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Sanità lacrime e sangue.

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Talvolta leggo ‘Le monde diplomatique’ un periodico davvero interessante, la cui edizione italiana è curata da ‘Il Manifesto’. Sul numero dell’aprile 2017 compare un illuminante articolo sulla sanità francese, intitolato: “La copertura sanitaria universale messa in discussione”, a firma di Martine Bulard. Sotto il titolo si può leggere: «Il sistema sanitario francese, fra i migliori a livello mondiale, non riesce comunque a coprire le diseguaglianze. L’assistenza sanitaria pubblica è stata penalizzata a beneficio delle assicurazioni integrative, che hanno costi di gestione e pubblicità esplosivi. E se si tornasse alla copertura sanitaria universale?» Beh, anche in Italia non stiamo benissimo, ma neppure bene, penso fra me e me, per quanto riguarda il ssn, che annaspa, boccheggia, che c’è e non c’è al tempo stesso, e che, in ogni caso, si è parcellizzato in una serie di ‘aziende’ con scarso collante.

Ora io vi garantisco di avere una idea fissa: quella che il servizio sanitario nazionale e quello regionale non possono esser gestiti come fossero un’azienda di gorgonzola, che bada al profitto. Infatti, secondo me, è proprio quando si è aziendalizzata la sanità che sono iniziati guai seri, che non mancavano però prima. Un servizio sanitario nazionale può essere anche in perdita, e le tasse dei cittadini servono proprio a coprire il costo dei servizi per gli stessi, che per loro natura non possono essere in attivo o far guadagnare, ma ormai si gioca anche sui termini.  Infatti le aziende hanno a che fare con la finanza e con il guadagno, e esistono all’ interno di un sistema economico capitalistico e neo capitalistico, finalizzato a far dollari sonanti e cassa.  

Ora il sistema francese comprende, per la copertura delle spese sanitarie, due attori principali- continua Bulard: la Sécuritè sociale cioè il ssn, e le assicurazioni integrative. Ma in Italia le assicurazioni non accettano tutte le categorie di pazienti, e non coprono tutte le spese (Cfr. “Ancora su: salute e sanità nazionale e regionale”, in: nonsolocarnia.info), e costano circa 1000 euro all’anno, che si usino o non si usino, il che è tantissimo per la povertà che ormai raggiunge anche i ceti medi della penisola.

La destra francese, con François Fillon, ha suggerito che la Sicurité sociale si limiti a rimborsare i grossi rischi e a farsi carico dei francesi più poveri. Ma forse là si può sapere chi sono, mentre qui, con l’evasione fiscale imperante, c’è sempre stata un po’ di confusione fra chi sia realmente povero e chi compaia come tale. Ma non vorrei che qualcuno dei nostri governanti, sia regionali che nazionali, strizzasse l’occhio a soluzioni di questo genere.

Inoltre non si può pensare a quali farmaci rimborsare e quali no- continua Martin Bulard- perché «o i farmaci sono utili, e allora occorre rimborsarli integralmente, o non lo sono, ed allora non devono essere rimborsati». (Martin Bulard, La copertura sanitaria, op. cit.).

Per quanto riguarda i farmaci più costosi, in Francia alcuni politici propongono di negoziare il prezzo con i laboratori di produzione, a livello nazionale ed internazionale. Ma «bisogna avere la forza di far pressione – precisa Ambrourousi – e dunque occorre un polo pubblico del farmaco che comprenda attività di ricerca e produzione. Si devono poter ottenere licenze obbligatorie [così da evitare di pagare i diritti sui brevetti] per produrre farmaci». (Ibid.).  Però pare che in Italia siamo più propensi a seguire le idee neoliberiste di Emmanuel Macron, che temeva che una soluzione di ricerca e produzione nazionale francese, per farmaci costosi, potesse sacrificare l’industria farmaceutica privata che avrebbe potuto soffrirne. Ecco, penso fra me e me, questo è il tipico modo di pensare di uno dei nuovi economisti, che sacrificano il popolo nazionale per non disturbare l’industria privata, che già guadagna più che a sufficienza. E credo che anche in Italia più di un politico pensi così. 

Correva l’anno 2016, quando Avvenire, spesso meritorio per le sue informazioni, articoli, approfondimenti, pubblicava un pezzo di Fulvio Fulvi, intitolato: “La salute, un’impresa mondiale. Primo impegno: ridurre morti e malattie di bambini e mamme”, ove si poteva leggere che, nell’agenda globale per lo sviluppo sostenibile approvata dalle Nazioni Unite, vi era, già allora, l’obiettivo di «assicurare la salute ed il benessere per tutti e per tutte le età», definito ambizioso, uno dei più difficili da conseguire, ma preso in considerazione. E continuava dicendo che la via per il suo raggiungimento necessitava dell’impegno congiunto di «governi locali, comunità internazionale e industria farmaceutica». (Ivi). E l’autore sottolineava come si morisse ancora sul pianeta per malattie non del tutto debellate, come aids, tubercolosi, malaria, epatiti, per l’acqua inquinata, per scarsa igiene e profilassi, ma anche per droga, alcool, tabacco, mentre «nuove pandemie minacciano la salute pubblica anche nei paesi ricchi» (Ivi), citando come esempi l’obesità infantile, il diabete, lo scompenso cardiaco, le patologie causate dallo smog e dal surriscaldamento del pianeta.

E in Italia e Fvg, come si sta in fatto di sanità e salute, con un ssn tagliato, declassato, rapinato, farraginoso, forse al limite del non ritorno?
Un dato, sempre pubblicato da ‘Avvenire’, sconcerta: alla fine del 2016, 11 milioni di persone rinunciavano a curarsi. (Fulvio Fulvi, In Italia si vive di più. Ma 11 milioni rinunciano a curarsi, in: Avvenire 26 novembre 2016). Ed erano già 9 milioni, secondo il rapporto Censis, nel 2012. (“Sanità negata a 9 milioni”, in: Messaggero Veneto 6 giugno 2012).

Secondo il rapporto Censis, su questo dato giocavano sia l’età anziana della popolazione, sia la disaffezione, sia la convinzione che «i servizi sanitari della propria regione siano inadeguati». (Fulvio Fulvi, In Italia si vive di più, op. cit.). Ma nel merito riprendo pure, dal Rapporto Gimbe 2018, che invito tutti a leggere integralmente, le seguenti considerazioni: «in questo contesto si è progressivamente fatta largo una raffinata strategia di marketing basata su un assioma correlato a criticità solo in apparenza correlate (riduzione del finanziamento pubblico, aumento della spesa out – of – pocket, difficoltà di accesso ai servizi sanitari e rinuncia alle cure) alimentate dai risultati di studi  discutibili finanziati proprio da compagnie assicurative». (http://www.rapportogimbe.i/3_Rapporto_GIMBE.pdf).
Infatti, vi sono anche aspetti psicologici collettivi che giocano su certe situazioni, ma i politici non hanno tempo per queste quisquiglie, e pare guardino solo ai bilanci, come se la salute fosse un affare finanziario, tanto che soffocare il ssn. Ma bisogna anche dire che i debiti dello stato sono retaggio anche dei tempi andati.

Ma passiamo al Fvg. Non mi dilungo su quanto già scritto su www.nonsolocarnia.info anche sulla ormai scarsa attrattività di un sistema e sui tagli a mio avviso demenziali al ssn, a meno che non si voglia trovare una scusa per abolirlo. Si vedevano, nella nostra regione, già dal 2011, quando vi era la giunta Tondo, le linee di tendenza per il contenimento della spesa sanitaria, continuate pedissequamente da Serracchiani – Telesca ed ora da Fedriga -Riccardi, tutte amministrazioni regionali che si sono ben guardate da fare una analisi puntuale dei costi, degli sprechi, dei possibili accorpamenti, delle positività di un ssr (per esempio non servono unità per trapianti in ogni dove, mentre servono reparti ospedalieri di medicina nei piccoli semi soppressi ospedali), con il risultato che è sotto gli occhi di tutti.

«Maggiore equilibrio nella distribuzione delle risorse. Blocco del turnover del personale. Più assistenza sul territorio rispetto a quella ospedaliera. Sono alcuni dei capisaldi delle linee di gestione 2012 per la sanità» del Fvg. (“Sanità. Assunzioni bloccate nel 2012”, in: Messaggero Veneto, 1 dicembre 2012).

Allora era presidente della giunta regionale Renzo Tondo, di destra, poi gli è subentrata Serracchiani, che ha avuto come assessore alla salute Maria Sandra Telesca, prima direttore amministrativo presso l’ospedale di Udine ed attualmente a capo della gestione amministrativa dei presidi ospedalieri Aas4; ora è alla guida della regione la Lega con Massimiliano Fedriga, ed assessore per sanità e salute è Riccardo Riccardi, Forza Italia, ma il disegno per il ssr è sempre lo stesso, quello di smantellare per far cassa e parlare, parlare, ma io, che sono vecchia, non capisco più molto di tutte queste dichiarazioni, e mi scuso subito per questo. Inoltre, mi pare proprio che fosse stato Riccardo Riccardi ad aver parlato, forse un paio di anni fa di welfare … e ne parla ancora. Ma che welfare vi può essere se si taglia ulteriormente il ssr?

«Diversi sono i fattori che oggi minano la sostenibilità di tutti i sistemi sanitari: il progressivo invecchiamento delle popolazioni, il costo crescente delle innovazioni, in particolare quelle farmacologiche e il costante aumento della domanda di servizi e prestazioni da parte dei cittadini. Tuttavia, il problema della sostenibilità non è di natura squisitamente finanziaria, perché un’aumentata disponibilità di risorse non permette comunque di risolvere cinque criticità ampiamente documentate nei paesi industrializzati: l’estrema variabilità nell’utilizzo di servizi e prestazioni sanitarie; gli effetti avversi dell’eccesso di medicalizzazione; le diseguaglianze conseguenti al sotto-utilizzo di servizi e prestazioni sanitarie dall’elevato ‘value’; l’incapacità di attuare efficaci strategie di prevenzione; gli sprechi, che si annidano a tutti i livelli.

In tal senso, il dibattito sulla sostenibilità del SSN continua ad essere affrontato in maniera distorta dalle varie categorie di stakeholder che, guardando a un orizzonte a breve termine, rimangono arenati su come reperire le risorse per mantenere lo status quo, allontanando la discussione dalle modalità con cui riorganizzare il sistema sanitario per garantirne la sopravvivenza». – si legge nella presentazione del dettagliatissimo ‘Rapporto GIMBE” sulla sostenibilità del ssn italiano, 2017. (https://www.gimbe.org/pagine/1171/it/rapporto-gimbe-2017). E il rapporto continua evidenziando le quattro criticità che condizionano la sostenibilità del ssn: «definanziamento pubblico, nuovi LEA, sprechi e inefficienze e ipotrofia della spesa privata intermediata», (Ivi), proponendo pure alcune soluzioni, ma in una ottica precisa: la rivalutazione del ssn al 2025, la conferma dell’esplicita volontà di rimettere al centro dell’agenda politica la sanità pubblica e, più in generale, il sistema di welfare, «sintonizzando programmazione finanziaria e sanitaria sull’obiettivo prioritario di salvaguardare la più grande conquista sociale dei cittadini italiani: un servizio sanitario pubblico equo e universalistico da garantire alle future generazioni». (Ivi).

E così conclude: «Escludendo a priori un disegno occulto di smantellamento e privatizzazione del SSN, la Fondazione GIMBE suggerisce un “piano di salvataggio” del SSN attraverso sei azioni fondamentali:

  • offrire ragionevoli certezze sulle risorse destinate al SSN, mettendo fine alle annuali revisioni al ribasso rispetto alle previsioni e soprattutto con un graduale rilancio del finanziamento pubblico;
  • rimodulare i LEA sotto il segno del value, per garantire a tutti i cittadini servizi e prestazioni sanitarie ad elevato value, destinando quelle dal basso value alla spesa privata e impedendo l’erogazione di prestazioni dal value negativo;
  • ridefinire i criteri della compartecipazione alla spesa sanitaria e le detrazioni per spese sanitarie a fini IRPEF, tenendo conto anche del value delle prestazioni sanitarie;
  • attuare al più presto un riordino legislativo della sanità integrativa;
  • avviare un piano nazionale di prevenzione e riduzione degli sprechi, al fine di disinvestire e riallocare almeno 1 dei 2 euro sprecati ogni 10 spesi;
  • mettere sempre la salute al centro di tutte le decisioni (health in all policies), in particolare di quelle che coinvolgono lo sviluppo economico del Paese, per evitare che domani la sanità paghi “con gli interessi” quello che oggi appare una grande conquista.

In assenza di un piano politico di tale portata, la graduale trasformazione verso un sistema sanitario misto sarà inesorabile e consegnerà definitivamente alla storia il nostro tanto decantato e invidiato sistema di welfare». (Ivi).

Ma invece che pensa di fare la politica Fvg e non solo? Di mettere in crisi la sanità in montagna e nelle zone periferiche, lasciate al ‘fai da te’ ed al ‘salviamo il salvabile’, con sindaci che approvano, con leggerezza inusitata e senza pare discussione alcuna, la cancellazione dell’aas3, senza prevederne la ricaduta sulla popolazione e sul territorio. Ma salta solo Benetollo … Non è vero scrivo a chi pare guardasse, da quello che potevo leggere, un po’ troppo alle cariche e molto meno ai servizi erogati ed alla complessità dei problemi e delle ricadute. E se è vero che Riccardi ha detto di voler mantenere i distretti, mi chiedo però con che compiti e funzioni, non certo di programmazione generale e specifica.

Si spende troppo per farmaci innovativi, si diceva allora e si dice ora, che sono spesso salvavita e per il personale. Ma questo si sapeva da un pezzo. I farmaci si possono comperare, come proposto anche per la Francia, a livello nazionale o attraverso un circuito Alta Italia – Centro Italia – Italia del sud ed insulare- cercando di abbassarne il costo sulla base del quantitativo acquistato, ricordando però che, poi, il mantenimento dei farmaci ed sistemi di distribuzione locale devono essere improntati alla massima sicurezza, e possiamo spendere in ricerca e produzione, oltre che vedere se vi siano generici equivalenti e meno costosi.

Inoltre, attaccare il personale in prevalenza ospedaliero, sfibrato e che lavora al limite, dicendo che si abbasserà loro lo stipendio, non è politica oculata, ed è sbagliare bersaglio. (Michela Zanutto, Scure sul personale della sanità. Imposti oltre nove milioni di risparmi, in Messaggero Veneto, 9 gennaio 2019). «[…] stiamo parlando di personale che potrebbe fare di più, se messo nelle condizioni di lavorare» – afferma Riccardi, portando però un esempio relativo solo alle carte da compilare per il consenso al trattamento dati. Quindi parla, pare per il personale, di funzioni sovrapposte, senza che si possa capire a che cosa si riferisca, (Ivi), mentre è certo che in Fvg molti del personale della sanità, in particolare molti medici ospedalieri, fanno di tutto e di più e ben oltre il loro orario di lavoro.

E la sanità non si può organizzare come la Mirafiori, con i tempi calcolati a cronometro. Per inciso, secondo me, neppure il lavoro alla Mirafiori andrebbe programmato così. Senza personale o con personale demotivato, stanco, angosciato da continui cambiamenti anche nelle prassi burocratiche e dalle incertezze del presente e del futuro, non si ottiene una sanità efficiente, ed a lungo termine una politica di questo tipo non ‘paga’ come si suol dire, perché il fattore umano conta non poco, e perchè così si distrugge il ssn.

Comunque, come prevedibile, la ‘levata di scudi’ di sindacati di categoria e del personale contro la decisione di tagliare 9 milioni e mezzo di spese per il personale sanitario in Fvg non si è fatta attendere. E tutti hanno snocciolato le criticità già note: ferie cancellate, straordinari, personale già ridotto all’ osso, mancata informazione su quanto si andava decidendo … (Michela Zanutto, Risparmi sulla sanità: sindacati e Pd critici “Caleranno i servizi”, in: Messaggero Veneto, 10 gennaio 2019). Si era tolto il blocco del turnover, ma queste decisioni azzerano il beneficio, e peggiorano la situazione.

E lo stesso rapporto Gimbe 2018 dice che non si può sotto-finanziare per fare cassa nell’immediato, e che il Paese si trova davanti ad un bivio: «se si intende realmente preservare la più grande conquista dei cittadini italiani, come da ogni parte dichiarato a parole, accanto a tutti gli interventi necessari per aumentare il ‘value for money’ del denaro investito in sanità, è indispensabile invertire la rotta sul finanziamento pubblico. In alternativa, occorrerà governare adeguatamente la transizione a un sistema misto, al fine di evitare una lenta involuzione del SSN che finirebbe per creare una sanità a doppio binario, sgretolando i princìpi di universalismo ed equità che ne costituiscono il Dna».  (www.rapportogimbe.it/3_Rapporto_GIMBE.pdf). Ma in Italia le assicurazioni private non garantiscono tutti. (Ancora su: salute e sanità nazionale e regionale, in: www.nonsolocarnia.info).

E non si può credere che i medici di base facciano tutto quello che si vorrebbe facessero, con 1300 pazienti ed il contratto nazionale in vigore. Inoltre, nella quasi ex aas3, ora né carne né pesce, (mentre servirebbero, come minimo, ordinaria e straordinaria manutenzione nei nosocomi gemonese e tolmezzino), la politica locale anni fa, in altro contesto, scelse di puntare tutto sulla risonanza magnetica. Ma successivamente gli esami con detto macchinario, che ha anche dei limiti, caddero sotto le forche caudine di Beatrice Lorenzin, che ne vincolò l’uso ad un protocollo preciso, facendo la gioia delle radiologie private.

E che il personale non sia molto, in questa che fu aas3, lo diceva anche Cristiana Gallizia, dirigente medico in aas4 e candidata alle regionali 2018 con Massimiliano Fedriga, che così sosteneva nell’aprile 2018: «Sulla sanità in Alto Friuli servono assunzioni, servizi fatti funzionare anche di sera per abbattere le liste d’attesa, sistemi di prenotazione che favoriscano prestazioni nella sede più vicina al domicilio, rete informatica che raggiunga sia i cittadini che i medici di famiglia. […]. I nostri ospedali di Tolmezzo e Gemona […] devono continuare a restare attrattivi, ma negli ultimi quattro anni hanno perso funzioni, servizi, certificazioni di qualità, di eccellenza, molti medici di valore nonché posti letto che il grande ospedale di Udine non riesce a compensare. […]. Non posso pensare – continua – che nel prossimo quinquennio si debba chiedere l’elemosina per una montagna che, considerata solo per il numero di abitanti, sarà sempre più perdente ed umiliata […].». (“Servono assunzioni per la sanità” in: Messaggero Veneto, 17 aprile 2018).

Come non essere d’accordo, questa volta con Gallizia? Ma ora perché non si è fatta viva con Fedriga e Riccardi per dire queste cose?  Inoltre, ho letto che alla presidenza della conferenza dei sindaci della quasi defunta aas3 è stato mantenuto Gianni Borghi che però mi ha stupito quando ha dichiarato alla stampa che i sindaci sono pronti a «lavorare per applicare le future direttive regionali», (Piero Cargnelutti, Ex Aas3, la sede resta fino al prossimo anno, in: Messaggero Veneto, 9 gennaio 2019), non a contestarle se del caso, o a dare un loro apporto anche critico nel merito. E questo mi pare molto da sotàns, ma mi scuso subito con gli interessati per averlo pensato. Insomma, questi nostri sindaci a me paiono un po’ mosci, per non usare altro frasario, un po’ silenti, un po’ nocchieri per una montagna sulla via del tramonto. (Piero Cargnelutti, Ex Aas3, la sede resta fino al prossimo anno, in: Messaggero Veneto, 9 gennaio 2019).

Non da ultimo, se qualcuno ha detto che l’ospedale di Tolmezzo è una priorità, siamo contenti ma noi, pazienti della Carnia e del Gemonese, non siamo interessati ad un ospedale che non sia più nostro, che diventi una entità regionale non più di riferimento territoriale, come pare quasi già sia, e vorremmo che fosse presa in considerazione anche una rivalutazione dell’ospedale di Gemona e del suo pronto soccorso, perché l’integrazione fra i due poli era molto positiva e tagliava liste di attesa. Infine, ricordo a Riccardo Riccardi che, il 6 novembre 2019, aveva puntualizzato come la realtà dell’Aas n.3 avesse dinamiche articolate e complesse, ed implicasse scelte «che non si possono basare esclusivamente sul numero di abitanti del territorio ma sulle criticità che esso presenta». (http://www.regione.fvg.it/rafvg/comunicati/comunicato.act?dir=/rafvg/cms/RAFVG/notiziedallagiunta/&nm=20181106103117001).

Pensava forse che le criticità territoriali si sarebbero potute risolvere, tagliando la stessa Aas3?  E chiedendomi ancora una volta che sarà di noi, montanari, dopo la confluenza ad Udine della nostra azienda, che potremmo vivere, psicologicamente, come una privazione, un lutto, un lungo lutto, chiudo questo mio articolo. Senza voler offendere alcuno, scusandomi subito con chi potesse sentirsi magari offeso, senza mia intenzione, ma per dare uno spunto per discutere, e se erro correggetemi.

Laura Matelda Puppini


Il racconto di Dino da Vuezzis, fedâr, socialista, figlio e nipote di socialisti.

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Nel maggio 1978 io ed Alido siamo andati ad ascoltare il racconto di Dino D’Agaro, detto Dino da Vuezzis, fedâr, nato nel 1906, che ci ha narrato tanti aspetti della sua vita, del suo pensiero, del suo paese. Accudiva il fuoco, Dino, mentre ci raccontava …

«Quando ero bambino gli uomini emigravano in primavera e rientravano in autunno, e chi tirava avanti la baracca erano le donne. E se vi era una minima rendita dal lavoro agricolo era grazie a loro. Vi erano in paese molte mucche e, fra Vuezzis e Stalis, si riuscivano a fare circa quattro quintali di latte, mentre ora le vacche si sono ridotte a due, non c’è più gente, e sono cinque o sei anni che a Vuezzis non c’è più la scuola, e si capisce già che questi piccoli paesi spariranno, anche perché il governo ha favorito l’industria a scapito dell’agricoltura. Ed anche in Furlanìa, prima vi erano molti mezzadri, ed ora ce ne sono ben pochi, perché gli uomini preferiscono fare gli operai in qualche fabbrica. Si sta meglio, si guadagna di più …

Ma per ritornare alle donne, esse lavoravano anche scalze, o mettevano las ‘putas’, (1) le chiamavano così, cioè delle solette grosse, cucite da loro, fissate sotto gli scarpetti. E per raggiungere i prati da falciare partivano al mattino presto, e camminavano anche un’ora e mezzo, due, facendo qualche pausa. Ed in ogni caso ci voleva un’ora, a passo veloce, per raggiungere i primi prati della montagna. E poi poteva succedere che, giù vicino al paese, ci fosse il sole che scaldava, ma invece in cima alla montagna ci fosse la ‘nuolate’, la nebbia, e dovevano tornare a casa dopo esser salite inutilmente. Insomma, ci doveva essere un periodo di tempo buono per non far strada ‘di bant’.
E falciavano, e facevano ‘le mede’ di fieno, e dopo un mese, un mese e mezzo, quando il fieno era fermentato e bollito, lo portavano a valle con la slitta, utilizzando ‘las grifas’, specie di ramponi, per non scivolare. E un carico poteva raggiungere anche i tre quintali di fieno.

 Bambini a Vuezzis e dintorni.

A Vuezzis, quando ero piccolo, c’era la scuola elementare e tutti dovevano frequentare sino alla terza classe, ed i certificati di frequenza e superamento della terza dovevano essere visti dall’ispettore, che scriveva: «L’alunno è dispensato dall’obbligo di andare a scuola», che significava, in sintesi, che aveva completato il primo ciclo elementare, e che nessuno lo obbligava più ad andare a scuola.

A scuola, imparavamo a leggere, scrivere ed un po’ a far di conto. Erano così i programmi. Ed a Vuezzis vi era una pluriclasse composta da prima, seconda e terza, e nei banchi più vicini alla cattedra sedevano i bimbi di prima, in quella di mezzo i bimbi della seconda, mentre i bimbi di terza erano posizionati verso le finestre.

E le famiglie non vedevano l’ora che i maschi andassero a lavorare, e talvolta non c’era tempo di educare se non all’obbedienza ed al lavoro, e non c’erano molte regole. E i bimbi, mentre i genitori erano a lavorare, restavano spesso con i vecchi, e prendevano tutti i loro vizi, per esempio quello di parlare sporco. E poi, quando erano al cantiere, all’estero, imparavano bene il mestiere ma anche il frasario.

Tutti al lavoro… mangiando poco ed ammalandosi spesso …

Finita la terza elementare, i maschi continuavano ad aiutare la madre ed i genitori finché non veniva per loro il tempo di andare a lavorare all’estero, a tredici o quattordici anni, con padri, zii e cugini. Solo successivamente è stato posto il divieto di mandare a lavorare ragazzi sotto i quindici anni, e poi sotto i diciassette … Perché fino a che un ragazzo è in crescita non deve essere messo a fare lavori anche pesanti e per molte ore.
E mi ricordo che Aldo è andato a lavorare all’estero a tredici anni, ed anche Noè D’Agaro ha seguito, giovane, il padre, mi pare a quattordici anni.  Naturalmente i primi due o tre anni di lavoro non guadagnavano tanto, e lavoravano solo per vivere e per imparare il mestiere, incominciando da manovali. Ora invece i giovani vogliono soldi subito.

E gli uomini lavoravano all’estero e le donne in campagna, e si mangiava polenta di granoturco e latte. E non si vedeva vino, se non in qualche caso, ed era, in generale, miseria.  E un operaio, un muratore con mestiere, specializzato, in una stagione, prima della prima guerra mondiale, poteva guadagnare circa 500 lire, che non erano poche, ma le famiglie erano numerose, e un povero padre, che aveva tanti figli da sfamare, doveva fare i salti mortali per mantenerli. Ed allora non esistevano gli assegni familiari, che almeno garantiscono il pane, come ora, e non vi erano aumenti di paga.  E qui per falciare tutto il giorno, in montagna, per fare il contadino, davano due lire, oltre il mangiare a mezzogiorno.

Ed anche in comune di Rigolato c’erano padroni che avevano prati da falciare. E i padroni, se erano coscienziosi, davano la metà del prodotto a chi lavorava, altrimenti pretendevano i due terzi, lasciando solo un terzo al lavoratore. Indubbiamente c’era un po’di sfruttamento.
E possidenti erano Durigon di Magnanins e Gussetti Eugenio (Euge). Qui a Vuezzis e Stalis, invece, non c’erano grandi proprietari e la mucca la tenevano tutti, mentre in altre frazioni di Rigolato e nel comune c’erano quelli che non avevano nulla. E c’erano “braccia per lavorare” in abbondanza. Allora era così.

E durante la bella stagione, qui restavano solo donne e bambini, e mi ricordo che si studiava a scuola, in terza elementare, che gli abitanti della Carnia erano “sobri e laboriosi” e la maggior parte liberi, che avevano voglia di lavorare e specialmente Rigolato è stato, per questo, un modello di comune.
E facevano i muratori, i carpentieri, i boscaioli, i falegnami, non i minatori.

Dopo la prima guerra mondiale, gli uomini hanno iniziato ad emigrare verso la Francia, che era stata distrutta dall’invasione della Germania, che però, dopo la guerra, era ridotta ai minimi termini. E solo nel 1938- 1939 il marco ha iniziato ad acquistare valore perché, nel corso della prima guerra mondiale, era stato portato via oro al governo, e la Germania aveva dovuto stampare moneta che non valeva niente con cui voleva pagare i creditori. Ma questi l’hanno costretta a emettere moneta regolare, ‘buona’.

Inoltre, poteva accadere che uomini tornassero dall’estero ammalati, se il lavoro non li uccideva. Non esistevano allora tutti quei controlli che ci sono adesso. Che sappia io, in Francia gli operai dovevano sottoporsi a controllo medico due volte all’anno. E tanti rientravano a casa perché ammalati. E spesso contraevano la tubercolosi, che era molto diffusa anche a causa del troppo lavoro. E prima della prima guerra mondiale, il numero più alto di tubercolotici si trovava nei paesi di Givigliana e Magnanins.  Comunque, ad un certo punto, vennero istituite le Società di Mutuo Soccorso ed Istruzione, ed ogni iscritto versava cinque lire all’anno per farne parte, e così si creava un po’ di cassa. E con questi soldi davano un piccolo sussidio ai soci quando erano ammalati, in modo che potessero sopravvivere, perché allora non c’era la cassa malattia, non c’era niente.

E su, in Germania (2) c’erano le scuole invernali di disegno per la costruzione e l’edilizia, e molti le frequentavano. E molti dei nostri hanno imparato a lavorare fermandosi all’estero anche l’inverno, per studiare. Da che so la prima scuola di muratori qui è stata istituita a Gemona del Friuli, la seconda a Moggio Udinese. A Rigolato c’era fino alla sesta elementare, e quando sono nato io, nel 1906, c’era già una scuola di disegno, dove insegnava Lepre (3), il padre dell’onorevole. E la scuola è continuata sino alla prima guerra mondiale. Dopo Lepre, era il maestro Fiori (4) a fare scuola di disegno e contabilità. Gli allievi versavano una quota di iscrizione per frequentare, ma forse dava un sussidio per la scuola anche il comune. E pure il papà di Luca Pascutti (5) insegnava alla scuola di disegno, ed era davvero bravo. Ma quando è andato al potere il fascismo, ha dovuto iscriversi al fascio con ‘lo stomaco pieno’, e, per insegnare a Rigolato, ha dovuto andare a fare gli esami ad Udine.

Gli uomini che restavano in paese, o lavoravano come contadini o nel bosco, e cercavano di allevare, con fatica, una mucca o qualche pecora, o qualche montone, per poi venderli. E potevano prendere anche 200 lire per animale, ma pecore e montoni valevano meno della mucca, ovviamente. E c’erano allora anche persone che sapevano intagliare il legno. Ma in generale era miseria, e c’erano tante tasse da pagare. E quando sono morti i miei genitori, nel 1959-1960, io pagavo sette od ottomila lire di prediali, cioè di tasse fondiarie, mentre ora pago mille lire, e quelli che hanno poco ora non pagano nulla. Invece allora tutti dovevano pagare.

Il sistema dei libretti.

