavori su profughi ed esodo sarebbero l’Associazione per l’italianità di Trieste; il Comitato 10 Febbraio per la salvaguardia della cultura italiana nell’Adriatico Orientale, quando credo che non serva detta istituzione per salvaguardare la cultura italiana dell’Adriatico Orientale, perché a me hanno regalato bellissimi libri nel merito scritti da non associati, perchè noi italiani generici non siamo tutti baluba; la solita iper-finanziata dalla Regione Fvg ANVGD, l’ Istituto Regionale per la Cultura Istriana-fiumana-dalmata, che, da quello che si legge sui loro siti, pare ben poco conoscano del dibattito storico presente sui fatti della giornata del ricordo e sui volumi scritti, tanto da pensare che detti fatti non siano mai stati indagati, e portando una lettura degli stessi più atta a creare una guerra ai confini che una conoscenza su studi comuni. Ed infine ricordo che, da quanto ho appreso da mio padre, l’Ispettore scolastico Geremia Puppini, le scuole italiane in Istria, che egli andava periodicamente a visitare, vivevano benissimo anche sotto Tito, e non credo siano interessate a esporsi in senso antisloveno.

Senza offesa per alcuno, solo per esprimere in democrazia il mio parere su una proposta di legge regionale, e se erro correggetemi. E per cortesia non preparate per me la pira o il carcere solo per aver scritto questo in scienza e coscienza, ed in una Italia democratica.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alido Candido, Laura Matelda Puppini. Intervista a gnà Emma. In che volto, a Rigulât …Prima parte.

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NOTA INTRODUTTIVA.

Questa intervista data 23 aprile 1978, e chi parla è Emma Pellegrina in Gussetti, sorella di Elsa, poi maritata Candido, madre di Alido, mio marito, di Elio e di Giacomina Candido. Pertanto quando Emma parla di sua sorella si riferisce ad Elsa, nata nel 1905. Erano presenti all’intervista anche Mirca Gussetti in D’Agaro, figlia di Emma, e Susi D’Agaro, nipote. L’intervista è stata resa in friulano ed è stata tradotta da me, con l’aiuto preziosissimo di Alido. Insomma è una intervista tutta ‘in famiglia’ e ‘gnà’ significa appunto zia. Ho lasciato anche riferimenti a quanto si pensava o si diceva di persone, per far capire quale fosse il mondo in cui si viveva allora, solo ho coperto alcuni nomi, esplicitati però nell’intervista. Laura Matelda Puppini

***

GIÀ DA RAGAZZINE SI LAVORAVA ED AD OGNUNA VENIVANO AFFIDATI COMPITI PRECISI.

Alido: «Allora gnà’ Emma, ci vuoi raccontare, come si viveva una volta, tu, che più di me, ne hai passate quattro …»
Emma: «E da dove devo incominciare?»
Laura: «Raccontami, zia, di quando andavate, anche bambine, sui monti, e vi alzavate presto, e raccontami della madre di Alido, che non ho mai conosciuto, di cosa faceva …»

***

Emma: «Eravamo bambine, allora, e la giornata incominciava con nonna che ci veniva a chiamare: “Svegliatevi, bambine!”. “Emma, alzati!” E noi eravamo ancora piene di sonno. Per dir la verità però, facevo più fatica ad alzarmi io, di tua madre, E nonna mi doveva chiamare sette od otto volte. Ed io dicevo sempre: “Mi alzo adesso!”, ma poi ritornavo ad addormentarmi. E pensate. Ci alzavamo verso le tre, le quattro del mattino, dipendeva da dove si doveva andare a far fieno, perché si doveva giungere sul luogo quando veniva giorno. Io andavo con mamma, mentre Elsa ci raggiungeva più tardi con la colazione. Ed ero io che dovevo ‘sunalo biel a buinoro!’ (che dovevo alzarmi davvero presto!). E la nostra vita è trascorsa, in gioventù, tra falciare, spandere l’erba falciata e fare i covoni… E quando veniva sera, ci caricavamo di un bel fascio di fieno, e giù a casa, trottando …

E questo era quello che facevamo quando si andava da un prato all’altro correndo, perché se veniva la pioggia … E come se non bastasse, a casa ci attendeva la stalla, prima della cena. Sai Alido, era Elsa, tua madre, che ci preparava la cena. Perché i compiti erano divisi tra noi sorelle: ed Elsa era l’addetta ai servizi familiari, se così si può dire. Elsa lavorava poco in montagna, non falciava e spandeva solo l’erba, e quindi, ben prima di me, ritornava a casa per metter su la cena. E poteva alzarsi dopo di me, raggiungere i prati dopo di me, e ritornare a casa prima di me.  E per tutte era così: quelle che dovevano falciare si alzavano prima, quelle che dovevano raccogliere il fieno con il rastrello poi, ma spesso rientravano anche più tardi, se non dovevano preparare il pasto serale.

Ed allora nessuna aveva tempo per riposare, e, lasciata la falce, si prendeva il rastrello, e se minacciava la pioggia, non ci si fermava neppure per mangiare un boccone. C’era qualcuna che, stremata, faceva un breve sonno, ma proprio breve … E poi giù a trotto, verso casa. Ed Elsa, strada facendo, mentre rientrava, raccoglieva un gerlo di erbe per le mucche, che poi andava ad accudire. Ed infine di corsa allo ‘spolert’ … Almeno noi arrivavamo tardi dai prati, ma trovavamo la cena pronta. E, per esser sincera, lavorava forse più Elsa di me, perché doveva fare tutto di corsa, scendere di corsa, andare alla stalla di corsa, preparare la cena prima che arrivassimo a casa …

E passavamo il nostro tempo, tra metà luglio e la Madonna di agosto, fra prati, montagna, sfalci e ‘mede’. Ma questi non erano i primi lavori che facevamo nel corso dell’anno: il primo era ‘ramondâ’ cioè pulire, nettare prati e campi. Comunque c’era da lavorare tutto l’anno, senza fermarsi.

A questo punto interviene Mirca dicendo che passavano l’inverno (1) facendo legna e, se serviva, spostando fieno da uno stavolo all’altro, mentre in primavera si sbriciolava il letame sulla superficie dei campi, si pulivano i prati, si incominciava a girare la terra ed a seminare. Ed ad un lavoro seguiva l’altro, secondo un calendario definito, e ci si fermava solo per le necessità e quando serviva, per esempio per fare il bucato.
Emma: «Ci si fermava per lavare, nel periodo della fienagione, solo due giorni al mese, e preferibilmente quando pioveva. E, finito il tempo della prima fienagione, cominciava quello dell’urtigôl, del secondo taglio del fieno (2).

Vittorio Molinari. Donne addette alla fienagione in posa. Da: archivio Vittorio Molinari.

E, una volta pronto il fieno, lo si doveva portar giù, con le slitte (olgjas), se alla loro portata, e dove le slitte non giungevano, per esempio in Bains (3), si doveva portar giù il fieno facendo il fascio. Ed erano fatiche a non finire! Perché i sentieri in montagna non erano allora come sono ora, e erano tutto un su e giù, piccoli piani seguiti da rive, e, dopo cento o duecento metri in piano, dovevi tirar su la slitta e quindi giù, e i pattini della slitta (gjostris), in metallo, si scaldavano talmente che scottavano! Così, perché questo non accadesse, si doveva prendere una cotenna di lardo ed ungerli, altrimenti, sfregando contro tutti quei sassi, si rovinavano. E si giungeva, senza fiato, a valle, ed eravamo scalze. Sì, proprio scalze! Perché andavamo senza scarpe in montagna, ed avevamo le dita dei piedi piene di botte prese lavorando, ed avevamo i talloni sempre infiammati e pieni di colpi. E mica andavamo scalze solo sui prati: andavamo scalze anche a portar giù il fieno … Mica balle! Ed andavamo scalze sui monti da bambine ed anche più grandicelle.

E non portavamo ‘scarpétz’, perché chi te li faceva? Noi non eravamo capaci di farli da sole. Poi, in un secondo tempo, quando ero più grandicella, ho imparato a farli, e li facevo anch’io, ma non quando io ed Elsa eravamo più piccole. Solo ‘garbèdas’ ‘garbedatàs’ e ‘galogjas’, zoccoli di legno e niente di più. E scarpe allora non ne si vedeva. Non ho provato un paio di scarpe in vita mia, finché non mi sono sposata. Forse avranno portato le scarpe i signori, ma eravamo forse noi dei signori, che eravamo povera gente?

***

Ma per ritornare al lavoro della fienagione, quando era l’ora buona per alzarci ci si alzava, e poi, a sera, ognuno portava a casa il suo prodotto, ma poteva accadere che qualche ritardatario ti venisse a chiamare perché portassi tu il suo fieno.

Ed allora, dopo qualche ora di sonno, ci si alzava all’una del mattino, e si saliva anche fino in ‘Navo’ (4), che era ancora notte e riluceva la luna, e, giunte sul posto, ci appoggiavamo vicino alla meda e facevamo un breve sonno in attesa che facesse giorno, per poter vedere a fare il fascio. Ed alle sei e mezzo – sette del mattino avevamo già fatto il fascio ed eravamo già scese da sotto il monte a casa, portandolo.
E ci davano venticinque centesimi a viaggio, e potevamo fare anche tre viaggi al giorno, ma non riuscivamo mai a racimolare una lira. E con una lira, allora, non si comperava molto. So però che un fazzoletto da testa di lana costava 2 lire cioè circa tre giorni di lavoro estivo.
E, quando andavamo in montagna a lavorare, prima di partire intonavamo un canto ‘A è ievade la biele stele’ o ‘A cjante il gjal al crice il dì’… Una bella cantata nel paese e poi, via noi, su verso la montagna! Ed eravamo in tante. E si era allegre, quella volta.

ABITI FAI DA TE.

Laura chiede come si vestissero le donne.

Emma: «Vestiti! Si vestiva alla buona. Proprio alla vecchia. Adesso ti racconto questa. C’era qui una vecchia di settanta anni o forse ottanta, che andavo ad aiutare nei prati. Ed ad un certo punto mi ha regalato un giacchettino stretto in vita, e lo mettevo che ero una ragazzina, una ‘poemuto’, che se ci penso anche adesso lo metterei, perché sarebbe di moda. Ma allora i vestiti erano ‘rapez’ erano abiti rattoppati ed alla buona, ah, se ci aveste visto allora, come si andava vestite! Ed in genere le madri confezionavano gli abiti da sole. E li facevano come potevano. E ora vi racconto questa. Nel 1915 è venuta la guerra, e poi è venuta l’invasione austriaca, e non c’erano vestiti di nessun tipo, né da fare né da comperare, e non c’era niente. Ed eravamo andate su, in ‘Sedos’ (5), sui monti abbandonati dai militari in ritirata, per cercare qualche coperta lasciata dai soldati per portarla a casa ed utilizzarla per fare qualche vestito. Insomma, pensate come vivevamo: andavamo a cercare le coperte dimenticate per poi lavarle, e trarne vestiti, con cui andare a far legna ed andare a fare la sfilata a Messa!» – E ride Emma al ricordo di quei tempi.
Quindi riprende: «E pensate, questi vestiti fatti di coperta tenevano perfino la piega! E io avevo cucito una gonna di coperta a quindici anni, ma è durata, sapete, tanto che nonna la metteva da anziana. Era una gonna rossa, alla moda, ‘strentulino’».

Mirca narra che ad Emma avevano fatto anche un vestito di tela di sacco (6), e volevano che lo indossasse per andare a Messa in una festa grande, ma lei si vergognava. Ed allora sua madre l’aveva rincorsa, per mandarla alla funzione religiosa.

Emma: «E per proteggerci dal freddo non avevamo scialli, ma solo una sciarpa. Non c’erano quella volta scialli! E c’erano pecore, e si trovava lana da comperare, ma si doveva fare tutto da sole, dai calzini alle sciarpe ai maglioni per i bambini. E ai maschietti facevano dei pantaloncini aperti dietro, per permetter loro di fare da soli i bisogni, e facevano indossare sia ai bambini che alle bambine piccoli un grembiulino e quando faceva freddo un golfino e le calze fatte in casa (7). E mettevano loro ai piedi zoccoli di legno, ‘galogias’ e ‘scarpéz’. Ma questo accadeva d’inverno, perché, d’estate, i bimbi andavano scalzi. Inoltre se le donne filavano la lana, potevano anche fare una maglia sotto per i bimbi, ma non era abitudine il farne. Questo però succedeva prima che nascessero i miei figli. Fra l’altro Ivo è stato con noi in Francia, e lì era diverso».

Giuseppe Di Sopra detto Bepo di Marc. Bimbo piccolo. Da archivio Giuseppe Di Sopra. 

 I GIOVANI ANDAVANO IN FILA, E FINIVA CON IL MATRIMONIO, MEGLIO SE CON UNO RICCO.

«Quando poi si era ragazzine, va da sé che si incominciava a guardare, di storto i ragazzini, ed i ragazzini incominciavano a guardare noi. E poi i maschi si abituavano ad andar e a far la fila, cioè ad andare, in 3 o 4 insieme, la sera, in casa delle ragazze in età da marito, per conoscerle e conoscere meglio la famiglia. E le guardavano, valutando in primo luogo se erano brave e forti per lavorare, se erano brave a falciare, se erano buone portatrici. Ma in particolare guardavano se erano sane, tanto da poter incominciare una vita insieme ed avere figli.

Ma la cosa importante era che la donna scelta sapesse lavorare, fosse una lavoratrice, e non importava molto, allora, se una ragazza era bella o no. Poteva contare qualcosa, ma era forse più importante che fosse simpatica. Ed incominciavano, poi, i genitori ad adocchiare un possibile partito per il figlio, ed incominciavano dicendogli: “Quella ragazza è per te. I suoi genitori hanno vacche, hanno roba…”.
Infatti anche le famiglie dei ragazzi guardavano se la fanciulla aveva una posizione non malvagia, e, se era così, era il futuro marito che la andava a cercare, che andava a proporsi.  E la roba giocava un ruolo importante nel combinare matrimoni, sia dall’ una che dall’altra parte. Ma spesso “la roba sposava la roba”.

Poteva poi accadere che i genitori spingessero una bella ragazza a sposare uno che aveva qualcosa, piuttosto che un poveraccio. Ma era la situazione che richiedeva così. Comunque in genere gli uomini erano tutti operai e le donne contadine, ed era importante trovare un uomo che avesse un lavoro. E più l’uomo lavorava, più ci si riteneva onorate e fortunate, che pareva di andare in Paradiso se si aveva tanto lavoro.

E c’erano ben poche signore qui, e erano quelle che non avevano bisogno di domandare prati in affitto o da lavorare a mezzadria».

DOPO IL MATRIMONIO.

Laura chiede come si viveva dopo il matrimonio.

Emma: «Con il matrimonio, Laura, ci si prendeva su una bella croce. Io mi sono sposata di mercoledì, ed il lunedì seguente ho dovuto andare, io che non ero abituata, nella stalla che si trovava lontano dal paese, a Riciul. E non potevo far a meno di andare, ho dovuto farlo. E io, che da giovane ero dormigliona, ho dovuto metter su la sveglia (lu svejarin), e mi sono ben presto abituata a svegliarmi, ogni giorno, alle quattro del mattino per andare a governare le mucche nella stalla. E fino a che non ho lasciato di tenere vacche, che non è stato tanto tempo fa, mi sono sempre alzata alle quattro per andare a governarle. E tutte le donne, qui, hanno dovuto fare, suppergiù, come me.

Eh gli uomini…  Non si poteva far conto sugli uomini. Due mesi dopo il matrimonio partivano, se ci si sposava in febbraio. Ma era per modo di dire due mesi dopo, perché era abitudine che, a San Giuseppe, gli uomini partissero per l’estero, lasciando vuoto il paese. E qui restavano solo le donne, qualche uomo un po’ malato, e quattro vecchi. E restava pure qualche commerciante, ma erano davvero pochi».

A questo punto interviene Mirca, che ha sposato un commerciante di cui ha portato avanti, dopo la morte, l’attività. Ella dice che nel paese è tradizione che ce l’abbiano nera con i commercianti proprio perché tutti dovevano emigrare tranne loro. E il commerciante veniva visto come ‘il porcello’ il ‘masse pasût’, il troppo sazio, e come un appartenente ad una categoria privilegiata. E conclude: «Insomma qui è tradizione che non vogliano troppo bene ai negozianti».

***

A questo punto Alido precisa che non crede che il motivo del poco voler bene dei paesani ai negozianti fosse dato dal fatto che non avevano bisogno di emigrare, ma dal sistema dei libretti e perché vi era qualcuno che praticava l’usura.

Ed Emma conferma e continua: «Avevano queste povere donne l’uomo fuori a lavorare, e non vedevano una lira finché lui non rientrava. E quando rientravano dopo aver lavorato duro una intera stagione, portavano a casa circa duecento lire, non di più. E con quella cifra le donne dovevano fare la spesa per tutto l’inverno. E comperavano uno o due quintali di granoturco, riso, farina… Ma in qualche caso i soldi non bastavano per sfamare la famiglia per un periodo così lungo, e così andava a finire che gli uomini dovevano andare a prestito, se non potevano tornare all’estero subito. Perché anche quanto stavano fuori dipendeva dalle abitudini che avevano. E i primi soldi che guadagnavano, li mandavano poi alla moglie per pagare i debiti. Ma vi erano uomini che non mandavano una lira in tutta la stagione, e le loro donne dovevano arrabattarsi per sopravvivere ed anche chiedere la carità, in qualche caso.

Ed erano costrette, per guadagnare qualcosa, per tirare avanti, a lavorare per uno e per l’altro. E quando venivano a casa, gli uomini riempivano di figli queste povere donne, e quindi se ne andavano nuovamente, e qualcuno doveva ben pensare a tutti.

Giuseppe Di Sopra detto Bepo di Marc. Ragazzini del comune di Rigolato. Da archivio Giuseppe Di Sopra. 

***

E il rapporto sessuale … non era questione allora di volere o non volere. Quelle povere donne, stanche com’erano, rabbrividivano all’idea che l’uomo venisse loro vicino, e stavano meglio sole (cencio cu paia), perché, che lo si voglia o no, erano stanche sfinite, ben più dell’uomo.  Anche gli uomini lavoravano, ma mai come toccava alle donne, ed erano comunque ‘masse pasuts’ rispetto alle loro mogli.

Ed andavano le donne, povere donne, incontro ai mariti che rientravano dall’emigrazione nei paesi che parlavano tedesco, per prender loro le borse e portarle. E raggiungevano Mieli di Comeglians passando prima dove è rovinato il bosco, poi prendendo un sentiero che le portava fin dove potevano passare il fiume, ed infine si recavano dove arrivava la corriera dei De Antoni.

E gli uomini erano ‘pieni di fame’ (8), e quando si trovavano a Mieli erano in due, e quando arrivavano a casa erano già in tre! Andavano tra i ‘crets’ e … Ed alla più lunga, andavano a letto, la prima notte dopo il ritorno, in due e si alzano in tre. E nove mesi dopo era tutto un battezzare.

***

Sapete, a Ludaria nascevano almeno venti bambini in un anno, ma era così anche negli altri paesi.

Ed alle donne, stanche sfinite, ben poco interessava il rapporto sessuale, e secondo me venivano considerate troppo come fossero bestie, come fossero animali da soma, come fossero muli. E gli uomini non avevano invero una grande considerazione delle loro spose e si comportavano come padroni. Ma questo accadeva prima della prima guerra mondiale, ai tempi di mio padre e mia madre, perché dopo le cose sono un po’ cambiate.

Infatti la mia esperienza è stata un po’ diversa. Io non mi sono sposata giovane, mi sono sposata nel 1928, e poi i tempi sono mutati, man mano che si andava avanti. E già nel 1928 e la vita era diversa. Gli uomini tenevano in maggior considerazione le loro donne. E dopo la prima guerra mondiale, le donne hanno incominciato ad emigrare con i mariti. Io, per esempio, sono stata 4 anni in Francia con mio marito. E lì sono stata davvero bene. Ma il rapporto uomo donna, prima di quel periodo, era qui davvero da far pietà.

***

ALLORA SI PARTORIVA IN CASA E POI DICEVANO CHE SI AVEVA LA CASSA SOTTO IL LETTO PER 40 GIORNI.

Noi donne, allora, si partoriva tutte in casa, con presente la comare, l’ostetrica, e se non c’era aiutava nel parto una donna (a mi ha reguèta uno femeno), come è accaduto a me. Quel giorno, vedendo che era giunto il momento che io partorissi, mia madre ha chiamato la comare, che era di Ludaria ed abitava sotto la chiesa di Sant’Anna. E mentre stava vedendo di me, è giunto il medico a chiamarla perché aveva avuto una telefonata da Givigliana per un caso urgente. Così ha detto che lui sarebbe rimasto con me, mentre lei doveva andare a Givigliana. Ma l’ostetrica ha detto che ormai stava seguendo il mio parto, e che andasse a Givigliana lui, ed altrimenti che si arrangiasse. E così si sono tirati per i capelli l’uno e l’altra, e la comare non voleva andare, ed il medico voleva fermarsi lì, e così, forse a causa anche di questo ritardo, la donna è morta. Oggi, invece, l’avrebbero salvata.

Ma sai, una volta ne morivano donne di parto, anche per le infezioni. A mia madre, per esempio, dopo aver partorito l’ultima bambina, che era nata nel 1910 mi pare, sono venute le febbri puerperali, ed è stata due mesi a letto con la febbre, e questa povera creatura, questa neonata, che allattavamo con il biberon, è cresciuta bene sino ad un anno e mezzo ma poi è morta. Ma conoscevamo anche un’altra povera donna che aveva una bimba che invece cresceva una settimana sì e l’altra no, ma quella era davvero una povera creatura, e non si capiva se avesse fame o che cosa le fosse successo.

***

Ma accadevano anche situazioni spiacevoli mentre si era incinte. Per esempio c’era una da Udine che era venuta ad abitare da una mia zia. Ed in quella casa, l’accesso alla scala era chiuso da una porta, perché non salisse il freddo. E mia madre, che era incinta, dopo aver aperto la porta l’ha chiusa, e questa donna aveva il piede o la gamba lì e si è fatta molto male. Ma mia madre non aveva fatto questo apposta. Solo che, dopo quell’episodio, mi diceva che non aveva avuto più pace, né quando doveva partorire né poi. E così, dopo un anno e mezzo, questa sua bimba è morta. (9). Io non so di cosa sia morta, un tempo morivano tanti bambini. Ma dopo che è morta la mia bambina, non ne sono morti più tanti, come prima.

Perché anch’ io ho avuto una bambina che è morta. E mi hanno messa in un camerino, e sono stata in questo camerino finché è morta. Ed ho avuto tanto dispiacere. Ma a mia madre sono morte tre bambine, ed una è morta nascendo. I bambini morivano da piccoli, ma anche a cinque, sei, sette anni. Un po’ le madri non avevano tempo di seguirli, perché ne avevano tanti, e così…
E un caso era il mio, che ho perso solo la prima, un caso era dove i bambini erano tanti, perché più ce n’erano più morivano, tanto che le madri si erano anche abituate a non piangerli troppo.  E per consolarle, dicevano loro che li avevano messi subito in Paradiso. (10).

Giuseppe Di Sopra detto Bepo di Marc. Nonno con nipoti. Da archivio Giuseppe Di Sopra.

***

E dopo il parto si doveva riposare, ma la mia vecchia pretendeva che pulissi le scale. E non era per non fare, ma persino un anziano ha detto a mio padre che mia madre doveva vergognarsi a farmi lavorare appena partorito, perché “dopo il parto si ha la cassa sotto il letto per quaranta giorni”.

Ed a me si è bloccato, una volta, anche il latte, ma è accaduto perché dopo il parto mi ero bloccata tutta, ed ero diventata tutta gialla, ed ero allora in Francia. Ed il professore da cui sono andata perché ero esaurita, mi ha detto che se non mi fossi curata sarei andata a remengo. Ed infatti ero ridotta senza sangue. E questo è accaduto in conseguenza dei dispiaceri. Ed insomma ero diventata tutta gialla.

***

E le donne, a quei tempi, andavano a lavorare, gravide, fino all’ultimo giorno prima di partorire, e una di Ludaria, Anna di Mondo, ha partorito “tas Codas sore la fornâs”, (11) dietro uno stavolo. E poi ha ripreso il fascio sulla schiena, e, con il bimbo in braccio, è scesa a casa. E dovete credermi, ed anche Mina (12) sa questa storia, forse (13). Ed ha fatto tutto da sola. Magari forse non aveva le mutande, perché le donne, allora, non portavano le mutande. Avevano la biancheria, ma non avevano l’abitudine di mettere le mutande (14).
Mia madre, per esempio, diceva che aveva male alle ginocchia, e mio padre, Giacomo, le aveva portato dalla Baviera due paia di mutande di quelle felpate, perché potesse star calda. Quindi anche le donne potevano avere le mutande, ma erano aperte sotto, e servivano solo per tenere la gamba, ma non per nascondere, per coprire (par platâ).

E questa donna, Anna, ha appoggiato il gerlo, è andata dietro lo stavolo che era nostro (15), che è stato utilizzato, poi, anche dalla tua vecchia, Alido, da Elsa, ed ha partorito da sola, ha fatto tutto da sola. E poi ha preso il fascio ed il bimbo, che almeno poteva lasciare il fascio lì, ed è arrivata a Ricjûl.

***

E sai, Laura, allora nessuna madre diceva niente alle figlie, e si imparava tutto così, po’. E non sapevamo neppure che ci dovevano venire le mestruazioni, e più di una si spaventava ed urlava, alla vista del primo sangue. Invece io non sono stata così stupida da gridare, ma, insomma, non ho preso paura solo perché quando ero ragazzina avevo incominciato ad andare a lavorare con altre ragazze: a portare sabbia, ad andare a far fieno, e si parlava tra di noi …

***

E dopo partorito si è sfinite, ed era abitudine che le madri dessero alle figlie che avevano partorito, per un paio di giorni, solo ‘panada’ senza condimento, senza burro, per paura che si alzasse la febbre (16). Ma poi, qualche giorno dopo, credo incominciassero a dare loro qualche uovo, ma povere donne, e poveri parti!  E quando sono andata in Francia, mi dicevano: “Madame, ci vogliono polli per superare il parto, non pane e acqua!” – perché io avevo raccontato come si usava fare qui».

***

Laura chiede se, magari a causa del portare pesi e dell’uso del gerlo, le donne facessero fatica a partorire. Ma Emma non sa rispondere, sa solo che spesso vi erano difficoltà, anche a causa di come il bambino si presentava.

Emma: «Mia madre, per esempio, ha fatto una bambina che si è presentata con il braccino sopra la testa, e non riusciva a nascere da sola. E così ha dovuto venire il medico e girare la bambina, perché potesse uscire. Ma è morta subito, però dopo esser stata battezzata, in braccio alla mamma. E questa era quella prima di me.
Invece a me è successo questo. Mi trovavo sempre a ‘las Codas’, e, incinta di Mirca, stavo tirando la corda per stringere il fascio. Ma improvvisamente è uscito il pezzo di legno (Clònc), della corda, e, con la spinta, sono caduta giù, andando a finire dietro lo stavolo, e avrò fatto venti metri di caduta in discesa sulla pendenza del sentiero. C’era infatti un sentiero che andava su, in mezzo al prato, e da lì, dove mi trovavo, sono andata a finire giù, dietro lo stavolo! Poi mi sono alzata e sono scesa verso casa, ma non mi è successo niente, non ho perso la bambina.

Ma dipendeva anche dalla donna se poteva avere un aborto naturale o meno, perché, forse, poteva accadere di abortire naturalmente (dispicjâ) alle donne che erano più deboli perché non mangiavano a sufficienza, o perché, facendo un figlio dopo l’altro, si sfinivano».

Laura chiede se vi fossero anche aborti provocati. Emma non dice di no, ma dice che comunque non si sarebbe saputo, perché, anche se fosse accaduto, nessuno avrebbe detto niente, nessuno avrebbe parlato.
E aggiunge che, per sentito dire, una volta chi voleva abortire faceva bollire crauti e ruggine, e poi ne beveva l’acqua, almeno così raccontavano i vecchi.

Giuseppe Di Sopra detto Bepo di Marc. Donne rigoladotte. Da archivio Giuseppe Di Sopra.

DONNE TRA FIGLI E FAME.   

E allora c’erano tanti bambini ed alcuni vivevano, altri morivano. Sarà stato il Signore, Dio, che avrà detto: “Qualcosa si prende e qualcosa si lascia”. Ed andava a finire che i bambini morivano perché c’era troppa miseria nelle famiglie, e le donne, facendo un figlio all’ anno, non riuscivano mai a riprendersi bene da un parto, che erano già di nuovo incinte. Pensate: una mia zia ne aveva uno nato nel 1892, uno nel 1894, uno nel Novecento … Ed uno dei suoi figli era stato tirato fuori con il forcipe, e gli era restata la testa un po’ storta. E dopo aveva avuto due bimbe, una all’anno.

E vi era chi aveva la culla per porre il neonato, chi lo metteva su di un piccolo pagliericcio a terra. Ma anche i grandi dormivano nella foglia (17), mica come ora che si ha il Permaflex!

 E dopo il parto e i quaranta giorni di riposo, le donne riprendevano a lavorare, e portavano il bambino in montagna con sé nel gerlo. E andavano sui monti con magari uno in pancia, uno nel gerlo, ed uno per mano! Ma, se c’era una nonna in casa, lasciavano i figlioletti con lei. Ma se le nonne non c’erano … Mica potevano lasciare i bimbi da soli!

Pensa, Laura, che c’erano donne che facevano un figlio all’anno, e come vuoi che avessero la forza di lavorare come asini ed al tempo stesso seguire i bambini? E non avevano neppure finito di allattarne uno, che ne avevano un altro in pancia. Pensa un po’ tu: un bimbo non aveva neppure terminato di poppare, che già ce n’era pronto un altro! E poi questi poveri bimbi (chesta biada canaja) vivevano in famiglia con i vecchi, e non era sempre facile.

E c’era una donna I. (18), che aveva sei o sette bimbi, ed andava in montagna, e quando ritornava a casa, ai bambini più grandicelli dava da mangiare in una scodelletta ciascuno, mentre doveva pascere i più piccoli nella sua scodella, tanto era povera. E, per fame o sete che avessero ancora, quando avevano finito di mangiare, avevano finito, e non c’era altro. E da mangiare faceva una cognata, mentre lei e le altre donne di casa andavano a lavorare. Sai la cognata faceva la padrona, perché era una donna della famiglia, di buona famiglia, non una nuora, e misurava tutto (19).

Ed i bambini mangiavano quello che mangiavano i grandi, e le famiglie davano loro da mangiare quello che potevano, a seconda della loro disponibilità. E poi, fin dai cinque anni, se erano forti, andavano ad aiutare le madri in montagna. Ed a quell’età andavano già a prendere acqua alla sorgente da portare alle madri che falciavano o facevano i covoni. Ed andavano pure a portare loro il gelo con il pranzo, e facevano tutto quello che comandavano loro di fare. E veniva loro dato anche un piccolo rastrello perché aiutassero a tirar vicino il fieno. Ed i bambini venivano spediti, dalle madri e zie, pure a raccogliere, con un piccolo contenitore di latta, mirtilli (moras) da mangiare con la polenta.
Ma io ed Elsa andavamo, da piccole, anche a portare il letame con il ‘geùt’, con una piccola gerla.