Finché l’uomo non rientrava poteva accadere che le donne non avessero soldi sufficienti per pagare i commercianti per quel poco che acquistavano per mangiare. E mio nonno raccontava che allora, prima della creazione delle cooperative, andavano queste mogli, queste donne, che allora non sapevano quasi né leggere né scrivere, ad acquistare con i libretti, su cui i commercianti annotavano quello che volevano. E quando non si paga subito sembra che la merce non costi, invece poi, quando venivano tirate le somme …  Insomma, mio nonno diceva che qui i libretti sono stati il tradimento e la rovina di molte famiglie. Anche per superare questo sono state create le cooperative di consumo.

Le donne, comunque, lavoravano molto e morivano per il troppo lavoro. Ed il dott. Vezzola, medico del paese, quando le vedeva andare a falciare in montagna, diceva: «Cagnas dall’ ostia, mangiate pure due volte al giorno, ma riposate». E diceva anche: «Piuttosto che sposarle in questi paesi, è meglio mandarle a fare le puttane!».  Perché le donne erano troppo sfruttate, ed anche non per necessità ma per egoismo. E anche oggi molte cose vengono fatte per egoismo, e si dice che “più ce n’è più ce ne deve essere” e il denaro è un buon servitore, ma se diventa padrone, se diventa il mio padrone, allora io divento un povero ‘mona’.

Nel matrimonio il sentimento non aveva spazio.

Ed a Givigliana c’era ad un certo punto un prete che veniva da Tolmezzo, che stette lì 11 anni. Ed egli, che conosceva bene il paese, disse che lassù “a sparagnavin masse”, risparmiavano troppo, tiravano troppo la cinghia senza motivo, e si sposavano fra consanguinei, fra cugini, per interesse, senza badare alle conseguenze.
E quando sono andato a Vuezzis a far formaggio, c’era un sacerdote slavo. Ed egli diceva che se i due sposi avessero capito cosa poteva loro succedere contraendo matrimonio fra cugini, non lo avrebbero fatto, e che se non pagava una generazione quello sbaglio, lo avrebbe pagato la successiva.
Ma a Givigliana sposarsi tra cugini era un’abitudine, anche a causa dell’altitudine del paese. Perché se la donna scende facilmente al piano … non sale in montagna con la stessa facilità …

E quel sacerdote si intendeva anche di medicina. Ed una volta c’era una donna che stava quasi per morire a causa del cuore, ed è stato chiamato per dare i sacramenti. Finito questo compito, ha detto che avrebbe provato lui a dare alla donna una medicina a base di erbe e vino bianco. E la donna è vissuta ancora un anno.
Ed allora i matrimoni non avevano nulla di sentimentale, ed erano stipulati sulla base di interessi anche economici, di opportunismo, ed era tutto un materialismo, ecco. E questo era particolarmente accentuato a Ludaria. E sono anch’ io per metà di Ludaria. Quando ero giovane ci sono stati lì almeno cinque o sei matrimoni basati solo sulla ‘roba’.  Ma contenti così …
Ed ora esiste il diritto di famiglia, ma allora … Allora la moglie dava del voi al marito, e alcuni uomini volevano essere superiori alla donna, e quando il marito diceva alla moglie: «Fa silenzio», quella doveva obbedire. E c’erano quelli che più avevano torto più imponevano alla moglie di far silenzio.  Non tutti erano autoritari, ma ce n’erano molti. E le donne dovevano subire anche a livello sessuale.

Comunque vi era anche qualche divertimento.

Durante la buona stagione tutti lavoravano, ma poi, d’inverno ed a Carnevale, si godevano la vita anche a Givigliana: sparare, ballo liscio. Ed erano le Società Operaie che organizzavano dei balli, ed allora c’era molta gioventù, mentre ora noi andiamo verso il cimitero e non c’è niente, non ci sono giovani.

Due parole sulla mia vita …

La base di tutto, in questa vita, è la fortuna … e io non ho avuto tanta fortuna, ecco. Io sono nato con un impedimento, e quando andavo a scuola i maestri dicevano a mia madre che avrebbe potuto mandarmi ancora a scuola. Ma poi è venuta la prima guerra mondiale, e, quando è finita, ho frequentato una scuola privata. E ciò accadeva prima della riforma Gentile, che è stata resa esecutiva il 1° ottobre 1923, e che ha modificato molte cose. Poi è stata creata una scuola che si chiamava tecnica, che durava quattro anni. Quindi chi completava il ciclo di studi e voleva continuare, frequentava le magistrali, che in Francia si chiamano ‘ecole normale’, oppure gli istituti tecnici per diventare geometri o ragionieri. Invece la scuola privata che ho frequentato io era retta da un cognato del maestro Fabio di Ludaria. (6).

E a Ludaria c’era anche ‘il lazzaretto’ dove c’era un ospedale militare, nel corso della prima guerra mondiale. E adesso vi racconto anche questo episodio. Al ‘lazzaretto’ c’era in servizio un cappellano militare, che, se serviva, celebrava anche messa nella parrocchiale, e che faceva prediche ‘di lusso’.
E c’era una giovane, che era andata profuga con la famiglia ma poi nel 1918, era rientrata a Ludaria. E questo cappellano l’ha conosciuta, e l’ha conosciuta ancora meglio … e nel 1920 si sono sposati. E qui dicevano che gli era piaciuto più l’altare d’osso che quello di marmo!!!

Io ho letto molto.

Io conosco la letteratura francese, Hugo, Zola, e conosco il marxismo. Ho letto ‘I Miserabili’, ed altri autori francesi li ho conosciuti grazie a mio nipote che abita a Strasburgo, ed è là che ho letto alcuni libri. Infatti, io conosco il francese, ed anche se ora ho dimenticato la pronuncia di alcune parole, uso però ancora bene il vocabolario e scrivo sia a quelli di mio fratello che a quelli di mia sorella.
E non faccio errori di grammatica, usando il vocabolario, e conosco le regole del francese, perché la grammatica italiana e quella francese non sono uguali. Per esempio, alcuni nomi che in italiano sono maschili, in francese sono femminili, e l’aggettivo possessivo non vuole l’articolo. E vi è diversità nel fare il plurale dei nomi, ed alcuni vogliono una ‘s’ ed altri mutano ‘au’ in ‘aux’ e ci sono molte regole nel francese anche scritto.

Ed io ho imparato il socialismo da mio padre e mio zio.

Ho imparato il socialismo un po’ da mio padre e un po’ da mio zio, e leggendo il ‘Melzi’ scientifico dove sono elencati tutti i personaggi di quel tempo. E qui c’è stato anche Andrea Costa. Andrea Costa era romagnolo, ed era socialista. E Imola, Forlì, Forlinpopoli erano la patria dei socialisti. E quando hanno mandato qui Andrea Costa, era ispettore scolastico Luigi Bendetti, cattolico, friulano, di Gemona. E quando ha sentito che avevano mandato qui questi maestri romagnoli che non credevano in Dio, non sapeva più cosa fare.
Ma c’erano anche socialisti di Rigolato, in particolare a Ludaria. Avevano imparato il socialismo in Germania, da emigranti, ed avevano portato queste idee nuove in paese.
Un mio zio, socialista, pover’uomo, è morto in esilio in Francia. È andato via quando è andato al potere il fascismo, e non è tornato più, è morto là.
Però vi dico che non c’è gratitudine verso chi è troppo attaccato ad una fede, perché il mondo è dei furbi, di quelli che vanno dove va il vento. E chi è idealista rischia di prendersi anche un “Sei un mona…”.

Il Cooperativismo in comune di Rigolato.

 Eppure, a Rigolato, i socialisti non avevano mica fatto poco! Avevano istituito i primi circoli ricreativi, il forno del pane cooperativo e la cooperativa di consumo di Ludaria, che aveva un piccolo negozio. e che era stata creata nel 1905, due anni prima di quella di Tolmezzo, che ha aperto il primo spaccio il 6 gennaio 1907.

Le prime riunioni per formare la nostra cooperativa carnica si sono tenute a Villa Santina. Lì c’era una sala da ballo dove si incontrarono. Ed i fondatori più noti della Cooperativa Carnica di Consumo sono stati tre: Vittorio Cella, Riccardo Spinotti e Giuseppe De Prato, che era nato Rigolato, ma aveva proprietà anche a Villa Santina, dove è morto quando io mi trovavo lì. La famiglia di De Prato era padrona di Tors, ed aveva fondi lì di ‘Vidàl’, poi acquistati da un Durigon di Gracco, e che ora sono stati comperati dal ‘gobbo’.
Poi coloro che avevano creato la cooperativa di Ludaria, dopo che è stata costituita quella Carnica, sono andati con quella, che era più grande ed organizzata, dopo aver venduto quello che avevano nel negozio. E la Cooperativa Carnica ha aperto lo spaccio di Rigolato.

E qui la latteria era gestita in modo cooperativo, era una latteria sociale. Ma, in generale, in quasi tutti i comuni della valle, a Forni Avoltri, a Comeglians, le latterie erano latterie sociali. Esse funzionavano così: ogni giorno si pesava tutta la rendita, e si faceva questo per un mese intero, e dopo si faceva la percentuale di resa: per esempio di burro tanto per un quintale, di formaggio tanto per un quintale, e poi il prodotto veniva distribuito sulla base del latte portato e pesato. Nella latteria turnaria, invece, ognuno riceve tutto il prodotto lavorato in un giorno: formaggio, burro, e tutto quello che gli spetta. Ma a me pare migliore la latteria sociale, se però la persona che segue il comparto resa è onesta, se chi fa il casaro è un galantuomo.

Il sistema della latteria turnaria è più controllabile, ognuno ha tutto il prodotto di una giornata, burro, formaggio, tutto quello che gli spetta.
Però, con il sistema della latteria sociale, se ci sono delle forme non perfette, che ‘non sono giuste’ vengono distribuite fra tutti. Cioè se il latte di un giorno non è buono, ed ad una famiglia spettano tre o quattro forme in un mese, comunque ne prende una fatta all’inizio del mese, una in mezzo ed una in fondo, e si limita il danno. Ma se invece il latte non è buono, per qualche motivo, il giorno in cui a me spetta tutto il prodotto, con il sistema della latteria turnaria tutte forme scadenti me la prendo sul gobbo, ostia!

Inoltre, nelle stalle sociali le forme prodotte vengono contrassegnate con un numero progressivo, ad incominciare dall’1, (prima forma di formaggio del primo giorno del mese) fino a 700 od 800 forme. Ed ogni giorno bisogna pesare tutto il ricavato dalla lavorazione del latte: burro, formaggio, tutto quello che si produce, e poi, sulla base dei quintali di rendita, dividerla sulla base dei quintali di latte portati al mese. Ed è importante vedere anche quanto ‘butta’ per ogni quintale. Perché, per esempio, il formaggio rende, allo stato fresco, dal 7 all’8%, il burro1,6- 1,7 % per quintale. Il burro migliore è il primo, e si chiama burro di affioramento. e poi viene quello di siero. Perché adesso, con il sistema moderno, invece di fare la ricotta con il siero, dopo tolto il formaggio, fanno burro, ma quello non ‘butta’ tanto: 700- 800 per quintale. Quello ‘butta’ meno. E adesso fanno la ricotta con il siero.

Sulla Cooperativa Carnica e Vittorio Cella.

Nel 1920 i socialisti carnici avevano fatto una finta occupazione dei municipi, organizzata dalla Cooperativa Carnica, che era stata istituita dai socialisti. Io mi trovavo allora a Villa Santina, ed ho visto che erano andati a mettere a bandiera rossa sul Municipio, in alto. E prima erano in tre, poi in due ed infine uno, che si è arrampicato il più in alto possibile.

E i fascisti volevano bruciarla in un primo tempo, la Cooperativa. Nel 1922-1923 la Cooperativa di Tolmezzo era stata assediata, e volevano distruggere la sede che però era presidiata da guardiani, ma poi non ne fecero nulla, forse anche perché Mussolini era stato maestro a Tolmezzo. Ma povero Cella, di Verzegnis, ha dovuto andarsene. Spinotti a quel tempo era già morto, e Cella ha tenuto duro finché ha potuto, e poi ha dovuto andarsene, ed è cambiato direttore.

E mi ricordo di esser stato, nel 1935, ad assistere ad una assemblea, e di aver sentito il direttore dire così: «la Cooperativa Carnica ha un passato che non voglio ricordare!» Poi, nel 1936, Cella si era messo nel commercio di macchine per l’Africa Orientale Italiana dove c’era la guerra, e non so bene cosa avesse fatto, ma, lazzaroni i suoi soci, è andato a finir male. E si è ucciso sulla tomba della moglie. Era di Verzegnis, si chiamava Vittorio Cella, ed era geometra lui, come studi …

Il 1948, e i democristiani al potere.

Nel 1948 la Democrazia Cristiana ha vinto le elezioni praticamente al 100%, e sull’ ‘Avanti’ giornale dei socialisti era scritto così: «Una goccia rossa non basta a cambiare il nero del governo». E allora i democristiani avevano proposto di mettere i comunisti fuorilegge, e cinque anni dopo sempre i democristiani, in vista delle nuove elezioni, avevano preparato una legge birbante, in caso di vittoria.  E allora, dopo le elezioni, sull’Avanti era scritto: «la legge truffa non è scattata». Non avevano vinto quanto pensavano, e dal ’48 in poi la sinistra è andata sempre più su … mai più giù. Ed adesso nessuno dice di mettere i comunisti fuorilegge.

La vita difficile dei socialisti a Rigolato, anche prima della prima guerra mondiale.

I socialisti qui, un tempo, avevano vita dura, a causa della gente del paese, del fanatismo religioso. Insomma, per molti i socialisti erano diavoli, perché non credevano tanto in questo incantesimo del mondo al di là. E pensare che mio zio Guerrino ed altri socialisti avevano istituito il forno cooperativo per fare il pane buono, di farina di frumento. E la nonna di Ferruccio dal Ciaf diceva che erano buoni uomini, perché avevano fatto delle buone istituzioni, ma che mancava loro un po’ di timor’ di Dio. Insomma, quelli del paese volevano bene a queste persone, che avevano fatto queste cose, ma mancava loro il timor di Dio. E la gente andava dietro, per prima cosa, ai preti. Poi con l’istruzione è cambiato un po’. Ma prima …

Mio padre era di Ludaria, ed era un po’ socialista, e lo erano anche i miei zii, e quando sono nato io tutti avevano avuto un figlio morto: quello prima di me è morto a mio padre, ed uno è morto a zio Gerrino ed uno a zio Giovanni, e poi a me è venuto quel che è venuto, ma non sono morto, ancora. E c’erano altri socialisti, a Ludaria, che avevano avuto un bimbo morto.

E per tutto il comune di Rigolato si era sparsa la voce che questo era un castigo di Dio, e che a loro, socialisti, non doveva vivere nessun figlio. Ed avevano persino montato la testa a mio nonno, che lo chiamavano ‘Baba Tito’. Infatti, mio nonno era il più giovane dei fratelli, e fra il primo e l’ultimo di questi vi erano ventinove anni di differenza. E quando è nato mio nonno, suo fratello, il più vecchio, era già ammogliato, e così mio nonno si è trovato ad andare a scuola con sei suoi nipoti, di cui era zio. Ed il cappellano, che a quel tempo faceva il maestro, ha incominciato a chiamarlo ‘Barba Tito’.

E le donne vendevano anche i capelli …

 E in quella miseria, le donne erano costrette a vendere anche i capelli, perché magari avevano il marito ammalato. E queste ragazze piangevano, quando venivano loro tagliati i capelli, ma per ogni taglio prendevano dalle 15 alle 20 lire, ed erano soldi che valevano».

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Il tempo per l’intervista è terminato, e Laura e Alido ringraziano Dino per le sue preziose informazioni.

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(1) Il nome dato alle solette potrebbe essere sia ‘putas’ che ‘pucias’, non si capisce bene.

(2) In realtà scuole di disegno c’erano anche in Austria, ma qui forse Dino usa genericamente il termine, come talvolta si usava in friulano, ove “las Germanias” indicavano il mondo tedesco.

(3) Trattasi di Romano Lepre, padre di Bruno, che inizialmente lavorava in Austria, in Carinzia, con i parenti, nell’ impresa del padre Francesco. Dopo la prima guerra mondiale, trovò lavoro presso la sede centrale del magazzino della Cooperativa Carnica di Consumo di Tolmezzo, ed infine divenne il gestore della filiale della Cooperativa Carnica di Ovaro. Di ideali socialisti, venne più volte eletto consigliere comunale a Rigolato nelle file del Partito Socialista, e ne fu, per un periodo, anche il Sindaco. Nel periodo che precedette la seconda guerra mondiale, la casa di Anna e Romano diventò luogo di riunioni clandestine di antifascisti locali, fra cui i comunisti: Giovanni D’Orlando, ispettore forestale fatto licenziare dai fascisti, Aulo Magrini, medico di Prato Carnico, Osvaldo Fabian, Benedetto Raber di Comeglians, Secondo Vidale di Rigolato, Pietro Pivotti di Enemonzo, Romano Toniutti di Comeglians, De Campo, e Pietro Pellegrini di Lauco. Romano Lepre, a causa delle sue idee socialiste, fu controllato dai carabinieri e ricevette, periodicamente, la visita del maresciallo degli stessi. Quando il Duce annunciò l’entrata in guerra dell’Italia, egli urlò “Vergogna!” all’indirizzo dei fascisti, e ciò lo mise pubblicamente in luce. Il giorno dopo al quasi sessantenne Romano venne recapitata la cartolina precetto per presentarsi immediatamente in Sicilia ad un reparto dell’antiaerea. Egli fu salvato da quella sorte solo per il fatto che senza di lui la filiale della Cooperativa Carnica di Ovaro non avrebbe potuto più andare avanti.
Per un rifiuto a consegnare una parte dei viveri che ivi giungeva dalla sede centrale della Cooperativa Carnica ai cosacchi e per la sua attività antifascista, fu portato via da casa dai Cosacchi ed imprigionato nella caserma di Paluzza, dove subì sevizie e stenti. Dato che i fatti contestatigli, relativi alla sua attività politica, erano circostanziati, Romano Lepre si rese conto che ad Ovaro vi erano spie e delatori. Trasferito poi alle carceri udinesi di via Spalato, si salvò dal campo di concentramento in Germania grazie al maggiore medico tedesco, che lo ritenne in condizioni di salute tali da non poter neppure incominciare il viaggio. Ritornato a casa, non si riprese più   nonostante le cure dei familiari e del dott. Covassi e morì il 15 aprile 1948. ((Bruno Lepre, Memorie di un socialista di montagna, Campanotto ed.). Scheda presente anche in:  Marchetti Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, p. 397-398).

(4) Il maestro Fiori era uno dei maestri socialisti romagnoli mandati forse per punizione ad insegnare in Carnia, nello specifico a Rigolato. Egli era considerato un ottimo maestro elementare.

(5) Trattasi di Luca Pascutti sr. di Gracco di Rigolato, persona austera, che incuteva un timore reverenziale, dai ricordi di Alido Candido,  con un certo grado di istruzione e capo cantiere, e, par di capire qui, antifascista e forse socialista. Aveva lavorato nel Bellunese, nel paese della moglie e al rientro a Gracco faceva il disegnatore. (Vilia Candido commento datato 17 gennaio 2019 sul gruppo facebook  ‘Rigolato: cartoline d’epoca: foto d’epoca’, all’avviso della pubblicazione dell’articolo).

(6) Trattasi di Bruno Russello, marito di Lieta sorella del maestro Fabio, pure lei maestra elementare. (Vilia Candido commento datato 17 gennaio 2019 sul gruppo facebook  ‘Rigolato: cartoline d’epoca: foto d’epoca’, all’avviso della pubblicazione dell’articolo).

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L’intervista è di Alido Candido e Laura Matelda Puppini, ed è come altre, stata resa quasi tutta in friulano. Trascrizione e traduzione in italiano di Laura Matelda Puppini. Manca il nome del maestro Fiori che vi prego di comunicarmi. L’immagine che accompagna l’articolo è stata da me scattata a Rigolato un paio di anni fa. Per cortesia se qualcuno ha una foto che ritrae Dino da Vuezzis, me la invii, per corredare questa sua importante testimonianza. 

Laura Matelda Puppini

 

 

Giornata della memoria. Per non dimenticare quella tempesta devastante che fu la shoah, che tante vite travolse.

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Shoah, che parola strana. Shoah è un termine ebraico che significa «tempesta devastante», e si trova nella Bibbia, per esempio in Isaia 47, 11.  «Ti verrà addosso una sciagura/ che non saprai scongiurare;/ ti cadrà sopra una calamità/ che non potrai evitare/ Su di te piomberà improvvisa una catastrofe/che non prevederai» – Questo dice il profeta, e questo accadde al popolo ebraico durante il Secondo conflitto mondiale. Ma non capitò fra capo e collo: l’antisemitismo serpeggiava in Europa dalla Francia alla Germania, ma il popolo ebraico non capì subito sin dove si sarebbe spinto il nazismo, fino al tentativo di annientarlo.

«Fra il 1939 e il 1945 circa 6 milioni di Ebrei vennero sistematicamente uccisi dai nazisti del Terzo Reich con l’obiettivo di creare un mondo più ‘puro’ e ‘pulito’. Alla base dello sterminio vi fu un’ideologia razzista e specificamente antisemita che affondava le sue radici nel 19° sec. e che i nazisti, a partire dal libro Mein Kampf («La mia battaglia») dell’austriaco Adolf Hitler (1925), posero a fondamento del progetto di edificare un mondo ‘purificato’ da tutto ciò che non fosse ‘ariano’. Alla ‘soluzione finale’ (così i nazisti chiamarono l’operazione di sterminio) si arrivò attraverso un processo di progressiva emarginazione degli Ebrei dalla società tedesca. Le leggi di Norimberga, del 1935, legittimarono il boicottaggio economico e l’esclusione sociale dei cittadini ebrei; dal 1938, e in particolare dalla cosiddetta ‘notte dei cristalli’ (8-9 novembre 1938, quando in tutta la Germania le sinagoghe furono date alle fiamme e i negozi ebraici devastati) in poi, il processo di segregazione e repressione subì un’accelerazione che sfociò nella decisione, presa dai vertici nazisti nella Conferenza di Wannsee (gennaio 1942), di porre fine alla questione ebraica attraverso lo sterminio sistematico. Lo sterminio partì dalla Germania, ma si espanse via via con le conquiste del Terzo Reich, colpendo gli Ebrei dei paesi occupati, vale a dire di quasi tutta Europa. Essi furono in una prima fase ‘ghettizzati’, cioè forzosamente concentrati in appositi quartieri delle città (il principale ghetto europeo, per estensione e numero di abitanti, fu quello di), e in seguito deportati nei campi di concentramento e di sterminio, costruiti soprattutto in Europa orientale. Ad Auschwitz, Treblinka, Dachau, Bergen Belsen.» (1).

La Shoah si leggeva negli occhi talvolta persi e volti a fissare il vuoto e nelle parole incerte del prof. Benedetto Cagli, che bambino, era sopravvissuto allo sterminio della sua intera famiglia, si legge ancora nelle parole di Primo Levi: «Per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa: la demolizione di una persona.

Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, ci hanno rasato i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, se ci ascoltassero non ci capirebbero.
Ci toglieranno anche il nome: e se vorremmo conservarlo dovremo trovare la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa di noi, di noi quali eravamo, rimanga…»  (2).
E così continua Levi: «“Mi è capitato molte volte di chiedermi come potesse essersi verificata la tragedia dell’olocausto; quali assurdi meccanismi mentali potessero essersi instaurati in persone normalissime, padri premurosi, mariti affettuosi, cittadini rispettabili. quali deviazioni del pensiero e dell’emotività li avessero potuti trasformare, senza apparente perché, in assassini brutali ed empi, spietati e folli, pur facendo loro conservare, nella vita di tutti i giorni, le normali funzioni sociali. I nazisti, infatti, non erano psicopatici, non lo erano prima non lo furono dopo…almeno non tutti. Doveva esser accaduto qualcosa a livello globale e quel qualcosa, secondo me, era accaduto nella percezione delle vittime. Le vittime erano state degradate a ‘cose’, deumanizzate, oggettivizzate, e quindi non più in grado di suscitare pietà ed empatia. (3).

E credetemi, questo modo di creare una immagine distorta dell’altro da odiare, che tutti accomuna, non è molto distante da quello utilizzato per creare l’immagine del ‘partisan’ sporco, rosso, slavo, ladro di terre, o del partigiano, o del comunista, verso cui vi è ancora chi urla dalla tv o da volumi.

E mi ha sempre colpito la figura di Janusz Korczak, polacco, medico, che poteva salvarsi ma accompagnò alla morte i piccoli bimbi ebrei del suo orfanotrofio.

Andava con i bambini verso la morte, Janusz Korczak. Andava con i suoi bambini ebrei della casa degli orfani del ghetto di Varsavia, verso la morte, quando poteva cercare di andarsene libero, il medico Janusz Korczak, andava verso Triblinka, in quel lontano 1942. Non voleva lasciare soli quei bimbi, forse 200, voleva calmare la loro paura.

«C’era un silenzio terribile, sfiancato. Korczak trascinava un piede dietro l’altro, camminava come ingobbito, bofonchiava qualcosa fra sé e sé […]. Gli adulti della Casa degli Orfani, come Stefa Wilczynska, gli camminavano accanto, e così facevo io stesso. Nelle prime file i bambini andavano a righe di quattro, poi così come capitava, in ordine sparso, in fila indiana. Qualche bambino teneva Korczak per la giacca, o forse gli stringeva la mano. Camminavano come in trance.» (4).  Andava con i bambini verso la morte, Janusz Korczak.

«Janusz Korczak oggi ho veduto,/Nell’ultima marcia andare coi bambini./E i bambini avevano vestiti puliti/Come andassero di domenica al giardino./Avevano grembiulini puliti, da festa,/Che ora potranno sporcare./A file di cinque va l’Orfanotrofio,/Per la città-giungla di gente braccata». (5).

E quante madri e padri furono separati dai figli, andando incontro al loro tragico destino senza neppure poterli tenere accanto, stringerli, coprire loro gli occhi… Il nazismo non fu solo barbarie, fu annientamento di tutto ciò che è umano. Ora alcuni parlano del nazismo e del fascismo ridendo, li esaltano magari riempiendosi di immagini da internet, e sarebbe davvero opportuno che nelle scuole si insegnasse in modo approfondito la storia.

Il 27 gennaio 1945 si aprivano i cancelli di Auschwitz, il più grande centro di sterminio umano dell’epoca.
Per quanto riguarda i campi di sterminio nazisti, detti “Lager”, essi ebbero un ruolo fondamentale nella “macchina di annientamento e di sterminio di massa” condotta dai nazifascisti. Ma contro chi si mosse questa macchina?
Contro gli ebrei, gli oppositori politici e quindi anche i partigiani della guerra di Liberazione, i disabili fisici e psichici, gli zingari, gli omosessuali, i Testimoni di Geova che rifiutavano di prestare servizio militare, ed altri ancora.
Dopo l’8 settembre 1943, quando gli italiani vennero considerati dai Tedeschi non più alleati ma nemici, finirono nei Lager nazisti anche soldati ed ufficiali italiani, internati perché appartenenti a truppe nemiche.
Le loro condizioni di vita e di lavoro erano tali che spesso morivano per la fatica e gli stenti.
Tutti coloro che, catturati in diversi paesi d’Europa, non potevano venir utilizzati come manodopera e quindi non degni di “partecipare al grande sforzo bellico del Reich”, cioè vecchi, malati, bambini, donne, ragazzette, erano destinati all’eliminazione nelle camere a gas.
Auschwitz funzionò per circa quattro anni e mezzo con una media di 710 morti al giorno.

Il 27 gennaio 1945 l’esercito russo, come da accordi, raggiunse Auschwitz e donò ai pochi sopravvissuti la libertà. Furono gli uomini dalla stella rossa che avanzarono da est, liberando dai nazisti le terre occupate, ad aprire le porte di quel lager, mentre Inglesi ed americani avanzavano da ovest. E sia i russi che gli alleati contarono migliaia di morti in quel procedere verso la liberazione dal nazismo, appoggiati dai partigiani, appoggiati da parte della popolazione. Fu uno sforzo immane.  Poi lo storico incontro a Torgau, sull’Elba, tra l’esercito russo e quello americano, il 27 aprile 1945, ed il comunicato congiunto anglo-americano e russo. Sognavano tutti la fine della guerra, il ritorno a casa, la fidanzata … la fine di tutto quell’orrore, di tutto quel terrore che aveva insanguinato l’Europa.

Ed il fascismo era a fianco del nazismo.

Così scrive Corrado Augias nel suo: I segreti di Italia, Rizzoli, 2012, alle pagine 34 e 35: «I brevi mesi della Repubblica Sociale italiana, quelli del fascismo morente di Salò, sono stati un concentrato di tragedia. Mussolini ridotto ad uno spettro ormai in mano ai suoi guardiani nazisti; le sue brigate nere impegnate in operazioni di bassa macelleria nei villaggi italiani, i partigiani impiccati col fil di ferro, gli appartamenti trasformati in luoghi di tortura, bande criminali che agiscono per proprio conto, fanno prigionieri, violentano, uccidono, sottratte ad ogni controllo gerarchico e politico. Un’atmosfera plumbea, i muri delle celle incrostati di sangue secco, come si scoprirà dopo la Liberazione». Anche questo fu il fascismo, e vi furono anche italiani che spiarono, tradirono, di fatto consegnarono partigiani, civili, ebrei, nelle mani del carnefice. Ed ebreo era Elio Morpurgo, udinese, che anziano, fu costretto a salire su di un treno diretto ad Auschwitz dove non giunse mai. E non sappiamo neppure il nome della professoressa ebrea che insegnava allo Stellini di Udine quando era studente Ciro Nigris, che ad un certo punto sparì, e nessuno seppe mai dove andò a finire, se verso un tragico destino. E chissà quanti ebrei anche in Friuli sparirono, senza che nessuno osasse più chiedere di loro, come nell’Italia intera.

Le leggi razziali, in Italia, ridussero gli ebrei in povertà, li sottoposero ad umiliazioni ed al pubblico ludibrio, impedirono loro luoghi, attività, impieghi.

E nonostante molti italiani aiutassero gli ebrei a nascondersi, le cifre della Shoah in Italia furono tragiche: i deportati furono 8500. I morti furono circa 7.500 quasi tutti ad Auschwitz. Si salvarono quindi 1000 persone. A questi 7500 dobbiamo aggiungere i morti delle Ardeatine, di Meina, della Risiera. In totale furono 7750. Ed è sconvolgente il dato dei bambini e adolescenti morti: i morti da zero a 20 anni ammontarono a 1288 persone, tra questi i bimbi da zero a tre anni furono 483 e quelli con pochi mesi di vita 72. E dei 33mila ebrei italiani in fuga dopo l’8 settembre 1943, la percentuale degli uccisi fu del 20%, cioè 1 su 5. (6).