E tante bimbe già a sei anni aiutavano anche in casa: lavavano i piatti, collaboravano a lavare i pavimenti … E io a dieci anni, quando mia madre si è ammalata, ho dovuto andare al suo posto a governare le vacche, ed ho iniziato, pure, ad andare a prendere l’acqua alla fontana che non era vicina alla stalla, con il ‘buvinç’ ed i secchi.

***

E c’erano povere donne, che dovevano patire di tutto. E mangiavano polenta e formaggio, e poi davano quello che avevano masticato ai bimbi più piccoli, cosa che non è neanche igienica. Figurati a me, che non posso vedere neppure masticare i gatti, che impressione facevano queste donne, che nutrivano così i loro bimbetti!

E si usava allora fasciare i neonati, e anch’ io ho fasciato i miei. Ivo però non l’ho fasciato, perché se aveva solo una goccia di pipì piangeva. Gli mettevo solo un maglioncino e dei ‘pangics’, fatti con la tela.

Ed ho abituato i miei figli, fin da quando avevano un anno, a fare i bisogni da soli sopra un foglio di giornale, e poi lo prendevo e lo buttavo nel gabinetto, e così io non dovevo lavare troppo e loro restavano puliti. Ora si usa il vasetto, ed è tutto un altro metodo, ma allora non si aveva vasetto, e così io li avevo abituati con il giornale ed a non sporcarsi.
Invece a casa di A. i bimbi usavano far tutto addosso. E non so se hai conosciuto P., che si è ucciso in Francia: lui faceva anche da ragazzo, i bisogni a letto». (20).

Gnà Emma. Immagine scattata da Laura Matelda Puppini.

Poi Emma si distrae perché ha messo il pollo a cucinare, e teme che bruci, e mentre Laura le chiede di continuare a raccontare, precisa che lei non ha più tempo da perdere, perché ne ha già perso troppo, perché c’è la cena da preparare, la biancheria da stirare

***

Per ora mi fermo qui, perché l’intervista ad Emma è davvero lunga e ricca di informazioni e spunti, che ci riportano ad una vita che accomunava Rigolato ad altri paesi della Carnia.

Laura Matelda Puppini

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  1. Probabilmente però queste attività si riferivano all’autunno, perché d’ inverno una spessa coltre di neve copriva il paese.
  2. Questo ultimo fieno era composto, in genere, da leguminose. Poteva poi seguire un terzo taglio, detto muiart. (Marchetti Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, nota54, p. 26).
  3. Bains è una località posta lateralmente alla località Piani di Vas, e che si raggiunge con un sentiero che parte dalla stessa.
  4. Località tra Chiampiciulon e Piani di Vas.
  5. Emma pronuncia detta località ‘Sedos’ ma non sono riuscita a capire dove fosse. Ad Ave Lepre pare di aver già sentito dire così, ma pensa che forse sia un luogo non in comune di Rigolato, e fra quelli raggiungibili da Piani di Vas; ‘sedos’ è un animaletto che si trova nelle pozzanghere, che pare un filamento bianco, e che infetta l’acqua tanto da renderla non potabile, anzi da causare la morte, almeno così dicevano ai bambini. Quindi può darsi ci fosse una zona con pozzanghere o terreno umido così chiamato. In alternativa potrebbe trattarsi della località Sierolos’ che si trova sotto Piani di Vas, come suggeritomi da Elio Candido, o ‘Nalnedis’, ‘Nalnedos’ in rigoladotto, come suggeritomi da Daniele Candido, che si trova, anch’ essa, tra Ludaria e Piani di Vas, sopra la fornace ove si cuocevano i mattoni. Ma da quello che si capisce dal contesto, era una località in alto.
  6. Presumibilmente di canapone.
  7. Anche Anna Plozzer Squecco racconta la stessa cosa per Cavazzo Carnico. (Cfr. Anna Squecco Plozzer ‘Frûts a Cjavaç’, in: www.nonsolocarnia.info).
  8. Qui Emma intende che non avevano magari visto donna da mesi.
  9. Pare qui, che la madre di Emma, Virginia Puschiasis in Pellegrina, giustificasse la morte della bimba con una specie di maledizione, di punizione per aver provocato danno ad altra persona anche se non volontario. Qui ritorna un pensiero popolare, che vuole ci siano avvenimenti negativi che ti condizionano la vita, anche se il tuo agire non è stato volontario, che portano con sé una specie di maledizione. Il mondo in particolare femminile, allora, era pieno di interpretazioni che non seguivano quello che oggi chiameremmo un pensiero razionale. Ora ci è molto difficile capire, ma non solo, ci è molto difficile conoscere il mondo di allora.
  10. Intorno a affermazioni di questo tipo, era nata la credenza che, portando il corpicino del bimbo morto alla nascita alla chiesa della Madonna di Trava, ed affidandolo al prete ed ad una donna del luogo, attraverso un miracolo, il neonato potesse resuscitare per esser battezzato ed andare in Paradiso. Naturalmente detta pratica non era gratuita ma era attuata dietro un compenso od una largizione alla chiesa. Questo però non era piaciuto al Vescovo, che aveva posto termine a queste presunte resurrezioni.
  11. La fornace si trovava sopra la località di ‘Ricjûl’, dove ci sono gli stavoli. E sopra la fornace si trovavano anche le località: ‘Las codas’ , per andare verso ‘Miol’, e ‘Nalnedis’.
  12. Mina è Giacomina Candido Lepre, nata il 25 agosto 1937, morta all’ospedale di Udine nel luglio 2014.
  13. Qui Emma usa un modo antico di confermare quanto detto; chiama cioè altro testimone. Ma aggiunge un forse, ad intendere che non è sicura che Mina, fra l’altro della generazione dei suoi figli, fosse stata al corrente del fatto.
  14. Anche mia nonna Anna Squecco Plozzer narrava che le donne, ai tempi in cui sua madre era giovane, non indossavano in genere le mutande.
  15. Qui Emma sottolinea in modo marcato la proprietà dello stavolo, che era di Alfredo Gussetti, suo marito. Ma ognuno, allora marcava la proprietà in modo deciso, basti ricordare quanto narrava Romano Marchetti. Dopo una nevicata, la neve aveva spezzato il ramo di un giovane melo, a Maiaso, ed egli, bambino, guardando dalla finestra, se ne era rammaricato con sua madre. Ma questa gli aveva detto che non doveva essere triste, perché il melo non era loro, ma della zia Dalia.
  16. Qui Emma riporta un pensiero popolare, che non aveva alcun fondamento scientifico, e cioè che il grasso facesse male alle puerpere e che dovesse essere evitato.
  17. Avevano i pagliericci fatti con una sacca di tela riempita da foglie di granoturco secche.
  18. Il nome e la casata della donna sono specificati, ma li ometto perché ha discendenti e per rispetto alla sua persona.
  19. Questo commento riflette una diceria popolare, che poteva aver fondamento come no.
  20. Può darsi che il ragazzo avesse qualche problema di incontinenza fecale, o neurologico, ma allora le conoscenze mediche erano scarse.

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L’immagine che accompagna il testo ritrae gnà Emma, è stata scattata da Laura Matelda Puppini ed è la versione originale di quella elaborata in b/n che si trova all’interno dell’articolo. Laura Matelda Puppini

RINVIATO. Legambiente Carnia. Invito a: “Sui sentieri dei partigiani camminando in ricordo di Romano Marchetti”. 24 aprile 2019.

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Legambiente inaugurerà ufficialmente in Carnia un sentiero che è stato riaperto grazie al lavoro dei partecipanti ai Campi di Volontariato che l’associazione propone ogni estate nella nostra regione a partire dal 1998.

E’ motivo di orgoglio per noi invitare gli appassionati della natura e dell’ambiente montano a percorrere un itinerario e a conoscere luoghi di grande bellezza paesaggistica che sono anche legati ad alcune vicende storiche.

Il sentiero, che dal paese di Feltrone conduce alla località di Nastona e permette poi di proseguire per Pani lungo la strada comunale, è stato infatti utilizzato dai partigiani, in particolare nel duro autunno/inverno del 1944, dopo la caduta della Zona Libera della Carnia. Proprio in Nastona, come racconta Tranquillo De Caneva (il partigiano “Ape”) nel suo resoconto della “Battaglia di Pani”, fu respinto vittoriosamente un tentativo di attacco condotto dai tedeschi e dai cosacchi il 19 novembre del 1944.
Questi avvenimenti ci hanno spinto a dedicare il sentiero a chi allora combatteva per la libertà ed in particolare ad un personaggio leggendario, che fu fondamentale nel sostenere e dare rifugio ai partigiani della Osoppo-Garibaldi: Antonio Zanella, meglio noto come “L’Ors di Pani”.

L’iniziativa, in programma mercoledì 24 aprile, ha avuto il patrocinio dell’ANPI provinciale, delle sezioni carniche e dei Comuni di Enemonzo e Socchieve e sarà un’occasione anche per ricordare Romano Marchetti, il partigiano “Da Monte”, commissario delle Brigate Garibaldi-Osoppo Carnia, recentemente scomparso.

Ecco di seguito alcune informazioni utili a chi vorrà partecipare all’escursione di Mercoledì 24 aprile e percorrere il TROI da L’ORS

Punto di Partenza e Ritrovo: ore 10 a Feltrone (in Comune di Socchieve). Il paese si raggiunge lasciando la strada statale 52 a Mediis.

Itinerario: percorso ad anello con partenza ed arrivo a Feltrone (altitudine m. 696). Il sentiero, caratterizzato da un segnavia bianco-azzurro, inizia a monte del paese, staccandosi dalla strada asfaltata che si dirige, quasi pianeggiante, verso Est. Dopo l’attraversamento del torrente Filuvigna, raggiunti i bei prati di Duredia, si sbocca in breve sulla strada comunale che da Tartinis conduce a Pani, in località Nastona (Astona sulle cartine Tabacco), nei pressi di un’azienda zootecnica. Si procede con alcuni stretti tornanti lungo la strada asfaltata fino a raggiungere il belvedere su Pani, caratterizzato da un caratteristico albero isolato di faggio. Tornati per un breve tratto sui propri passi si arriva agli Stavoli della Congregazione (altitudine m. 1094) e da lì, passando per gli stavoli di Nolia, si rientra a Feltrone.

Dislivello: circa 450 metri sia in salita che in discesa

Tempi di percorrenza: circa 3 ore e mezza, comprese le soste

Difficoltà: sentiero escursionistico e tratti di strada. Richiedono attenzione solo alcuni passaggi su frane e l’attraversamento del torrente Filuvigna, in caso di portate di piena.

Abbigliamento: indispensabili scarponi e abbigliamento da media montagna

Pranzo: al sacco, a cura di ciascun partecipante

In caso di maltempo la camminata verrà spostata in un’altra data.

Marco Lepre, Presidente Legambiente Carnia. 

L’immagine che accompagna l’articolo è stata scattata da me ed è un panorama che si vede salendo in Pani. Laura Matelda Puppini

Invito all’incontro, promosso da Toscani in Fvg, che si terrà ad Udine il 30 aprile 2019 sulla figura di Rinaldo Cioni attraverso immagini e il carteggio Cioni – Nigris.

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Martedì 30 aprile 2019 sarò ospite dell’ Associazione ‘Toscani in Friuli Venezia Giulia’ che sentitamente ringrazio, per parlare, assieme al figlio, ingegnere Emilio, di Rinaldo Cioni di Empoli, direttore della miniera di Cludinico di Ovaro, ucciso dai cosacchi il 2 maggio 1945, attraverso il carteggio Cioni – Nigris, pubblicato, a mia cura, dall’ Ifsml sul n. 44 di Storia Contemporanea in Friuli. Verranno presentate anche immagini d’epoca. 

Rinaldo Cioni, ufficiale del R.E.I., che tante ne ha passate, come tutti, durante la seconda guerra mondiale, parla, verso la fine della guerra, all’amico Ciro Nigris, carnico, comandante partigiano, ufficiale del R. E. I., della sua nostalgia di Firenze, ma anche dei suoi tristi presagi, e affida a lui i suoi figli, in caso egli non ci fosse più. «Forse in quel tempo non ci sarò perché ho una grande nostalgia della mia Firenze ma vorrà dire che gli Italiani liberi di allora si ricorderanno di me in quel tempo». (Doc. 8. Lettera dattiloscritta di Rinaldo Cioni a Ciro Nigris, firmata 11.2.1945). Ed ancora:Non so come si andrà a finire… in caso pessimo lascio a te la cura di tutti i miei: volevo io educare i miei figli nello spirito di italianità ma se non mi sarà permesso sono certo dell’Amicizia di questo anno di lotta. (Doc. n. 12. Lettera dattiloscritta di Rinaldo Cioni a Ciro Nigris  26.3.1945). Ritorneranno ad Empoli le sue spoglie. Ed anche Rossana Rossi Cioni ci ha lasciato un triste, per lei, ricordo di quel fine guerra, da me pubblicato su www.nonsolocarnia.info con titolo: “Rossana Rossi Cioni. Eppure la guerra era finita … Ma … 1-2 maggio 1945. L’inferno di Ovaro”.  Pertanto vi invito all’incontro, patrocinato anche dalla Regione Toscana, dal Comune di Ovaro, dall’ Unesco,  su Rinaldo Cioni e Ciro Nigris dal titolo:

“CARO AMICO TI SCRIVO”

la corrispondenza tra il toscano RINALDO CIONI, direttore della miniera di Cludinico e CIRO NIGRIS,
capo di Stato Maggiore della Divisione Garibaldi Carnia

che si terrà

MARTEDÌ 30 APRILE 2019 ad Udine, alle ore 17.30 presso Aula Gusmani di Palazzo Antonini, via Petracco 8.

Rinaldo Cioni_locandina_

SIETE TUTTI INVITATI.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda questo testo rappresenta Rinaldo Cioni. P.S. Per vedere bene la locandina, riducete al 70% lo zoom. LMP.

 

 

 

 

 

Intervento di Marco De Paolis ad Udine. Processi ai nazisti per le stragi in Italia. Ed uccisero donne e bambini …

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Riporto qui l’intervento, tenutosi ad Udine il 4 ottobre 2018, del dott. Marco De Paolis, prima Procuratore Militare della Repubblica presso il Tribunale Militare di La Spezia, poi, dal luglio del 2008 al gennaio del 2010, Sostituto Procuratore Militare presso la Procura Militare di Verona, e, successivamente, Sostituto Procuratore Generale Militare della Repubblica presso la Corte Militare d’Appello di Roma, nonchè Docente di Diritto Penale, Procedura Penale e Diritto Penale Militare presso l’Accademia Navale di Livorno e presso la Scuola Marescialli e Brigadieri dei Carabinieri di Firenze, e di Diritto Penale Sovranazionale presso l’Università degli Studi di Milano “Bicocca”, ed autore di vari saggi. (http://www.carabinieri.it/docs/default-source/editoria/rassegna/curricula-comitato-tecnico-scientifico/de-paolis-marco.pdf?sfvrsn=ea177823_4).

Egli ha parlato dopo Paolo Pezzino, in occasione della presentazione del volume di cui sono ambedue autori: “La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013”, Viella ed, 2016. (Cfr. Paolo Pezzino. Il duplice volto dell’Italia nel secondo dopoguerra, e quella difficile giustizia per i crimini nazisti, quasi negata, in: www.nonsolocarnia.info). Ho inviato registrazione e trascrizione al dott. De Paolis, per approvazione, ma egli non mi ha risposto nel merito, pertanto, a firma mia, pubblico detto testo, che mi pare di grande importanza. E lo pubblico come l’ho trascritto e reso in italiano scritto, perchè la sua forza sta anche in quel parlare in prima persona. Se vi sono errori prego il dott. Marco De Paolis in primis di scusarmi ed avvisarmi.