6 milioni di ebrei morirono per quella tempesta devastante, che non poterono scongiurare… e non furono i soli; milioni di persone morirono nella seconda guerra mondiale.

Infine, per attualizzare la riflessione, credo che ci si dovrebbe soffermare su quell’indifferenza verso l’altro citata dall’allora Ministro Gerolamo Sirchia, e verso il ‘nuovo imbarbarimento’ che vuole che ognuno faccia solo il suo interesse egoistico, e che nessuno si curi di nessuno, nella società, nella sanità, nei servizi, in un contesto che ha ben poco di comunitario e di umano. (7). Ormai, in questa che viene detta la società dei consumi, si vale solo per i soldi che si hanno, non per chi si è. E questo non mi pare un grande risultato. Perché anche gli ebrei allora furono ridotti a numeri e disumanizzati.

Inoltre, bisogna, secondo me, stare attenti a certo cosiddetto revisionismo storico ed all’uso politico della storia, che tendono a giustificare, occultare, ogni nefandezza anche fascista, ed a modificare i fatti dandone una lettura personale.

E rimando ai miei precedenti per la giornata della memoria sempre su www.nonsolocarnia.info: “27 gennaio 2018. Jean Amery ebreo a Auschwitz: dove l’orrore divenne realtà”; Auschwitz, e gli altri campi di sterminio: il terrore, l’orrore. Per non dimenticare”; “Storia del Memoriale Italiano ad Auschwitz: dal sito Unesco all’Ipercoop di Firenze?”, ed anche a: “Paolo Pezzino. Il duplice volto dell’Italia nel secondo dopoguerra, e quella difficile giustizia per i crimini nazisti, quasi negata.”

Infine vorrei invitare tutti ed in particolare gli insegnanti delle superiori a prendere in seria considerazione, come letture anche per gli studenti,  ‘Intellettuale ad Auschwitz’ di Jean Amery; il testo del carnico Pietro Pascoli, “41927, I deportati”, leggibile on line, in: http://www.deportati.it/static/pdf/libri/pascoli_deportati.pdf, ma anche i romanzi e racconti di Heinrich Böll, premio Nobel per la letteratura nel 1972, che ci ha descritto magistralmente le falsità della guerra e la Germania del dopoguerra, e non solo. Infine ricordo i bellissimi: “Il nazista & il barbiere”, di Edgar Hilsenrath, Marcos y Marcos, ed., 2010, e “L’Adamo risorto”, di Yoram Kaniuk, Giuntina ed., oltre che lo stupendo testo di Francesco Guccini ‘Auschwitz’ che permettono ulteriori riflessioni.

L’immagine che accompagna l’articolo, già da me utilizzata lo scorso anno, è tratta da: http://www.modenatoday.it/eventi/eventi-giorno-della-memoria-serramazzoni-2016.htm.

Laura Matelda Puppini

(1) http://www.treccani.it/enciclopedia/shoah/.

(2) Liberamente tratto da: Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi ed., 2005, p.23.

(3) “L’Olocausto e la dispercezione della vittima.” – in: http://psicocafe.blogosfere.it/.

(4) Marek Rudnicki, bambino nel ghetto di Varsavia, salvatosi, in: http://www.disclic.unige.it/lastradadikorczak/bio.php.

(5) Da: “Un foglio dal diario di una Aktion” di Władysław Szlengel, il cantore del ghetto di Varsavia, in http://www.disclic.unige.it/lastradadikorczak/bio.php.

(6) http://restellistoria.altervista.org/pagine-di-storia/giorno-della-memoria/gli-ebrei-italiani-dalle-leggi-razziali-alla-deportazione-ad-auschwitz/.

(7) Cfr. Laura Matelda Puppini, «Ghe pensi mi» No grazie. Sui problemi etici della sanità, sulla sua politicizzazione, sul laboratorio analisi tolmezzino, in: www.nonsolocarnia.info.

L’immagine che accompagna l’articolo, già da me utilizzata lo scorso anno, è tratta da: http://www.modenatoday.it/eventi/eventi-giorno-della-memoria-serramazzoni-2016.htm.

Invito all’incontro sul decreto sicurezza a Tolmezzo.

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Ricevo dal presidente della sezione Anpi Tolmezzo l’avviso di questo incontro sul decreto sicurezza,  che pubblico per invitare sia chi è d’accordo con la linea degli oratori sia chi dissente a partecipare, per riprendere a discutere di temi importanti a Tolmezzo, dove ormai non si dicute più di niente. Laura Matelda Puppini

dibattito sicurezza
 

Siamo ad Auschwitz? Facciamoci un selfie.

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Alcune notizie, una foto, alcuni articoli pubblicati oggi da ‘Il Fatto Quotidiano’, mi hanno portato a fare amare considerazioni sulla società presente, piena di ‘sovranismo’ ed ignoranza.

Ed inizio dalla foto, che non è un selfie, perchè è quella che mi ha ispirato il titolo. Essa è pubblicata a p. 15 di Il Fatto Quotidiano del 27 gennaio 2019, correda l’articolo di Stefano Feltri: «Senza i sopravvissuti nessuno vorrà più capire lo sterminio», e rappresenta tre donne o ragazze ad Auschwitz, con il braccio teso,ma forse solo per scherzo, ma forse solo per … Per inciso l’articolo parla di un libro, di Yishai Sarid, che pare interessante, intitolato: «Il mostro della memoria». Abbiamo perso il senso degli avvenimenti, penso fra me e me, in questa società che volge a destra un po’ per gioco un po’ per convinzione, e che, nel volere ‘riscrivere la storia’ a proprio uso e consumo, finisce per cancellare la realtà, i numeri, i simboli, i fatti ed i pensieri.

Ma, pur non esistendo nell’antichità e nel Medioevo una ‘ars historica’, era già presente, sia nella narrazione di storie prevalentemente in forma orale ma non solo, sia nella compilazione degli Annales, l’importanza di non barare, di non alterare i fatti. Scrive Cicerone che le leggi della storia sono tre: non osare mentire; dire tutta la verità per intero; evitare ogni sospetto di indulgenza. (Federico Chabod, Lezioni di metodo storico, Laterza ed., dodicesima edizione, 2012, nota 15, pp. 14-15). Quindi, nel rinascimento, si iniziò a scindere la storia dalla poetica (Ivi, nota 2, p. 18), togliendo alla prima la connotazione letteraria, e cercando di darle una propria dignità al di fuori dell’oratoria e della filosofia (Ivi, pp. 20-24), mentre il concetto di ‘fonte’ storica andava delinandosi. Ora, la preliminare valutazione ed analisi delle fonti è l’elemento portante su cui si regge qualsiasi approccio ad argomento storico. Ed attualmente risultano relegate al  passato la storia intesa unicamente come ‘fabula’ letteraria, come maestra di vita, come mera portatrice di un messaggio moralistico- utilitaristico. (Ivi, p. 11). Non per questo, però, memoriali, fonti letterarie e fonti orali non devono esser prese in considerazione dallo storico, ma dopo vaglio attento. (Cfr. L. M. Puppini. Lu ha dit lui, lu ha dit iei. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica. La storia di pochi la storia di tanti, in: nonsolocarnia.info).

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Ma ritorniamo all’articolo di Stefano Feltri ed al volume che egli recensisce. Esso pone temi di riflessione non di poco conto. Il protagonista del racconto è un giovane israeliano, che è assunto dal direttore del museo Yad Vashem, che coltiva la memoria dell’Olocausto e promuove studi nel merito. Il giovane non è particolarmente interessato all’argomento, ma esso è collegato ad una borsa di studio che gli permetterà di mantenere la moglie. Così, dopo esser stato assunto, si porta anche in Germania, ove analizza in modo minuzioso le tecniche di sterminio, dimenticando di dedicare del tempo anche alle vittime, ai drammi, all’ideologia nazista e razzista che aveva creato la Shoah. «”Il linguaggio burocratico è la mia unica lingua”»- diceva Adolf Eichmann. (Stefano Feltri, op. cit.), e il linguaggio burocratico diventa anche quello preferito dal giovane ricercatore quando guida nei campi di sterminio gli studenti in gita scolastica. Così va a finire che egli narra l’efficienza assoluta dell’apparato nazista di sterminio, invece che la shoah, piena di vissuti, drammi, tragedie. (Ivi).

Ma pensiamo ai nostri studenti delle superiori in gita scolastica a Mauthausen. Cosa potranno capire? Cosa abbiamo trasmesso loro? Visiteranno quel luogo solo perchè obbligati, facendosi magari un selfie, o comprenderanno qualcosa di più? O vivranno quanto loro narrato da un insegnante di lettere o storia solo come uno dei tanti ‘racconti horror’? Perchè è inutile portare ragazzi e ragazze a visitare un lager senza che abbiano studiato la nascita e lo sviluppo del razzismo, del pensiero nazionalsocialista e dell’antisemitismo. Ma ben più tragica è la considerazione del volume analizzato da Feltri: pare infatti che quanto narrato dal giovane già citato, che fa da guida ad un gruppo di visitatori, possa interessare solo a uno degli startrupper che devono ideare un nuovo videogame molto realistico. (Ivi).

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Il secondo articolo presente su: ‘Il Fatto Quotidiano’ del 27 gennaio 2019 si sofferma su alcune storie di amore tra «Lui ebreo e lei nazista e viceversa», (Camilla Tagliabue, Stella, Goebbels, Leo & C: l’amore ai tempi dell’ orrore, in Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2019), argomento già trattato con grande spessore ed ottica diversa dalla regista Liliana Cavani nel suo “Il portiere di notte”, ambientato però nel 1957, che tratta dell’incontro fra una vittima ebrea ed il suo carnefice nazista, che li fa precipitare in una relazione sadomasochista, che ripropone i rapporti interni al campo di sterminio.
Qui invece si tratta di storie di amore in tempi in cui l’amore fra due persone non era sempre permesso a causa della razza, ed un ariano non poteva unirsi ad una ebrea e viceversa. Storie letterarie così narrate, che siano vere o meno, possono però, se non adeguatamente contestualizzate, far perdere le dimensioni della shoah ed il pensiero soggiacente, trasformando l’olocausto e le leggi razziali in un lontano sfondo alla storia personale e d’amore che diventa l’aspetto principale, e devono quindi esser accompagnate da una analisi seria e storica dei contesti. Altrimenti succede, come accaduto in Carnia per la storia romanzata di Mirko e Katia, che vada a finire che la resistenza carnica, che ha coinvolto migliaia di montanari e montanare, si chiuda nella tragica vicenda di due che si amano, e quindi amanti, lui slavo e malato di tisi, lei carnica, togliendo loro anche il valore della lotta che li aveva uniti, e che li aveva portati sui monti. Ma una bella storia di amore romanzata e dal finale tragico, si vende certamente più di un libro di storia, e non richiede per scriverla una grossa fatica di ricerca delle fonti e di analisi.

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Quindi altre due notizie. In Italia ormai, in fatto di giornate della memoria e del ricordo accade di tutto e di più, in barba alle leggi nazionali. Così il sindaco di Siena, pare motu proprio, ha deciso di rinviare la memoria dell ‘Olocausto non a data da destinarsi, ma il 10 febbraio 2019, giornata del ricordo, facendo, dico io, di tutte le erbe un fascio. Ma cosa volete che sia … Ed a chi lo criticava, il sindaco ha risposto che le giornate sono così vicine, che si possono unificare il 10 febbraio, tanto si parla sempre di morti. (Giacomo Salvini, Il sindaco di centrodestra ricorderà la Shoah nel giorno delle Foibe: proteste Anpi e Cgil, in Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2019). Ma ditemi un po’ voi … Ed  è un laureato in legge … Ma uno doveva pur incominciare, in Italia, a far di testa propria … Fra l’altro la legge istitutiva della giornata del ricordo dice che «La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale», e che in detta giornata «È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende». E le iniziative per quella giornata, sono anche «volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero». (http://www.camera.it/parlam/leggi/04092l.htm). Cosa c’entri questo con la Shoah, vorrei saperlo dal sindaco di Siena, che non voglio assolutamente offendere, ma la cui scelta mi pare un po’ oscura. Inoltre il 27 gennaio non è giornata della memoria della shoah solo italiana, ma internazionale.

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Infine in Polonia, stato che pare non voglia più ricordare che Auschwitz è stata liberata dall’esercito sovietico, e che ci ha rispedito indietro il monumento memoriale  che un gruppo di artisti italiani di valore aveva costruito, lavorando gratuitamente e con passione, per non dimenticare, e finito attualmente non so dove (Cfr. Storia del Memoriale Italiano ad Auschwitz: dal sito Unesco all’Ipercoop di Firenze?, in: nonsolocarnia.info), un gruppo di neonazisti, guidati dal leader dell’estrema destra polacca Piotr Rybak, ha provato ad entrare nel campo di concentramento di Auschwitz dove era in corso la celebrazione della giornata della memoria per protesta contro il governo locale, accusato di ricordare solo gli ebrei e non le vittime polacche.  (https://www.fanpage.it/polonia-protesta-dellestrema-destra-ad-auschwitz-ricordano-solo-gli-ebrei/http://www.fanpage.it/). Ma potevano dirlo anche prima alle autorità, senza disturbare la cerimonia. (https://www.fanpage.it/polonia-protesta-dellestrema-destra-ad-auschwitz-ricordano-solo-gli-ebrei/). E per ora mi fermo qui, sottolineando che il titolo è una provocazione, come alcune considerazioni, e nulla di più, ma certi articoli e romanzi fanno riflettere, perchè alcuni scenari e situazioni si potrebbero presentare in futuro o sono già presenti.

Laura Matelda Puppini

Questo testo è una riflessione che ha alla base articoli pubblicati il 27 gennaio 2019 su Il Fatto Quotidiano. L’immagine che accompagna l’articolo:  ‘Auschwitz_I_entrance_snow.jpg. è tratta, solo per questo uso, da: https://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_concentramento_di_Auschwitz, e la proprietà attribuita è la seguente: Di Logaritmo – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3231093. Laura Matelda Puppini

Ezio Cescutti. Personaggi e vita a Vuezzis.

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A distanza di 60 anni i ricordi non possono essere ovviamente nitidi, ma i cassetti della memoria presentano sempre delle piacevoli sorprese, come il ricordo di Dino, il nostro casaro. Lo ricordo prima di tutto nel suo aspetto fisico. Non era Dino un uomo di grande statura, era tarchiato, pelato, con un impedimento fisico che gli rendeva difficile la camminata e lo obbligava a trascinare i piedi. Egli calzava le dalmine in legno o, nei suoi trasferimenti a Rigolato, delle grosse scarpe. Il suo incedere era rumoroso e, dal momento che all’epoca le strade non erano asfaltate, alzava al suo passaggio una nube di polvere.

Vestiva in modo sobrio, e fustagno e velluto caratterizzavano il suo guardaroba. Non beveva, non fumava, era di carattere mite, e nascondeva questa sua timidezza con uscite estemporanee e satiriche nei confronti dei suoi paesani. E non mi ricordo di averlo mai sentito bestemmiare. Oltre all’attività di casaro, aveva, a ridosso dell’abitazione, un laboratorio di falegnameria, dove eseguiva dei piccoli lavori e dove era bersaglio dei nostri scherzi di monelli. Infatti egli, mentre lavorava, era solito cantare, e così noi, bambini e ragazzetti, riuscivamo ad arrivare non sentiti fino sull’uscio, per poi irrompere nella stanza della falegnameria con grande frastuono, oppure facendo scoppiare delle piccole cariche esplosive che fabbricavamo da soli, data l’abbondanza di residuati bellici facilmente reperibili all’epoca, per poi scappare sicuri non essere inseguiti, dato il suo impedimento fisico. Ci raggiungevano solo le sue invettive, la più comune delle quali era che sarebbe stato meglio per noi morire nel grembo materno prima ancora di nascere. Ma in fondo ci voleva bene in quanto, pur conoscendo la nostra identità, mai ha fatto presente alle nostre famiglie queste nostre malefatte, onde evitarci il sicuro castigo.

Dino D’ Agaro, detto Dino da Vuezzis, (10 agosto 1906- 19 maggio 1992) nella foto posta sulla tomba. Si ringrazia Angelo Candido per l’invio di questa immagine e della parte di lapide con i dati anagrafici di Dino.

Sul lavoro Dino era molto scrupoloso, e mi ricordo ancora il suo rammarico in quanto inspiegabilmente, e non per colpa sua, per un periodo il formaggio prodotto risultò avere un sapore molto amaro. Nel merito si fecero le più svariate congetture: dal tipo di caglio usato fino al sabotaggio, ma i provini a sorpresa fatti sul latte non dettero mai risultati, e si vociferava che gli stessi fossero stati pilotati per coprire qualcuno.

Durante la giornata lavorativa in latteria, egli, con il dito mignolo della mano sinistra costantemente in bocca, era solito cantare, inventandosi delle filastrocche e delle nenie ironiche e satiriche nei confronti dei paesani; questi canti tenevano compagnìa anche a noi, alunni della scuola elementare, le cui aule erano poste sopra la latteria, che vivevamo in attesa di qualche nuovo pezzo.

Dino aveva una memoria di ferro, e ricordava giorno mese ed anno di nascita di tutti gli abitanti di Vuezzis e Stalis. Un aneddoto riportato dai suoi nipoti e che pertanto ritengo veritiero, racconta che, invitato da suo fratello Tito di gna Beto a raggiungerlo in Francia a Strasburgo, salito in treno, avendo dei bisogni fisiologici, richiamò l’attenzione di tutti per fermare il convoglio e potere così espletare le sue necessità.

Parte dei famosi affreschi trecenteschi della chiesa di San Nicola a Vuezzis, opera della scuola di Vitale da Bologna, che dovrebbero esser subito restaurati prima della loro sparizione. (Immagine da: Venier G., Gli affreschi di San Nicolò di Vuezzis, in «Quaderni dell’Associazione della Carnia Amici dei Musei e dell’Arte», 9 – 2004).

 La contrada ove abitava Dino era denominata “Da Pezu” e vi abitavano anche altri personaggi   caratteristici. Stava lì, per esempio, Riccardo, scapolo anche lui, con un handicap ad un braccio che lo rendeva inabile al lavoro. Per arrotondare la misera pensione, raccoglieva nei boschi legname (las boros) che accatastava in lunghe file dietro la sua casa e che poi vendeva alla cartiera di Tolmezzo.

Mi ricordo, pure, la particolare attenzione che Riccardo poneva per un pezzo di questi tronchi. Questo atteggiamento colpì sia me che Luciano, mio carissimo compagno d’infanzia prematuramente scomparso, così, quando Riccardo non ci vedeva, procedemmo ad un’accurata ispezione del pezzo di legno, facendoci scoprire che il tronco era stato scavato ed all’interno nascondeva un moschetto calibro 91.
Così, in assenza di Riccardo, era un gioco da ragazzi sottrarlo per andare a sparare in una gola del rio Neval che attutiva gli spari. Ovviamente, data la nostra bassa statura, si rendeva necessario legare l’arma ad un albero a causa del notevole rinculo della stessa; quindi i bossoli vuoti, debitamente riempiti di polvere da sparo e collegati ad una corda da mina a lenta combustione, diventavano, per noi, quelli che attualmente vengono denominati ‘raudi’ o petardi.
Correvamo ogni volta grandi rischi, ma la fortuna ci ha sempre aiutati.

Non ricordo, se devo essere sincero, all’epoca l’uso di giocattoli: ci si arrangiava con quello che si trovava, ed i giochi erano: costruire capanne nel bosco, nascondino, ci bee, anticipatore dell’attuale baseball, slittare sulla neve, e non richiedevano particolari attrezzature ma solo fantasia ed arte di arrangiarsi.
Non avevamo allora biciclette ed il pallone è comparso qui solo più tardi, e quando è giunto passavamo la maggior parte del tempo a rincorrerlo, non sempre con la certezza di trovalo, quando sfuggiva al nostro controllo, e rotolava lungo i ripidi prati che allora erano falciati, talvolta sino al torrente Degano.

La famiglia di Riccardo era composta da Davide ed Elsa, che si rendevano garanti della fornitura giornaliera del pane fresco; ogni giorno, ad ogni stagione e con qualsiasi tempo si recavano al panificio di Rigolato a piedi, con la gerla sulle spalle, percorrendo 3 chilometri all’andata ed altrettanti al ritorno per prendere il pane da distribuire agli abitanti di Vuezzis e Stalis. La retribuzione non era sicuramente tale da giustificare questa grande fatica, ma in quei periodi di vacche magre, tutto era utile per fare quadrare il bilancio famigliare. Vicino a Riccardo abitava Lino, chiamato Linut per la sua bassa statura, anche lui scapolo (alla faccia della politica demografica in auge nel ventennio!).  

E ricordo ancora un episodio che coinvolse me, lui, e Luciano. Linut aveva l’abitudine di venire a risciacquare i panni in una fontana pubblica adiacente alla sua abitazione. Quel giorno era un giorno d’inverno, e la tentazione di spaventarlo lanciando una palla di neve nell’acqua fu grande. Ma sbagliammo la mira e lo colpimmo in pieno sulla nuca.
Dopo la precipitosa fuga ed il rientro a scuola, pensavamo di averla fatta franca, ma dei passi nel corridoio fecero svanire le nostre speranze. Le sue rimostranze produssero un paio di sonori ceffoni da parte della maestra Teresina e le nostre scuse con la promessa di non farlo più.

Ezio Cescutti, autore dell’ articolo, noto pittore e scultore di maschere lignee. (http://mascheraialpini.com/?scultori=ezio-cescutti). 

A proposito della scuola, voglio spezzare una lancia a favore delle insegnanti di allora: avevano capacità e dedizione non comuni. Ricordo in particolare la maestra Maria di Soclap e la maestra Teresina di Rigolato; anch’esse venivano a piedi a Vuezzis con qualsiasi tempo, consumavano un frugale pasto a mezzogiorno, in quanto l’orario scolastico era sia mattutino che pomeridiano, ed oltre che insegnare, tenevano a bada degli spiriti liberi come eravamo noi, e, soprattutto conciliavano programma scolastico e didattica con le esigenze delle varie classi.
Infatti eravamo in tutto 12 alunni, che formavano una pluriclasse di 5 classi. Era pertanto davvero difficile, allora, riuscire a portare avanti contemporaneamente 5 programmi diversi, ma riuscivano a farlo. E sarò sempre grato a queste insegnanti che spesso ci facevano anche da genitori, per la loro pazienza e capacità, ed anche per qualche sonoro ceffone che ci somministravano. Ho scritto di getto queste considerazioni senza curare la sintattica e la grammatica, e molto altro ci sarebbe da dire in quanto il nostro paese, seppure piccolo, rappresentava un caleidoscopio della vita rurale dell’epoca con tutti i suoi usi, i suoi costumi, i suoi personaggi.

Magnano in Riviera, 22/1/2019                        Ezio Cescutti.

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Ringrazio Ezio Cescutti per queste preziose righe, e ricordo ai lettori altri articoli comparsi su www.nonsolocarnia.info, relativi a personaggi del comune di Rigolato, e cioè:

1) “ Il racconto di Dino da Vuezzis, fedâr, socialista, figlio e nipote di socialisti.”

2)  “Bepo di Marc – Giuseppe Di Sopra, socialista e fotografo di Stalis di Rigolato”;

3)  “Amedeo Candido di Rigolato, comunista. Storie di vita, lavoro, partito, resistenza”;

4) “Ezio Candido, poeta di Ludaria di Rigolato, cantore, come altri, di natura, vita, dolore e morte”;

(5) “Carnici che scrissero la storia della democrazia: Manlio Fruch, medico, figlio del noto poeta Enrico di Ludaria di Rigolato”.

L’immagine che correda l’articolo è stata da me scattata un paio di anni fa a Rigolato, e rappresenta l’antico lavatoio.

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Chi è l’autore dell’articolo: Ezio Cescutti.

Ezio Cescutti è nato nel 1954. Pittore famoso ed apprezzato, ultimamente si è dedicato anche alla scultura, appassionandosi alla creazione di maschere lignee, prendendo spunto da quelle tarcentine denominate i “Tomats”. Le maschere che realizza sono grottesche e deformi, ma sempre attente alla necessaria vestibilità; la finitura è sempre di grande effetto per la maestria con cui vengono dipinte. Negli ultimi anni sono state spesso utilizzate nelle scenette satiriche del carnevale tarcentino. (http://mascheraialpini.com/?scultori=ezio-cescutti).  Nel 2016 ha collaborato con Luigi Revelant alla realizzazione di un murale per valorizzare l’antica fontana di Stalis.

Laura Matelda Puppini

 

 

Ira Conti. Considerazioni sui lager, sulla connivenza, sulla resistenza in occasione della giornata della memoria.

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27 gennaio 1945, i russi entrano ad Auschwitz; il mondo scopre solo allora l’esistenza dei campi di sterminio, almeno così ci raccontano. L’orrore assoluto, tutto il dolore dell’universo concentrato nel battito di ciglio di pochi anni e in una piccola area del pianeta. Lì tutto è avvenuto, ogni nefandezza, ogni crudeltà che mente umana possa concepire, ha preso forma e dilaniato milioni di poveri esseri inermi.

Molte domande si affollano nella mente di fronte alle immagini terribili arrivate a noi, ma una è quella che più mi angoscia: mentre la mattanza dei propri simili, pur sempre già messa in atto nel corso di molte pagine truci nella storia, veniva realizzata da governi, da massime istituzioni e rappresentanze della comunità umana con scientifica meticolosità, con scrupolosa determinazione, con pianificata freddezza, mentre ciò accadeva, in quali occupazioni era intento il resto della comunità umana? In cosa le restanti alte istituzioni del pianeta? Dell’Europa? Cosa ha fatto sì che gli evidenti segnali dell’avvicinarsi di un terribile epilogo fossero ignorati, che cosa ha causato la grande cecità diffusasi in quell’epoca?

“Mein Kampf” era già stato scritto, comunisti, oppositori, sindacalisti, omosessuali, handicappati, zingari, pazzi, erano già stati uccisi, la macchina infernale macinava già uomini donne e bambini, l’esercito tedesco, con la complicità dei fascismi locali, invadeva territori e rastrellava gente per concentrarla in lugubri luoghi di attesa; cosa ci voleva a capire che si era di fronte ad un’ideologia crudele che avrebbe portato morte, miseria e distruzione mai viste sulla faccia della terra? Cosa fecero gli Stati? Cosa la Chiesa? Cosa la comunità ebraica mentre si uccidevano “gli altri”?

La risposta potrebbe oggi fornirci gli anticorpi, il sistema d’allarme necessario contro il rinascere di quel male. Invece è un tabù, non se ne parla, non si parla di quella china lungo la quale scivolarono milioni di persone in bocca ai forni crematori, non si parla di responsabilità, complicità, indifferenza e silenzio altamente colpevoli dei potenti del mondo o di quelli pur non perseguibili, della gente comune.
Soprattutto dopo, quando non fu più possibile negare, perché la maggioranza dei carnefici, di quegli anonimi e zelanti esecutori l’hanno fatta franca? Perché si cancellarono i nomi scritti sui muri di San Saba, si occultarono i documenti sulle stragi nazifasciste in armadi rivolti verso il muro in oscuri scantinati, si accolsero nelle file dei servizi segreti e delle Istituzioni personaggi pesantemente compromessi con il più efferato massacro della Storia?

Non ho scritto volutamente “il più grande”, perché l’essere umano si è più volte macchiato di indicibili genocidi; basti pensare allo sterminio degli indigeni in tutto il continente americano, allo schiavismo che ha fornito l’energia per la prima immensa accumulazione di capitale della Storia, prima dell’avvento della macchina a vapore e del carbone, al massacro degli armeni, a Pol Pot, al Ruanda….. Ma sicuramente si tratta del primo genocidio pianificato con delirante ossessione al punto di voler braccare le vittime ovunque esse si trovassero, al punto di teorizzarne la scomparsa ovunque essi fuggissero, ovunque essi trovassero rifugio, in tutto il mondo, in ogni nazione che li ospitasse. E la loro eliminazione avveniva in alcuni luoghi fisici, fabbriche efficienti in cui si macinavano uomini donne e bambini a milioni.

Io mi domando ancora, perché questi luoghi, perché i binari che portavano l’immensa e dolente massa umana all’annullamento, perché questi luoghi oscuri eppur conosciuti (così ha ormai dimostrato la Storia ufficiale), così ben visibili dal cielo, non sono stati bombardati dalla potente flotta aerea alleata che invece li sorvolava e andava a bombardare Berlino, Dresda, Hiroscima e Nagasaki? Perché aggiungere altre centinaia di migliaia di morti innocenti a quelli che già si consumavano nei forni crematori?

La comunità internazionale, le istituzioni mondiali, prima di mobilitarsi contro il fascismo ed il nazismo, si macchiarono di connivenza, connivenza che in qualche modo si perpetuò anche durante la lotta e dopo la vittoria, attraverso l’occultamento di prove, la protezione e la fuga di molti protagonisti; il sistema industriale produttivo che sostenne i criminali dittatori nella loro ascesa, si arricchì smodatamente durante il conflitto e nessuno venne messo sotto accusa per questo; i popoli che applaudirono nelle piazze i deliranti discorsi di Hitler e Mussolini non ebbero dopo, a delirio terminato, un’occasione, un percorso di presa di coscienza comune, per capire il meccanismo infernale della sospensione di giudizio collettiva e personale di fronte alla morte di milioni di propri simili, di fronte al vicino di casa che veniva trascinato via e al sollievo provato dietro alla propria porta chiusa; il sistema educativo  post bellico si è dimostrato molto carente nel comunicare ai giovani l’enorme portata di quanto accaduto e nel compito di indicare con chiarezza la cause e gli antidoti a tutto ciò.

Coloro che videro e capirono, i lungimiranti, i coraggiosi che dissentirono, che salvarono vite a loro mortale rischio, tutti coloro che allora si opposero al fiume in piena del delirio collettivo, oggi li chiamiamo eroi, ma allora venivano spesso derisi e perseguitati: disfattisti, traditori, odiatori d’Italia, “buonisti, radical chic e professoroni” direbbero oggi, “zecche comuniste”.
La Resistenza, quel manipolo di coraggiosi che scelse la strada più dura e pericolosa, e che scrisse sugli impervi sentieri di montagna, con l’esempio e il sangue una delle migliori Costituzioni del mondo, essi, i partigiani, i resistenti di allora vengono oggi spesso stigmatizzati e condannati per le debolezze umane, per gli errori e le brutture commessi da alcuni nel corso della situazione più tragica in cui una persona può mai trovarsi in questo mondo, in questa vita: la guerra, una guerra crudele e assolutamente impari.