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«Buona sera a tutti. Mi unisco anch’io ai saluti e ringraziamenti a tutti quelli che hanno trovato il tempo e la voglia di venire qui ad ascoltare, ed in particolare saluto il generale Luigi Federici, già comandante dell’Arma dei Carabinieri e tutte le autorità. Paolo ha già indicato bene gli scopi di questa collana, ed io posso precisare solo qualche aspetto. L’idea di scrivere questi volumetti (1) è nata nel corso dei sedici o diciassette anni in cui io mi sono occupato dei crimini compiuti dai tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale in Italia.

Sono io che mi sono occupato dei crimini compiuti dai tedeschi verso italiani.

In questo lungo percorso giudiziario, come in un crescendo rossiniano, mi sono sempre più meravigliato ed anche indignato, devo dire la verità, per quello che trovavo, per quello che leggevo, per quello con cui mi confrontavo. E questo è accaduto perchè ho vissuto, come magistrato penale, la cui funzione è quella  di accertare le responsabilità penali dei reati, una specie di paradosso, perchè da un lato si trattava di crimini particolarmente gravi, il massimo che si possa immaginare: stragi di civili, con  centinaia di bambini massacrati: Marzabotto e Montesole: 215 bambini sotto i dodici anni uccisi in pochi giorni, Sant’Anna di Stazzema: centodieci bambini uccisi ed oltre duecento donne; Oradour sur Glane: più di trecento bambini uccisi in un giorno soltanto, dall’altro, di fronte a queste cose inimmaginabili, vi era una quasi totale carenza di giustizia. Ora naturalmente io non sono, come posso dire, un illuso, un visionario, so benissimo che la giustizia terrena è qualcosa di irraggiungibile, però c’è anche un limite a questo.
Perché quando si ignora, mi verrebbe da dire deliberatamente, ma preferisco usare un termine più gentile: colposamente, in maniera del tutto superficiale le istanze di giustizia di centinaia di migliaia di persone, qualche dubbio viene, ed è legittimo.

E poiché non c’erano un caso solo o due di questo tipo, ma molti casi, mi sono trovato sistematicamente a confrontarmi con una sostanziale ingiustizia. Ed allora io ed altri abbiamo incominciato a riflettere ed ad approfondire alcuni temi. E i dubbi aumentavano quando ci trovavamo di fronte a riflessioni effettuate da ambienti estranei a quelli giudiziari. E faccio due esempi, per spiegarmi meglio.

Furono inchieste giornalistiche ad aprire la via.

Questa stagione giudiziaria prende le mosse, sostanzialmente, da una inchiesta giornalistica. Noi infatti non abbiamo rincominciato ad accertare queste responsabilità grazie ad una efficiente, efficace, puntuale azione giudiziaria, ma perché dei solerti giornalisti hanno facilmente individuato un latitante, tale Erich Priebke, con una facilità ‘interessante: hanno raggiunto un criminale di guerra che viveva beatamente e spensieratamente in Argentina e lo hanno intervistato. Questa persona era un pericoloso criminale, responsabile, non da solo ma assieme ad altri, della morte di 335 innocenti, e viveva tranquillamente a Bariloche in Argentina. Solo allora la giustizia italiana si è ricordata che esisteva un mandato di cattura, sulla base del quale, questa persona veniva,  faticosamente, portata in Italia per essere giudicata.

E qui apro una piccola parentesi. Quando si parla di memoria c’è un bellissimo libro di Gherardo Colombo di qualche anno fa che si intitola, se non sbaglio, “Il vizio della memoria“, che andrebbe letto perché la memoria, su certe cose, su alcuni aspetti e fatti del nostro vivere, è un po’ ad intermittenza.

Ma il processo a Herich Priebke è stato un processo estremamente difficile, perché se qualcuno di voi torna indietro con la memoria ricorderà che ci furono due processi in primo grado: una sentenza annullata, una sentenza in primo grado che lo assolse, ritenendo esistesse la prescrizione, una sentenza di secondo grado che lo condannò a quindici anni di reclusione e poi due sentenze, una della Corte Unitaria d’appello e l’altra della Cassazione, che lo condannarono definitivamente all’ergastolo. Quindi questo susseguirsi è un aspetto che, anche nella fisiologia giudiziaria, fa pensare.

Ma adesso, tralasciando il processo Pribke, quello che è importante è che questa attività giudiziaria scaturì da una casuale attività giornalistica. Così come, in un certo senso, anche la mia attività giudiziaria dal 2002, quando fui nominato Procuratore Militare a La Spezia, a otto anni dalla scoperta del cosiddetto “armadio della vergogna”, cioè ad otto anni di distanza dal rinvenimento dei fascicoli sulle stragi naziste ‘archiviati’ in un mezzanino a Palazzo Cesi a Roma, incominciò con l’interrogatorio o, più correttamente, esaminando un giornalista tedesco che si chiama Udo Gumpel, e che spesso vedete anche in televisione, che aveva pure lui tranquillamente intervistato, senza problemi, quattro ex- appartenenti alla sedicesima  Divisione Reichsfürer SS, che erano responsabili delle stragi di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto, i quali vivevano tranquillamente nelle loro abitazioni con figli, nipoti, mogli, nuore e parenti e che nessuno aveva mai disturbato per chieder loro conto dei loro misfatti.

Peraltro si trattava anche di quattro persone i cui nominativi erano indicati nel primo rapporto sulla strage di Marzabotto, steso dai reparti investigativi della quinta Armata degli Stati Uniti d’America, che avevano compiuto le prime indagini nel ’44. Detti documenti sono a disposizione di tutti perché si trovano in un archivio pubblico, agli United Nations Archives a Washington. Eppure nessuno mai si era preso la briga di andarli a cercare.
Ed ancora più interessante è che anche l’unico processo sui fatti di Cefalonia, celebrato nel 2013, quattordici anni dopo la scoperta dell’armadio della vergogna, non è nato dall’attività giudiziaria scaturita dalla scoperta delle carte in palazzo Cesi, ma sostanzialmente da un articolo di un’altra giornalista tedesca, che si chiama Cristiana Koll, che nel 2001 pubblicava un bellissimo servizio su un giornale tedesco sui fatti di Cefalonia, che però non determinava l’apertura di indagini in Italia, come avrebbe, evidentemente, dovuto essere, come sarebbe stato ragionevole fosse, ma in Germania, e solo poi a Roma di rimbalzo, parecchi anni dopo.
Infatti solo sette anni dopo si apriva in Italia un’indagine sull’accaduto, per poi chiudersi e riaprirsi una seconda volta ed infine concludersi nel 2013.

Ecco, allora perché il titolo del libro. “La difficile giustizia”.

 Ecco perché il libro: “La difficile giustizia” ha questo titolo, che ha un senso. E chi avrà la bontà di leggerlo, non troverà delle valutazioni, ma troverà delle indicazioni e  delle informazioni. Perché non compete sicuramente a me fare, al di fuori dell’attività giudiziaria, delle valutazioni.
E così se qualcuno leggerà il libro troverà delle indicazioni, con i link, di atti parlamentari che riguardano queste vicende, e di lavori di commissioni parlamentari di inchiesta e di commissioni della magistratura militare che sono accessibili a tutti, e potrà verificare da solo le dichiarazioni che, nel 1999, nel 2000, nel 2001, nel 2003, (e quindi ben successivamente alla ‘scoperta dell’armadio’), sono state rilasciate da alcuni soggetti pubblici, dai miei colleghi o appartenenti al mondo delle istituzioni relativamente a questi fatti, informando le varie commissioni dell’impossibilità di procedere a queste indagini perché ormai era tutto prescritto e non vi era più la possibilità di individuare eventuali responsabili in vita.

A fronte di queste dichiarazioni vi segnalo che la Procura Militare di La Spezia, da me diretta dal 2002, tra il 2003 ed il 2008, ha celebrato 11 processi, che sono poi proseguiti, negli anni successivi. E dico 2008, perché in tale anno fu soppressa la Procura militare di La Spezia, ed il lavoro continuò sempre svolto dal sottoscritto prima presso la Procura Militare di Verona e poi presso quella di Roma. Bene: dal 2003 al 2013 vi sono state 57 condanne all’ergastolo in primo grado, quindi parecchi anni dopo il rilascio di queste dichiarazioni. E siccome quando si digita su internet il mio nome o quello di qualche altro magistrale militare che ha fatto queste indagini, si trova di tutto, come accade su internet, perfino qualcuno che mi ha definito un pericoloso comunista, un sovversivo ecc. ecc., segnalo che in Germania, nel 2009, è stato condannato all’ergastolo il Maggiore Josef Eduard Scheungraber per la strage di Falzano di Cortona di Arezzo, ed è stato condannato anche in Italia dal Tribunale militare di La Spezia per lo stesso fatto; che il tenente Siegfried Boettcher è stato rinviato a giudizio, nel 2005 per la strage di Civitella in Val di Chiana, e non si è proceduto a giudizio solo perché nel 2005  Boettcher è morto. E, successivamente, vi sono state le condanne a John Demjanjuk, a Monaco, per i crimini a Sobibor; a Reinhold Hanning, che è stato condannato nel 2016 a Detmold per i fatti di Auschwitz; ed a Jhoann Breyer, ed altri, tutti criminali tedeschi giudicati e condannati da tribunali tedeschi pochi anni fa. (2014- 2015- 2016).

Noi in Francia queste cose le impariamo a scuola. E in Italia?

Inoltre io sono rimasto molto colpito, tre o quattro anni fa, mentre aprivo un’indagine sulla stessa, dalla strage di Oradour sur Glane, che forse in Italia è poco conosciuta, anche se è la più grande strage di civili avvenuta in Europa da parte dei nazisti. Il 10 agosto del 1944, questo villaggio, che si trova in Francia, venne devastato da un Reggimento della Divisione Das Reich, la terza delle SS, Der Führer.  
In poche ore vennero uccisi 647 civili, fra cui 302 bambini, e in mezzo a questa carneficina finirono pure una quindicina di italiani: due famiglie alto- venete di migranti, con 7-8 bambini.

Anche in questo caso, ho aperto l’indagine grazie ad una notizia giornalistica, e, nell’atto di cercare chi nominare come mio collaboratore per tradurre la documentazione francese che riguardava detta strage, incontrai un giovane studente francese residente a Roma, e, nel colloquio preliminare, gli chiesi se conoscesse i fatti di cui trattavamo per capire se ne fosse informato. Ed egli, in maniera molto risentita, come fanno  i francesi quando si innervosiscono, mi rispose: «Ma certo, ci mancherebbe. Noi le studiamo a scuola queste cose!». Io vorrei sapere se uno studente italiano conosce due o tre delle stragi più importanti avvenute in Italia, a meno che non sia qualcuno che è nato nel paese, regione o provincia in cui hanno avuto luogo, e sono abbastanza sicuro che non troveremo una risposta del genere.

Informare e documentare, questi i nostri obiettivi.

E questo è un altro degli aspetti che mi ha spronato a tentare un’iniziativa editoriale che definirei quasi un po’ didattica, perché cerca di dare un contributo alla formazione, all’educazione, all’istruzione dei giovani, e, contemporaneamente, (e questo penso sia l’aspetto più qualificante al di là di quello che noi possiamo scrivere in questi nostri libri), a pubblicare i principali atti processuali, che meglio di ogni altro commento possono far capire quello che è successo, quello che è avvenuto.
Quindi dato che noi sappiamo bene che gli atti giudiziari non sono facilmente reperibili perché spesso noi siamo vittime della burocrazia e delle normative, e non è facile avvicinarsi ai nostri archivi, ecco che con questa pubblicazione, soprattutto con la parte che proprone i link, abbiamo ritenuto di fornire uno strumento buono di conoscenza per le comunità, per i familiari, per i sopravvissuti che così possono rendersi conto da vicino di quello che ha riguardato la loro storia familiare, ma anche per gli studenti e gli appassionati di storia, che possono così più facilmente avvicinarsi a questo tipo di argomenti. E poi chissà … se qualcuno andrà a cliccare su quei link che abbiamo messo e vorrà fare un po’ di paragoni, può darsi che qualche idea e qualche considerazione migliore potranno scaturire.

Non a caso, e prima lo ha ricordato Paolo Pezzino, in maniera simbolica e significativa, tra i documenti che abbiamo pubblicato nel primo libro, io ho inserito il testo dell’art. 112 della costituzione, forse in un modo che qualcuno potrebbe ritenere un po’ provocatorio, ma quando si parla di leggi costituzionali, fondamento del nostro Stato, non si provoca mai nessuno, semmai si ricorda qualcosa che dovrebbe essere patrimonio culturale di tutti. E l’art. 112 della Costituzione stabilisce il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Un altro aspetto che ho voluto approfondire nella parte che mi ha riguardato, sono i principi della disciplina militare, cercando pure di evidenziare alcuni aspetti poco conosciuti di queste vicende, che poi vengono riportate nella migliore delle ipotesi in maniera parziale, spesso in maniera infedele ed addirittura travisata, deformando completamente la realtà, ed impedendo un corretto esercizio della memoria.

Ordini criminosi od illegittimi: il dovere per il militare di disubbidire, dal 1978 in poi. Ma anche prima …       

Noi abbiamo una bellissima legge, la n. 382 dell’11 luglio 1978, che si chiama: ‘Norme di principio sulla disciplina militare‘, che gli amici in prima fila, ed anche in terza fila e più in là, conosceranno sicuramente, che stabilisce un principio molto importante per le nostre Forze Armate, e che è stata oggetto anche della mia prova di diritto penale militare al concorso in Magistratura Militare. Essa tratta il problema dell’obbedienza o disobbedienza agli ordini illegittimi. E in quella legge si fa riferimento non solo all’obbligo per il militare di non eseguire gli ordini illegittimi, ed a maggior ragione gli ordini criminosi, ma si indica, pure, che egli deve, poi, farsi parte attiva per evitare che questi ordini possano raggiungere lo scopo illecito o criminale. E quindi, facendo tesoro di quello che avevo studiato all’ università ed anche durante il mio servizio militare, mi sono reso conto che questi principi sull’obbligo di disobbedire per il militare all’ordine palesemente criminoso erano un qualcosa che era, sostanzialmente, la spina dorsale di questi fatti. 

Invece, nella pseudocultura, nel sottobosco culturale che sta sotto questi argomenti, ci si trincera spesso e volentieri dietro il paravento dell’ordine, per cui sotto le armi od ancora meglio in guerra tutto è possibile perché tutti devono eseguire gli ordini. Ma nel regolamento di disciplina militare precedente a quello attuale, si diceva che, e mi corregga se sbaglio, generale, una delle qualità della disciplina era che l’obbedienza doveva essere cieca. Pensate che diversità rispetto al mondo attuale. Ma in realtà così non era, perché qualsiasi comandante sa che non può esigere l’esecuzione di crimini dai propri sottoposti, a meno che non possa contare su di un manipolo di criminali.

E se qualcuno avesse ancora qualche dubbio su questo, io ricordo sempre una bellissima osservazione che fece Paolo Pezzino. Io e Paolo Pezzino ci siamo conosciuti perché nominai Paolo Pezzino consulente tecnico della Procura Militare di La Spezia nei primi grandi processi che svolsi: Sant’ Anna di Stazzema e Marzabotto. Nel corso del primo dibattimento sul caso di Sant’ Anna di Stazzema, con riferimento alle direttive criminali di Kesselring, quelle che ha menzionato poco fa, egli disse che se tutti i comandanti tedeschi in Italia avessero eseguito le direttive di Kesselring così come furono eseguite dai comandanti della sedicesima Divisione SS, noi in Italia non avremmo avuto 25.000 morti da crimini di guerra, ma avremmo avuto milioni di morti.  Perché grazie al cielo, la stragrande maggioranza dei comandanti militari tedeschi in Italia non erano criminali. Questo rende evidente la criminosità di quello che è successo.

Per massacrare donne e bambini occorre un tasso di criminalità non di poco conto. Infatti non si può eseguire un ordine del genere se non si è criminali o completamente dementi. Per poter massacrare più di 4000 soldati italiani a Cefalonia, c’è voluta la costituzione di due gruppi di combattimento appositi, che sono venuti a prendere il posto di quelli che non riuscivano a fare i macellai.

Ecco questi sono alcuni degli argomenti su cui, tra i tanti, ho cercato di riflettere.

Ecco questi sono alcuni degli argomenti su cui, tra i tanti, ho cercato di riflettere, e che penso possano essere utili, attuali, perché purtroppo la guerra ha la stessa ‘sostanza’ in qualsiasi epoca. Quindi quello su cui abbiamo riflettuto in queste indagini, in questi processi, è qualcosa che può sicuramente servire ai nostri giovani, ai nostri ragazzi, ai nostri militari che, grazie al cielo, crescono in un ambiente culturale, spirituale, di valori completamente diversi.
Ma noi però dobbiamo conoscerli questi valori ed anche questi disvalori, e, scusate la presunzione, ma con questi processi c’è la possibilità di fare un po’ di chiarezza. Un caso per tutti. È stato nominato qui il caso delle ‘fosse Ardeatine’. C’è voluta la Corte di Cassazione nel 1999, 55 anni dopo i fatti, per stabilire che l’azione di via Rasella non era un attentato ma era una azione di guerra, a fronte della quale non vi era la possibilità giuridica di eseguire quella che impropriamente viene chiamata una rappresaglia, perché le rappresaglie non hanno un contenuto penale, tanto che si parla di rappresaglia in maniera impropria, perché le rappresaglie riguardano i rapporti fra Stati, non le reazioni a comportamenti individuali.

Fra l’altro, ricordo a me stesso: come una rappresaglia si sarebbe potuta realizzare contro il proprio stesso popolo? La cosiddetta ‘Repubblica Sociale’ e i tedeschi che occupavano l’Italia avrebbero fatto una rappresaglia contro i propri sudditi? Semmai avrebbero dovuto prendere dei sudditi che erano nel territorio controllato dal Re, ed allora quella sarebbe stata una rappresaglia. Basterebbe questo aspetto, per esempio, per far riflettere come siamo, in questo caso come in altri, fuori da ogni regola del diritto.  

Pertanto lo scopo di queste nostre riflessioni è quello di cercare di dare dei punti fermi, nell’ottica storica, a chi fa il mestiere dello storico, ed è quello di rendere note delle cose su cui, nella migliore delle ipotesi, è caduta la prescrizione culturale o la prescrizione intellettuale, a chi, come me, fa un mestiere diverso, un mestiere di ‘luce’. Ciò è reso ancor più necessario dal fatto che il pericolo di travisamento o oblio potrebbe derivare anche da internet, che è una cosa bellissima, ma diffonde anche molto rapidamente delle pseudo notizie o peggio ancora delle informazioni non vere, non veritiere, inverificabili. Questo pertanto è il senso della pubblicazione, quello di cercare di far conoscere, in qualche maniera, quello che è avvenuto nelle aule giudiziarie di qualche tribunale militare. Dal dopoguerra ad oggi i processi che abbiamo celebrato senza grande notorietà, senza grande diffusione mediatica, a La Spezia e poi, successivamente, a Verona ed a Roma, sono stati quelli con il maggior numero di parti civili che si siano viste dal dopoguerra ad oggi. Questo per il semplice fatto che stiamo parlando di fatti che hanno interessato centinaia di migliaia di famiglie italiane. Certamente sono fatti vecchi, ma nel nostro ordinamento, così come negli ordinamenti giuridici dei paesi civili, esiste l’imprescrittibilità dei fatti più gravi, dei reati più gravi.
E io ricordo sempre, quando qualcuno mette in discussione, in maniera che io reputo insolente, l’opportunità o la doverosità di compiere questi processi anche a distanza di tempo, che, a parte l’obbligo previsto dall’articolo 112 della costituzione, il lutto, il danno per la parte civile non va mai in prescrizione: si è orfani per sempre.

E sinceramente, quando nell’aprile del 2002, praticamente il giorno successivo alla mia presa di possesso del mio ufficio presso la Procura Militare di la Spezia, in televisione guardai il servizio di Udo Gumpel su quei quattro ex appartenenti alle SS che si diceva alla televisione avessero massacrato centinaia di italiani, e sentii che rispondevano tranquillamente alle sue domande, perchè nessuno, sino ad allora, li aveva mai disturbati per chiedere loro conto delle proprie azioni,  ho capito che c’era qualcosa che non andava, che c’era qualcosa che non poteva assolutamente esser tollerato, perché, diversamente, avrebbe messo in discussione la mia stessa funzione.
E quindi ho trovato assolutamente naturale svolgere semplicemente il mio dovere. E questo, benché fosse qualcosa di straordinario, nel senso che usciva dall’ordinarietà dell’inattività precedente, ed era qualcosa che andava, in qualche maniera, illustrato anche con un linguaggio accessibile a tutti, anche a tutti coloro che non riuscivano a seguire i processi, anche perché, tra l’altro, erano processi che erano poco pubblicizzati.

Pensate che all’ultimo processo che abbiamo svolto, quello per la strage di Cefalonia al tribunale militare di Roma, laddove abbiamo ascoltato decine di testimonianze di sopravvissuti della Divisione Aqui, in aula c’erano pochissimi uditori, poco più di qualche parente, nel momento in cui si ricostruiva, anche in maniera difforme da quella che si legge in molti libri di pseudostoria, quello che era successo a Cefalonia. E questa è una cosa che mi ha lasciato molto perplesso. Quindi nessuna presunzione di chiarire ‘misteri d’Italia’, ma, sinceramente, un tentativo di fare memoria di quello che è stato e di quello che dovrebbe essere da tutti conosciuto. Mi fermo qui e vi ringrazio per la vostra attenzione».

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(1) Il riferimento è ai volumi della collana: “I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia”, di cui sono usciti 3 volumi: Marco De Paolis, Paolo Pezzino, “La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013”, Viella ed.; Marco De Paolis, Paolo Pezzino, Sant’Anna di Stazzema. Il processo, la storia, i documenti, Viella ed., 2016, e Marco De Paolis, Isabella Insolvibile, Cefalonia il processo, la storia, i documenti, Viella ed., 2018. 

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La registrazione e trascrizione della relazione del dott. Marco De Paolis è di Laura Matelda Puppini. Non mi consta che la trascrizione sia stata rivista dal dott. Marco De Paolis. 

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 


Laura Matelda Puppini. “25 aprile: festa della Liberazione d’Italia. Da che cosa?”– Tarcento 27 aprile 2019.

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Ringrazio il Sindaco di Tarcento, il comune di Tarcento, e le associazioni combattentistiche d’arma presenti.

E dico subito che è giusto che esse siano presenti, perché molti partigiani erano stati nelle Forze Armate, erano stati ufficiali sottoufficiali e soldati dell’Esercito Italiano, basti ricordare Mario Candotti, comandante della Divisione Garibaldi Carnia: ufficiale dell’Esercito Italiano, reduce di Grecia e di Russia, poi, nel dopoguerra, Presidente della Sezione A.N.A. di Pordenone o Romano Marchetti, osovano, del Comando Unificato Garibaldi – Osoppo Carnia, ufficiale pure lui, e reduce di Grecia. E molti andarono sui monti per non entrare nell’Esercito tedesco o lavorare per l’occupante nazista, come richiesto, in Ozak, dal Gauleiter Friedrich Rainer, con il bando di leva (servizio di guerra) obbligatorio per le classi 1923-1924-1925, datato 22 febbraio 1944.

E come non ricordare l’eroica difesa di Porta San Paolo a Roma, da parte dei Granatieri di Sardegna, che iniziarono la resistenza romana, dei Carabinieri, dei Cavalleggeri del Genova Cavalleria, dei Lancieri di Montebello, insieme alla popolazione, mentre il re e Badoglio erano fuggiti, e chi doveva comandare la difesa di Roma, il generale Carboni, aveva cercato di unirsi a loro? Essi resistettero ai nazisti, facendo scrivere a Roberto Battaglia, nel suo: Storia della Resistenza italiana 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945. Torino 1964, che in quella resistenza disperata, dispersi in uno spazio quanto mai vasto, isolati l’uno dall’altro, si mischiarono insieme ceti sociali diversi e generazioni diverse, si trovarono uniti l’operaio e l’ufficiale, il vecchio e il ragazzo; ed essa rappresentò uno dei primi bagliori dell’unità della Resistenza. E Roma, la capitale, lasciata senza un piano di difesa, grazie al contributo di militari e civili, non cadde senza resistere, senza una eroica resistenza, che lasciò molti corpi senza vita sul terreno. (1).

Siamo qui per ricordare la Liberazione d’Italia, della nostra Patria, ma anche dell’Europa intera, ma da cosa? Vorrei far riflettere, per prima cosa sul termine ‘liberarsi” e “Liberazione”. Nel nostro parlare comune, quando per esempio abbiamo un oggetto che non ci piace più possiamo anche dire che ce ne liberiamo buttandolo via, e così se pensieri invadenti ed intrusivi, brutti pensieri riempiono la nostra mente ce ne vorremmo liberare, come vorremmo liberarci da persone indesiderate e da compagni di scuola strafottenti.

In sintesi il concetto di liberazione presuppone lo sparire di qualcosa di brutto, di non desiderato, di malvagio, ed anche la preghiera del Padre Nostro dice “E liberaci dal male”. 

Da che cosa l’Italia e quella parte di popolazione che non fu mai né repubblichina né collaborazionista, si liberarono allora? Cosa fece scendere migliaia di persone del nord nelle strade e nelle piazze, felici, urlanti di gioia, mescolata ai partigiani, dal volto disteso e sorridente, che avevano lasciato i monti, ed abbassato il fucile?

Innanzitutto la guerra, quella lunga guerra durata più di 4 anni, e piena di terrore ed orrore, passata, fino all’ 8 settembre 1943, al fianco di Hitler era finita, era finito il patto d’acciaio per sempre, era finita l’occupazione nazista, ed era finito il nazismo.  Non solo: era finita l’occupazione tedesca del centro nord: sparivano dai paesi, dai borghi, dalle vallate, le SS ed i repubblichini, la X Mas e le Brigate nere, la svastica e le mostrine scure. E sparivano anche la paura e l’angoscia per il domani, la paura di poter morire, di poter esser torturati, di trovarsi la casa bruciata.   

Poi era stata messa la parola fine al fascismo, al suo “credere, obbedire, combattere”, ad un sistema impositivo e repressivo violento che non lasciava libertà alcuna, non di pensiero, non di opinione, ma neppure di comportamento, basti vedere come volle irreggimentare le giovani leve nelle associazioni di partito la cui frequenza era obbligatoria, dai Figli della Lupa ai Balilla, dagli Avanguardisti alle Giovani Italiane, ed il suo piegare il mondo accademico, attraverso il giuramento di fedeltà al fascismo, ai suoi desiderata imposti.

Con la liberazione dal fascismo, da venti anni di regime, chi era sopravvissuto poteva ritornare a casa, i figli sarebbero da allora stati liberati dall’andare in guerra obbligatoriamente non si sa per cosa, non si sa per chi, per un impero che interessava a ben pochi, per gli interessi di qualche azienda. E finivano: il lavoro schiavistico obbligatorio per i tedeschi, i campi di concentramento, i rifugi antiaerei e le tessere del pane, lo stermino ebraico e radio Londra vietata, mentre i nazisti sconfitti si ritiravano nell’ Europa intera, grazie anche all’ Urss, oltre che alla Gran Bretagna ed agli Usa, che tante giovani vite di soldati avevano sacrificato, e grazie ai partigiani.  

«Non udremo più misteriosi schianti nella notte/che gelano il sangue e il rombo ansimante dei motori/ le case non saranno mai più così immobili e nere./ Non arriveranno più piccoli biglietti colorati con sentenze fatali./Non più al davanzale per ore, mesi, anni, aspettando lui che ritorni./Non più le Moire lanciate sul mondo a prendere uno qua uno là senza preavviso/, e sentirle perennemente nell’aria, notte e dì, capricciose tiranne./Non più, non più, ecco tutto; Dio come siamo felici». Dino Buzzati, da https://www.scuolazoo.com/info-studenti/news/25-aprile-frasi-liberta-aforismi-poesie-festa-liberazione-resistenza/).

Moriva per sempre il fascismo, morivano pure un certo tipo di linguaggio ed un modo di porsi, che non vorremmo più veder risorgere.  

Per la Carnia ed il Friuli quella liberazione volle dire però anche la ritirata dei cosacchi, di quei russi filonazisti che si erano insediati talmente stabilmente da avere cambiato nomi a borghi e paesi, e dall’ aver occupato pure l’ospedale di Tolmezzo, per la gran parte, ed il forno cooperativo, e che, dopo aver rubato, svaligiato, stuprato, si erano pure installati nelle case altrui.  

«In casa nostra abitavano Nina Iariscina e Vittoria Balkoskaia, che era veramente di matrice cosacca, di quei cosacchi che erano giunti qui con i carri» – mi raccontava giorni fa mia madre, la dott. Maria Adriana Plozzer. Ed a loro successivamente si aggiunse Nina Nizenko, che riceveva in camera sua un ufficiale tedesco, facendo arrabbiare mio nonno, Emidio Plozzer, padrone di casa, che invitava il giovane, quando lo sentiva scendere le scale ed andar via, parlando tedesco sua lingua madre essendo di Sauris, a non comportarsi così, e ricevendo in risposta, un «Buono papà, non arrabbiarti papà». Anche la morale personale e familiare veniva violata, allora.

Con la Liberazione, un sogno a colori prendeva il posto di una cappa di piombo, durata anni ed anni. E grazie anche alla resistenza europea ed ai partigiani che avevano collaborato alla vittoria, con il loro contributo in morti, fucilati, impiccati, torturati, uomini e donne, l’Italia poteva ricominciare ad esistere, insieme al suo popolo.  

Qui RESISTERE significa ESISTERE: scriveva il compianto poeta Pierluigi Cappello: e su questi due termini giocava Danilo Di Marco nella sua mostra sui volti rugosi dei partigiani. Ma, in quel 1943-45, si resistette per dare a tutti la possibilità di esistere di nuovo, e per dare alla Patria tale possibilità.   

La Patria era sui monti, intitola Chino Ermacora un suo vecchio testo, ed era allora così: infatti il destino della stessa stava nelle mani di quei ragazzi e di quelle ragazze che si opponevano ai nazifascisti, stava nelle mani di quella rete di collaboratori che si celavano in ogni vicolo della città, in ogni paese, in ogni borgata.

Lottare per ridare l’Italia agli italiani non fu un obiettivo solo di parte del movimento partigiano ma di tutti coloro che lottarono allora: basta leggere “Noi siamo tutto ciò che ci unisce” sul n. 1 di ‘Carnia Libera’, giornaletto garibaldino uscito a fine guerra per rendersene conto.

«La lotta partigiana è lotta di Popolo per la libertà. Ed è concetto fondamentale nostro quello di riunire tutte queste forze al conseguimento del fine comune: Libertà di Popolo e libertà di Patria. Nome profanato e santo quello di Patria Nostra, ante diviso e vilipeso per troppi anni quello di nostro Popolo. Noi lottiamo per il riscatto di quel nome, per la valorizzazione, in tutte le sue forme, di questa entità politica». (http://www.nonsolocarnia.info/n-1-del-giornaletto-partigiano-carnia-libera-organo-del-gr-brigate-garibaldi-nord-1-marzo-1945/).