Spesso chi sostiene l’inutilità della Resistenza e la sua nocività per il popolo sofferente, appartiene alla destra, nella sua parte più oscura di negazionismo e di nostalgia fascista, oppure in quella parte che nulla fece allora e nulla farebbe oggi per ignoranza o colpevole ignavia.
Quindi al popolo ebreo, alla sua dignità e al suo dolore va la pietà del mio cuore, la mia vicinanza, il mio amore, a quel popolo che ha dovuto sperimentare la discriminazione e la violenza in tante parti del mondo ma che qui, allora, dovette subire tutta la persecuzione ed il peso schiacciante di cui può essere capace il potere statale di alcune delle piu forti e democratiche istituzioni della civile Europa, sotto gli occhi altrove volti e le bocche cucite delle altre.
Ma insisto: come e perché ha potuto accadere? Come e perché non si è potuto fermare? Come e perché non si è potuto capire ciò che era accaduto fino in fondo e processare la gran parte dei colpevoli?

Hanna Arendt ha scritto: La triste verità è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive”
Forni di Sotto venne bruciato, saccheggiato e distrutto nel 26 maggio 1944; solo il nome della scuola ricorda quel tragico avvenimento che tanto segnò le vite dei fornesi, non un cippo, non una targa commemorativa; oggi l’amministrazione comunale, in seguito alla ristrutturazione dello stabile,  provvede a non riportarne il nome originale sulla facciata, bensì solo  “Scuola primaria, scuola dell’infanzia “Forni di Sotto”, pur non osando rimuovere la vecchia iscrizione sulla pietra originale posta all’entrata. Ecco, giudicate voi se questo è o non è, voler rimuovere la memoria. Se non questo, cosa?

Ira Conti.

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta Ira Conti, ed è un particolare da una immagine pubblicata su: http://cjalcor.blogspot.com/2018/. Laura Matelda Puppini  Puppini.

 

Marco Puppini. Invito alla manifestazione in ricordo dei volontari della Bassa friulana che combatterono nelle Brigadas Internacionales, che si terrà a San Giorgio di Nogaro il 15 febbraio 2019, e documenti relativi.

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Vi invito tutti venerdì 15 febbraio 2019, alle ore 20, presso la Sala Conferenze di Villa Dora a San Giorgio di Nogaro (Ud) alla manifestazione in ricordo degli antifascisti della Bassa Friulana che combatterono in Spagna nelle Brigadas Internacionales. Marco mi ha mandato pure documentazione sull ‘argomento che pubblico e vi invito a leggere. L’immagine che correda l’articolo è citata già in precedente articolo. Laura Matelda Puppini.

documenti volontari spagna da bassa friulana-1

Su centrali e centraline e su quella montagna violata. Sintesi dell’incontro del 26 gennaio 2019. Prima parte.

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Il 26 gennaio 2019 sono stata ad ascoltare l’incontro sulle centraline, promosso dal benemerito Franceschino Barazzutti di cui questo articolo riassume la prima parte, a cui seguiranno le altre. E due aggettivi mi sono venuti alla mente: legale ed etico, che possono marciare fianco a fianco ma anche essere agli antipodi. Perché non sempre ciò che è legale è eticamente concepibile.

Leal, Palar, Pecol, Charadia, Fuina, e via dicendo: vi è tutta una serie di torrenti, rii, sorgenti, fino all’Acquatona, tutti captati o con progetti di captazione e con una o due centraline realizzate o in ipotesi, che significano chilometri di terreno prativo, montano, di varia tipologia e natura senza acqua a monte di ogni centralina, e cubature su cubature di cemento che, se le centraline verranno abbandonate, rappresenteranno ferite permanenti sul territorio che non si rimargineranno mai, non solo perché ciò che nel creato si altera non si ricrea, ma anche perché nessuno distruggerà le centraline costruite, una, due sul rio a, una, due sul rio b … una due sul  rio c… . Tutte queste centraline, che vengono vissute dai proprietari ma anche ritengo da molti comuni della montagna friulana non nel loro insieme, ma singolarmente, possono portare, secondo me, ad una alterazione globale del sistema idrogeologico, già massicciamente intaccato dalle centrali che furono Sade, e da mille altri balzelli, e potrebbero configurarsi come un castigo di Dio per noi montanari, ma anche per quella gente di pianura a cui i nostri incauti politici hanno promesso acqua potabile dai monti, se servisse, e che non ne avranno. (1). Ma quale acqua hanno promesso, se la Carnia è quasi trasformata in uno sterile ghiaione, mentre le Alpi si asciugano e si inaridiscono sempre più per vari motivi? E non credo di errare poi molto, pensando così.

Sembrava un bollettino da disfatta da Caporetto ambientale quanto sentito stamani. Ma tranquilli, miei cari lettori, è tutto legale. Tutto legale, ma tutto etico al tempo stesso? E no, questo proprio no, distruggere l’eden non è eticamente concesso. E fare anche solo un tentativo di alterare definitivamente l’equilibrio naturale, concorrendo nel piccolo alla distruzione della vita futura non è etico, secondo me, non è fare del bene. Perché bene e male esistono, come esistono Dio e Mammona, Dio il creatore e Satana il distruttore. Ma ormai nessuno crede più al diavolo ed agli inferi e neppure a Dio.
Le leggi si lasciano scrivere, penso fra me e me, mentre mi vengono pure alla mente coloro che inseriscono codicilli in un testo normativo nazionale, all’ultimo momento.  (2).

Ma, scusandomi per questa secondo me indispensabile premessa, che non vuol offendere alcuno ma solo esprimere un mio pensiero anche contestabile, passo a riportare cosa è stato detto nel corso dell’incontro del 26 gennaio, che aveva come oggetto le centraline che prolificano nella montagna friulana, facendo di tanto in tanto alcune considerazioni e rimandando anche a: “Dario Tosoni, geologo. La situazione dell’idroelettrico nel Friuli Venezia Giulia”, a: “Considerazioni sull’alluvione in Carnia e su alcuni problemi non solo carnici, mentre fuori ha ripreso a piovere”, ed al “Comunicato del Comitato Acque delle Alpi sulla perdita di corsi d’acqua per speculazione a fini incentivi idroelettrici” ”, tutti su: www.nonsolocarnia.info,ed a cosa è stato detto nel corso dell’incontro di sabato, 26 gennaio 2018.

L’INTRODUZIONE DI MARCO LEPRE.

Marco Lepre, presidente di Legambiente Carnia, dopo aver ricordato il compleanno di Romano Marchetti e la morte di Giulio Regeni, ha aperto l’incontro in sostituzione di Sandro Cargnelutti, presidente regionale dell’associazione, impegnato in altra sede, sottolineando che lo sfruttamento per fini idroelettrici della montagna carnica ha origini lontane, e risale a circa 40 anni fa, con le concessioni alla Sade, la costruzione delle dighe di Sauris e Verzegnis e le centrali di Ampezzo e Somplago. (3). Oltre ai danni idrogeologici e lo sfruttamento del territorio per la produzione di energia idroelettrica, la Carnia non ha avuto neppure un riscontro economico per la popolazione. Infatti a fronte dell’uso massiccio dell’acqua locale, la Sade praticava, per le piccole industrie della zona, delle tariffe maggiori di quelle praticate per le grandi industrie di porto Marghera. Pertanto si può dire che la Carnia, negli anni cinquanta, è stata usata come una colonia, perché ha sostenuto, con le proprie risorse, delle attività industriali esterne al territorio, senza dare nulla allo stesso, e costringendo la popolazione montana ad emigrare.
La desertificazione dell’ambiente ed una ricaduta economica negativa sul territorio sono dunque stati il risultato di queste concessioni e di questa politica, ed i due aspetti sono strettamente collegati fra loro, e questi problemi della montagna vogliamo, anche ora, affrontare in qualche modo.

Qualcuno dirà – continua Lepre – come mai siamo qui a parlare, ancora una volta, dei soliti problemi, già sufficientemente noti. In primo luogo perché, finalmente, ci sono su questi temi delle proposte interessanti che stanno venendo avanti, e ci sono tre elementi di novità positivi in questo scenario preoccupante, che copre uno spazio che va dai laghi di Fusine alla Val Pesarina, alla Valle del Lago.

La prima novità è la legge sulle comunità energetiche, approvata dal Consiglio regionale della Regione Piemonte, che permette a comunità di persone, enti ed imprese, di scambiare fra di loro l’energia prodotta da fonti alternative. Questo è un fatto molto importante, perché se la Regione Fvg approvasse una norma di questo tipo, non si dovrebbe più verificare quanto accaduto in occasione dell’ultima alluvione, quando comuni che hanno nel loro territorio molte centraline idroelettriche, come per esempio Forni Avoltri, sono rimasti senza elettricità per più giorni, perché il comune non poteva neppure allacciarsi alla centralina privata che sorge a pochi metri dall’abitato, e gli utenti erano obbligati a ricevere elettricità solo dall’Enel, il cui sistema di distribuzione era però stato interrotto dalla caduta di alcuni alberi. Così dei produttori di energia elettrica sono rimasti senza corrente elettrica, il che è un paradosso.

La seconda novità è la direttiva europea sulle fonti energetiche rinnovabili, che introduce la figura del ‘prosumer’, favorendo, appunto, la creazione di comunità energetiche.

La terza novità importante, che speriamo vada in porto perché è stata molto contrastata ed avversata, è il decreto del governo che riduce gli incentivi per il mini- idroelettrico, che sono stati l’elemento trainante per le continue domande di derivazione su di un territorio che è già sfruttato a più che sufficienza, e dove si dovrebbe, semmai, incominciare a pensare di ripristinare quell’utilizzo plurimo delle acque che era la caratteristica della cultura e della civiltà alpina di un tempo. Il decreto che riduce od elimina gli incentivi al micro idroelettrico dovrebbe essere giunto all’attenzione di Bruxelles, per cui potremmo sapere qualcosa in breve tempo.

Inoltre, sul tema della montagna e dell’idroelettrico, son previsti, entro breve tempo, due convegni: uno promosso dalla Commissione Tutela ambiente montano del Club Alpino Italiano (C.A.I.), che riguarda strettamente le conseguenze ambientali delle derivazioni per le piccole centrali idroelettriche, che si terrà a Tolmezzo, l’altro promosso dall’Ente Bacino Imbrifero del Tagliamento, che dovrebbe trattare maggiormente gli aspetti relativi alla gestione della risorsa idroelettrica e i possibili benefici per il territorio.
Infine sta prendendo forma la proposta della creazione di una Società Regionale per l’utilizzo e la gestione degli impianti idroelettrici presenti sul suo territorio.

Marco Lepre, urbanista e presidente di Legambiente Carnia, passa quindi la parola ai rappresentanti dei comitati locali che hanno sul proprio territorio la spada di Damocle rappresentata da autorizzazioni o realizzazioni di centraline idroelettriche, che non possono non avere conseguenze molto pesanti sull’ambiente montano.

«Alcuni anni orsono, quando ci occupammo delle derivazioni idroelettriche in Carnia – si legge su di un articolo a firma di Alessandro Di Giusto – un anziano abitante di Forni di Sopra ci disse che prima o poi avrebbero captato anche i sassi.
È stato facile profeta, ma neppure lui immaginava che, negli anni a venire, con l’avvento degli incentivi per la produzione di energia rinnovabile, la sua sarcastica previsione sarebbe stata superata. Perché l’assalto alle acque montane continua imperterrito, dalle Valli del Natisone a quelle carniche, senza che sia possibile intravvedere un limite, mentre negli uffici regionali sono depositati di continuo nuovi progetti per centraline idroelettriche». (4).

 EMIL LENISA. LA NUOVA CENTRALINA SUL PESARINA.

Quindi prende la parola Emil Lenisa, del Comitato “Acque libere in Val Pesarina”.

Per quanto riguarda la situazione globale della Val Pesarina, mi pare interessante quanto scrive Alessandro Di Giusto nell’articolo già citato in nota 4: «Il caso del torrente Pesarina, nel cui bacino idrografico sono già in funzione ben 10 centraline, rischia di diventare […] l’emblema di uno sfruttamento scriteriato delle acque, dato che è stato presentato un nuovo progetto per la costruzione di una centralina. L’opera di presa dovrebbe captare l’acqua a monte dell’abitato di Pesariis. Una condotta interrata lunga alcune centinaia di metri, che attraverserebbe i prati posti tra l’abitato e il corso d’acqua e comporterebbe tra l’altro, […] l’esproprio temporaneo per pubblica utilità dei terreni attraversati che sarebbero ovviamente devastati da scavi e strada di servizio. La condotta dovrebbe sbucare a valle dell’abitato dove sarà costruita la centrale vera e propria proposta nel settembre dell’anno scorso dalla Energymont Srl, che ha sede a Martignacco.

La richiesta riguarda la concessione per la derivazione d’acqua ad uso idroelettrico, in sponda destra del torrente Pesarina,  nel  territorio  di  Prato  Carnico  alla  quota  di  762,50  metri sul livello del mare,  in  corrispondenza dell’esistente briglia, per 190 litri al secondo, per la produzione della potenza nominale di 84,53 Kw, e con la restituzione delle acque tramite condotta interrata alla quota di 712,70 metri in sponda sinistra dello stesso corso d’acqua (dopo averlo attraversato),  all’altezza del campo sportivo di Pesariis». E così continua, citando le parole di Giacomino Gonano, presidente dei Pescatori Val Pesarina: «Già dal 1990 hanno cominciato a chiedere concessioni per centraline sul Rio Malins, sul Rio Vinadia, poi a seguire Rio Liana, Siera, Ialma, Fuina e sul torrente Pesarina, in più tratti. In tutto 10 derivazioni con varie centraline con il risultato che di acqua ne resta ben poca.
Mancano le scale di rimonta e rilascio del deflusso minimo vitale per modo di dire, hanno avuto il solo risultato di desertificare non solo il torrente principale, ma pure i rii dove ogni forma di vita è stata di fatto ridotta ai minimi termini impedendo la riproduzione della fauna ittica. Ho presentato a vari livelli un dossier rimasto lettera morta, nel quale chiedevo di smetterla con le derivazioni, ma ogni tentativo di porre un freno è stato bloccato sul nascere. Come se non bastasse, quasi tutte queste centraline appartengono a privati che di certo non risiedono a Prato Carnico. Ecco perché la richiesta della gente è la stessa ripetuta da anni: smettetela di depredare l’acqua dei nostri fiumi e di fare devastare il nostro ambiente». (5).

Emil Lenisa ha ribadito i motivi per cui la popolazione della Val Pesarina non vuole l’ennesima centralina: perché all’interno del bacino idrografico della valle sono già presenti 8 impianti funzionanti e due in fase di realizzazione, il che comporta che il Pesarina sia interessato per il 48% del suo corso da tratti sottesi da impianti idroelettrici. L’’Arpa ha classificato lo stato ecologico del Pesarina appena sufficiente, e la realizzazione di un’altra centralina potrebbe far precipitare la situazione, allontanandolo definitivamente dai parametri definiti dall’Unione Europea. Ed oltre che un impatto ambientale pesante, detta centralina avrebbe un impatto negativo anche sulla comunità e sul turismo di Pesariis: infatti la sua condotta attraverserebbe la campagna prospicente l’abitato, interessando una zona paludosa e nei paraggi del campo sportivo, e non bisogna dimenticare che il Pesarina, che ha un valore paesaggistico certificato dalle disposizioni del T. U. sulle acque, è un luogo ricreativo d’estate sia per i residenti che per i turisti.
Non da ultimo, dai pochi dati economici presentati assieme al progetto, si viene a sapere che detta nuova centralina potrebbe avere dei risultati positivi per la proprietà solo se supportata da grossi incentivi pubblici.

Emil Lenisa sottolinea così un problema che pare proprio generale e che verrà ribadito anche in seguito: se non ci fossero gli incentivi nessuno si metterebbe a costruire centraline su ogni rio, e così così Lenisa chiude il suo intervento.

Ho deciso di dividere quanto è stato detto il 26 gennaio, ad Udine, presso il palazzo della Regione Fvg su centrali e centraline, perchè altrimenti risultava un testo lunghissimo, e voi, lettori, avreste dovuto abbandonarlo per sfinimento La prossima puntata riporterà l’intervento di Gaia Baracetti e quello di Silvio Vuerich, rispettivamente sulla situazione che si verrebbe a creare con la costruzione della centralina sul rio Pecol, e con la seconda centralina sul rio Zolfo. Quindi alla prossima.

Questo incontro e queste informazioni non hanno avuto come scopo quello di offendere alcuno ma di discutere problemi vitali per la popolazione carnica, regionale, italiana.

Laura Matelda Puppini

Note al testo:

(1) Laura Matelda Puppini, Da Carniacque a Cafc: affare strategico, fusione obbligata, o privazione dell’acqua per la montagna e de profundis per la sua autonomia?, in: www.nonsolocarnia.info.

(2) Chiara Sarra, Di Maio: “Al Quirinale un testo manipolato”. Ma Colle e Lega si tirano fuori, 17 ottobre 2018, in: http://www.ilgiornale.it/news/politica/colle-testo-manipolato-giallo-sul-decreto-fiscale-1589536.html. Nel sottotitolo dello stesso si può leggere: «Il testo del dl fiscale è arrivato al Colle “manipolato”. Ora è giallo sul decreto Fisco approvato lunedì dal Consiglio dei ministri e che contiene la cosiddetta pace fiscale».
Alberto Vannucci, Anticorruzione, tra luci e ombre. Il mio bilancio della legge ‘divisa’ tra M5s e Lega, in: Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2018. Nello stesso si legge: «[…] il Movimento 5 Stelle, quello dello slogan “onestà onestà”, passa all’incasso intestandosi una legge cosiddetta “spazzacorrotti” che – secondo le accorate parole del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede – “porta una vera rivoluzione nella lotta alla corruzione”, ed “è motivo di orgoglio e commozione. (…). Ma l’alleato leghista dalle casse pignorate, forte dell’esperienza nel far svanire nel nulla i fondi pubblici, ha rilanciato in contropiede all’ultimo minuto, facendo inserire nella legge finanziaria blindata un codicillo che apre un varco alla deregolazione nell’assegnazione dei contratti pubblici da parte delle stazioni appaltanti, quadruplicando (circa) la soglia di valore degli affidamenti diretti di lavori pubblici, forniture, servizi, senza gara e quindi a più alto rischio di malaffare».
Ma non andò meglio ai tempi del governo Renzi, quando Matteo Renzi stesso ammise di aver inserito la norma detta salva Berlusconi nel testo della delega fiscale. «La norma l’ho fatta inserire io, ma avevo ricevuto rassicurazioni tecniche da avvocati e magistrati”. È la “confessione” di Matteo Renzi sulla legge salva-Berlusconi infilata di soppiatto nel testo attuativo della delega fiscale approvata in Consiglio dei ministri il 24 dicembre, giusto alla Vigilia di Natale. Le parole del premier sono riportate oggi da Il Fatto Quotidiano e da altre testate, dopo che ieri si era scatenata la “caccia” al responsabile dell’inserimento di una norma che, stabilendo delle soglie minime di punibilità per il reato di frode fiscale, cifre alla mano avrebbe cancellato la condanna subita dal leader di Forza Italia». (Salva-Berlusconi, la confessione di Renzi: “La norma l’ho fatta inserire io”, in: Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2015). E non fu, se ben ricordo, l’unico caso di ‘manina’ sotto il governo Renzi.

(3) Nel merito cfr. i miei: “Monumento ad Ampezzo per i 70 anni della diga di Sauris. Ma perché?”, e “Chiare, dolci, fresche acque di un tempo che fu. Siccità, lago dei tre comuni o di Cavazzo, fra intenti e politiche” ambedue in: www.nonsolocarnia.info.

(4)    Alessandro Di Giusto, Un’altra centrale sul Pesarina, in: ilFRIULI.it, 30 settembre 2018.

(5)    Ibid.

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: https://udine.diariodelweb.it/udine/articolo/?nid=20151103_361952 e rappresenta una centralina. Se l’immagine è coperta da copyright avvisatemi per cortesia, che la toglierò e sostituirò con altra. Laura Matelda Puppini 

Il caso della centralina sul torrente Pecol in comune di Paularo in Carnia, raccontato da Gaia Baracetti ad Udine, il 26 gennaio 2019.

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Dal torrente Pesarina al rio Pecol, dal canale di San Canciano a quello di Incaroio, continua il racconto dei problemi possibili e dati da centraline già funzionanti od in fieri: capitolo secondo. Il primo è stato pubblicato con il titolo: “Su centrali e centraline e su quella montagna violata. Sintesi dell’incontro del 26 gennaio 2019. Prima parte” sempre su www.nonsolocarnia.info.

Il 26 gennaio 2019, ad Udine, in occasione della conferenza stampa dal titolo non certo ambiguo: ” Centraline idroelettriche. Bastaaa!!! ” tenutasi nel prestigioso palazzo della Regione, dopo Emil Lenisa ha preso la parola Gaia Baracetti, uno dei promotori della petizione contro la centralina sul torrente Pecol, (1) che coinvolge in modo particolare il paese di Dierico, in comune di Paularo, ove ella abita con il suo cavallo, con i suoi animali, con le sue cose, e che ha premesso di non rappresentare alcun Comitato.

GAIA BARACETTI. IL CASO DELLA CENTRALINA SUL RIO PECOL IN COMUNE DI PAULARO IN CARNIA.

Gaia inizia dicendo che, a fronte delle centraline già presenti sul territorio paularino, nessuna delle stesse è venuta in aiuto agli abitanti del comune quando, in occasione dell’alluvione recentissimo, sono rimasti senza corrente elettrica. «Erano tutti con i generatori a disel- continua – ed io con le candele!».
E che le centraline non siano servite a nulla in quel frangente, è stato chiaro alla popolazione tutta. Quindi annuncia che a Dierico, la sera, vi sarà un incontro sul tema delle centraline, ove parlerà anche Aran Cosentino, il ragazzo di Ieronizza di Savogna che è riuscito, spalleggiato da altri e sostenuto da Legambiente e Wwf, a fermare la centralina che doveva venir costruita sul rio Alberone. (2).
Invece, purtroppo, la centralina che dovrebbe interessare il rio Pecol ha tutte le autorizzazioni. Gaia si è mossa, quando ha saputo del progetto della stessa, e, assieme ad un centinaio di persone, la gran parte delle quali abita nella frazione di Dierico di Paularo, ha firmato una petizione contro il progetto della centralina.

Quindi Gaia spiega come è venuta, per caso, a conoscenza del progetto, pur vivendo a Dierico. Si trovava, badando ai suoi animali, in un prato, quando le si sono avvicinate due persone che le hanno chiesto delle informazioni perché dovevano fare dei rilievi per un progetto di centralina.
Così come accaduto ad Aran, che scoprì navigando su internet per caso il progetto di centralina, noto però al sindaco del paese, è successo a Gaia, il che fa pensare a quanto ormai i politici calino dall’alto le loro scelte per il territorio, senza informarne gli abitanti, che dovranno poi farne le spese.

Ma torniamo a Gaia, al suo amore per la natura, ed ai suoi animali. Ella dice che i terreni su cui verrà costruita la centralina, sono in parte demaniali ed in parte privati.
Venuta a sapere della centralina, si è mossa verso gli enti preposti a dare le autorizzazioni e si è recata al comune di Paularo per saperne di più, dato a Dierico nessuno sapeva niente di questo progetto, super impattante per il paese. (3). Ed è andata anche in giunta comunale, per dire che c’era un po’ di malumore, in paese, verso la costruzione della centralina, e per chiedere un incontro chiarificatore con la popolazione perchè sentisse cosa ne pensava. Ha avuto dalla giunta l’ok all’incontro quando vi fosse stato un progetto definitivo, ma ahimè era il solito gioco: «prima è troppo presto, poi è troppo tardi», per chiedere, per informare, così la gente non può mai dire la sua. Infatti, nonostante si fosse anche attivata per saperlo presso gli uffici tecnici competenti, era venuta a conoscenza del progetto definitivo solo due giorni prima che venisse approvato assieme alla necessaria variante del piano regolatore.

E solo allora l’amministrazione comunale di Paularo, accompagnata dall’imprenditore paularino interessato alla centralina assieme ad un socio non locale, ha convocato gli abitanti di Dierico per dire che il progetto era cosa fatta, e che dovevano star contenti perché la centralina sarebbe stata realizzata anche da uno del comune. Ma la gente non è scema, e ha risposto come mai solo in quel momento l’amministrazione comunale veniva a dire che si sarebbe costruita una centralina sul rio Pecol, cioè quando era già stata approvata.
Così la popolazione di Dierico ha sottoscritto la petizione per dire il suo No, che è stata depositata in comune, ma non si poteva più fare nulla perché era tutto già sottoscritto, approvato, siglato dall’amministrazione comunale ed enti preposti. Per inciso, la giunta precedente, a cui era stata già sottoposta l’idea della centralina, aveva dato parere sfavorevole, a causa dell’impatto della stessa sul territorio a rischio idrogeologico, e di quella giunta faceva parte anche l’attuale sindaco, che era allora vicesindaco.

Ma per chiarire il progetto, esso comporta la deviazione e derivazione del rio Pecol lungo per due chilometri, il che significa che l’acqua sparisce dal suo alveo per due chilometri per rispuntare più sotto, alla centralina.

Il Pecol è un torrente piccolo, ma è affluente della Muê, che si getta nel Chiarsò, e, nelle sue acque, molti d’estate vanno a fare il bagno. I giovani con i sassi fanno, lungo il Pecol, delle piscinette, ed è un rio meraviglioso che scorre in luoghi meravigliosi. Pertanto il rio e la sua valle hanno sia un valore intrinseco che per il paese. Inoltre su questo ambiente si verrà a porre un cantiere di 15.000,00 metri quadri, e la realizzazione della centralina presupporrà anche il disboscamento dell’area di presa dell’acqua. La centralina dovrebbe produrre al massimo 249 kilowatt massimi di potenza, però è previsto che stia ferma per molti mesi all’anno, e quindi non può dare continuativamente energia elettrica al paese. Non da ultimo, c’è sempre meno acqua, perché le precipitazioni stanno calando di numero, e questo lo si vede e lo si sa. E lo stesso numero di kilowatt si potrebbero produrre mettendo pannelli solari sui tetti della frazione di Dierico. Così per avere questi risultati, si toglie acqua ad un fiume, si rovina l’estate della gente di Dierico, si deve allestire un cantiere in mezzo alla natura, con la sua polvere, il suo traffico, il cemento, gli spostamenti terra, il rischio idrogeologico, riconosciuti anche nel progetto, e si va a cementificare una zona di pascolo e bosco bellissima, esposta a sud, e quindi utilissima per far fieno, per far pascolare gli animali. E verrà abbattuto un albero fruttifero di molte mele. E qull’albero è molto importante, perché questo paesaggio è unico ed è indicato da quell’albero, quel rio, quella trota, vista un giorno nelle acque del Pecol. Ma se si distrugge quell’albero, quel fiume, quella trota, alla fine si distrugge tutto.

Non da ultimo, questo è uno dei pochi pascoli rimasti a ridosso del paese. E tutti dicono che i prati si sono imboschiti e che non c’è più erba, ma nessuno parla della cementificazione della montagna. Ed il bosco purifica l’aria, ma il cemento è cemento.

Comunque, per concludere, il progetto ha avuto tutte le autorizzazioni nell’indifferenza generale, e nell’impossibilità della Regione a fare alcunché, almeno pare. Così l’unica speranza è che gli incentivi per costruire questa centralina non vengano dati. Ma non si sa se quanto proposto a livello legislativo nel merito sarà retroattivo, e se gli incentivi verranno tolti solo ai progetti per le future centraline od anche a quelli già approvati. Ma le persone che costruiranno la centralina, ripagheranno un investimento enorme, di 2 milioni e 700mila euro in dieci anni solo se avranno continuativamente i contributi di 100.000,00 euro l’anno.  Cioè pare proprio che il guadagno stia negli incentivi statali alle rinnovabili, non nella produzione idroelettrica.

Cioè si distruggono, terra, acqua, bosco, pascoli, tutto, per avere denaro costruendo una cosa che, di fatto, non serve quasi a nulla se non a produrre un po’ di elettricità ma in maniera intermittente e senza dare corrente elettrica al paese. E ci sono altri modi per produrre energia elettrica, per esempio il fotovoltaico, ed anche molti modi per risparmiarla, per cui la costruzione di questa centralina pare pura speculazione.  E non ci sarà nessun risparmio in bolletta, perché gli incentivi alle rinnovabili li paghiamo noi. E con questa riflessione Gaia Baracetti chiude il suo intervento.

Questo testo deriva dall’ascolto dell’intervento di Gaia Baracetti ad Udine, in occasione della conferenza stampa del 26 gennaio 2019, da me registrato, e se vi sono inesattezze siete pregati di farmelo presente.

Ricordo, inoltre, che i consiglieri comunali: Mara Plozner, Sara Ferigo e Annino Unida, all’opposizione in consiglio comunale a Paularo, si sono schierati contro la centralina progettata e voluta dal sindaco Daniele Di Gleria e dalla giunta. (4).

E la posizione della popolazione di Dierico, riassunta da Gaia Baracetti, così viene palesata in un articolo, a firma Marco, datato 27 gennaio 2019, e pubblicato in: https://www.udinetoday.it/social/segnalazioni/petizione-contro-l-impianto-idroelettrico-sul-torrente-pecol-lungo-a-dierico-6414533.html.

«Da tempo i cittadini di Dierico, frazione di Paularo, chiedono che il progetto di una centralina idroelettrica sul torrente Pecol Lungo venga bocciato, ma il comune è favorevole e quindi un comitato nato spontaneamente avvia una raccolta firme per chiedere che non venga costruita questa centralina che secondo il comitato distruggerebbe il paesaggio della valle. La petizione, già firmata da più di una centinaia di abitanti della frazione di Paularo, recita: “Siamo contrari alla realizzazione dell’impianto idroelettrico “Pecol Lungo” e alla deviazione delle acque del Rio Pecol perché: danneggerebbe il Rio Pecol e il torrente Muee di cui è affluente, riducendone significativamente la portata e limitandone la fruizione da parte della comunità, che si troverebbe così privata di un bene pubblico e non sostituibile, uno dei pochi corsi d’acqua ancora incontaminati e balneabili, frequentato anche da famiglie e bambini; altererebbe irreparabilmente tutta l’area interessata, modificandone il paesaggio, il microclima, la fauna e la vegetazione, come conseguenza della captazione e interramento dell’acqua di superficie per un tratto di circa 2 km; comporterebbe la cementificazione di un’area ancora intatta, a monte, e di un’altra attualmente destinata a pascolo e coperta di prati stabili e vegetazione, su cui invece verrebbe costruita la centralina; richiederebbe almeno un anno di lavori e quindi di cantiere, con conseguente aumento del traffico, delle polveri e del rumore. Il vantaggio economico (che finirebbe nelle mani di pochi privati) non giustifica la devastazione di un’area di grande bellezza e valore naturalistico e paesaggistico, ancora relativamente intatta, preziosa per tutto il paese che vi trova svago e ristoro in ogni stagione».

Laura Matelda Puppini

Note.

(1) Franceschino Barazzutti. Perché no alla centralina sul rio Pecol, in comune di Paularo, in: www.nonsolocarnia.info.

(2) https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2018/02/17/aran-il-ragazzo-che-vuole-salvare-il-suo-torrente16.html.

(3) Cfr. nel merito quanto afferma il sindaco di Paularo negli articoli di Laura Matelda Puppini: “Secab e Paularo: bolle qualcosa in pentola o è solo un’impressione errata?”, e “Considerazioni sull’alluvione in Carnia e su alcuni problemi non solo carnici, mentre fuori ha ripreso a piovere, in www.nonsolocarnia.info.

(4) https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2018/11/07/news/affondo-dell-opposizione-sulla-centralina-al-pecol-subito-un-incontro-1.17439598

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L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: https://www.vallecostruzioni.it/realizzazioni/, e se ho ben compreso rappresenta una centralina in territorio di Moggio Udinese, sull’Aupa, forse per la cartiera. Ma se non ho capito bene, per cortesia correggetemi. Se l’immagine è coperta da copyright avvisatemi, che la toglierò e sostituirò con altra. Laura Matelda Puppini

 

 

Franco D’ Orlando. Proposte per la viabilità carnica ed a favore del ripristino, in Carnia, del trenino anche in funzione turistica.

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Più di un anno fa, così scriveva Franco D’ Orlando sulla viabilità in Carnia. Non avevo pubblicato questo suo pezzo e pertanto lo faccio ora, per portare ulteriori temi alla discussione. La lettera è stata indirizzata al Direttore del Messaggero Veneto, come fa spesso D’ Orlando, che poi però invia le sue considerazioni anche ad altri.

Il testo era corredato da due righe di accompagnamento che sottolineavano come esso fosse stato pubblicato dal Messaggero Veneto il 10 marzo 2018,e continuava così: «Progetti irrealizzabili ma …. solo da noi perchè non c’è la volontà! Ricordo che, in occasione del referendum del 21 marzo 2004 (il 73% della Carnia ha detto SI), tra le varie iniziative da realizzare “in primis” c’era non solo il progetto del traforo di Monte Croce Carnico ma anche quello del Passo della Mauria nonchè la sistemazione della viabilità in montagna: il tutto ritenuto di primaria importanza per la vita e il rilancio del nostro territorio.
Qualcuno si ricorda di questo? E se così era ritenuto allora, adesso che siamo precipitati e …. continuiamo a precipitare dobbiamo per il nostro futuro accontentarci di seminare fagioli e patate e di rafforzare nella solitudine le case di riposo sempre più in espansione?
Ci sono le risorse (vagonate di miliardi di euro per una TAV pazzesca in Piemonte, stanno facendo ripartire la Sacile-Gemona in Friuli) per aprirci al mondo con iniziative che solo noi ci preoccupiamo di ignorare o di abbandonare: l’allegato articolo apparso sul MV del 16 gennaio di un signore di Trieste (!!!!) la dice lunga in merito e mi ha molto confortato non facendomi sentire fuori di testa.
Dobbiamo trovare la forza di realizzare questi progetti da tanti pensati nel tempo ma che con varie scuse (o per miseri interessi o per paura di invasioni barbariche) sono rimasti nel cassetto. Franco D’Orlando».

Ma vediamo insieme cosa scriveva allora D’ Orlando, che ritiene queste considerazioni sempre valide (1):

«Egregio Direttore, l’esistenza di una valida rete infrastrutturale viaria è indispensabile per la vita di un territorio soprattutto se in zone emarginate: le difficoltà si affrontano con un potenziale sviluppo adeguato ai tempi che si vivono non tralasciando o trascurando alcunché.

Parte della rete stradale carnica di primaria importanza necessita tuttora di interventi più o meno radicali; la costruzione del traforo di Monte Croce Carnico è ormai diventata indispensabile per ridare vitalità e fiducia a chi vive in questi luoghi e per ampliare i rapporti transfrontalieri della nostra regione. Alla stessa stregua desta molto interesse il movimento di tante persone sulle piste ciclabili da noi ancora in fase di costruzione o di perfezionamento su alcuni percorsi: occorre da subito valorizzare, riqualificandola lungo la strada regionale, la ciclabile che da Tolmezzo scende a Cavazzo Carnico per collegarla a quella ivi già esistente che correndo sulla riva destra del Tagliamento arriva a Venzone, luogo d’incontro con la ciclovia Alpe Adria.

Ciò che ora in Carnia manca è la presenza di un treno che con un dolce sferragliare contribuisca a valorizzare luoghi, persone, attività offrendo servizi ai cittadini, impulso turistico, nuove opportunità alle attività imprenditoriali. I trenini turistici operano in tante località alpine (Francia, Svizzera, Austria, Slovenia …) e così molti anche in Italia (famoso è quello della Val di Non in Trentino) con funzioni pure di trasporto pubblico (di persone, auto, bici, sci…). Da noi esisteva un tempo una linea ferroviaria ordinaria che da Stazione di Carnia arrivava a Villa Santina, proseguiva poi a scartamento ridotto sino a Comeglians mentre un altro ramo da Tolmezzo raggiungeva il Moscardo di Paluzza; situazioni contingenti hanno portato alla sua chiusura una cinquantina di anni fa. Convinti di quanto futuro ci sia nel passato, occorre pertanto ora in merito rivitalizzare anche questo ramo infrastrutturale e non solo a scopo turistico!

Nel presentare una interrogazione nel Consiglio Comunale di Tolmezzo del 26 marzo 2014 in merito al traforo di Monte Croce Carnico, ponevo in risalto l’opportunità di ricreare una linea ferroviaria che da Stazione di Carnia, passando per Tolmezzo, risalisse sul vecchio sedime lungo la Val But fino al Moscardo di Paluzza per proseguire con un traforo ferroviario e poi arrivare in terra austriaca a Kötschach-Mauthen. Un bel progetto, questo, che dovrà basarsi su un approfondito studio di fattibilità per portare economia e dare una speranza a questo territorio creando, tra l’altro, misure e interventi volti al miglioramento attrattivo dei servizi di trasporto pubblico locale con lo scambio treno, bus, auto e bici di cui si giovino così anche le località contermini.

Da Stazione di Carnia si correrà con il treno verso Amaro ondeggiando tra il monte Amariana e il fiume Tagliamento fino a Tolmezzo importante e attrattivo centro socio-economico-culturale della Carnia; di seguito si risalirà  l’affascinante e accogliente Val But  con l’area archeologica di Zuglio, le terme e la bellezza di Arta, il polo sciistico dello Zoncolan e la magia del legno  a Sutrio, i mosaici e i murales di Cercivento, l’artigianato della ceramica a Paluzza, il museo della grande guerra con i percorsi delle trincee e le piste di sci da fondo a Timau: un bel viaggio sereno e comodo con un mezzo di locomozione che ben si inserirà nel paesaggio della nostra affascinante montagna carnica.

I trafori stradale e ferroviario di Monte Croce Carnico faranno da collegamento, inoltre, con le infrastrutture viarie dell’Austria che consentiranno alla nostra Regione di aprirsi ad una parte importante d’Europa e di raggiungere con più rapidità l’Alto Veneto bellunese e l’Alto Adige. Trattasi per ora solo di un bel sogno: sappiamo però che sognare va a braccetto con sperare! Lo Stato, che qui ultimamente ha insensatamente  di molto ridimensionato la sua presenza istituzionale (chiusure tribunale, caserma,  commissariato polizia stradale…) e la nostra Regione, che supinamente lo ha in merito assecondato, hanno però ora il dovere di agevolare e porre in atto iniziative che permettano di salvaguardare e valorizzare questo territorio carnico per renderlo turisticamente accogliente e per consentire di condurre una vita dignitosa a chi lo abita e a coloro  che sullo stesso intendono intraprendere e operare: il sogno che proponiamo ha, pertanto, tutti i requisiti per essere trasformato in una utile splendida realtà.

Ringraziamo per l’attenzione. Buon anno 2018 e …. Mandi.

Franco D’Orlando e l’Unione Autonomista Alpina – (già Consigliere Comunale di Tolmezzo) – via Val But 22 –Tolmezzo»

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(1) Colloquio di Laura Matelda Puppini con Franco D’ Orlando, 5 febbraio 2019.

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L’immagine che correda l’articolo è di Vittorio Molinari, e fa parte dell’archivio Vittorio Molinari. Laura Matelda Puppini

In ricordo della strage di Topli Uorch. Considerazioni sui Gap di Giacca e sui contesti.

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Vorrei scrivere qualcosa per il ricordo della strage di Topli Uorch detta comunemente di Porzûs, per rammentare Francesco De Gregori, Bolla, ufficiale effettivo, comandante partigiano, ricercato da tedeschi e fascisti, e gli altri osovani uccisi per nulla, senza che ora ne comprendiamo il motivo. È vero che Francesco De Gregori non aveva voluto passare sotto la guida militare del IX° Corpo dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, e che non passò nella zona libera slovena, come fece la Natisone nel Natale 1944, ma gli osovani avevano scelto di seguire il proclama Alexander. E le azioni di cui i garibaldini accusavano gli osovani, erano state definite da Ettore Gino Lizzero, e da Bruno Brillo Bertolaso «piccoli banali incidenti» (1)  almeno relativamente a quanto da loro conosciuto. Infatti bisogna sempre tenere presente cosa era noto, allora, ad uno ed all’altro, come giustamente mi ricordava Romano Marchetti.

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Verosimilmente, alla base di screzi profondi fra Osovani e Garibaldini, che avevano combattuto insieme nella zona libera del Friuli orientale, e che interessavano pure il IX° Corpo e la Missione inglese, stava l’atteggiamento degli osovani, dopo il passaggio della Natisone sotto il comando operativo del IX° Corpo dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo.  E ciò si evince da un documento presente in Archivio Istituto Gramsci – Roma, ove si legge che l’Osoppo aveva creato una campagna diffamatoria che aveva avuto riflessi sino in sede di CLNP. Si andava dicendo che i garibaldini si erano venduti agli sloveni, tradendo gli interessi italiani; che, da comunisti, favorivano l’Urss; che depauperavano di generi alimentari la zona per inviarli agli sloveni, che i garibaldini facevano azioni rischiose atte a favorire rappresaglie ma a queste accuse la Natisone aveva risposto chiarendo che non aveva tradito alcuno, perché l’Esercito di Liberazione Jugoslavo era esercito Alleato, e che lottava accanto ad un popolo fratello in unione di forze; che ai garibaldini della Natisone era spesso venuto a mancare il necessario per vivere, dato loro dagli sloveni; che nessuno aveva mai negato loro l’esposizione della bandiera italiana, e che loro lottavano mentre la Osoppo aveva assunto un atteggiamento attendista.
E si aggiungeva che il diffondersi di queste tesi, atte a screditare la Garibaldi Natisone, aveva avuto ripercussioni nei rapporti con la popolazione e la prima Brigata Osoppo. (2). Ma la Divisione Natisone aveva inviato le sue rimostranze a chi di dovere, cioè al Corpo Volontari della Libertà, alla Delegazione Triveneta Brigate Garibaldi, al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, Al Comitato di Liberazione Nazionale Provinciale ed aveva accettato l’incontro con gli Alleati Inglesi e la loro mediazione. (3), non aveva mai dato l’ordine di uccidere. E la Divisione Natisone non era il gruppo di Gappisti comandato da Giacca.

Successivamente, la Natisone aveva affidato a Gensis, responsabile culturale, ed ad Elio, responsabile stampa e propaganda, il compito di creare un giornale divisionale, perché «avendo lasciato la Furlanìa ed una zona mista senza nostre formazioni, abbiamo bisogno, pure da lontano, di una attiva propaganda, che miri a sventare le mene della propaganda avversaria, che dopo la nostra partenza, ha colto l’occasione per sviare la natura del nostro passaggio in seno al NOV, e per suscitare discordie di carattere sciovinistico fra italiani e sloveni». Il giornale doveva puntare al diffondere la fratellanza e la comune lotta antinazista. (4).

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Inoltre non si deve dimenticare le difficoltà pratiche in cui si trovava la Natisone dopo la fine della Zona libera del Friuli Orientale, chiusa in uno spazio ristretto alle “Farcadicias”, e senza aver portato via nulla,  tanto che Vanni, appena la Natisone era passata in territorio libero controllato dal IX Corpo, in Ozak, aveva chiesto mille paia di scarpe, mille divise, mille cappotti, con costo da defalcare dalla quota mensile, ed anche calze, maglie, zaini, cinghie, fazzoletti da naso, bende, garze, sciarpe, guanti, asciugamani, sciarpe, perché non ne avevano a sufficienza. Eppure i garibaldini e le garibaldine della Natisone avevano passato il fiume nudi e con gli abiti arrotolati sulla testa, per non morire a causa degli stessi bagnati. E per mangiare, i garibaldini del Btg. Verucchi si erano offerti di tagliare legna per gli sloveni, in cambio del ‘permesso’ di raspare le marmitte della cucina del Btg. Sloveno. (6). La situazione era tale che Ettore, fratello di Mario Lizzero e comandante la 157^ brigata della Natisone, aveva vibratamente protestato con il btg. Sloveno che si era prestato a tanto, aggiungendo che, per combattere, i compagni avevano bisogno di mangiare almeno una volta al giorno perché era accaduto che quelli del Verrucchi fossero svenuti, a causa della fame, in postazione. (7).

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Vi è chi mi scrive che, quando De Gregori prelevò i giovani nei paesi vicini per farsi ritornare ciò che era destinato al suo gruppo (8) non fece una grande azione, e sono stata io la prima a dirlo e ridirlo, e si comportò da militare cresciuto nelle scuole fasciste, ma non uccise nessuno, e se questo poteva essere un possibile movente, non viene citato da Giacca come motivo, mentre egli accusa gli osovani di essere fascisti e parla della Turchetti.

Giacca conosceva Bolla, sia perché ambedue si erano trovati nella Zona libera del Friuli Orientale, sia perché Bolla aveva, secondo quanto narrato da Toffanin, contestato il fatto che i gappisti avessero fatto saltare una fonderia che costruiva munizioni per i tedeschi, perché il proprietario della stessa finanziava gli osovani. (9).

Ma anche fare una strage per questo motivo mi pare assurdo. Pure in Carnia Umberto De Antoni finanziava, verso la fine della guerra, la Osoppo ed anche la Garibaldi, presumibilmente attraverso Rinaldo Cioni e Ciro Nigris, anche se con quest’ultima era molto meno munifico.  Così dice infatti, Bruno Cacitti: «Gli industriali del legno ci sostenevano, sostenevano l’Osoppo, perché avevano i loro interessi. E mettiamo i puntini sulle ‘i’: erano più docili ed amorosi con la Osoppo che con la Garibaldi, (perché con l’altro partito là, della Garibaldi … niente da fare), per loro interesse, ricordatelo bene, bambina bella.  Quelli hanno fatto i loro interessi coi tedeschi, coi partigiani, con tutti». (10).

Pertanto, al di là di quanto ha detto Giacca anni dopo in più di una intervista, non sappiamo nulla dei motivi che lo spinsero ad organizzare la strage di Topli Uorck, ma certamente non fu un colpo di testa, perché uno non organizza uomini per una azione se è preso da un raptus. Ma purtroppo i processi, di fatto, furono impostati, non solo secondo me, come processi ai comunisti italiani, visti come in combutta con il nemico slavo e ideologicamente similare, ritenuto possibile invasore e su cui riversare l’odio che prima era stato verso i nazisti. Ma la realtà era diversa, e bisognerebbe almeno leggere il testo dell’accordo di collaborazione fra la Brigata Garibaldi Friuli e il Briski-Beneski Odred stipulato il 7 maggio 1944, (11) quando la ‘Osoppo’ aveva mosso timidamente i primi passi, per capire qualcosa anche di quanto fece la Divisione Natisone poi, alla fine della zona Libera del Friuli Orientale. Ma invece la Natisone fu trascinata in una storia giudiziaria assurda, e ciò avvenne anche grazie a chi formulò la denuncia a fine guerra, e cioè Paolo Alfredo Berzanti e Verdi Candido Grassi, personaggio che a me è apparso sempre piuttosto ambiguo e lontano dagli scenari di scontro, a differenza del vero comandante della formazione dopo la crisi di Pielungo, Manlio Cencig Mario.

Così si è creata, intorno a ciò che avvenne a ‘Topli Uorch ‘, non certo per colpa dei giudici chiamati ad un difficile compito, che in modo diverso decisero nei due gradi di giudizio, una confusione che temo abbia portato all’impossibilità, per sempre, a capire cosa spinse Mario Toffanin, Giacca ed i suoi uomini a macchiarsi di un delitto plurimo. E, secondo me, si può dire senza tema di smentita che Bolla e c. furono uccisi da fuoco amico, dopo esser stati tratti in inganno. Ma chi comandò quell’azione non fu mai ascoltato dai giudici che io sappia, né si presentò a processo, mentre altri poveri diavoli, comunisti e magari estranei ai fatti, furono preventivamente incarcerati. (12). Ma così va il mondo.

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Inoltre un problema si pone: «Che tipo di gap erano questi, che erano organizzati in battaglioni e brigate?»

Infatti indicativamente, i gap (gruppi di azione patriottica) erano dei piccoli nuclei formati da poche persone che agivano sul territorio vivendo sullo stesso, con azioni tipo ‘mordi e fuggi’, e non erano strutturati come i partigiani delle formazioni combattenti. Organizzavano l’azione, in genere in borghi popolosi e città, dove potevano dileguarsi meglio che nei villaggi, la portavano fulmineamente a termine e quindi si dileguavano. Inoltre non consta che i gap mettessero il fazzoletto rosso. Si poteva mettere in montagna, anche se i partigiani sloveni avevano detto che era una pazzia, perché era visibilissimo al nemico, ma in città sarebbe stato come mettersi un cappio al collo.

Ma allora cosa stavano facendo Giacca ed altri?

Da Giovanni Padoan, Vanni sappiamo che: «Ai primi di agosto del 1944, Giacca, con un proprio battaglione, chiamato GAP, gruppo «abbastanza numeroso ma senza nessun ordine e disciplina» (13), si presentò al Comando della Natisone, in Zona Libera del Friuli Orientale. La Divisione Natisone gli pose delle condizioni chiare, come quella della dipendenza dal btg. Picelli, comandato da Gino Lizzero, Ettore, ed infine, dopo vari tentennamenti, egli accettò (14), ma non riuscì mai, come il suo gruppo, ad integrarsi completamente. Inoltre i partecipanti al gruppo di Giacca si distinguevano perché il fazzoletto rosso che portavano al collo era di dimensioni enormi, quasi uno scialle, e sul berretto avevano una stella rossa talmente grande che pareva una piovra, e stelle rosse erano incise sui fucili. (15). Giacca, quando vi fu la ritirata dalla Zona Libera Orientale, non obbedì agli ordini lasciando il comando del suo gruppo al vice-comandante Marco, Vittorio Iuri, il quale, ubriaco, giunse con i suoi, mezzi dei quali ubriachi come lui, al posto assegnatogli dal Comando. A questo punto, Sasso, Mario Fantini, alla guida del Comando Unico, fece arrestare il vice-comandante del gruppo, che fu però successivamente liberato dai suoi, e con loro si eclissò. Giacca si salvò o fu salvato dalla fucilazione. (16). Forse già allora egli con il suo gruppo riparò in bosco Romagno.

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Quindi, da una relazione datata 4 dicembre 1944, si viene a sapere che un gruppo di persone che facevano parte o dei gap o del btg. Gap, come sostiene Vanni, avevano costituito una Brigata chiamata “13 Martiri di Feletto” composta da 250 compagni, divisi in quattro battaglioni: ‘Giotto’, ‘Ferruccio’, ‘Ardito’, ‘Ardos’. Inoltre si stava organizzando una seconda Brigata, chiamata “Sterminio ai nazifascisti”. (17). E il documento non parla di alcuna dipendenza di detta Brigata dal Pci o da singoli soggetti del Pci, ma di una brigata autonoma, il cui comandante era Giacca. Nella realtà però, pur scrivendo che la brigata era formata da compagni, si viene a sapere dallo stesso documento che, allora, gli aderenti al P.C.I. erano solo due: Marino, che si dice fosse nome di battaglia sempre di Giacca, cioè Mario Toffanin, ed Erso, Capo di Stato Maggiore, (18), anche se Alberto Buvoli nega l’iscrizione al Pci di Giacca.

Ma il problema non è a quale PC fosse iscritto Giacca, ma il tentativo dei Gap di organizzarsi in Brigate e Battaglioni, anche per sopravvivere alla fame con una propria intendenza che aveva iniziato ad emettere buoni regolari da dare in cambio del prelevamento dei generi alimentari, detti ‘Bloc’ che però erano stati subito eliminati, perché erano stati considerati irregolari. (19).

Ma questa organizzazione in brigate e battaglioni dei Gap friulani, che emettevano buoni in proprio, fuori controllo da parte del comando della Divisione Garibaldi di cui non rispettava le regole, e dove forse Giacca  ed altri predicavano un verbo comunista ben poco togliattiano, non era piaciuta a Mario Lizzero, Andrea, che aveva reagito in modo chiarissimo, quando, dopo esser rientrato dalla Carnia il 19 febbraio 1945, aveva espresso senza peli sulla lingua, il suo pensiero sulle brigate Gap e Sap, riportato in un documento datato 13 marzo 1945, firmato da Moro e Banfi.

«Riguardo ai G.A.P.  è, secondo noi, un vero casino. Esiste un gruppo Brigate che a volte si intesta anche divisione G.A.P., comandati dal compagno Giacca, i quali vivono in montagna dato che sono così grossi da non poter stare in pianura dimenticando che in queste condizioni mancano alla funzione essenziale del G.A.P. e non sono dei partigiani dato che la loro disorganizzazione è troppo grande per assolvere la funzione di questi. Il compagno Andrea è partito e parlerà con i compagni della Federazione di Udine a riguardo e ci ha detto di appoggiarlo energicamente nel colloquio che ci procurerà con il compagno Franco. Secondo lui i G.A.P. devono lasciare immediatamente la zona, essere gran parte inviati nei nostri reparti ed i migliori inviati in pianura ad assolvere i loro compiti. Il comp. Andrea porrà anche la questione dei S.A.P. che, secondo lui, sono organizzazioni a base opportunistica in quanto servono a smobilitare le masse invece che a mobilitarle dato che inquadrano i giovani tenendoli gran parte inattivi impedendo loro, così, di raggiungere le formazioni in montagna. Ha detto che G.A.P. e S.A.P., come vengono concepite qui, sembrano fatte apposta per impedire di avere un forte esercito in montagna. In quanto ai gruppi di Polizia, secondo noi bisognerebbe riorganizzarli su altra base, la loro azione è preminentemente economica più che politica, la loro dislocazione ci impedisce il controllo delle loro azioni».  (20).

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Quindi nel ricordare i caduti a Topli Uorch uccisi da Giacca e dai suoi, partigiani a pieno titolo ed assassinati da fuoco amico, ma non dimenticando che tanti partigiani di diverse idee morirono nella resistenza, chiudo questo articolo che propone alcune mie riflessioni documentate, pensando che molto è stato, nella storia partigiana del Fvg, travisato e riscritto senza studio adeguato, senza contestualizzazione adeguata, senza ricerca, analisi e confronto delle fonti e come la politica, qui più che mai, oltre la linea interpretativa della chiesa, abbiano stravolto ed imposto.

Molti documenti della Garibaldi Friuli e relativi ai gappisti, non si sa come, si trovano nell’Archivio Osoppo del Seminario Arcivescovile, che pare l’archivio della Garibaldi più che della Osoppo. Tale archivio è aperto al pubblico ma, per avere accesso allo stesso, ci vuole il beneplacito di mons. Sandro Piussi, che ho cercato di contattare anni fa per altri motivi e ho capito che è praticamente introvabile. Comunque non si sa mai.  Senza voler offendere alcuno e per porre qualche problema sul tappeto.

Laura Matelda Puppini  – 7 febbraio 2019.

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(1) Documento intestato: “Corpo volontari della libertà – Divisione d’assalto Garibaldi Natisone – 157a brigata “G. Picelli” Comando, numero di protocollo 171, datato “Zona, lì 15. XII. 1944”, indirizzato “Al Comando della Divisione d’assalto Garibaldi “Natisone” ed “Alla Delegazione Triveneta delle Brigate d’assalto Garibaldi”, in: Archivio IFSML Udine – Fondo Lubiana, busta 3 fascicolo 64, documento n. 19.

(2) Relazione sul passaggio della Divisione Garibaldi Natisone sotto il Comando Operativo del 9° Corpo d’Armata sloveno e la situazione creatasi in questa zona in seguito  a tale avvenimento”, indirizzata: Al Corpo Volontari della Libertà, Alla Delegazione Triveneta Brigate Garibaldi, Al Comitato si Liberazione Nazionale Alta Italia, Al Comitato di Liberazione Nazionale Provinciale, datata 21 dicembre 1944, in: Archivio Istituto Gramsci Roma, Archivio storico della Resistenza, Veneto- Friuli – Divisione Natisone, Fondo BG Sez. IX, Part. 2, Fasc. 5, pp. 09508 – 09509, da me citato in: Laura Matelda Puppini “Porzûs” – Topli Uorch. E se fosse stato un atto solitario, frutto di tensioni, senza mandante alcuno? Confutazione documentata di alcune tesi, in: www.nonsolocarnia.info.

(3) Documento cit. Archivio IFSML Udine. Fondo Lubiana, busta 3 fascicolo 64, documento n. 19.

(4) Documento intestato: “IX° Corpo d’Armata. –  Divisione d’assalto Garibaldi “Natisone” – Comando – Sezione Cultura stampa e propaganda” protocollato con il numero 0066, datato 27 gennaio 1945, avente come oggetto: “Giornale di Divisione” ed indirizzato “Al compagno Saša, responsabile stampa e propaganda presso il IX Corpo Nov in Pcj e per conoscenza al compagno Commissario del IX Corpo d’Armata. – Loro sedi”, in: Archivio IFSML Udine – Fondo Lubiana, busta 3 fascicolo 58, documento 7.

(5) Documenti 09496 e 09497, in: Archivio Istituto Gramsci Roma. Archivio storico della Resistenza. Fondo BG sez. IX – 2 -1 Veneto – Friuli.

(6) Documento inviato al C.S.M. della Divisione d’assalto Garibaldi Natisone, in: Archivio IFSML Udine. Fondo processo Porzus. Documenti in copia da archivi di Tribunali. B-5 fasc. 22, documento n.93″.

(7) Ibid.

(8) “Il diario di Bolla (Francesco de Gregori)”, a cura di Giannino Angeli, A.P.O. 2001, pp. 99-105. Part da queste pagine sono state citate in: Laura Matelda Puppini, Divagando su “Porzûs”, in modo documentato. E se …, in: www.nonsolocarnia.info.

(9) “Intervista al comandante Giacca. La verità su Porzûs”. Quaderni di rivoluzione, privo di data, p. 13, in: http://www.cnj.it/documentazione/varie_storia/ComandanteGiacca.pdf.

(10) Laura Matelda Puppini, Uomini che scrissero la storia della democrazia: Bruno Cacitti, Lena, osovano. Perché resti memoria”, in: www.nonsolocarnia.info.

(11) “Accordo sulla collaborazione fra la Brigata Garibaldi “Friuli” e il Briski-Beneski Odred stipulato il 7 maggio 1944”, in: Archivio Istituto Gramsci. Archivio storico della Resistenza. Fondo BG sez. IX – 2 – 1 Veneto – Friuli, Cart. 2 fasc. 3, doc. n. 09152.

(12) Cfr. il documento: “Campo di concentramento Padova”, esibito dal teste don Volpe il 9.10.1951, in: Archivio IFSML Udine. Fondo processo Porzus. Documenti in copia da archivi di Tribunali.

(13) Padoan Giovanni (Vanni), Abbiamo lottato insieme, Del Bianco editore, 1966, p.114.

(14) Ivi, p.115.

(15) Ivi, p.119.

(16) Ivi, p. 121, e Padoan Giovanni (Vanni), Porzus, Ed. La Laguna, p. 57.

(17) “Relazione sulle formazioni della IaBrigata G.A.P.”, in: Archivio Istituto Gramsci Roma, Archivio storico della Resistenza, Fondo BG sez IX. -2-1- Veneto Friuli, n. 09462-09463.

(18) Ibid.

(19) Documento datato ‘Zona, lì 15/2/ 1945, in: Archivio IFSML Udine. Fondo processo Porzus. Documenti in copia da archivi di Tribunali, doc. n. 49.

(20) “Relazione datata 13 marzo 1945”, Archivio IFSML Udine, Fondo Processo Porzus, Documenti in copia da archivi di tribunali, busta 1 fascicolo 18, documento 37.

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L’immagine che accompagna l’articolo è la scannerizzazione della copertina del diario di Bolla pubblicato dall’A.p.o, da me elaborata. Laura Matelda Puppini

 

 

Udine 26 gennaio 2019. Silvio Vuerich in difesa del rio Zolfo e delle proprietà del Consorzio Vicinale di Bagni di Lusnizza.

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Stasera si è parlato di centraline e di energia idroelettrica a Tolmezzo, in un convegno promosso dal Cai, e così ho deciso di riprendere, con questo articolo, le relazioni di coloro che hanno evidenziato, il 26 gennaio 2019 ad Udine, i limiti delle centraline idroelettriche che stanno riempiendo il territorio montano ed i problemi che creano ad ambiente e popolazione. Naturalmente scriverò qualcosa anche sull’incontro odierno, ma devo ancora preparare il pezzo.

Ma vediamo insieme, lettori, cosa ci ha raccontato Silvio Vuerich, quel sabato del primo mese dell’anno.