E fu la guerra partigiana al fianco degli alleati, una guerra di popolo e di popoli uniti da uno stesso ideale: la cacciata dei nazifascisti, il mandare a casa Hitler, la sua svastica, i suoi campi di sterminio e concentramento, i suoi capetti e capò, il cancellare definitivamente il fascismo, Mussolini, il fascio littorio, la guerra e tutte le guerre, e per portare a quella liberazione a cui molti anelavano, dando alla stessa significati diversi ma uno comune: “Pace, pane, libertà”.  

Alla liberazione da tutto questo, che oggi si ricorda, si giunse con uno sforzo enorme di tanti, di molti, che andarono avanti nonostante il rischio personale, il terrore, l’orrore. «Urla il vento, fischia la bufera, scarpe rotte eppur si deve andar, a conquistare la rossa primavera, dove sorge il sol dell’avvenir», cantavano i garibaldini; ma il sogno di un avvenire migliore era presente anche negli osovani tanto che Bruno Cacitti, Lena, così dice: ««Allora c’era una matrice comune che fece andare questa gente partigiana sia che fosse della Osoppo sia che fosse della Garibaldi …C’era qualcosa che univa…  » ed era anche l’ideale di un futuro migliore per tutti.

In quelle giornate lunghissime, nelle notti fredde passate vigili con il fucile o lo sten in mano, un sogno si faceva largo nella mente dei partigiani, di ogni partigiano e comprendeva aspetti personali e comuni. Quella liberazione avrebbe voluto dire ritornare al paese ed agli affetti, sposarsi e fare una famiglia, mentre i Cln si sarebbero stabilmente insediati, a dar volto ad una democrazia in via di realizzazione.

«Dopo venti anni di regime e dopo cinque di guerra», – scrive Norberto Bobbio – eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi. Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà.” (https://www.scuolazoo.com/info-studenti/news/25-aprile-frasi-liberta-aforismi-poesie-festa-liberazione-resistenza/).

Liberazione. Ogni volta che ritorniamo indietro con il nostro linguaggio che si fa violento, con atti di derisione o di bullismo, un pezzettino di quella liberazione per avere la quale tanti italiani, uomini e donne, giovani e meno giovani morirono e soffrirono, se ne va, e ci fa ripiombare nella notte del fascismo e del nazismo, dei modi di essere che essi ci imposero, assieme alla violenza anche di stato.

«Noi non abbiamo combattuto per vincere la guerra, per fare gli eroi, ma per affermare un principio. Eravamo il simbolo di un popolo che rompeva con il passato […], che si ribellava al sopruso, alla violenza di chi, con la forza, intendeva imporre le proprie idee, la propria volontà.

In queste piane parole è rinchiusa l’essenza dell’unità della Resistenza: non nelle ideologie e nei partiti, che non conoscevamo, ma nella coscienza della dignità personale di ciascuno di noi stavano l’aspirazione e la speranza della rinascita dell’Italia». – dice Paola Del Din, partigiana.

Ma la liberazione non è ancora compiuta in questa Italia, che, anche se democratica, ha visto la morte per mano mafiosa di Falcone, Borsellino, Peppino Impastato, e vive molte contraddizioni.  

Questo lascio come spunto di riflessione a chi mi ha pazientemente ascoltato. Cosa possiamo fare ed evitare di fare noi, per confermare il valore di quella liberazione? Pensiamoci anche insieme, per non perdere pure il valore importante ed inderogabile della comunità e del crescere uno accanto all’altro in questa Europa che dovrebbe essere dei popoli e non della finanza, e per mantenere alti i valori della Costituzione Italiana nata dalla Resistenza, che decreta la libertà di espressione, e si fonda sul lavoro, e quindi sulla vita degna e decorosa che esso permette.

CONTRO OGNI NUOVO FASCISMO, CONTRO OGNI NUOVO NAZISMO, CONTRO OGNI FORMA DI VIOLENZA E SOPRUSO, CONTRO OGNI BULLISMO, OGGI E SEMPRE RESISTENZA!

W LA LIBERAZIONE D’ITALIA, W IL 25 APRILE, W LA COSTITUZIONE ITALIANA NATA DALLA RESISTENZA!

Tarcento 27 aprile 2019.

Laura Matelda Puppini

(1). Alcune fonti per la difesa di Porta San Paolo: https://www.roma8settembre1943.it/il-10-settembre/porta-s-paolo/; http://www.combattentiliberazione.it/memoria/?p=162; http://www.carabinieri.it/editoria/rassegna-dell-arma/la-rassegna/anno-2002/n-4—ottobre-dicembre/studi/la-partecipazione-dei-carabinieri-alla-difesa-di-roma—8-10-settembre-1943.;  http://www.combattentiliberazione.it/i-carabinieri-della-difesa-di-roma;  Arnaldo Ferrara (a cura) I Carabinieri nella Resistenza e nella guerra di Liberazione, Ente Editoriale per l’Arma dei Carabinieri, Roma, 1978;  La Resistenza romana, Porta San Paolo e la Difesa di Roma, in:  http://www.storiaxxisecolo.it/Resistenza/resistenza2c5.html. Per l’impegno di appartenenti all’Esercito Italiano nella Resistenza italiana ed all’estero cfr. anche: Alfonso Bartolini, Alfredo Terrone, I militari nella guerra partigiana d’Italia, Roma, 1998, e Federico Vincenti, Partigiani friulani e giuliani all’estero, ed. Anpi, prima ed. 1980. In generale, anche se non sempre, coloro che aderirono a movimenti partigiani all’estero erano militari che non riuscirono, dopo l’8 settembre, a raggiungere l’Italia, e che compirono questa scelta per lottare contro il nazifascismo.

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: espresso.repubblica.it/attualita/2016/04/25/news/25-aprile-il-primo-giorno-di-festa-il-racconto-della-liberazione-nei-diari-di-pieve-santo-stefano-1.262473. Laura M. Puppini

 

 

Problematiche poste dal bando per concorso di idee per rinaturalizzare il Lago di Cavazzo, testo con più firmatari.

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Ricevo e, come richiestomi, con ritardo rispetto all’ invio, ma per non sovrappormi all’uscita dello stesso testo sul Messaggero Veneto, pubblico. Laura Matelda Puppini

«Egregio Signor Presidente della Giunta Regionale, Egregio Assessore Regionale…. , Egregio Presidente del Gruppo Consiliare……. Egregio Consigliere Regionale….., Egregio Sindaco….., Onorevoli Parlamentari della Montagna Aurelia Bubisutti, Renzo Tondo,

Siamo con la presente a chiederLe la cortesia – e la pazienza per la lunghezza – di leggere l’allegato bando di “Concorso di idee mediante procedura aperta per l’acquisizione di una proposta ideativa finalizzata al recupero delle condizioni di naturalità del lago dei Tre Comuni”, sul quale riteniamo opportuno far presente alcune considerazioni di metodo, di sostanza e di ordine generale dopo averne attentamente esaminato il testo. Il Bando è attuativo dell’art.11 della L.R. 06.02.2018 n.3 nonché del Piano Regionale di Tutela delle Acque.

Nel metodo:

Nell’incontro del 5.4.2018 tra l’allora assessore Sara Vito, i funzionari ing.Roberto Schak e ing..Anna Lutman, Aldo Daici presidente dell’UTI gemonese, Ivana Bellina sindaco di Bordano, Gianni Borghi e Dario Iuri sindaco e vicesindaco di Cavazzo Carnico e Franceschino Barazzutti dei Comitati Salvalago si stabiliva che fosse in capo alla Regione l’elaborazione e la pubblicazione del bando, ma con il coinvolgimento degli Enti Locali interessati. Ad un anno da allora siamo venuti a conoscenza dell’avvenuta pubblicazione del bando sull’elaborazione del quale non vi è stato coinvolgimento di sorta, neppure degli Enti Locali. Eppure la conoscenza – non solo reale e vissuta – dei problemi del lago sta principalmente … in Val del Lago! Al contrario, il Consorzio di Bonifica Friulana, portatore d’interessi forti della pianura, è stato ben più fortunato della Val del Lago dal momento che il suo ex direttore generale è stato chiamato a ricoprire la carica di direttore generale proprio di quell’Assessorato che ha elaborato il bando di concorso. Un bando-aspirina per l’ammalato di cancro Lago di Cavazzo!

Nei contenuti:

– una ridondanza di procedure burocratiche ed informatiche e di richieste eclissa l’obiettivo e le finalità del concorso e disincentiva la partecipazione;

– con lo scorrere delle pagine il chiaro obiettivo “recupero delle condizioni di naturalità del lago dei Tre Comuni” indicato nel titolo del Concorso in prima pagina viene via via sbiadito e svilito in una generica ed equivoca “mitigazione” delle criticità del lago, che invece sono tali da richiedere non già palliativi, bensì soluzioni radicali e definitive. Non è da responsabili far finta di non sapere ciò che è arcinoto a tutti: che le gravi criticità del lago derivano dallo scarico in esso della centrale a2a di Somplago e che la sua rinaturazione e fruibilità richiedono come primo passo che tale scarico non finisca nel lago, bensì a valle dello stesso mediante un bypass. Quel bypass citato nei documenti preparatori del PRTA e nello stesso Piano. Quel bypass di cui non c’è traccia nel bando e che invece avrebbe dovuto essere ben sottolineato;

– la regolamentazione dell’ammissione al concorso è tale da escludere la partecipazione proprio di quei soggetti che in questi ultimi anni hanno svolto campagne di interessanti studi e ricerche sul lago in collaborazione con il Comune di Trasaghis. In particolare è il caso dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR) di Bologna del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Il che ci sorprende e ci amareggia poiché quei ricercatori riguardo al lago ed alle sue criticità ne sanno ben più dei generici studi di ingegneria ed architettura del lungo elenco del bando;

– la riduzione del monte premi a 35.000 euro rispetto ai 50.000 previsti dall’art.11 della L.R.3/2018 non favorirà la partecipazione al concorso considerate le spese non indifferenti in capo ai partecipanti. Tale cifra risulta inoltre offensiva se rapportata ai 450.000 euro dell’emendamento – poi ritirato – 11 septies introdotto da una “manona” nel PDL n.26 di finanziamento al Consorzio di Bonifica Friulana proprio per la progettazione della unilaterale derivazione irrigua;

– l’attribuzione del punteggio 25 all’ “esito dell’analisi costi//benefici” è eccessiva rispetto ai punteggi attribuiti ad altri criteri di valutazione e rappresenta un segnale riduttivo;

– i tempi stretti di presentazione stabiliti per i concorrenti non facilitano l’elaborazione di proposte serie di rinaturalizzazione e fruibilità del lago, né la partecipazione;

– se c’è la volontà politica di porre reale rimedio ai danni di un sistema idroelettrico dinosauro quale è quello del Tagliamento, l’inserimento nel bando del richiamo alle concessioni e relativi disciplinari in atto avrebbe dovuto essere coniugato con la prospettiva non remota di un’acquisizione degli stessi con relativi impianti in capo ad una società energetica regionale a capitale pubblico sull’esempio delle Provincie Autonome di Trento e Bolzano, che hanno cortesemente accompagnato alla porta gli interessi estranei al proprio territorio;

– in tale contesto sarebbe di gran lunga più facile ripristinare la naturalità e la fruibilità del lago ed anche intervenire in modo equilibrato sull’attuale indiscriminato sistema di captazioni che hanno desertificato i corsi d’acqua a monte con conseguenti disssesti idrogeologici. Peraltro fare riferimento a disciplinari di utilizzo esistenti ed in scadenza è un segnale di voler mantenere un sistema idroelettrico rozzo ed insensibile verso l’ambiente come quello del Tagliamento – lago di Cavazzo, costruito negli anni ’50, improntato a criteri meramente produttivistici che hanno portato alla tragedia del Vajont.

Di ordine generale:

– gli scriventi Comitati e la popolazione della Val del Lago, massacrata dal tracciato autostradale e dall’oleodotto con stazione di pompaggio proprio sulla riva nord, hanno sempre tenuto un comportamento responsabile nel loro pluriennale operato per la difesa, la rinaturalizzazione e la valorizzazione del Lago di Cavazzo o dei Tre Comuni nella convinzione che tali obiettivi siano possibili, doverosi e civili, nel contesto di un equilibrato utilizzo anche energetico ed agricolo della risorsa acqua che non penalizzi il lago. Ciò è testimoniato, tra le tante altre iniziative, anche dalla petizione presentata al Consiglio Regionale in data 21.12.2009, sottoscritta da bel 8656 cittadini a dimostrazione di un interesse verso il lago che va ben oltre la sua valle ed il circondario. Tale comportamento responsabile pone i Comitati nella condizione di poter pretendere da altri rispetto e comportamenti altrettanto responsabili che evitino forzature e colpi di mano e ricerchino invece soluzioni complessive e concordate, non pseudosoluzioni che servono a lasciare le cose come stanno e che sanno di presa in giro. Questo è dovere e compito delle istituzioni;

– i componenti dei Comitati non sono né degli arruffapopoli né dei sempliciotti da prendere in giro con un bando che non risolve le criticità del lago. Tra loro ci sono persone che in anni difficili per il Friuli hanno ricoperto cariche istituzionali a vari livelli. Con fermezza hanno respinto e continueranno a respingere ogni forzatura di utilizzo unilaterale delle acque del lago o eventuali pseudosoluzioni al suo tragico stato attuale, che con il trascorrere degli anni finirà per diventare una palude come dimostrato da diversi studi;

– i cambiamenti climatici in atto hanno chiaramente delineato gli scenari futuri per il “comparto acque”, sempre più strategico e vitale, i quali impongono un approccio complessivo di armonizzazione dei vari interessi e non il prevalere del più forte, generatore solo di conflitti.

– in tale contesto il concorso di idee per il “recupero delle condizioni di naturalità del lago” non può avere l’obiettivo riduttivo di una qualche incomprensibile “mitigazione”, ma deve essere la prima tappa di una soluzione definitiva e radicale delle criticità: il bypass che porti lo scarico della centrale a valle del lago! Il seguito non potrà che essere positivo;

– questa è l’occasione per dare un segnale chiaro alla comunità regionale – e non solo – che la Regione finalmente tutela anche le aspirazioni e gli interessi della Val del Lago, del suo circondario, della montagna, e non solo quelli forti del Consorzio di Bonifica Friulana imposti dai suoi dirigenti attuali e passati, signori assoluti delle acque del Friuli. E non solo gli interessi ben più forti della multiutility lombarda proprietaria della centrale di Somplago che, succhiando indiscriminatamente le acque della Carnia e rovinando il lago, porta in Lombardia i profitti ed altrove l’energia prodotta, mentre i borghi montani della Carnia restano privi di elettricità al verificarsi di condizioni di maltempo anche di non particolare entità;

– questo bando di concorso è del tutto inadeguato a risolvere le pesanti criticità del lago e pertanto ne chiediamo il ritiro e l’elaborazione di uno nuovo che, nel metodo e nei contenuti, risponda alla inderogabile necessità di un reale recupero della naturalità e fruibilità del lago.

Con la presente Le chiediamo di volerci concedere un incontro per una più completa esposizione delle nostre posizioni e dello stato delle cose del lago e nella Valle. Per tale incontro saremmo onorati di poterla avere nostro ospite sul lago.

Alleghiamo un’eloquente foto del lago-caffelatte in data 06.04.2019 dopo la recente pioggia.
RingraziandoLa per l’attenzione Le auguriamo buon lavoro e Le porgiamo distinti saluti.