Sivio Vuerich dice di rappresentare il Consorzio Vicinale di Bagni di Lusnizza. Il Consorzio sta lottando, dal mese di luglio 2018, per bloccare la costruzione del secondo impianto proposto per lo sfruttamento idroelettrico del rio Zolfo, e ringrazia Cristian Sergo in particolare per il grande aiuto dato, per esser stato il referente che lo ha consigliato e che gli ha dato buoni suggerimenti, ma anche Massimo Moretuzzo per la disponibilità dimostrata.

Il problema è che si vuole costruire una seconda centralina sul rio Zolfo, su di un bacino imbrifero di 4,8 Kmq, quindi al di sotto dei 10 kmq previsti dal nuovo piano tutela acque. Ma si è adottato il solito trucchetto di cui parlava Gaia: hanno presentato l’istanza di autorizzazione unica per il progetto il 28 marzo 2018, prima che avvenisse la pubblicazione sul Bollettino Ufficiale Regionale del nuovo piano tutela acque; ed è stato detto che qualcosa, a livello regionale, ha permesso a tutte le istanze di questo tipo, presentate in precedenza, di essere portate avanti.

Nel merito di quanto detto da Vuerich, così si legge sul Messaggero Veneto: «Il rio Zolfo non è un rio antropizzato, o meglio lo è solo nel tratto messo in sicurezza dopo l’alluvione del 1996. Oltre il ponte, fino al Fella, mantiene le sue caratteristiche naturali. Osservando la vegetazione che cresce nell’oasi di pace, il diniego del Consorzio si rafforza: “Se per la realizzazione della centrale a monte non si è tenuto conto della pericolosità geologica prevista dal Piano di assetto idrogeologico ora chiediamo di valutarlo”. Il Consorzio vuole fare chiarezza pure sul divieto a realizzare centraline idroelettriche nei bacini imbriferi inferiori ai 10 Kmq introdotto dal Piano di tutela delle acque. Il bacino imbrifero del rio Zolfo rientra in questa casistica ma nonostante ciò «l’iter della pratica va avanti perché la domanda è stata presentata lo scorso 28 marzo, otto giorni dopo l’approvazione del Piano e 45 prima della pubblicazione sul Bur». (1).

Dunque: su di un triangolo: 269/5 di Società Autostrade e su proprietà tutte del Consorzio di Bagni di Lusnizza, dovrebbe venir edificata l’opera di presa della nuova centralina. Ma, come si legge su di un articolo su www.ilpais.it: «Tutti i Beni del Consorzio sono caratterizzati dal vincolo di inalienabilità, inusucapibilità e indivisibilità, a garanzia della loro comproprietà intergenerazionale e quindi della loro conservazione, nonché sottoposti al vincolo di tutela paesaggistica» (1). Quindi vi è la centrale esistente, con il suo scarico a novanta metri. Poi l’acqua, comunale, verrebbe ricaptata, in zona interessata anche da un attraversamento autostradale, in territorio tutto del Consorzio di Bagni di Lusnizza e caratterizzato dalla sorgente di acqua solforosa famosa in tutta la regione. (2). 

Quanto esposto da Vuerich è ben sintetizzato in queste parole tratte dal già citato articolo su www.ilpais.it: «Nel piccolo bacino, che non raggiunge i 5 kmq, è presente già una centralina di 97 Kw e, a breve, verrà valutato un progetto per una seconda centralina, a valle di quella esistente, per circa 32 Kw nominali, proposto dalla società privata Basso Zolfo s.r.l. Tutto questo in prossimità del centro abitato e del famoso Chiosco dell’acqua solforosa, che rende Bagni conosciuto a molte persone in tutta la regione. Non a caso il Rio Zolfo, infatti, deve il suo nome alla presenza di ben tre aree di sorgenti solforose, localizzate in destra orografica e poco a monte del rilascio della centrale esistente, le quali immettono il loro contributo in alveo. Il Comune di Malborghetto, di converso, ha ottenuto già la concessione relativamente ad un’area di sorgente e richiesto l’ampliamento alle altre due aree limitrofe in quanto è interessato a valorizzare questa risorsa sotto il profilo turistico, memore del ruolo di Centro termale svolto da Bagni di Lusnizza in epoca austroungarica. Tutto ciò confligge con l’autorizzazione di una seconda centralina anche perché la portata dichiarata in progetto (che il Consorzio di Bagni ritiene fondatamente molto più piccola di quella dichiarata ed allo scopo si sta attivando per delle verifiche) non sarebbe, nel tempo, più tale per il venir meno in alveo del contributo dell’acqua solforosa. Tutto questo senza considerare i cambiamenti climatici in essere e il loro impatto sul regime idrologico.
Il progetto prevede che l’acqua turbinata dalla prima centralina e rilasciata nell’alveo del Rio Zolfo venga ripresa dopo circa 90 mt, intubata e rilasciata proprio a ridosso della pista ciclabile “Alpe Adria”, in prossimità del Fella. I ciclisti di passaggio (ma anche gli ospiti e gli abitanti stessi del paese) vedrebbero l’alveo per lo più in secca o solamente con un modesto rigagnolo». (3).

Ma ritorniamo alle parole di Vuerich. Egli dice che la condotta per la seconda centralina passerebbe tutta su proprietà del Consorzio, e l’opera di presa dell’acqua verrebbe fatta nella zona del chiosco dell’acqua solforosa, ma non basta. Lo scarico avvererebbe all’altezza del ponte della pista ciclabile, e l’acqua poi si getterebbe, come si getta ora, nel Fella. Un lungo tratto del rio Zolfo resterebbe così in secca, togliendo pregio anche alla casa Mons. Luigi Faidutti, in epoca austroungarica hotel Tomasoff, dove furono costruite le prime vasche per l’acqua sulfurea per cure. Invece ora, con l’acqua solforosa, sembra che non abbiano di meglio da fare che far girar le turbine. Infatti in quest’area, ove è prevista la nuova centralina, c’è un piccolo canaletto che immette nel rio Zolfo le acque solforose provenienti da 5 sorgenti, ed è zona di interesse unico a livello culturale e paesaggistico, perché non bisogna dimenticare che Bagni aveva, in epoca austro-ungarica, due stabilimenti termali.

Inoltre il bacino imbrifero è sotto i 10 chilometri, e vi è anche, nella concessione, un problema regionale. Infatti a p. 33 del progetto generale della centralina richiesta dalla Basso Zolfo, si trova un elaborato presentato dalla società di progettazione incaricata dal committente, unitamente al resto, al Servizio Energia. Ora avendo già sul rio Zolfo una centrale esistente, i rappresentanti del Comitato hanno potuto chiedere l’accesso agli atti, e pure i dati delle portate derivate ed in turbina, per quanto riguarda la centrale già in funzione, che, in teoria dovrebbero esse rilevati da sensori.  Ma il punto qual è?

Per tutte queste centraline lo snodo è quello di definire in modo serio la portata naturale disponibile in alveo. Ora la Società Basso Zolfo ha a disposizione un salto motore ridicolo, di soli 25 metri. Quindi o si dicono cose non vere sulla portata in alveo, cioè sull’acqua a disposizione, o altrimenti questa centralina, come sostenuto dal Consorzio, con la portata naturale, di 100, 110 litri al secondo, realmente esistente, risulta una centralina di 15 kilowatt. Ma nel progetto generale viene riportato il piano Tutela Acque, e la cartina degli apporti specifici ivi segnalati, e la Regione dice che ci sono 50 litri al secondo al kmq. di apporto specifico al secondo. Ma qual è il bacino imbrifero, l’area sottesa fino alla nuova presa? È di 4,76 kmq.. Quindi 4,76 x 50 fa 238 litri. Quindi la società ha chiesto 220 litri, al di sotto di quanto riportato dalla cartina regionale della tutela acque. Ma se la società progettista avesse chiesto l’accesso agli atti relativi alla centralina già in auge, avrebbe visto che la portata naturale disponibile in alveo è di 110- 120 litri al secondo per tutto l’anno.  E 110 è la metà di 220.

Ma vi è un secondo problema. Su questo algoritmo, cioè sulla portata naturale, si innesca il discorso del minimo deflusso vitale. Ma nel caso specifico ha come riferimento 220 litri, non la metà. I calcoli dicono che vi sono 25-26 litri al secondo di minimo deflusso vitale. Ma il 23 settembre 2018 non pareva fosse così perché dalle immagini, mandate dai soliti volenterosi collaboratori al Comitato, il rio Zolfo è in secca a valle della captazione della centralina esistente, non ha acqua. Infine se qualcuno si mettesse sul ponte dell’autostrada, direbbe che nel rio Zolfo c’è acqua. Ma non sa che quell’acqua è quella solforosa che si immette dall’area delle sorgenti. Infatti alla settima briglia della centralina c’è una delle sorgenti di acqua sulfurea che porta acqua. Ma a monte della zona delle risorgive non ce n’è. E questo si vede dalle fotografie scattate. Infine al servizio regionale gestione risorse idriche questa zona è indicata come quella n.2 per il monitoraggio, per obbligo di legge triennale, dall’entrata in funzione della centralina esistente. E i geologi pagati dalla società che gestisce la stessa, hanno fatto le misure di portata nei giorni in cui c’era il piano di monitoraggio, e quindi nei giorni di piena e non di magra. E dal piano di monitoraggio, la zona in secca mostrata, dovrebbe avere una portata di 30 litri a secondo. E questo per dire che accadrà la stessa cosa con la seconda centralina.  Inoltre la seconda briglia di presa nella centrale esistente

Ed infine lo scandalo, che è stato denunciato al servizio Gestione Risorse Idriche regionale. La briglia di presa coanda della centrale esistente, ha la canaletta del dmv, cioè del minimo deflusso vitale, ostruita e posta in sinistra idrografica. Ma nel progetto iniziale della Basso Zolfo, i professionisti che avevano steso la progettazione mostravano una bella griglia coanda con una canaletta posta centralmente, non a sinistra. E se essa fosse posta al centro, l’acqua del dmv verrebbe rilasciata, ma messa a sinistra ed in quella posizione … In sintesi chi gestisce la centralina si sta prendendo tutta l’acqua, con il risultato che il rio Zolfo è praticamente in secca per circa 1, 1,2 chilometri.

Per correttezza Vuerich, in chiusura, specifica anche che, nella briglia coanda, se vi è una portata superiore a quella massima derivabile, c’ è acqua in eccedenza sopra la griglia, che va a finire in alveo, come quando il tirante idraulico in vasca si alza, perché esiste un meccanismo che vieta di prelevare più di tot, ma questo accade solo quando la portata è ben al di sopra di quella massima di derivazione della centrale.

Ma attualmente la portata naturale è di 100- 120 litri, la canaletta del dmv della griglia coanda è ostruita, vi è un rigagnolo di acqua che viene rilasciato. Inoltre, visto che i concessionari hanno l’obbligo di comunicare i dati di portata derivata e rilasciata annualmente, entro due mesi dalla fine dell’anno, il Consorzio ha chiesto i dati per il 2014, 2015, al servizio Gestione Risorse Idriche. Ma il responsabile ha risposto che il computer era rotto. Proprio così: nel 2018 ci è stato risposto che non si poteva avere i dati di portata della centralina sul rio Zolfo del 2014 e 2018, perché il computer di centrale era rotto!!!

E con questa considerazione, ribadendo che quello che ha narrato è quanto accade nei fatti, Silvio Vuerich chiude il suo intervento.

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Quanto ho scritto è tratto dalla mia registrazione dell’incontro del 26 gennaio 2019, e da fonte giornalistica. Avevo comunque inviato a Vuerich l’articolo, perchè gli desse un’occhiata, come sono abituata a fare, ma dopo aver atteso più giorni, non avendo ricevuto risposta, ho deciso di pubblicarlo. Se ci sono inesattezze Silvio Vuerich è pregato di avvisarmi perchè possa correggere.

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Note.

(1) https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2018/08/12/news/no-alla-centralina-sul-rio-zolfo-prelevera-l-acqua-solforosa-1.17149667

(2) http://www.ilpais.it/2018/09/18/bagni-di-lusnizza-in-difesa-del-rio-zolfo/.

(3) Bagni di Lusnizza (Lusniz in friulano, Lužnice in sloveno, Lusnitz in tedesco) è una frazione del comune di Malborghetto-Valbruna (Ud). È la prima frazione che si incontra andando da Pontebba verso Tarvisio ed è formata da due borghi separati da un prato in cui sorge la chiesa del paese, dedicata a San Gottardo. La località è nota per la sorgente di acque solforose che scaturiscono dal Rio del Solfo, qualche centinaio di metri ad est dal borgo superiore. (https://it.wikipedia.org/wiki/Bagni_di_Lusnizza).

(4) http://www.ilpais.it/2018/09/18/bagni-di-lusnizza-in-difesa-del-rio-zolfo/.

L’immagine che accompagan l’aerticolo è tratta, solo per questo uso, da: https://friulisera.it/lega-mazzolini-impianto-idroelettrico-rio-zolfo-non-auspicabile-vogliamo-ridare-alla-montagna-le-risorse-del-suo-territorio/

Laura Matelda Puppini

 

Storia di una donna carnica, fra violenza, povertà, aiuto reciproco. Intervista a A., maritata. Prima parte.

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Chiamerò questa donna coraggiosa e brava A. per coprire il suo nome, perché ha figli viventi e suo marito, di cui A. non pronuncia mai il nome, non ne esce molto bene da questa storia, anche se ella non mi ha mai detto di non palesare chi fosse. Non nascondo che sono particolarmente affezionata a questa intervista e grata a questa donna, che ha narrato senza remore di alcun tipo di sé stessa e della sua vita. L’intervista è stata resa, in una giornata del mese di maggio del 1978, nella parlata carnica con la ‘e’, che ho tradotto perché possa essere letta da tutti. Se potessi scrivere apertamente dove visse A., che non era del comune di Rigolato, sarebbe forse più facile capire alcuni aspetti, ma io preferisco oscurare qualsiasi informazione che potrebbe portare qualche lettore a capire la sua identità. 

Ed ora vediamo a ciò che mi ha raccontato A, nata nel 1905, donna carnica, maritata.

Quel giorno dopo lo scambio degli anelli …

“Io avevo imparato a cucire, facevo la sarta, e le persone venivano in casa a ritirare gli abiti che avevo confezionato. E mi ero fatta un bel vestito per le nozze, color cenere. Sa, un tempo le case erano piene di fumo. E quando entrai a casa sua, sua madre, che era davvero anziana, mi disse di tirar su un po’ la sottana, perché altrimenti avrei sporcato l’orlo di fumo, di caligine.
E così ho fatto, e siamo stati in quella casa forse un paio di ore, e quella povera donna non aveva neppure un goccio di caffè da offrirci, ed aveva solo miseria. Ed io mi ero organizzata in modo da rientrare a casa per cena. Dio santo, ce robonas! Naturalmente siamo andati e ritornati a piedi.

Anche mia madre era anziana, ma era riuscita a prepararci un po’ di carne per cena, che aveva comperato per l’occasione, a cui aveva aggiunto un po’ di pane e formaggio, ed abbiamo mangiato così, alla buona. Ed erano invitati a cena anche i testimoni di nozze.

Ed avevo messo via un po’ di confetti per la cena. Ma c’era lì, quella sera, una ragazzetta forse dodicenne, parente di mio marito, una sua cugina, che ogni tanto veniva a lavarci i piatti ed a fare qualche lavoretto. Era una poveraccia ed era molto golosa. Ed io avevo messo il golfino sull’attaccapanni ed avevo posto i confetti nella tasca. Ma quando sono andata a cercarli, non ce n’era uno!!! Questa ragazzetta golosa li aveva mangiati tutti!!!
Io, per non iniziare polemiche, sono stata zitta, perché era parente di mio marito, ed ho sempre taciuto, ho taciuto tutto, ho dovuto tacere anche su problemi ben più grossi, per esempio sul fatto che lui, mio marito, era senza soldi. Ma pazienza.

E il giorno dopo la prima notte di nozze, mi sono alzata, ci siamo alzati, e siamo andati a trovare, alla frazione B., i parenti di mio marito.  Allora c’era l’usanza di far così, e mio marito aveva cinque sorelle e due fratelli, e con lui erano otto in tutto. E allora era abitudine portare, per le nozze, una camicia o un dono a fratelli e sorelle del marito, ed anche ai suoceri. E mio marito aveva sette fra fratelli e sorelle, ed io ho portato a tutti qualcosa. E mie cognate, mi creda signora Laura, non avevano mai avuto una camicia in vita loro, e la prima che hanno indossato è quella che ho portato loro io.  Le avevo cucite io quelle camicie, e le avevo realizzate proprio bene, come usavano allora, “cu la puntinute”. Ma davvero non credevo che fossero così povere!
Ed è stata mia suocera a dirmi che quella che avevo dato loro era la prima camicia che mettevano.

E doveva vedere, Laura, che case avevano lassù, a B.!  Avevano a piano terra il pavimento fatto con acciotolato in pietra, non c’erano piastrelle a quei tempi! Ed erano case “ca fasevin sgrisulâ”, che facevano paura! Ed io non facevo altro che guardarmi intorno, stupita, perché non avevo mai visto case di quel tipo.
Mio marito aveva, in quel paese, tanti parenti: zie, zii, ed andai a conoscere tutti, e mi dicevano: «Hai sposato un bel giovane, un bell’uomo, hai davvero un bell’uomo». Ma erano tutte stupidaggini, almeno per me erano tutte scemenze.

La vita matrimoniale fra figli morti, assenza del marito, malattia e povertà.

Dopo due mesi di matrimonio, quando io ero già incinta, lui è partito per andare a lavorare in Francia. Quindi sono nati due gemelli che sono morti, e, per andare a lavorare subito dopo il parto, ho avuto anche una grave infezione. Ma ho dovuto arrangiarmi da sola, perché lui non si è fatto vivo per sei anni. Eppure lo avevo avvisato che erano nati i due bimbini. Ma come risposta, ed allora mi ha risposto, ho ricevuto due righe da mio marito in cui mi diceva che non erano più i tempi di una volta, e che se non si faceva economia, non ci sarebbero stati nemmeno i soldi per acquistare una camicia. E questo è il vaglia che mi ha mandato ….

E, come Le ho raccontato prima, tre o quattro giorni dopo aver avuto i bambini son andata a segare tutto il giorno, per pagare l’ostetrica, che era una donna coraggiosa e piena di buona volontà, ma che non mi aveva detto che non potevo lavorare subito dopo il parto. Così la sera mi sono iniziati forti dolori al ventre ed alla schiena, e avevo la febbre a 40!
E c’era una donna che abitava nel mio borgo, che era giovane e non era sposata, che veniva qualche volta a trovarmi, e le ho chiesto aiuto, e le ho dovuto dire cosa era successo. “Iesu, bisogna chiamare subito il medico, hai la febbre a quaranta! “– mi ha detto. Ed è corsa lei, a piedi, fino a casa del medico a chiamarlo, ed è ritornata con lui.

Dopo avermi visto e visitato, il medico ha detto che non poteva fare nulla, che avevo una grave infezione da parto, che si era formato del pus, e che ero tutta gonfia, e che dovevo esser ricoverata immediatamente in ospedale. Così sono arrivati con la portantina, con quella con cui una volta portavano i morti in cimitero. E non sono mica bugie, signora Laura! Infatti come si fa a dire cose così serie per scherzo?
E così, con la portantina, mi hanno portato sino a Tolmezzo in ospedale. Ma allora in quell’ospedale non c’era abbastanza scienza per affrontare il mio caso, e così mi hanno portato all’ospedale di Udine e, per non farmi fare il viaggio da sola, è venuta una donna ad accompagnarmi. Perché io avevo tanto male e non sapevo neppure dove fosse l’ospedale di Udine. E giunta lì mi hanno operato subito, “dit e fat”, e sono stata all’ospedale di Udine sei mesi. E non le mostro per vergogna, perché non sono abituata a farlo, il taglio che ho. E mi avevano lasciato una cannula di drenaggio e, quando mi venivano a medicare, tremavo tutta, perché avevo dolori fortissimi, che non è niente far bambini al confronto.

Mentre ero ricoverata, venivano a trovarmi parenti, cugini miei che prestavano servizio ad Udine, che poi hanno raggiunto una buona posizione sociale: uno è diventato colonnello, uno era dell’aviazione, ed uno zio di mio marito era allora maresciallo. Ed essi venivano a trovarmi, e c’era questo zio di mio marito che era un uomo coraggioso, ed era coraggioso a tal punto da fare anche azioni rischiose, e così è avanzato di grado.
E non solo venivano in visita per me, ma mi lasciavano anche qualche soldo perché mi prendessi quello che volevo. Ma io non ho mai preso nulla, perché speravo sempre di tornare a casa, e così mettevo via questi soldi per pagarmi il viaggio di ritorno.

E finalmente, sei mesi dopo, è giunto il professore che mi ha detto che potevo andare a casa, che avrei dovuto fare tre mesi di convalescenza e mangiare carne, uova, e vino champagne. E la convalescenza serviva perché, dopo l’operazione, ero rimasta molto debilitata, ed i bambini che avevo partorito erano morti. Ma per acquistare carne e vino ci volevano soldi che non avevo, ed inoltre dovevo pensare anche a mia madre che era rimasta vedova e senza pensione. Mamma mia, che storia, che storia lunga, signora Laura, ci vorrebbero ore a raccontare tutto!!!!

Deve sapere che, allora, avevo una cugina che si chiamava G. che era a servizio presso l’albergo Roma. Quando sono tornata a casa, Angelina è venuta a trovarmi, e le ho domandato se avevano bisogno di una serva all’albergo.  «Orpo, fammi pensare. – dice- È appena andata via una che lavorava con me, e credo che manchi personale e che vogliano cercare un’altra al suo posto». Ed allora le ho detto che mettesse una parola buona per me, perché, come poteva vedere, avevo miseria e dovevo trovare un modo per avere qualche soldo per me e per mia madre, che era anziana e senza pensione, e che guadagnava qualcosa filando la lana con il fuso per quelli che avevano le pecore e le tosavano, e che, sapendo la sua situazione, la aiutavano in questo modo.

E così G. ha acconsentito a chiedere lavoro per me, e mi ha detto che, se la risposta fosse stata positiva, me lo avrebbe fatto sapere. E dopo un po’ la risposta è arrivata, e ho passato la convalescenza a servizio all’Albergo Roma.
E certamente lì il lavoro non mancava, ma ero in albergo, e quello che mangiavano gli ospiti mangiavamo anche noi serve, e mangiavamo abbastanza bene.

Ho iniziato a lavorare in ottobre, e non ero a servizio neppure da un mese che, a Tolmezzo, è giunto il giorno del mercato dei Santi. Così sono andata dalla padrona e le ho chiesto un piacere: che mi desse qualche soldo dello stipendio perché volevo andare ad acquistare un porcellino da latte. Così mi ha anticipato 15 lire dello stipendio. E così ho acquistato questo porcellino e l’ho posto sotto uno di quei “podin”, di quei bidoni, che si usavano per mettere il vino. Ed il giorno dopo era giornata di festa, ed ho chiesto un giorno di permesso dal lavoro per portare il porcellino a mia madre, che lo allevasse. E per fortuna me lo hanno concesso, perché allora non c’era Natale, non c’erano feste, e di grazia che mi avevano preso a lavorare.
Così sono andata al paese, a casa, a portare il porcellino di regalo a mia madre.

Ma, dopo che ero tornata a lavorare, me ne è toccata una bella, in albergo. Me ne sono toccate di tutte, mi creda! Mangiavo abbastanza, niente da dire, mangiavo come fossi in famiglia, ma lì, a lavorare, c’era un giovanotto non maritato, un “fantaciàt vedràn”, che, se avessi avuto voglia… e non serve che spieghi di più. Ma io non sono mai stata una di quelle, una di quel ‘partito’, mi deve credere, e non avrei acconsentito per nulla al mondo.

Ho lavorato e lavorato, e, dopo un anno un anno e mezzo che ero lì a lavorare, sono andata via. Mi ero rimessa abbastanza bene, avevo mangiato a sufficienza, stavo bene.

A cercare il marito, che non vedeva da sei anni, fra incertezze e perplessità.

Un giorno è venuta a trovarmi una mia paesana, che si chiamava P. ed abitava a Parigi, e le ho chiesto se avesse visto mio marito, che era scomparso, che non mi scriveva più. E lei mi ha detto che l’aveva visto di recente, ma che avrei dovuto avere forza e coraggio, e che facessi quello che ritenevo opportuno.
E io ho pensato che “l’amore vecchio non fa la ruggine” e io mi ero sposata perché volevo una famiglia e dei figli, e così ho raccontato a mia madre quello che mi aveva detto Pierina, e che pensavo di andare a cercare il mio sposo.
E mia madre, povera donna sola, mi ha detto di fare quello che desideravo fare, perché lei era ormai vecchia e “oggi poteva esserci, domani no”, e desiderava solo che io facessi ciò che il Signore mi diceva di fare.

Ed allora, avuto il suo assenso, sono andata dal prete del paese, e gli ho chiesto consiglio, se dovevo raggiungere mio marito o no. Ed il sacerdote, che aveva tempo prima scritto una lettera a mio marito per conto mio quando erano nati i gemelli, senza avere risposta, per la verità pensava che fosse preferibile soprassedere. «Sapete pur che gli ho scritto – mi ha detto- che non vi ha mandato una lira, e che vive nel fango». E per dissuadermi mi ha raccontato una storia vera.

«Nel paese dove sono nato c’è un signore, che abita vicino a me, che mi ha raccontato che c’era una signora che è andata a cercare suo marito che non si faceva più vivo all’estero. Questa povera donna aveva due bimbi a casa, e li aveva lasciati con i suoi genitori. Ed ha scelto lei di andare a cercarlo, come volete fare ora voi. E quanto è giunta al paese dove si trovava suo marito ha cercato la casa dove viveva e si è presentata. Ma si è presentata mentre si stava svolgendo una festa, un battesimo, e vi era una tavola imbandita piena di parenti.

E proprio sul più bello è giunta lei. Lui l’ha accettata senza batter ciglio, ha detto ai presenti che era una parente, una cugina, tanto lei non capiva perché non conosceva la lingua, l’ha fatta sedere a tavola, ed hanno mangiato tutti insieme. A fine pasto, le ha detto: “Andiamo a fare due passi”, e lei ha accettato.

E sono usciti dalla casa, uno accanto all’altra, e, strada facendo, lui ha preso la via che conduceva alla stazione. E giunti alla stazione le ha detto «Sai, tu sei venuta a cercarmi, ma io non penso di ritornare più in Italia. Sei giunta proprio mentre si stava svolgendo la festa di battesimo del bimbo che ho avuto qui, credo tu lo abbia capito.  Pertanto torna a casa, ma hai i soldi per il viaggio di ritorno?» Lei ha risposto che aveva qualche soldo, e lui le ha detto che, se non avesse avuto nulla, le avrebbe fatto fare il salto del ponte.
Allora lei si è spaventata, lo ha implorato di non toglierle la vita, e gli ha detto che forse le mancava qualche spicciolo per il biglietto, ma che avrebbe cercato di recuperarlo. Allora lui le ha dato il denaro mancante per il viaggio di ritorno, e l’ha accompagnata fino al vagone, e l’ha aiutata a salire sul treno.

Così lei è tornata al suo borgo, ed ha raccontato tutto ai paesani ed al prete. Ah, signora Laura, quante ne toccano, nella vita!

«Vedi di non tornare indietro anche tu così – ha continuato il mio sacerdote – e vedi di calcolare, per il viaggio, i soldi per l’andata e per il ritorno. Tuo marito non ha soldi da darti – ha continuato – perché vive in mezzo al fango, e non vorrei che ti facesse fare, se non hai denaro a sufficienza, una brutta fine».
E a questo punto io ho pensato: «Dio mio!», perché servivano 500 lire per andare, ed altre 500 lire per tornare. E mille lire, erano una cifra, allora. Ma avevo lavorato, e qualcosa avevo messo via del mio lavoro, ed ero andata a far fieno e lo avevo venduto, e avevo racimolato la cifra che mi serviva.

Così sono partita anch’io per la Francia a cercare mio marito, ma ero in una botte di ferro perché viaggiavo con una mia paesana, la moglie di un impresario, che mi diceva cosa fare se non lo sapevo, e che mi avrebbe aiutato, e che era una donna davvero in gamba. Ho patito tanto, signora Laura, me ne ha fatte tante mio marito, ed ho avuto coraggio sa, ho avuto tanto coraggio ad andare a cercarlo, ed il Signore mi ha voluto bene e mi ha aiutato. Ed infine sono giunta a Parigi, dove stava mio marito, e la moglie dell’impresario, che aveva viaggiato con me, è andata ad avvisare mio marito che ero arrivata, e che mi trovavo ospite a casa sua …”.

E per ora mi fermo qui, nel racconto e vi invito a leggere la prossima puntata…

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L’intervista ad A. è di Laura Matelda Puppini e si è svolta nel mese di maggio del 1978. La trascrizione dal carnico è di Laura Matelda Puppini.L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://www.donneincarnia.it/ieri/portatricicarniche.htm, e rappresenta il monumento alla donna carnica posto nella zona antistante l’isis “Fermo Solari” di Tolmezzo.

 

 

Storia di una donna carnica, fra violenza, povertà, aiuto reciproco. Intervista a A., maritata. Seconda parte.

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Riprendo qui la storia di A. che avevamo lasciato a Parigi, alla ricerca del marito che non si faceva vivo da sei anni, ospite di P. sua paesana e residente nella capitale francese, che era andata ad avvisare l’uomo che sua moglie si trovava in città, a casa sua. (Cfr. Storia di una donna carnica, fra violenza, povertà, aiuto reciproco. Intervista a A., maritata. Prima parte, in: www.nonsolocarnia.info).

A Parigi, ritrovato il marito …

Ed è giunto lì mio marito, ed era brutto e mal vestito, era vestito da vergognarsi, da operaio. Che avesse almeno messo un vestito decente per venire ad incontrarmi, un paio di scarpe decorose! No, aveva ai piedi un paio di scarpe come quelle di ginnastica oggi, color blu, e non aveva nulla, era poverissimo, non aveva neppure un abito decente. E ci siamo parlati lì, e gli ho chiesto se avesse messo via qualche soldo, ma lui mi ha detto di no. Ma in sei anni, avrebbe potuto metter qualcosa da parte! Ed allora gli ho chiesto se avesse debiti, e mi ha risposto di no, Ma invece ne aveva, eccome, perché mangiava sempre al ristorante, una settimana in uno e la successiva in un altro … insomma aveva solo debiti, che se il Signore avesse dovuto pagarli, avrebbe dovuto dare persino Cristo! “Ce robonas”, Signora Laura! Pensi che non aveva messo via neppure una lira!

Per fortuna che c’era P. la mia paesana, che ha pensato a me, e mi ha trovato una stanzetta con un tavolo, due sedie, un caminetto dove si poteva cucinare e far fuoco per scaldarsi. Arrangiarsi così, mi capisce… Ed io avevo portato dal paese un po’ di biancheria, due paia di lenzuola, un paio di federe, tutto quello che avevo potuto procurarmi. Ma prima di coricarmi accanto a lui, gli ho chiesto se non avesse, magari, contratto qualche malattia infettiva, (sessualmente trasmissibile ndr). E gliel’ho chiesto così, in modo franco, perchè avevo paura, capisce … «Non voglio essere infettata da te, gli ho detto». E lui mi ha risposto che da quel punto di vista potevo stare tranquilla, che era stato solo con donne controllate, di quelle che si pagano. E gli ho tornato a chiedere se fosse sicuro di non essersi preso nulla, e mi ha detto di sì. E così io sono rimasta subito incinta. 

E nel frattempo …Dio Santo!  Lui aveva i suoi camerati, i suoi amiconi, e spendeva con loro, mentre e io mi vergognavo a vederlo come era vestito, come era trasandato, perché aveva un paio di “bregonàz” di pantalonacci, aveva un paio di scarpacce, che mica si può andar in giro così. E così mi sono informata se c’era a Parigi qualche mercato dove avrei potuto acquistargli un vestito decente. E ho chiesto alla mia paesana, a P. di farmi del bene accompagnandomi per gli acquisti ed imprestandomi i soldi.  E lei ha acconsentito. Perché io mi vergognavo a vedere mio marito così, e c’erano altri paesani lì, ed io, loro paesana, desideravo di andarli a trovare, ma non volevo portarlo in visita con me vestito come “un zingar”, non mi piaceva. Mi creda, io non sono una persona che può permettersi lussi, ma in vita mia mi sono sempre vestita in modo decoroso, ed ho sempre curato la mia persona. Così sono andata con P. al mercato delle pulci, ho acquistato un vestito, una camicia ed un paio di scarpe per mio marito, e ho reso i soldi a P. un po’ per volta. Per la verità ho dovuto scegliere a occhio, tra gli abiti appesi, quello che poteva andargli bene, insomma ho scelto così, alla buona.

Quindi siamo tornate insieme a casa mia, ed ho fatto indossare quel vestito appena comperato a mio marito, e non sembrava più la stessa persona. E quando, poi, andavamo a trovare i nostri paesani, quelli gli dicevano: «Ce ben metut chi tu seis! Vedi cosa vuol dire aver vicino la moglie…».  

E lui beveva, beveva, e poi diventava cattivo. 

E venivano talvolta amici di mio marito a casa mia la sera, e mi mandavano a prendere vino, bottiglioni di vino, ed io non conoscevo la lingua ma io non ero abituata così a casa mia. Ed ero in Francia, e non sapevo la lingua, e così mi facevo scrivere su di un biglietto ‘vino’ e come si diceva, ed anche come si diceva ristorante ed osteria, e via di seguito, e queste sono le prime parole in francese che ho imparato. Quindi tornavo a casa con il vino, e la casa si trasformava in un’osteria: questi uomini bevevano, e, quando erano sbronzi, battevano violentemente i pugni sul tavolo, e litigavano e polemizzavano tra loro. Ioi, Signore benedetto! E una sera i suoi compagni di lavoro hanno detto, davanti a me che non avevo ancora figli: «Un albero che non frutta va tagliato», ed era riferito a me, ma pensi un po’, signora Laura! Ed avevo appena avuto un aborto.  

Era molto possessivo, mio marito, e si era ingelosito del prete, senza motivo alcuno, solo perché una volta gli aveva scritto a nome mio. Ma pensate come sono gli uomini! E mi ha portato da un dottore per le donne, perché pensava mi fossi ‘impestata’ con il prete. Erano così un tempo ma ce ne sono così anche adesso. E così mi ha portato da questo professore.

Ora può darsi che uno sia geloso perché vuol bene alla moglie, ma c’è gelosia e gelosia, e non ci si può inventare fandonie. Però lui non poteva star fermo lì perché aveva sempre sete e doveva andare sempre a bere in osteria. E io non sapevo parlare francese, e quando mi hanno chiamato per la visita ho perso il turno. Hanno detto il nostro cognome, ma lui non c’era. Infine, quando Dio ha voluto, mio marito è ritornato.  «Dove sei stato? Potevi ben restare qui. Se fossi stato qui avremmo già fatto la visita» – gli ho detto. E lui: «Se la visita non è stata ancora fatta, la faremo». Ma quando hanno richiamato il nostro cognome, non lo hanno lasciato entrare, sono entrata da sola e mi hanno fatto unicamente un prelievo di sangue sul dito piccolo.  Ha fatto solo quello il dottore, solo quello e basta.

Ed ero appena operata per l’emorragia causata dall’aborto, e può darsi che fossi stata, allora, un po’ debole, ed io pensavo che i medici avessero potuto aver dimenticato qualcosa di quell’essere morto nel mio corpo, ma era una mia fissazione, un mio pensiero. Ed allora mandavano la risposta degli esami svolti direttamente al medico condotto che si aveva, e finalmente è giunta anche la risposta per me, ed era tutto normale, non avevo nessuna malattia. Ed allora a lui è passata la gelosia, per fortuna, perché mi aveva ben tormentato con questo prete! Roba da matti!

Ma ora le racconto cosa è successo quando poi ho abortito.

Ero gravida di due o tre mesi, e lui era cattivo, e che cattiverie, “ce robatàs”! Era sbronzo e quando beveva diventava tanto cattivo tanto cattivo. E quando era ciucco affilava il coltello, e mi diceva: «Stasera vedrai, passerai per le mie mani!».  Ne ho portate di croci, io, che non ero abituata così, e mi ricordo che lui affilava il coltello …. E quando era sbronzo mio marito era tanto, tanto cattivo. Sa signora, quando sono ciucchi gli uomini non hanno forza per far qualcosa, ma quando lui era sbronzo affilava il coltello, e diceva: «Stasera dovrai passare per le mie mani! E cosa credi, che sia tuo schiavo? E io non sono abituato così … ». E diceva questo mentre affilava il coltello. Ed era tanto, tanto cattivo, mio marito.

Ed io non ero abituata in questo modo, ed i miei genitori erano normali, e non ho mai sentito da mio padre, che era il sacrestano, una brutta parola, e poi, invece, sposata, ho sentito affilare il coltello e mi sono sentita dire, da mio marito, che mi avrebbe uccisa …
E piangevo, piangevo, e lui: «Lacrime di donna…» – diceva – «Lacrime di donna» … ma non mi ricordo bene la frase. Ecco, diceva: «Lacrime di donna e malignità di malizia». 
Ed ero gravida di due o tre mesi, e ho preso una tale paura, che ho sentito il sangue diventare ghiaccio, e mi si è avviato il corso, ho sentito come fossero iniziate le mestruazioni. E mi sono ritrovata tutta piena di sangue. E non avevo neppure un paio di mutande per cambiarmi, perché avevo raggiunto Parigi solo con il necessario.

Ed è arrivata, come ogni giorno, a trovarmi la padrona di casa, che stava sopra di me, e era una bravissima signora e che veniva ogni giorno a vedere se io mi ero alzata e come stavo. Ed io mi ero messa a letto, e non sapevo spiegarle cosa mi era successo e così ho dovuto tirar giù le coperte e le lenzuola e mostrarle che ero piena di sangue. E ho sentito che la padrona ha chiamato una sua paesana che stava passando per la via, ed è giunta anche lei. Ed è così che, per la gran paura, ho perso il bambino, ho avuto questo aborto.

“Le donne devono fare figli” – diceva mio marito, e io ho fatto con lui, poi, tanti figli, ma non è mai stato capace di portarmi una goccia di caffè a letto. Che persona cattiva era mio marito!

Ho avuto tanti figli, e sono tutti brave persone, anche se uno di loro tiene molto da conto la famiglia, ma ‘sanc no è aghe’ (il sangue non è acqua), e i miei figli sono figli dello stesso padre! Ed uno dei miei figli, ogni tanto, ha crisi nervose, e io ho detto a mia nuora che suo marito mi pareva assomigliasse un po’ troppo a suo padre. E le ho anche detto che se si fosse comportato male verso di lei andasse in questura, perché non sono più i tempi di una volta. Oggi se una donna si rivolge alle forze dell’ordine, l’uomo viene immediatamente fermato, ma un tempo non era così, e non c’era nessuna tutela.

E sempre quando eravamo in Francia, io facevo la sarta per la gente, e benedetta mia madre che mi ha mandato ad imparare a cucire. E facevo di tutto io. La sarta, la contadina, e facevo molti lavori… la mia vita è stata solo lavoro. E poi figurarsi se, con tutti i bambini che avevo, potevo restare disoccupata!
Tanti abiti e tanta ‘roba’ me la dava la gente, ma anch’io tiravo fuori abiti per i miei bimbi da vecchi abiti usati dei miei genitori, e agli abiti dei miei figli non è mai mancato un bottone e i miei figli non sono mai stati sporchi.

Ma ritornando la mio lavoro, grazie al fatto che sapevo cucire, dopo un po’ una mia paesana è riuscita a procurarmi una macchina da cucire ed a trovarmi un posto di lavoro in una fabbrica, sempre per cucire, ma io ho rifiutato ed ho preferito lavorare in casa, perché dovevo pur far da mangiare a questo mio marito. E la gente era soddisfatta di come lavoravo, ed ha sempre trovato gli abiti come li aveva chiesti e ben rifiniti, e così quando avevano bisogno di qualcosa ritornavano da me, ed io avevo sempre lavoro.  E per fortuna che è andata così, perché mio marito mi faceva mangiare ben poco, ma proprio tanto poco da far paura, e se fosse stato per lui … Ed era abituato a spendere e spandere, ed ogni sabato andava con gli amici, e per fortuna che avevo i miei soldi su cui contare, con i quali prendevo tutta “la roba piccola”. Ed ho avuto da lui un figlio dopo l’altro, anche in Francia, che quando si sono sposati hanno dovuto chiedere là il certificato di nascita, che non arrivava mai».

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L’intervista si interrompe qui, quando il racconto di A. si incentra troppo sui figli, viventi, ed in particolare su uno dei suoi figli, ed io chiudo il registratore. Ma credo che A. ci abbia raccontato un mondo non tanto particolare, e situazioni di violenza domestica anche diffuse, solo che altre donne non hanno voluto od avuto l’occasione di parlarne.

Gran parte di questa intervista è stata pubblicata a mia firma (Laura Puppini) su Nort, giornale della Carnia e della montagna friulana, ed. gruppo Gli Ultimi, nemero 6, giugno/luglio 1985, p. 7 con titolo: “Storia. Donna, carnica, tuttofare”.

Laura Matelda Puppini

L’intervista ad A. è di Laura Matelda Puppini e si è svolta nel mese di maggio del 1978. La trascrizione dal carnico è di Laura Matelda Puppini. L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://www.donneincarnia.it/ieri/portatricicarniche.htm, e rappresenta il monumento alla donna carnica posto nella zona antistante l’isis “Fermo Solari” di Tolmezzo.  Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


SANITÀ SENZA FUTURO IN ITALIA? E DOVE ANDREMO A FINIRE IN ALTO FRIULI?

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SANITÀ FRA STATALIZZAZIONE E PROVE DI TOTALE REGIONALIZZAZIONE.

La riforma del ssn e la creazione di tanti servizi sanitari regionali dovrebbe impensierire tutti, perché si ritorna da dove siamo partiti, dalle voragini di spesa causate dalle Regioni ed all’improvvisazione in sanità e dintorni, vedi acquisto di moto enduro per protezione civile, e non si hanno i soldi per ambulanze! (“GrigliaRiccardi…Exxx…Polzive!!! L’assessore di ForzaTragica predilige l’enduro: dal 2019 meno ambulanze più motociclette. Presentate ieri le potenti moto della protezione civile da 3 quintali. Chi le guida? Chiamate Orioli”, in: http://www.leonarduzzi.eu/grigliariccardi-exxx-polzive-lassessore-di-forzatragica-predilige-lenduro-dal-2019-meno-ambulanze-piu-motociclette-presentate-ieri-le-potenti-moto-della-protezione-civile-da-3-quintali-c/.). Il problema di chi le guiderà non è di poco conto, perché il personale volontario della Protezione civile inizia, fra l’altro, ad avere una età non giovanile ed ad esser utilizzato per tutto un po’ dal trasporto provette ad altro.

Correva l’anno 2015 quando scrivevo il mio “State allegri arrivano i tagli di Renzi/ Gutgeld/ Lorenzin /Boschi/. Addio a sanità e salute?”, pubblicato su www.nonsolocarnia.info, dopo aver letto, il giorno del mio 64esimo compleanno, il Corriere della Sera. E così mi esprimevo allora:

«La prima notizia che mi colpisce è il buco fatto al bilancio dello Stato dalle Regioni, che hanno usato i fondi per ripianare il debito della pubblica amministrazione, 26 miliardi in tutto, per finanziare, anche, nuova spesa corrente, in barba alle regole contabili. (Mario Sensini, nuovi rischi per i conti pubblici. La Consulta apre il caso Regioni, in: Il Corriere della Sera, 23 agosto 2015). Tanto che vuoi che sia, tanto in qualche modo si combinerà, tanto … così per incominciare la Corte dei Conti ha dichiarato incostituzionale il bilancio della regione Piemonte, e poi si vedrà… Ed allo Stato mancano, secondo il Corriere della Sera, 20 miliardi da cercare subito, 30 miliardi per il Messaggero Veneto (“Manovra da 30 miliardi. Il Governo cerca risorse. Pronti i tagli per la sanità”, in Messaggero Veneto, 23 agosto 2015). Certo potevano accorgersi anche prima, dico io …
«Il pane è cotto? Sì è anche bruciato. Di chi è la colpa?» – recita una vecchia filastrocca per bambini. Di chi è la colpa di questo sfacelo, e di questo tentativo di recupero tagliando, guarda caso, lo stato sociale? Colpa dello Stato? Certamente, il debito è suo. Colpa delle regioni? Se hanno fatto voragini di bilancio certamente. Colpa del “sistema Italia”, che non sa far pagare in qualche modo chi sbaglia e mandar via i cattivi amministratori? Certamente, come, certamente, la colpa di questo disastro, previsto ed annunciato, non è dei cittadini meno abbienti, ma saranno loro a pagare. (…). Per il Messaggero Veneto, che si fida delle parole pronunciate da Carlo Cottarelli al meeting di Comunione e Liberazione, in sanità: «sono possibili risparmi ulteriori “tra i 3 e i 5 miliardi” senza stravolgere il sistema, senza contare i risparmi sull’acquisto di beni e servizi» (“Manovra da 30 miliardi”, op. cit.). Su che base Cottarelli dica questo, non si sa.

Leggendo poi La Repubblica del 16 settembre 2017, sono ancora le regioni ad essere indebitate per la spesa sanitaria: «I dati elaborati dall’associazione veneta (Cgia di Mestre ndr) dicono che la sanità regionale più indebitata è quella del Lazio, con 3,8 miliardi di euro. A seguire la Campania con 3 miliardi, la Lombardia con 2,3 miliardi, la Sicilia e il Piemonte entrambe con 1,8 miliardi di euro ancora da onorare. Se, invece, rapportiamo il debito alla popolazione residente, il primato spetta al Molise, con 1.735 euro pro capite. Seguono il Lazio con 644 euro per abitante, la Calabria con 562 euro pro capite e la Campania con 518 euro per ogni residente. C’è da segnalare comunque che dal 2011 il debito complessivo è in costante calo ed è sceso di 15 miliardi di euro (-39,7 per cento). A livello regionale le contrazioni più importanti si sono verificate nelle Marche (-69,5 per cento), in Campania (-55,4 per cento) e in Veneto (-51 per cento). Solo nel Molise e in Umbria la situazione è peggiorata: nel primo caso la crescita è stata del 39,7 per cento, mentre nel secondo caso del 57,7 per cento».(https://www.repubblica.it/economia/2017/09/16/news/sanita_i_debiti_con_i_fornitori_sfiorano_23_miliardi-175640489/).

Pertanto regionalizzare, tra l’altro in fretta e furia, la sanità creando tanti sistemi sanitari regionali ognuno uscito dalla mente di un dirigente superpagato ed un paio di politici mi pare pura follia, ed apre la possibilità a aggregazioni fra regioni, non si sa su che base, moltiplicando il caos in sanità. E pare impensabile che si voglia acquistare farmaci di ultima generazione in trattativa fra le case farmaceutiche e singole regioni, senza ricorrere ad un acquisto su scala nazionale che permette di abbattere i costi. Insomma talvolta mi pare che, per rivoluzionare tutto all’egida del risparmio, si rischi di spendere di più, muovendosi senza idee chiare, programmazione seria, progettazione e calcolo delle ricadute.

 

E se è forse vero che «Togliere la sanità alle Regioni non salverà la sanità. Cattiva gestione, clientelismo, riforme a metà. I mali sanitari della Penisola sono gli stessi del Belpaese e affossano i bilanci delle Regioni che si rifanno sulle tasche dei cittadini in una spirale sempre più negativa» (F. Capozzi e G. Scacciavillani, Sanità, il buco nero di Asl e Regioni. “Ma riaccentrare tutto non ci salverà: Roma non è in grado”, in: Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2017), è anche vero che la totale regionalizzazione della sanità non è la via da perseguire. Infatti proprio quando esistevano sia il ssn che il ssr si è speso molto, e la sanità ha affossato «i conti di metà Regioni italiane. Da anni ormai Campania, Piemonte, Liguria, Lazio, Calabria, Puglia, Molise, Sicilia e Sardegna sono in deficit in un settore che rappresenta fra il 60 e l’80% delle uscite dell’ente». (Ivi). Come potrebbero fare senza alcun aiuto del ssn? Infatti il sistema sanitario «ha a disposizione enormi risorse trasferite dallo Stato (113 miliardi per il 2017) o incassate via ticket (2,8 miliardi nel 2015) e un esercito di 626mila dipendenti». (Ivi).

Ma come si è giunti a questa situazione? Secondo Fiorina Capozzi e Gaia Scacciavillani, «Dall’inizio del decentramento negli anni ‘90, la politica nazionale e quella locale hanno trasformato la sanità in un feudo inespugnabile simile a quello delle partecipate degli enti locali. Un sistema di potere che non solo ha a disposizione enormi risorse trasferite dallo Stato (113 miliardi per il 2017) o incassate via ticket (2,8 miliardi nel 2015), ma gestisce in prima persona la sanità. Innanzitutto attraverso le nomine dei vertici di Asl e Aziende ospedaliere che non sfuggono comunque anche ai giochi di potere nazionali, come dimostra l’interesse dell’ex ministro Nunzia Di Girolamo per le nomine dell’Asl di Benevento, sua città d’origine. E poi anche quelle di medici, infermieri e amministrativi in un sistema estremamente lottizzato e scarsamente aperto al merito». (Ivi).
Ora mi pare che nulla sia cambiato, che la cosa più importante sia sempre la nomina dei vertici, non l’obiettivo del o dei sistemi sanitari, che dovrebbe essere lo star bene dei cittadini e non può essere, come in Fvg, l’abbassamento di 1 punto percentuale nella spesa, senza curarsi del resto.

«Stando così le cose, non resta che chiedersi se questo modello potrà ancora a lungo funzionare. “Oggi siamo arrivati al paradosso che il direttore generale è chiamato a garantire il pareggio di bilancio e talvolta ostacola le scelte del medico perché costose”, ha spiegato al Festival dell’Economia di Trento il direttore della scuola di specializzazione in igiene e medicina preventiva del Gemelli di Roma, Walter Ricciardi, che si sta battendo per sfilare la sanità dalle mani delle Regioni. Per quale motivo? “Di fronte alle sfide epocali che attendono il sistema sanitario nazionale, le Regioni non ce la fanno”». (F. Capozzi e G. Scacciavillani, Sanità, il buco nero di Asl e Regioni. “Ma riaccentrare tutto non ci salverà: Roma non è in grado”, – seconda parte, in: Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2017). Così in attesa di Godot, si improvvisa senza programmazione alcuna ora come allora, portando la sanità a livello del baratro.

Una possibilità, secondo alcuni, potrebbe essere quella di un decentramento differenziato. Cioè «È importante che il livello centrale decida nello specifico cosa fa e cosa non fa, non portando avanti una specie di strategia generalizzata di riacquisizione trasversale dei poteri sulla sanità. Deve essere fatta una cosa molto più intelligente nel capire quali competenze specifiche possono essere riportate o gestite al centro, quali devono rimanere in periferia e quali sostanzialmente devono essere cogestite». (F. Capozzi e G. Scacciavillani, Sanità, il buco nero di Asl e Regioni. “Ma riaccentrare tutto non ci salverà: Roma non è in grado”, quarta parte, in: Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2017).

OSPEDALI SENZA SUFFICIENTI POSTI LETTO. COSÍ SI STA CONFIGURANDO LA NUOVA SANITÀ.

Intanto, mentre il vile denaro ha preso il posto di una ben più onorevole e corretta finalità per il ssn e per i vari ssr retti in modo aziendale, (ma guardate cosa è successo in certe aziende per aver seguito certi discutibili modelli, e problemi di questo tipo ora potrebbero coinvolgere anche la sanità), Quotidiano sanità ci avvisa che gli ospedali, oltre che altri problemi, non hanno sufficienti posti letto. Infatti «gli ultimi dati pubblicati dal Ministero della Salute riportano un’ulteriore diminuzione dei Posti Letto/2017 rispetto al 2016, sia per quanto riguarda gli “acuti” sia i “post acuti” cioè persone che necessitano di Lungodegenza e Riabilitazione. (Flavio Florianello, Rossana Caron di Anaoo Assomed, Sempre meno letti negli ospedali. Sia per acuti che per lungodegenze. E il sistema è in sofferenza, in Quotidiano Sanità, 15 febbraio 2019).

Il D.M. 70/2015 aveva stabilito gli “standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera” ed in particolare  che le Regioni avrebbero dovuto provvedere “entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del decreto”, ad adottare il provvedimento generale di programmazione di riduzione della dotazione dei posti letto ospedalieri accreditati, ed effettivamente a carico del Servizio sanitario regionale, ad un livello non superiore a 3,7 posti letto per mille abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto per mille abitanti per la riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie.
Il dato del 3,0 posti letto per acuti /acuti e lo 0,7 posti letto per Post Acuti  ogni 1000abitanti, aveva già allora fatto discutere perché, concretamente, faceva precipitare l’Italia tra gli ultimi per dotazione Posti Letto in ambito europeo e non solo. (Ivi).

Ma rispetto a quanto definito dal DM 70/2015, la situazione è ulteriormente peggiorata, i grandi proclami sulla necessità di definire gli “standard” sono stati totalmente dimenticati e le indicazioni stabilite dalla Legge inapplicate. E, mentre continuano, purtroppo giustamente, le lamentele dei cittadini per il protrarsi delle lunghe attese sulle barelle dei Pronto Soccorso non essendoci posti letto liberi nei reparti, mancano all’appello oltre 5.600 posti letto per acuti e lo 0,7 per mille dei posti letto per i Post Acuti, cioè in tutto, quasi 9.000 posti letto. (Ivi). Non da ultimo manca persino l’alternativa del privato, in molti casi.

SITUAZIONE IN ALTO FRIULI.

La montagna friulana sinora ha visto solo tagli, disorganizzazione, depauperamento vertiginoso del servizio sanitario, prestazioni on the road, spesso ad Udine (il che comporta di percorrere, in un modo o nell’altro, circa 100 chilometri con spese aggiuntive a carico del cittadino), totale mancanza di visione di cosa accadrà nel futuro, rassegnazione, mancanza di fiducia e di speranza. Ora ci si è accorti che mancano medici, quando l’Anaoo Assomed lo va dicendo da tempo, e che quelli bravi vengono intercettati da persone che propongono loro interessanti contratti all’estero, ma nessuno ha fatto uno straccio di ipotesi su come risolvere detti problemi, mentre i tagli sono sempre in prima fila. Insomma la mia impressione è che la sanità qui sia allo sbando.

IL SAN MICHELE, UN OSPEDALE NEL LIMBO.

Per l’ospedale di Gemona so solo che hanno cambiato ancora una volta, l’ennesima, la dislocazione interna di reparti e servizi; che sarebbe auspicabile che finalmente facessero un po’ di manutenzione agli ascensori; che durate l’estate mancavano ai medici persino un numero adeguato di computer, e un medico che parlava con un paziente ed una infermiera di pre- ricoveri convivevano nella stessa stanza piccola, per questo problema; che manca una medicina interna, che chi deve sottoporsi a cistoscopie od a manovre urologiche ha ancora un iter complicato per raggiungere la sala operatoria a causa di lavori che dovevano esser terminati da un bel po’, e non so se si sia almeno messo mano al tetto in modo che non piova dentro, come è accaduto per anni ed anni. Inoltre con il passaggio all’ Ass4, di fatto avvenuto con la nomina del commissario, non si sa che fine farà detto ospedale e se esso verrà diretto, ancora una volta, da Maria Sandra Telesca, che attualmente, se non passata ad incarico superiore, risulta dirigere la “Gestione Amministrativa dei Presidi Ospedalieri”, per l’Ass4. (https://asuiud.sanita.fvg.it/distretti/dipartimenti-tecnico-amministrativi/amministrativo/gestione-amministrativa-dei-presidi-ospedalieri). Pertanto ci potremmo trovare con una gestione al San Michele ed una diversa all’ospedale di Tolmezzo.

OSPEDALE DI TOLMEZZO, CRITICITA’ PER QUANTO SO.

L’ospedale di Tolmezzo, che i carnici vorrebbero restasse di riferimento per il territorio, ha sicuramente qualche problema, ma guardate cosa è accaduto a Trieste- Cattinara, quando si è deciso di ampliare il pronto soccorso. Ora i lavori sono fermi forse come all’ospedale di Gemona per la sale operatorie, ma ritengo per motivi diversi ed il pronto soccorso è collassato. (https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2018/12/02/news/il-progetto-esecutivo-non-supera-l-esame-stop-ai-lavori-a-cattinara-1.17521621).

Ed io credo anche che sia stata pura follia Pd depotenziare quello di Gemona che deve essere ripristinato con la sua area di emergenza. Sostenere politiche accentratrici in sanità per me è demenziale, e scusatemi la definizione, ma non ne trovo altre che indichino il mio pensiero. In Normandia avevano tanti punti di primo soccorso sparsi sul territorio, non un super pronto soccorso, qui uno là. Ma per far funzionare i pronto soccorso, a maggior ragione nel caso si tratti di uno solo su amplissimo territorio, ci vogliono le ambulanze ed adeguatamente dotate, e a Tolmezzo da che so, e se erro correggetemi, le ambulanze non sono mai uscite con medico a bordo, ma solo con personale 118 ed autista.

Ed in aggiunta, il servizio di pronto soccorso è poco appetibile per i medici, che spesso dopo un po’ se ne vanno verso lidi migliori. Inoltre bisogna ripristinare la sanità in montagna, mantenere i poli ambulatoriali anche specialistici che funzionano, e la rete territoriale deve essere potenziata, e non si sa come la proposta del sindaco Francesco Brollo di un enorme pronto soccorso tolmezzino con 8 o 9 letti in più in medicina (una miseria) possa supplire ad una annunciata disfatta di Caporetto relativamente al ssr ed in particolare montano e anche carnico. (Tanja Ariis, Mancano spazi, letti e medici: emergenza al Pronto soccorso, in Messaggero Veneto, 12 febbraio 2019).

Gemona aveva quarantacinque posti letto, e a gran voce i comitati ma anche io ed il dott. Pietro De Antoni abbiamo detto di mantenerli, ed ora si sa che la medicina interna dell’ospedale di Tolmezzo è in affanno per posti letto, mentre i medici si devono pure preoccupare di dimettere un paziente appena sta meglio per liberare un posto. Bisogna ritornare, preferibilmente ed in un’ottica di medicina vicina al territorio, ad aprire medicina interna di Gemona, od almeno bisogna dotare di un numero maggiore di letti quella di Tolmezzo, utilizzando, per esempio, un’ala del quinto piano ora adibita ad altro uso. Perché non è giusto che, per mille tagli, anziani e non anziani, con polmoniti, broncopolmoniti e patologie acute, debbano stazionare d’inverno qui e là, senza adeguato intervento sanitario o vengano rispediti al mittente, come nel caso di mia madre. Anche l’anziano ed anzianissimo hanno il diritto alla vita finché possibile. Però ora, senza Aas3, ottenere qualcosa sarà sempre più difficile. E bisogna chiedere con forza tutto quello che si può chiedere, insieme a Gemona, ed alle periferie, non quattro briciole, e non in competizione. Inoltre durante le giornate festive e non solo, il pronto soccorso di Tolmezzo si riempie di sciatori ecc. ecc. che limitano il servizio ai residenti. Ma sono problemi che ho trattato già anni ed anni fa. E senza una efficiente sanità di base in montagna, giocoforza il pronto soccorso, giustamente vissuto come l’ultima spiaggia, si intaserà.

CI SERVE, IN ALTO FRIULI, UN LABORATORIO ANALISI PER TUTTI., NON UN PUNTO PRELIEVI.

Infine si è mai visto un ospedale senza un laboratorio analisi efficiente e che funzioni per tutti, ma invece con provette vaganti verso un laboratorio posto a circa 50 chilometri di distanza, privo di biologi di riferimento e contatto per i medici curanti, indipendentemente dal fatto che siano di base o specialisti, e con risposte che possono giungere anche quattro giorni dopo il prelievo? Una volta i medici di base facevano le analisi da soli, e con prodotto fresco. Ed i problemi del trasporto dei campioni biologici ci sono, eccome. (Cfr. Laura Matelda Puppini, Se perdo te … ancora due considerazioni sul laboratorio analisi dell’ospedale tolmezzino …, in : www.nonsolocarnia.info).

COSA SI LEGGE, INVECE, SIA STATO PROGETTATO PER NOI.

Attualmente l’Aas3 è commissariata, ed il commissario è il direttore generale dell’Aas4, Giuseppe Tonutti, che, da solo, dovrebbe regolamentare e decidere per un territorio più che mai variegato e con diverse realtà, ed esteso da Lignano a Sappada, sul quale il commissario intende intervenire «con regole e servizi omogenei, organici ridimensionati, e “qualche ramo secco “tagliato». (Alessandra Ceschia, Tagli a doppioni e lavoratori. Così si cambia la sanità friulana, in Messaggero Veneto, 30 gennaio 2019).