Val del Lago, 08 aprile 2019

Per i Comitati Salvalago:
Enore Picco, Sindaco di Bordano dal 1985 al 2006, già Vicepresidente ATER di Tolmezzo; già consigliere ed assessore provinciale, già Consigliere regionale;
Franceschino Barazzutti, Consigliere comunale dal 1970 al 1975, Vicesindaco dal 1975 al 1977, Sindaco di Cavazzo Carnico dal 1977 al 1995, costituente della Comunità Montana della Carnia, già Presidente del Consorzio del Bacino Imbrifero Montano (BIM) del Tagliamento, già Consigliere regionale;
Tomat Loredano, Sindaco di Trasaghis dal 1970 al 1978;
Claudio Polano, Consigliere comunale di Gemona del Friuli dal 1990 al 2009, Vicepresidente della Comunità Montana del Gemonese, Canal del Ferro, Valcanale dal 1995 al 2009, già componente del Consiglio Direttivo dell’Ente Tutela Pesca;
Valentino Rabassi, Assessore comunale di Trasaghis dal 1980 al 1990, già istruttore direttivo tecnico della Comunità Montana del Gemonese, Canal del Ferro, Valcanale;
Luigino Picco, Consigliere del Comune di Bordano dal 1999, assessore dal 2002; vicesindaco dal 2004  vice facente funzioni di Sindaco dal 2006 al 2007, Consigliere comunale dal 2012 al 2017;
ing. Dino Franzil, già docente di costruzione di macchine presso l’Istituto Tecnico A. Malignani.

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L’immagine che correda il testo è quella inviatami da Franceschino Barazzutti ed a cui fa riferimento l’articolo. Laura Matelda Puppini

FRANCESCO CECCHINI. TINA MODOTTI, UNA DONNA INFINITA.

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Francesco Cecchini mi informa che ha scritto due righe, due pensieri, su Tina Modotti, un personaggio femminile che lo ha sempre molto interessato. «Sai – mi dice – su Tina Modotti è stato scritto moltissimo, ed io non pretendo di aggiungere una biografia originale alle tante già prodotte, ma scrivo per conoscerla, per conoscere Tina». Ed ha ragione Francesco, perchè scrivendo si dà forma al pensiero, scrivendo si aggiunge a conoscenza conoscenza, scrivendo si sintetizza, si creano quadri e visioni di insieme, si esprimono sentimenti e sensazioni. Pertanto vi offro il primo capitolo di pensieri, immagini e riflessioni di Francesco su Tina. Laura Matelda Puppini

FRANCESCO CECCHINI. TINA MODOTTI, UNA DONNA INFINITA.

PRIMO CAPITOLO.

Anonimo. Tina Modotti. Foto inviata alla madre nel 1920 da Hollywood. (Da: http://www.nationalgeographic.it/fotografia/2014/05/02/foto/tina_modotti_un_icona_del_novecento-2120565/1/).

Così scrive di Lei Pablo Neruda: «Quando voglio ricordare Tina Modotti devo fare uno sforzo, come si trattasse di raccogliere un pugno di nebbia. Fragile, quasi invisibile. La conobbi o non la conobbi? Era molto bella, ovale pallido, inquadrato da due ali nere di capelli raccolti, occhi grandi di velluto, che continuano a guardare attraverso gli anni. Diego Rivera dipinse la sua figura in uno dei suoi murales, con aureola di corone vegetali e spighe di mais».

Così scrive di Lei Maria Luisa Carnelli, scrittrice e giornalista argentina, che partecipò alla Guerra Civile Spagnola: «Conobbi Tina Modotti molti anni fa. Le volli bene con profondo affetto, mi dilettò sempre lo spettacolo magnifico della sua anima. Un’anima, grande, bella, eccelsa. Non ho mai conosciuto un’altra donna che la superasse in finezza spirituale. La sua sensibilità sempre sveglia, la sua comprensione sempre profonda, la sua riflessione sempre chiara, facevano di lei una creatura eccezionale. Scossa da tutte le tormente, mantenne il suo spirito sempre teso e fermo».

Due tra i molti ricordi di Tina Modotti, operaia, emigrante, attrice, fotografa, comunista, perseguitata ed esule politica, militante del Soccorso Rosso, durante la guerrra civile in Spagna.

Tina ha avuto un ruolo eccezionale nella storia del ventesimo secolo, non solo come grande fotografa che ha colto la vita quotidiana, culturale e sociale, di  un grande paese dell’America Latina, il Messico, ma anche  come modello di un nuova femminilità, impegnata  e libera. Libera di agire, di decidere, di seguire i bisogni della sua volontà, del suo corpo, come delle sue opinioni, senza preoccuparsi di tutte le forme di pregiudizio, vincoli religiosi e regole sociali. Libera di impegnarsi, corpo e anima, in un destino da lei scelto.

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Non sono uno storico che scrive biografie con riferimenti e bibliografie. E ho scritto solo per conoscere Tina. E per me Tina è una donna infinita, ed è uno sforzo per me cercare di comprenderla, servendomi dell’aiuto di Elena Poniatowska e di Christiane Canale.
Ma è Elena Poniatowska che mi fa conoscere Tina. Molto tempo prima, per la verità, avevo sentito parlare di Lei, fotografa, e di suo zio Pietro Modotti, anche lui fotografo, da Italo Zannier alla facoltà di Urbanistica a Villa Franchetti, a Treviso. Ma allora avevo altro per la testa.
Poi, incuriosito da Tina, un giorno, in una libreria di Calle Corrientes a Buenos Aires, vedo il volume di Elena Poniatowska intitolato “Tinissima” (Tinissima era il modo con cui la chiamava Julio Antonio Mella, il suo grande amore) . In centinaia di pagine di una scrittura fitta fitta, la  la Poniatowska racconta con forza ed in dettaglio i 46 anni di vita di Tina.
Vi garantisco che quel fine settimana non uscii: niente musica, niente teatro o ristoranti. Chiuso a casa divorai la biografia romanzata di questa donna. Da allora mi sono appassionato, ho letto e visto tutto quello che potevo di Tina e continuo a farlo, stupito dai tanti che ancora si fanno sedurre da questa modella, attrice, fotografa, rivoluzionaria e su di lei scrivono, filmano, compongono poesie, fanno  teatro.

Tina e Robo in posa. (Da: http://www.neldeliriononeromaisola.it/2018/08/239510/).

Incontro ancora una volta Tina, o meglio le sue ceneri, in Messico. Devo rientrare urgentemente in Italia ma non riesco a trovare un aereo che da San Pedro Sula, in  Honduras, vada a Miami. Così sono costretto a volare a Città del Messico dove trascorro una notte. All’aeroporto chiedo ad un autista di taxi di accompagnarmi al cimitero dove è sepolta Tina Modotti. Ed egli mi presenta una studentessa universitaria di architettura, Clara, che fa ogni tanto la guida turistica e che crede fermamente che Tina sia una sua illustre concittadina messicana, non un’italiana, anche se sa che è nata in Friuli. Comunque sulla strada mi parla più di Frida Kahlo, della Casa Azul, e della Ciudad de los Muertos, el Panteòn Civil de los Dolores, l’immenso cimitero dell’ immensa Città del Messico, un antico giardino azteco. Ma per raggiungere il cimitero dall’aeroporto la via breve: si deve attraversare la città, che mi appare come un immenso mostro urbano.

Il cimitero si trova nella seconda e terza sezione del bosco di Chapultepec. Io e Clara entriamo dalla porta Florencio Miranda, che si trova in Avenida Constituyentes. Lì, a pochi metri di distanza, vicino a via Justo Sierra, c’è la tomba di Tina, che secondo la classificazione del pantheon è di classe 5, lotto 5, linea 28 e tomba 26. Ma per me è solo la tomba di Tina, la fotografa, la rivoluzionaria. Di Tina restano le ceneri, come ha chiesto nel suo testamento scritto il 24 dicembre del 1924  «… en estas linea expreso tambien mi voluntad de ser cremada». Anni prima aveva sepolto nel Panteón suo marito, Roubaix de l’Abrie Richey, detto Robo. M,a Tina aveva sepolto anche le cenri del suo grande amore, Julio Antonio Mella, ucciso mentre si trovava al suo fianco. Molti artisti, muralisti e pittori, amici e compagni di lotta di Tina: Diego Rivera, Alfaro Siqueiros, José Clemente e altri abitano con lei nella Città dei Morti. Lì fu anche cremata Frida Kahlo, le cui ceneri vennero poi portate alla Casa Azul, la sua dimora a Città del Messico.

La tomba di Tina è nella zona povera, proletaria, in stato di abbandono, sepolta fra quei poveri per i quali tanto aveva combattuto in vita.  La lastra rettangolare di granito  è rovinata e ha scolpito il suo profilo, che il tempo rende difficile riconoscere, creato da Leopoldo Mendez, accompagnato dalle parole di Pablo Neruda, ormai quasi illegibili.

 

 

La vecchia tomba di Tina, povera tra i poveri. (Da: https://trattodunione.wordpress.com/2016/12/21/cacucci-tina/).

Anni dopo la tomba è stata restaurata dalla Regione Friuli Venezia Giulia, per interessamento del Comitato Tina Modotti e di Riccardo Toffoletti, fotografo, in particolare, ed è stata trasferita in quella parte del Panteòn Civil de los Dolores riservata agli italiani. Dopo la ristrutturazione, del 2005- 2006, la tomba, dapprima interrata al suolo, è stata sollevata da terra, a formare un visibile blocco di cemento rettangolare, e fornita di un manufatto metallico, che riporta per intero, le strofe della poesia di Pablo Neruda, ormai illeggibili sulla lapide. Il giorno dell’inaugurazione, ha parlato  Elena Poniatowska. Non è stata una commemorazione retorica, il solito miscuglio di elogi e misteri,ma semplici parole di ricordo, un saluto ad un’amica che non conobbe.

E così iniziava:«Nessuno di noi sa quando o come morì. Tina Modotti lo intuì, perchè sapeva di essere malata di cuore. Anche Vidali lo sapeva, da qui i suoi rimorsi. Tina aveva visto tante atrocità durante la Guerra Civile di Spagna, tanti combattenti le erano morti tra le braccia quando aiutava il dottor Norman Bethune a praticare le prime trasfusioni di sangue -proprio lì in trincea, tra il fragore della battaglia-, tanti giovani la chiamarono María con l’ultimo respiro, nell’Ospedale Operaio di Madrid, nel 1937, che non credo che le importasse molto morire anche lei. Non credo neanche che le importasse molto il luogo in cui sarebbe stata sepolta, anche se a Vittorio Vidali, alias Enea Sormenti y Carlos Contreras, comandante del quinto reggimento, importava, perché quando gli dissi a Trieste che Tina era ancora nella sezione più povera del Pantheon de Dolores -quella delle tombe più umili, nascoste tra l’erba e le foglie secche- e che la lapide -col suo profilo inciso da Leopoldo Méndez e alcune strofe del poema di Pablo Neruda- era incrinata, gli si inumidirono gli occhi».

Nuova tomba di Tina Modotti, nella sezione per gli italiani del cimitero di Città del Messico, costriuta grazie al contributo della Regione Friuli Venezia Giulia per l’ interessamento del Comitato Tina Modotti. (Da: http://www.storiastoriepn.it/wp-content/uploads//UNA-PASSIONE-PER-TINA-100.pdf.).

Finita la visita vorrei rimanere qualche giorno con Clara che ha poco della guida turistica, per conoscere i luoghi di Città del Messico che ricordano Tina, per esempio il suo appartamento in quel quartiere ‘Colonia Roma’, dove fu ucciso Mella, ma il giorno dopo devo prendere l’aereo.

– Francesco Cecchini

Un testo su Tina Modotti, di Francesco Cecchini, dal titolo: “Una passione per Tina” è stato pubblicato il 18 settembre 2013 su http://www.storiastoriepn.it/. Con questo, diviso in parti e rielaborato, Francesco ritorna sulla figura di Tina che lo ha tanto affascinato.

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Ricordo che su questo sito sono già stati pubblicati:

Laura Matelda Puppini: Sobre Tina. Due considerazioni personali al margine di un convegno su Tina Modotti.

Marco Puppini: Tina Modotti: sinora pochi misteri nel paginone di Alias di Marco Puppini

L’immagine che accompagna il testo è la prima pubblicata nell’articolo. Laura Matelda Puppini

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Francesco Cecchini è nato a Roma nel 1946. Ha compiuto studi classici e possiede un diploma tecnico. A Roma ha iniziato il suo impegno politico, partecipando pure a Valle Giulia. Ha frequentato sociologia a Trento ed Urbanistica a Treviso. Non si è laureato perché impegnato in militanza politica, prima nel Manifesto e poi in Lotta Continua. Nel 1978 ha abbandonato la militanza e ha deciso di lavorare e vivere all’estero, impiegandosi prima nella cantieristica, poi nella gestione di progetti, nella contrattualistica e nelle ricerche di mercato di infrastrutture. Ha redatto ricerche di mercato in Algeria, India, Nigeria, Argentina, Polonia e Marocco. Dal 2012 scrive articoli e racconti. L’esperienza acquisita grazie al fatto di aver vissuto e lavorato in molti paesi e città del mondo (Aleppo, Baghdad, Lagos, Buenos Aires, Boston, Algeri, Santiago del Cile, Tangeri e Parigi) è alla base di un progetto di scrittura: una trilogia di romanzi ambientati rispettivamente a Bombay, Algeri e Lagos. L’ oggetto della trilogia è la violenza, il crimine e la difficoltà a vivere nelle metropoli. Ha pubblicato con Nuova Ipsa il suo primo romanzo, “Rosso Bombay”. Ha scritto il suo secondo romanzo “Rosso Algeri” e sta scrivendo il terzo, “Rosso Lagos” e sta completando una raccolta di racconti, “Vivere altrove”. Traduce dalle lingue che conosce: spagnolo, portoghese, francese ed inglese, più che altro come esercizio di scrittura. Collabora con le agenzie di notizie “Pressenza”, “Tesfa News” e con i siti “La Storia, Le Storie”, “Casa del Popolo di Torre” di Pordenone e con il blog “Ancora Soffia il Vento”. Ha pubblicato qualche racconto su www.nonsolocarnia.info. Vive ora nel Nord Est. (Da Pressenza). Laura Matelda Puppini

 

6 maggio 1976. Era una meravigliosa sera di maggio, piuttosto calda ed afosa … Ma ad un tratto si scatenò l’inferno.

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Ebbene sì! Anche quest’ anno non ho saputo resistere alla tentazione di scrivere qualcosa sul terremoto, e questa volta ho deciso di riportare alcune descrizioni dal volume che si intitola: “Friuli, un popolo tra le macerie” edito da Borla, ed uscito nel 1977. Esso si presenta come una raccolta di scritti di vari autori e contiene una analisi di quanto accaduto tra un terremoto e l’altro. E per amore di verità, vi dico anche che non ho comperato io questo volume, ma mi è stato consegnato da mio fratello, insieme ad altri che non sapeva più dove mettere, ricevendo da me un coro di proteste perché non sapevo dove metterli.

Ma ritornando al dunque, vado a riportare, aggiungendo qualche informazione, cosa scrive Duilio Corgnali nel suo saggio intitolato: “Storia di popolo” contenuto nel volume, a perenne memoria dei fatti quando ormai la memoria del terremoto è spesso lasciata solo agli incontri dei cosiddetti sindaci della ricostruzione ancora viventi, stando attenti che, in alcuni casi, i sindaci del terremoto non furono quelli della ricostruzione. Così ormai anche il ricordo di quel tempo pare ingessarsi nel rito e nel mito.

L’articolo inizia con le parole di una donna «Fortunaz i muarz sot tiere», perché sulla terra pare sia scoppiato, quella sera, l’inferno.
«Era una magnifica sera di maggio calda e soprattutto afosa […]. Alle 21.01, preceduta da una più lieve, arriva una tremenda scossa di 59 secondi. Tra la prima e la seconda scossa pochi secondi per mettersi in salvo. Troppo pochi per chi si trova a letto […]. Pochi per poter uscire. Ma uscire dove? Chi l’ha fatto s’è visto la casa di fronte schiantarsi contro i cornicioni della propria, e piombargli addosso. (…). A Majano crollano condomini a seppellire nella fisarmonica delle scale centinaia di persone. Il terremoto viene avvertito a grandi distanze, a Venezia come a Milano, in Jugoslavia come in Austria». (AA.VV. ”Friuli, un popolo tra le macerie”, Borla ed., p.47).

Siamo nel 1976, e le informazioni viaggiano a rilento, non come ora, e così, in un primo tempo, nemmeno la radio regionale si rende conto di quella tragedia, e colloca l’epicentro del terremoto al mar Tirreno, invitando i friulani a ritornare nelle case, che però per molti non esistono più. Solo alle 22 la televisione italiana dà l’annuncio di un terremoto in Friuli. Allora i parenti e gli amici si precipitano al telefono ma con il Friuli non si comunica. E in un primo momento le macerie chiudono ogni passaggio. «Infine le sirene, l’urlo straziante, l’altro Friuli, quello risparmiato, che corre su ad aiutare, nonostante le scosse che si susseguono. (Ivi, p. 48).
Nelle zone ferocemente colpite abitano 137.457 persone, nel territorio complessivo interessato dal sisma 500mila.

Mentre le scosse continuano, in alcuni paesi si tirano le prime somme, in altri è impossibile farlo. Bisognerà scavare giorni e giorni per capire chi è vivo e chi è morto. Soltanto il 9 maggio si riesce a fare un primo bilancio provvisorio: per quel terribile terremoto sono morte 781 persone, ne sono rimaste ferite 2.218, ma poi si vedrà che questi dati sono in difetto. (Ivi, p. 50).

Riavutisi dallo stupore, i comuni, che si trovano di fronte ad una situazione mai vista prima e più grande di loro, si rendono conto che servono viveri, tende, indumenti, coperte, sapone, acqua potabile ed un po’ di tutto, mentre i militari passano a far assumere l’antitifica a tutti, indistintamente, prima che scoppi qualche epidemia per i cadaveri di animali e cristiani in quel caldo assurdo. Le piazze dei paesi ben presto si trasformano in ambulatorio medico, spaccio viveri ed indumenti, in centri organizzativi, mentre alcuni paesi resteranno isolati per un po’. Ma basta essere vivi, il resto passa in secondo piano. Ci si lava come si può, si vive come si può, mentre obitori ed ospedali vanno riempiendosi.

Servono tende, ma ne arrivano con il contagocce, e successivamente pare non bastino mai. I senzatetto sono 70.000, le case, i focolari, non esistono più. Ormai il Friuli vive all’aperto, mentre la terra continua a tremare. Per la verità la disorganizzazione, all’inizio, è grande: 200 tende vengono scaricate dai militari ad Artegna ma poi vengono ritirate perché destinate ad un altro paese. Comunque sono i militari i primi ad accorrere, ed i primi che portano soccorsi alle popolazioni stremate: sono i soldati dell’Esercito Italiano, della Marina dell’Aeronautica.
Il quindicinale ‘Il Punto’, n. 9, del 15 maggio 1976, pubblica il primo impegno dei militari sul territorio colpito dal sisma: «Sono presenti 5.500 militari con 848 automezzi, 58 autobotti., 85 mezzi speciali del genio tra cui fotoelettriche, ribaltabili, escavatori, apripiste. Sono soldati dell ‘Esercito italiano, carabinieri, poliziotti e poliziotte, agenti della Polfer. (Ivi, p. 53 e p. 60).

Ma ben preso le incomprensioni tra la gente e il comando dell’esercito si fanno sentire, in una situazione sempre più tesa. Per esempio ad Artegna il generale Sandro Azais vorrebbe accentrare tutti i campi esistenti in zona in un’unica grande tendopoli su modello militare e sul tipo degli accampamenti romani. Ma la gente del campo quattro, per esempio, non ci sta e torna di nuovo al luogo di partenza.

Infatti le tendopoli vengono assegnate a nuclei familiari della stessa borgata e frazione, che desiderano ricostruire le loor piccole comunità e che, piano piano, si organizzano in comitati di tendopoli. E le varie mansioni all’interno delle tendopoli vengono suddivise tra persone che ne diventano i responsabili: nascono così i referenti per il rifornimento viveri e generi di prima necessità, quelli per la mensa, quelli per la pulizia, e via dicendo. (Ivi, p. 54). Un grosso sforzo comunitario e di reciproca solidarietà segna questo periodo, ed esso non avrebbe potuto prendere forma nel grande campo che avrebbe voluto il generale Azais. Come si può notare, due mentalità, due modi di vedere si scontrano

I capi-tendopoli, poi, iniziano a riunirsi in un consiglio delle tendopoli per studiare come coordinare gli interventi necessari e promuovere un’azione collettiva in sintonia con le amministrazioni comunali. Sorge così il Coordinamento delle tendopoli e dei paesi terremotati la cui azione è caratterizzata «da mille piccoli episodi, interventi, prese di posizione fino a proteste esemplari. (Ivi, p. 57). E così va a finire, che per aver chiesto e parlato, il popolo delle tendopoli viene accusato di essere extra- parlamentare (Ivi, p. 59).

Ma pare proprio non fosse formato da extraparlamentari di sinistra quel gruppo che si presenta come “squadra antisciacalli”  e che vorrebbe presidiare l’accesso alla tendopoli. Ma scatta un esposto e il popolo delle tendopoli dice un no deciso alle guardie armate, che si intrufolano. (Ivi, p. 59). E nel corso di una assemblea indetta dal Coordinamento delle tendopoli di Gemona, il 23 maggio 1976, la gente vota il suo no “alle squadracce armate”, e chiede che la ricostruzione sia gestita in accordo tra comuni e popolazioni. (Ibid.).

Inoltre inizialmente vi sono, per esempio nel caso di Artegna, conflitti di competenza tra i comandanti dell’ Esercito, che tendono a militarizzare il territorio, ed il sindaco. E le autorità non sempre vedono di buon occhio l’organizzazione nata dal popolo delle tende, preferendo la via burocratica. (Ivi, p. 55). In compenso il tipo di struttura popolare permette alle persone di vivere una quasi normalità nei rapporti, venedosi così a lenire il peso della situazione creatasi. E la tenda diventa la casa, la tendopoli si trasforma nel borgo.

Qualcuno incomincia di nuovo ad andare a lavorare, muovendosi dalla tenda alla fabbrica, e nel frattempo Giuseppe Zamberletti viene nominato dal Governo Commissario incaricato del coordinamento dei soccorsi. Egli, il 7 giugno 1976, emette un’ordinanza che ritira le mense gestite dai militari, mentre non si sa dove ospitare i feriti e contusi dimessi dagli ospedali. (Ivi, pp. 60-61). Alcune tende di fortuna incominciano a mostrare le loro falle, e si inizia a vedere, nei paesi, un carosello di commissioni per la valutazione edilizia «ufficiali e non ufficiali, pagate dalla Regione oppure volontarie». (Ivi, p. 63). Ed il Sindaco di Artagna denuncia il passaggio di ben 11 commissioni, che pare non abbiano criteri precisissimi per giudicare cosa mantenere eretto e cosa demolire. 

Infine i terremotati indicono una manifestazione a Trieste per il 16 luglio 1976, perché «le popolazioni friulane non vogliono morire sotto le tende o, anche se a questo sono abituate, emigrare […]». (Ivi, p.65). E si comprende bene che la normalità, tanto agognata in particolare dai vertici dello stato, potrebbe voler dire: “Dalle tende al deserto” e che “le parole non sono mattoni”. Ed uno dei motti più urlati è «La terra trema, la casa manca, a Trieste dorme la giunta bianca», con rifiermento a quella regionale, guidata dal presidente Antonio Comelli, democristiano. (Ivi, pp. 66-67).
Successivamente, un’altra manifestazione, organizzata da partiti e sindacati, si svolge ad Udine. Infine tremila lavoratori del pordenonese, di Spilimbergo e Maniago, scendono in piazza per denunciare una comune situazione caratterizzata da: lentezza, inefficienza, burocrazia e accentramento nel procedere nel post terremoto. (Ivi, p. 68).

La Regione ha fretta di ritornare alla normalità, di dare un tetto a chi non ce l’ha più, e sceglie otto ditte per ricostruire. Sono: la Della Valentina di Sacile Cordigliano; la Volani di Rovereto; le Industrie Carniche di Comeglians; la Pittini di Udine; la Presmont Vega di Villa Santina; la Sicel di Perugia; la Tacchino di Gorizia; la Tecna di Milano. Otto imprese per 298.700 mq di coperto. Ma c’è chi si chiede quanto dovranno attendere bimbi e vecchi nelle tende prima di avere una nuova sistemazione. (Ivi, p. 69). La Regione dice che potrebbero momentaneamente esser ospitati a Lignano, ma la gente vive la legge che lo permette come la “legge della deportazione”. (Ivi, p. 70). Ma prima di deportare, si giunge a crecare di applicare il “piano baracche”.

Nel frattempo politici vari accorrono in visita ai paesi del terremoto; il 10 agosto 1976 il senato approva la legge sugli espropri per l’acquisizione delle aree edificabili; il Coordinamento delle tendopoli di Gemona agonizza, mentre quello di Artegna diventa più vivace.

Il 6 agosto vi è una assemblea a cui partecipano più di venti paesi terremotati. Vengono trattati, in quella sede, diversi problemi: da quelli legati alla ricostruzione a quello più banale di dove mettere tante macerie, che spesso non sono ancora state rimosse. E la popolazione inizia ad unire alla domanda di una soluzione degna per i propri problemi di senzacasa, le richieste di: una Università ad Udine, il tempo pieno nella scuola; una riforma dell’agricoltura, la promozione dei servizi socio-sanitari; sposando un’idea di ricostruzione del Friuli che viaggia pari passo con quella di rinascita friulana. (Ivi, p. 74).

Quindi il 3-4 settembre giunge in visita, nel Friuli terremotato, Giulio Andreotti, ed alla fine di settembre ha luogo l’occupazione simbolica, da parte dei terremotati, delle sedi del Messaggero Veneto e della Regione, mentre si susseguono blocchi stradali.
Così Giulio Andreotti, il 4 settembre, si trova in una situazione dove 4000 persone sono uscite da tende e prefabbricati per recarsi in strada ed attuare il blocco viario dei nodi stradali più importanti, deciso dal Coordinamento dei Comitati delle tendopoli, e, che, dopo un giorno di pioggia e di fango, si trovano a dover subire pure le cariche della polizia. (Ivi, p. 78). Piove e nevica quando giunge Andreotti, ed il popolo del Friuli gli dice: «Non occorrono discorsi. Qui fa freddo. I vecchi li facciamo dormire vicino ai forni. Non resistono più al gelo ed all’acqua». Ed un anziano dice Andreotti che si sta recando in cimitero, «Venga a trovare i vivi non i morti». (Ivi, p. 79).

E più l’inverno si avvicina più incomincia a far capolino una vera e propria “psicosi da tenda”, mentre i prefabbricati sono pochissimi, ed i terremotati iniziano ad ammalarsi di nevrosi, di bronchite, di artrite, e tutti hanno in corpo quelle 186 scosse pesanti che hanno rappresentato quella che viene chiamata ‘la coda del terremoto’. Così chi cerca rifugio in un box in lamiera, chi nel proprio garage, chi in un ex- porcile di proprietà.

Poi l’11 settembre: gli alpini giunti in soccorso delle popolazioni friulane, ritenendo terminato il loro compito, dopo aver rabberciato almeno i tetti, se ne vanno, mentre improvvisamente l’”orcolàt” si torna a far prepotentemente sentire. In 20 secondi cancella tutto il lavoro fatto dopo il 6 maggio 1976, e quello che era rimasto in piedi crolla definitivamente nei centri di Venzone, Gemona, Ospedaletto, Artegna, Magnano in Riviera, mentre quelli che avevano tentato di rientrare nelle case devono tornare precipitosamente ad uscire ed a cercare una tenda.  (Ivi,p. 81).  Siamo alla catastrofe. Ritornerà in Friuli in fretta e furia l’esercito, e la gente verrà incanalata verso il mare. Mio padre, assieme ad altri, organizza le scuole a Grado in tempo da record, mentre una lunga fila di friulani, con le poche cose che ha, si incammina verso una camera ed un piatto caldo.

E per ora io mi fermo qui, ringraziando Mons Duilio Corgnali per il suo testo, di cui io ho preso solo una parte, e che prosegue. 

Laura Matelda Puppini

Ricordo qui gli articoli già pubblicati sul terremoto e sui terremoti su: nonsolocarnia.info:

-Quei terremoti del 1976, che cambiarono il Friuli

-Il mio ricordo dei terremoti del 1976.

-Terremoti del 1976, ricostruzione museo Gortani e campi di prigionieri militari alleati a Sauris ed Ampezzo, uniti in un’unica storia.

-1976. Dopo i terremoti del 6 maggio e del 15 settembre, la gente abbandona i paesi. L’esperienza del Centro Operativo Scolastico Scuola Elementare per sfollati di Grado.

-Bruno Mongiat, “1976. Terremotati sfollati a Grado. Un’esperienza dall’alto valore umano”. Intervista di Laura Matelda Puppini, 19 settembre 2016.

-Giuseppe Craighero (Sef Craigher). 1976 sfollati a Grado. Primo racconto. Il pranzo dell’Ispettore in missione.

-Agra (Varese), Natale 1976, immagini post- terremoto del Friuli: ultimi aneliti di grande solidarietà collettiva. Poi l’individualismo.

-Terremoto del Friuli e ricostruzione. Esiste un “modello Friuli” e cosa si dovrebbe imparare da questa esperienza?

-Serena Pellegrino. Esame del D.L. relativo a nuovi interventi per le popolazioni terremotate. Problemi sul tappeto…

-Il terremoto in Lazio Marche ed Umbria. Il prevedibile e la messa in sicurezza degli abitati. Ma … Per quei morti nel 2016. Aggiornamento il 26/8/ c.a.

Per terminare riporto due righe biografiche su don Duilio Corgnali: nato il 26 marzo 1946, ed ordinato sacerdote il 9 ottobre 1971. È attualmente parroco a Sedilis di Tarcento e svolge anche altri compiti in paesetti limitrofi ed a Tarcento stesso. È stato pure per anni noto e stimato direttore di La Vita Cattolica.

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta un particolare della vita in tendopoli a Cavazzo Carnico, ed è tratta da: AA.VV., Immagini nel tempo. Persone, luoghi, eventi di Cavazzo Carnico, Cesclans, Mena, Somplago. Toso ed., 1996. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

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Programma elettorale di Francesco Brollo candidato a sindaco del comune di Tolmezzo.

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Abitando a Tolmezzo, vorrei offrire l’occasione ai cittadini del mio comune, di leggere i programmi elettorali depositati dai tre candidati sindaco, come presenti sul sito del comune di Tolmezzo, e da me riportati secondo l’ordine alfabetico dei firmatari. Essi vengono qui proposti in tre articoli diversi per problemi di grafica. Per leggere meglio il testo posizionate lo zoom all’80%. Immagine da: https://www.tuttitalia.it/elezioni-italiane/elezioni-comunali-2019/. Laura Matelda Puppini

Programma_amministrativo_a_sostegno_di_Francesco_Brollo
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