A parte che non si sa come il dott. Giuseppe Tonutti possa anche solo pensare che si possa trovare un identico modello attualmente per Udine, Palmanova, Sappada, Forni Avoltri, Lignano d’estate e d’inverno, Tolmezzo, Bagni di Lusnizza, Nimis, Prato di Resia senza, fra l’altro, affrontare in primo luogo il problema dei medici di base, del numero di ambulanze e via dicendo, questo signore ha anche deciso di creare, nel suo piccolo, nuove regole e regolamenti, (Ivi), quando noi pazienti, dal monte al mare, siamo tutti in difficoltà con quelle vecchie nazionali e regionali. Infine vuole tagliare il personale, e non si sa cosa ancora. Altro che macete, qui siamo alla ghigliottina! Quindi desidera eliminare i poliambulatori, per esempio l’utilissimo poliambulatorio udinese in borgo San Valentino, con il risultato di intasare il Santa Maria della Misericordia, ed i centri diurni retti dai C.S.M. operativi 24 h su 24, troppi a suo avviso, e che possono, a suo dire, esser sostituiti dall’assistenza nei reparti ospedalieri, vecchia idea, se non erro, di Maria Sandra Telesca, non proprio in linea con la legge Basaglia. Ma purtroppo si è dimenticato di contare i posti letto in medicina interna, qui come là, per esempio a Tolmezzo, che sono insufficienti anche per gli acuti anziani, che risultano, d’inverno, variabilmente parcheggiati, senza cura finché un letto non si libera o vengono rispediti a domicilio. E spero che il nostro nuovo dg non pensi che un centro diurno, anche di incontro, cura e dialogo con i pazienti è la stessa cosa di una degenza ospedaliera per persone sofferenti di disagio e malattia mentale, con il solo risultato di dare nuovi problemi a tutti e minor qualità nell’intervento curativo.

Inoltre per la terza volta in poco tempo, spenderemo per modificare intestazioni e via dicendo. Ed amaramente penso a quei sindaci che hanno scelto l’aggregazione alla Ass4, e l’eliminazione dell’Aas3, per far guadagnare a noi un mare ulteriore di tagli e difficoltà, ed alla regione, da che si legge, il mero stipendio di Benetollo, quando si poteva diminuire qualche dirigente amministrativo ospedaliero.

Interessante, poi, che il nuovo dg non abbia fornito dati, (Ivi), e quindi mi chiedo su quali basi abbia fatto la sua proposta ai sindacati, mentre punta ad una «corretta riorganizzazione per far bastare le risorse umane». Quale non si sa, e con che risultati sul personale neppure. Comunque ha parlato lungamente solo di sforbiciate, che non rimodellano, ma distruggono il poco che è sopravvissuto, mentre parenti ed amici sempre più sono costretti a sopperire. E tristemente mi viene in mente la battuta del compianto Mauro Saro sul parente che, dal venerdì pomeriggio fino al lunedì mattina, deve vestire il camice bianco.

Ma quanto di europeo ha una sanità del genere? Ma siamo in Europa o “alle falde del Kilimangiaro?”

In più credo proprio che abbia ragione Giuseppe Pennino della Cisl, che ha dichiarato: «È difficile comprendere come […] l’idea di procedere al taglio degli organici possa non tradursi anche in un taglio dei servizi». Beh secondo me è impossibile. E come non essere d’accordo con chi, della Cgil, dice che non si sa come si possa pensare di ridurre le risorse, garantire senza incentivi la turnazione, spronare ad ulteriore lavoro persone stanche e provate, diminuire le liste di attesa ed al tempo stesso aumentare i servizi?

Il commissario pensa, il commissario taglia … ma Dio mio, siamo mica sotto Mussolini! Riuscirà a far cassa, secondo me, ma anche a distruggere ulteriormente il servizio, rendendolo meno appetibile, e così non sarà approdato a nulla. Credetemi, poteva restare tutto come prima della riforma Serracchiani – Telesca, eliminando gli sprechi, e ci avremmo guadagnato tutti, pazienti, personale, regione fvg. Infine,come ultima chicca, si apprende che, per l’Ass1 triestino – isontina, si sono deliberate le visite a cronometro, di 20 minuti l’una. Ma non si è pensato che non vi è sempre lo stesso medico. Ma un medico che non sa chi è il paziente, deve salutarlo, attendere che si metta a suo agio, leggere la documentazione, non solo l’ultimo referto scritto da un collega che magari può aver preso una cantonata (vi giuro che può accadere, e poi tutti dietro) e che potrebbe essere di questo tipo: “per ora tutto bene, non problemi urgenti” e vi garantisco che ne ho io così, ascoltare il paziente, visitarlo, dopo che si è spogliato, scrivere il referto, e magari andare a prendere qualcosa che gli manca, in 20 minuti? Ma per cortesia … Chi può pagare 29 euro cioè non è esente, a questo punto vada in privato, per carità, che forse con una visita fatta bene risolve quasi tutti i suoi problemi ed è seguito dalla stessa persona, anche se qui il privato non è esente da avere, in alcuni casi, dei limiti …

Senza offesa per alcuno, scusandomi subito con chi si possa sentire offeso,  perché è mio desiderio solo porre problemi sul tappeto, esprimendoli come riesco, e se erro correggetemi.

L’immagine che accompagna queste considerazioni rappresenta la pubblicità di una serie di incontri promosso dalla defunta Aas3, che dovevano esser realizzati nel gennaio 2019, è tratta da: http://www.ilfriuli.it/articolo/salute-e-benessere/salute-in-montagna-points–al-via-un-ciclo-di-incontri-per-turisti-e-residenti/12/189933, ed è stata pubblicata il 4 dicembre 2018. 

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Annalisa Candido. Dalla xenofobia alla discriminazione religiosa e razziale, alla schiavitù, all’olocausto.

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Questo testo è stato scritto da Annalisa Candido, mia figlia, una quindicina di anni fa, ed è per me molto importante non solo perché il tema propone valori che io, suo padre, il nonno Geremia e la nonna Maria abbiamo cercato di trasmetterle, ma anche perché ella li ha presentati attraverso una ricerca che parla al tempo stesso di personaggi concreti ma anche di un sogno, che si sperava si avverasse …

Per continuare a leggere il testo in Pdf , cliccate su: Dalla xenofobia alla discriminazione religiosa e razziale, alla schiavitù all’olocausto  per leggere il testo .PDF

Buona lettura. L’immagine che accompagna il testo sul sito è tratta da: http://www.unicaen.fr/recherche/mrsh/archives/irefi/expos0.php?id=2it/etiopia/&page=dif01 e rappresenta «efficacemente l’idea di gerarchia razziale elaborata dal fascismo. Alle spalle del piccolo e biondo italiano/fascista, si dispongono la razza “negra” e quella ebraica, raffigurate mediante gli stereotipi culturali e fisionomici  consueti». (Ivi). Laura Matelda Puppini

 

8 marzo 2019. Voglio una donna con la gonna, e perchè no, magari con il burqa.

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Apro questo mio pezzo con un commento al manifesto sulla donna dei desideri degli uomini di Crotone, affiliati alla Lega che per anni ed anni fu rigorosamente ‘Lega Nord’, per poi trasformarsi nel partito di un uomo solo al comando e cioè Matteo Salvini, che doveva essere intitolato non “8 marzo. Chi offende la dignità della donna” ma “la donna che sognamo”, e che avvicina questi signori, che così si sono fatti un po’ di pubblicità, a Roberto Vecchioni, quando canta: “Voglio una donna, con la gonna”. E altre asserzioni avrebbero dovuto comparire sotto la voce: “come vediamo il mondo”, che non è una novità. E chi è vissuto come il nemico è sempre visto come quello che stupra la ‘tua’ donna, anche se non si può negare che effettivamente stupri furono perpetrati nelle valli carniche da parte dei cosacchi durante la seconda guerra mondiale, e da parte di italici conquistadores fascisti, nelle terre occupate della poi Jugoslavia, e quindi in Istria e Dalmazia, come in Grecia, ma anche in Italia, per fermarsi ad un contesto preciso. Si guardi almeno Fascist legacy. Ed il maschio latino figlio dell’ideologia fascista, si è spesso identificato in quello con la verga dritta, con il pene eretto, che passa subito al dunque, mai stanco, mai domo. Per fortuna ora non è detto sia sempre così, e anche allora, sotto il fascio, non fu sempre così, perché esistevano anche uomini cattolici, comunisti, né cattolici né comunisti che sognavano una famiglia e dei figli e rispettarono le donne, non solo il loro onore, ma non vorrei che si ritornasse indietro.

Per inciso anch’ io sono contraria all’ultima trovata neocapitalistica di vendere l’utero o alla pratica detta dell’utero in affitto, distaccando poi la madre dal bimbo, anch’ io credo che non si debba uscire, nella terminologia, da quella ancestrale che vuole la madre esser chiamata: madre ed il padre: padre, e dalla famiglia intesa nel senso naturale, e quella dei gender mi è sempre parsa una grande cazzata.  E credo fermamente che molti uomini, sia di destra che di sinistra, sotto sotto approvino che la donna dei loro sogni non venda l’utero, che sia mamma, magari solo perché quel ‘goldone’ è poco appetibile, basta poi che il figlio non rompa troppo e se lo gestisca lei pur andando a lavorare, ma anche che sia sottomessa, ed altre piccolezze, si fa per dire. E per molti, credo, indipendentemente dal colore politico, lei dovrebbe essere sempre disponibile, trovare il loro pene eretto sempre una cosa piacevolissima, aprire con un sorriso di gratitudine le gambe anche quando muore di sonno dopo una dura giornata lavorativa ed un’altra altrettanto dura la aspetta, con in aggiunta , forse, i vecchi genitori o suoceri di cui vedere e un paio di marmocchi da piazzare in una scuola od asilo, sperando godano di buona salute, e non debba andare a cercare anche un pediatra, razza quasi in estinzione in alcune zone del suolo italico, con prestazione chissà dove e rigorosamente ad orario e con ambulatorio pieno.   

Inoltre non neghiamolo: molti maschietti hanno la sindrome della Barbie, che se una non le assomiglia pensano che resterà zitella per sempre, ma anche molte donne si prestano, secondo me, ad abbruttirsi seguendo mode che hanno dell’orrido e pure costano. Come quelle imposte ora dalle parrucchiere che vogliono o volevano le agée, per non dire le anziane sempre con capelli cortissimi e chiarissimi, anche se di pelle olivastra ed a cui il capello un po’ lungo donava parecchio, e le giovani con il capo metà rasato e metà con i capelli trasformati in quattro spilocchi dritti e brutti.

Poi c’è quella, inventata temo dai maschi, che la donna sia ‘pazza’ o propenda verso la pazzia o la depressione per sua caratteristica personale e dato che ha le mestruazioni, non per la vita che è costretta a fare, tra mezzi pubblici e privati, corse, lavoro, figli, vecchi di cui vedere e servizi inesistenti, che farebbero collassare un maschio in men che non si dica. E poi sì, diciamocelo, il maschietto, a casa, vuole anche le coccole, e via dicendo, vuole essere capito, vuole che lei faccia ciò che lui desidera, che tifi per la stessa squadra di calcio da lui scelta, che parli di calcio anche se non gliene frega niente, che gli perdoni qualche scappatella e lo lasci uscire a piacimento con gli amici.

Questo però non dovrebbe far riflettere solo sul gioco dei ruoli fra maschio e femmina, ma più concretamente sul nuovo contesto sociale, sul nucleo familiare che va disgregandosi nella società della solitudine, della sopraffazione e dei consumi, ove tutto è in vendita ed acquistabile da chi può, utero compreso, il che è abominevole. E dovrebbe far riflettere sul modello del femminile dettato dal fitness, dalle diete allo zenzero, vegane, vegetariane e chi più ne ha più ne metta, e sulla realtà della donna sempre di corsa fra il lavoro obbligatorio ora come allora, chissà dove, per non morire di fame, modelli sociali, maternità che ora si dice naturale anche se è la prima a quarant’ anni, assistenza domiciliare ed ospedaliera e stanchezza ora come allora epocale.

Sono sicura poi, che vi sono uomini occidentali che vorrebbero vedere la loro lei, in particolare se giovane e bella, a letto nuda e fuori con il  burqa, magari di Gucci, come polemicamente intitola una canzone, anche se non lo dicono; e mi pare che il femminicidio si stia trasformando in un fenomeno ‘normale’ da sottoporre a dato istat, come il reddito pro capite, e le pari opportunità si siano ridotte alla scelta partitica di porre un rappresentante politico uomo e una rappresentante politica donna, ad ogni costo, uno accanto all’altra, indipendentemente dalle loro capacità, od al far scannare tutti, uomini e donne assieme affratellati, in lavori a condizione simil schiavistica. Bisogna dar atto però alla Lega di essere un partito tendenzialmente maschilista, a mio avviso, più di quanto, paradossalmente, lo fosse il fascismo stesso, anche se in Carnia si fregia di avere una nota rappresentante al femminile. Inoltre spesso le donne che fanno parte di un partito hanno seguito la ‘naturale’ carriera che le ha volute prima portaborse, segretarie e tuttofare, ma la sindrome della donna segretaria è dura a morire dovunque, come il modello che vuole la donna emancipata essere simile all’uomo in carriera, per far capire che ha lo stesso valore, dimenticando le proprie peculiarità.

E così si esprime Roberto Vecchioni nella sua tanto discussa canzone ‘Voglio una donna’, che rappresenta il sogno di tanti, e le cui parole qui riporto:
«Una canzone di Natale che le prenda la pelle/E come tetto solo un cielo di stelle;/ abbiamo un mare di figli da pulirgli il culo:/Che la piantasse un po’ di andarsene in giro/La voglio come Biancaneve coi sette nani/noiosa come una canzone degli “Intillimani”./

 Voglio una donna “donna”/donna “donna”/donna con la gonna, /gonna gonna/Voglio una donna “donna”/donna “donna”/donna con la gonna/gonna gonna/
Prendila te quella col cervello, /che s’innamori di te quella che fa carriera, /quella col pisello e la bandiera nera/la cantatrice calva e la barricadera/che non c’e mai la sera…/
 Non dico tutte: me ne basterebbe solo una,/tanti auguri alle altre di più fortuna/Voglio una donna, mi basta che non legga Freud,/dammi una donna così che l’assicuro ai “Lloyd”/preghierina preghierina fammela trovare,/Madonnina Madonnina non mi abbandonare;/
 Voglio una donna “donna”,/donna “donna”/donna con la gonna,/gonna gonna/Voglio una donna “donna”/donna “donna”/donna con la gonna/gonna gonna/
 Prendila te la signorina Rambo/che s’innamori di te ‘sta specie di canguro/che fa l’amore a tempo/che fa la corsa all’oro/veloce come il lampo/tenera come un muro/padrona del futuro…
 Prendila te quella che fa il “Leasing”/che s’innamori di te la Capitana Nemo,/quella che va al “Briefing”/perché lei è del ramo,/e viene via dal Meeting/stronza come un uomo/sola come un uomo… (http://testicanzoni.mtv.it/testi-Roberto-Vecchioni_11882/testo-Voglio-una-donna-1452605).

E poi temo che ancora si differenzi la donna, la femmina, e la sposa, che è proprietà privata ed esclusiva, che porti la fede (segno di un anello di catena che lega indissolubilmente) al dito o meno. Non da ultimo, certa propensione alla colpevolizzazione della donna per i motivi più disparati, mutuata anche dalla chiesa cattolica che ancora punta alla verginità femminile come valore ed al raggiungimento di un ideale di maschio senza possibilità di copulare, dovrebbe far pensare. Dietro molti comportamenti maschili violenti verso le femmine credo ci sia proprio un sentimento di farla pagare per ciò che lei ha fatto, per una azione vissuta dal soggetto che fa violenza, arbitrariamente, come una colpa da far espiare. Ma “la colpa è tua”, è il nuovo ritornello della società dei consumi.

Pertanto maschietti leghisti e non leghisti con certe idee in mente, anche noi donne giovani, meno giovani, anziane (come me) abbiamo qualcosa da dire su voi maschietti; su cosa offende la dignità della donna, dignità che è ancora tutta da conquistare, dopo qualche timido passo; abbiamo qualcosa da dire sulla donna istruita che non è mai un male, e scusatemi se ve lo dico, ma mi pare siate più vicini agli ideali della donna di certo islam integralista o da guadagnare con la clava in mano ora di quanto pensiate. Ma nella realtà il Corano non vede in senso negativo la donna, come del resto il Vangelo, dove le figure femminili sono importanti e valorizzate.

Ma tranquilli, anche i compagni comunisti dopo aver predicato l’emancipazione della donna dalle catene durante la seconda guerra mondiale, fecero ricadere, dopo la fine del conflitto, le partigiane nel ruolo di spose, madri e segretarie, mentre non mancarono persone che le pensavano tutte puttane. Vediamo almeno di andare un po’ avanti per non precipitare nel baratro.

Ops, dimenticavo: perchè su come dovrebbe essere la donna, sulla sua dignità, su come raggiungerla e su come come salvaguardarla ecc. parlano ancora quasi solo ed esclusivamente gli uomini? Perchè le donne di Crotone non ci dicono cosa pensano? Vorrei sentire una donna parlare della sua dignità, magari calpestata. E colgo l’occasione della festa della donna per mandare un saluto a Stefania Catallo, tra l’altro autrice del volume: “La memoria scomoda della guerra. Le marocchinate” ed alle altre del centro antiviolenza di Tor bella Monaca di Roma, sempre in prima linea pur fra mille problemi. Laura Matelda Puppini.

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Per chi volesse approfondire argomenti relativi alla donna nella società del 2000 ed ante, consiglio la lettura, su www.nonsolocarnia.info, dei miei:

8 marzo 2016. Festa della donna. Contro il cosiddetto “utero in affitto”.

Gender, sesso, diritti e dintorni. Parliamone

In un mondo di ‘rutti e puzze’, ove madre e padre sono perduti, e Hide ha vinto su Jekyll.

Donne fra sogni maschili e realtà femminili.

‘Per quei bambini orfani di femminicidio’ da Il Manifesto ed altri, sulla nuova legge 11 gennaio 2018, ed il ‘rapporto ombra’.

Tolmezzo, ultimo consiglio comunale. Su quell’ordine del giorno sul femminicidio. Una riflessione.

E rimando anche a dei bellissimi ritratti di donna di Francesco Cecchini, da me pubblicati con titolo: 

Francesco Cecchini. Ritratti di donne.

ed all’interessantissima intervista ad A., pubblicata da me in due parti sempre su www.nonsolocarnia.info, con titolo:

Storia di una donna carnica, fra violenza, povertà, aiuto reciproco. Intervista a A., maritata. Prima parte.

Storia di una donna carnica, fra violenza, povertà, aiuto reciproco. Intervista a A., maritata. Seconda parte.

SENZA VOLER OFFENDERE ALCUNO, FIERA DI ESSERE DONNA, W L’8 MARZO E W LA FESTA DELLA DONNA, MAI PIU’ SCHIAVA.

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: https://www.newsly.it/festa-delle-donne-2016-frasi-video-e-immagini-per-whatsapp-e-facebook/, solo per questo uso. Se è coperta da copyright prego avvisare che la sostituirò.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

  

 

 

Franco D’ Orlando. Elettrodotto Würmlach-Somplago interrato: problemi e perplessità.

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Ricevo da Franco D’Orlando e volentieri pubblico per l’importanza dell’argomento. Laura Matelda Puppini

PREMESSA.

«Solo il NO dell’Austria ci ha consentito di evitare la costruzione dell’elettrodotto aereo Würmlach-Somplago. Oggi ci troviamo ad affrontare un nuovo progetto che prevede ciò che i proponenti di allora dichiaravano non fattibile per i costi troppo elevati: l’interramento dell’elettrodotto. Memore del mio impegno di allora quale consigliere comunale, dopo aver partecipato all’incontro di presentazione di detto progetto, mi sono sentito in dovere di esternare pubblicamente il mio pensiero molto preoccupato di quanto sta per accadere visto il silenzio che traspare in merito.

Questo il percorso stradale interessato dall’interramento: provinciale /comunale Somplago-Tolmezzo, statale 52bis carnica Tolmezzo-Arta Terme (con transito sotto viadotto sopra borgo Sfleus, abitati di Imponzo-Cadunea-Cedarchis), provinciale/comunale di Alzeri tra Arta terme e Sutrio, provinciale/comunale tra Sutrio-Cercivento e Paluzza) e di nuovo statale 52bis carnica tra Paluzza e Passo di Monte Croce Carnico.

Il cavo verrà interrato alla profondità di metri 1,50. Vi invito a leggere attentamente il contenuto di quanto sotto riportato che ho provveduto a indirizzare al direttore del MV (pubblicato il 4 marzo), a quello della Vita Cattolica (pubblicato in modo più contenuto il 20 febbraio). Come già nel passato per altri argomenti, ho interessato il presidente della regione, il presidente del consiglio regionale, diversi assessori di competenza.  Mandi.  Franco D’Orlando».

INTERVENTO

Egregio Direttore, è di questi giorni la notizia del “via libera” degli Stati Ue a 200 mila euro per finanziare lo studio dell’elettrodotto che connetterà Würmlach (Austria) a Somplago di Cavazzo Carnico: finanziamento che fa parte del programma Ue di sostegno alle infrastrutture transeuropee per promuovere l’integrazione e la competitività del mercato energetico europeo.

Il progetto, guidato dalla società Alpe Adria energia, consiste in una interconnessione tra Austria e Italia con una tensione di 220 Kilovolt interrata a margine del sedime stradale. L’obiettivo è quello di aumentare la capacità di trasferimento energetico di 300 megawatt(MW).

Trattasi di un nuovo progetto che accorpa e supera tutte le proposte precedenti che prevedevano il percorso aereo ora accantonate per la contrarietà del territori interessati. Il ripresentarsi di questa iniziativa ha destato un po’ di sorpresa dato che i proponenti di allora ritenevano realizzabile solo l’elettrodotto aereo per i costi troppo elevati da sostenere per quello interrato divenuto, ora, fattibile perché, a prescindere dal fabbisogno di energia per il nostro paese, questo movimento o andirivieni di energia sottende notevole interesse finanziario.

Considerato che il territorio era disposto ad accettare l’elettrodotto interrato, la Società Alpe Adria energia, per condividere il nuovo progetto con le amministrazioni comunali interessate dall’attraversamento, il 19 aprile scorso ha presentato in merito a Tolmezzo soluzioni e ipotesi di tracciato e l’intenzione di servirsi, per la posa del cavo interrato (alla profondità di metri 1,50), della pubblica viabilità di Cavazzo Carnico, Tolmezzo, Arta Terme, Sutrio, Cercivento e Paluzza con doppia schermatura nei punti dove la linea dovrebbe attraversare alcuni abitati.

All’incontro pubblico, organizzato dai sindaci dei comuni interessati, erano stati invitati, quali esperti in materia, il ricercatore dell’Istituto superiore della sanità Alessandro Polichetti e la responsabile per Arpa Fvg della protezione dell’inquinamento elettromagnetico Anna Maria Bampo per illustrare e approfondire in merito i temi ambientali e della salute. I loro interventi, le loro valutazioni e considerazioni hanno destato molta preoccupazione nel numeroso pubblico presente (amministratori compresi) manifestata con interventi e proposte atte ad ovviare le criticità emerse e sul come affrontarle.

Non sappiamo ora quale progetto formale abbia presentato la società interessata al Ministero dello sviluppo economico: se lo ha fatto, confidiamo, per quanto emerso dal dibattito, sia stato escluso del tutto l’utilizzo del percorso lungo il sedime stradale programmato.

La società proponente, infatti, ha puntato da subito sulla via più semplice, più rapida, la meno costosa per contenere gli importi e per escludere le servitù su terreni privati ma pare non voler tenere conto che questa scelta sia anche la meno sicura per l’ambiente, per chi lì ci vive, opera e si muove.

Denunciamo da tempo le gravi problematiche che persistono sulle strade di montagna, a tutti ormai evidenti (aggravate, sovente, da avversità atmosferiche e calamità naturali così come anche ultimamente accaduto): basti pensare al pericoloso e franoso tratto della statale 52bis carnica che da Timau sale al Passo di Monte Croce Carnico che, per evitarlo, da decenni si richiede l’apertura del relativo traforo.

Inoltre, se ciò non bastasse, l’interramento del cavo dovrebbe essere molto più profondo, atto a contenere il rischio per chi viaggia o cammina sul percorso incriminato di essere inebriato e ingrassato dalle onde magnetiche nonché occorre evitare zone abitate o provvedere in merito ad adeguata schermatura : gli esperti presenti hanno manifestato chiaramente la propria perplessità su questi particolari.

Il territorio in questione da oltre 50 anni è attraversato dall’oleodotto della Siot: nel corso dell’incontro di quella serata abbiamo invitato il rappresentante della Società Alpe Adria energia a trovare il modo di utilizzare il percorso di detto oleodotto ponendo a fianco dello stesso il cavo dell’elettrodotto. La riteniamo l’unica alternativa percorribile: infatti solo i proprietari dei terreni di quel percorso potrebbero dare il loro assenso, grazie a qualche ricaduta compensativa poiché hanno sinora solo sopportato la relativa servitù in essere; non vediamo nuovi percorsi con privati disposti a concedere autorizzazioni.

Per il resto, il territorio e chi lo abita pare debbano solo accettare supinamente l’infrastruttura senza nulla pretendere (smantellamento di linee esistenti, compensazioni a favore dei territori non solo finanziarie). Poichè trattasi non solo di “amor patrio” (approvvigionamento di energia per interesse nazionale) ma che la Società Alpe Adria energia cerchi il modo migliore di fare i suoi interessi, invitiamo gli amministratori locali a fare altrettanto, ad agire con la massima avvedutezza a tutela del bene del proprio territorio e a difesa della salute di chi lo abita.

La Carnia, anche per quanto concerne l’energia elettrica, da tempo ha fatto e tuttora sta facendo la sua parte: fra centrali e centraline elettriche, elettrodotti e oleodotto il suo territorio è diventato come un colabrodo e il costo dell’energia stessa sia per privati che per le attività imprenditoriali e artigianali locali è sempre stato e tuttora è molto salato: nessuno ha mai avuto riduzioni e l’energia prodotta da qui se ne va, utilizzata o sfruttata altrove.

Ringraziamo per l’attenzione e… mandi.

Franco D’Orlando e l’Unione Autonomista Alpina – Tolmezzo (già Consigliere comunale di Tolmezzo).»

L’immagine che correda l’articolo rappresenta la locandina che invita ad un incontro sull’elettrodotto interrato ed è tratta da: http://cjalcor.blogspot.com/2018/04/elettrodotto-giovedi-tolmezzo-un.html. L. M. Puppini

 

   

A destra, a destra, adesso si va? La presentazione del candidato sindaco per Tolmezzo Laura D’ Orlando.

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Ieri, 9 marzo 2019, sono stata a due incontri di presentazione del candidato sindaco, uno a Tolmezzo ed uno a Rigolato, fatti in modo diverso, ed interessanti. Io ascolto sempre e pubblico per conoscenza, per informazione. In questo primo articolo mi soffermerò sulla presentazione dell’avvocatessa D’ Orlando, per poi dedicare un altro articolo a Rigolato ed al discorso del candidato sindaco Fabio D’ Andrea, presentatosi affiancato da Massimo Moretuzzo e da Luigi Cortolezzis, come esperti per temi specifici, in un contesto informale.

PRESENTAZIONE DELLA CANDIDATA SINDACO DI TOLMEZZO PER IL CENTRO DESTRA AVV. LAURA D’ ORLANDO – ALBERGO ROMA- TOLMEZZO.

Davanti al pubblico, che riempiva la saletta più capace dell’albergo Roma, a sostegno della dott. Laura D’ Orlando si sono presentati: Dario Zearo per Forza Italia, Ivan Pascolo per la Lega, la candidata sindaco, al centro dei suoi sostenitori, Luca Ornella per Progetto Fvg. Tagliamento, Renzo Tondo per Autonomia Responsabile, Laura Tosoni per fratelli d’Italia.

In apertura dell’incontro, dopo i saluti ed i ringraziamenti di rito, Dario Zearo, responsabile di Forza Italia per l’intera Carnia, ha precisato che l’incontro non aveva come fine quello di presentare il programma, come riportato dal Messaggero Veneto (1) ma la candidata sindaco in una conferenza stampa, che si doveva tenere, per pochi addetti ai lavori, nella saletta al primo piano dell’Albergo Roma.  Per fortuna, vista l’affluenza di pubblico, è stata concessa la sala al secondo piano, più ampia e con molte più sedie, altrimenti molti dei presenti non sarebbero neppure riusciti ad entrare.

Sottolinea come i rappresentanti carnici centrodestra abbiano iniziato ad incontrarsi ed a parlare tra loro, in vista delle elezioni amministrative, (che nei paesi della Carnia vedranno presentarsi unicamente liste civiche con presenza, al loro interno, anche di iscritti a partiti) fin dal giugno 2018. E ognuno ha palesato il proprio pensiero, che poteva essere anche difforme da quello degli altri, in particolare sui possibili candidati sindaci, sino a giungere ad alcune scelte condivise dai più, e qualche problema a livello personale con alcuni. Ed il riferimento era alle prese di posizione di Valter Marcon e di Gianroberto Riolino, non iscritti a partito alcuno.

Nel corso del dibattito politico, ben sei sono stati i nomi proposti per la candidatura di sindaco di Tolmezzo, ma poi tutte le forze politiche hanno deciso di convergere su quello di Laura D’ Orlando. E dice di sottolineare questo aspetto a causa di un blog (quello retto da tale Gianfranco Leonarduzzi ndr) gestito da un personaggio che sta a cinquanta chilometri da Tolmezzo e nulla sa del capoluogo carnico, che ha pubblicato notizie false e tendenziose, atte a mettere in cattiva luce il centro-destra ed i suoi rappresentanti.  

Quindi passa ad enucleare i tre motivi principali che hanno spinto Forza Italia a decidere per la candidatura dell’avvocatessa tolmezzina: il primo è che la dottoressa D’ Orlando non ha tessere di partito in tasca e si presenta come rappresentante, per il centro-destra, dell’intera società civile; il secondo è che è una donna, e nella sua lunga storia Tolmezzo non ha mai avuto un sindaco donna; perché egli, che rappresenta in Carnia Forza Italia, ha avuto occasione, discutendo con lei, di condividere moltissime idee programmatiche. E proprio in occasione della festa della donna, l’avvocato D’ Orlando ha fatto la sua prima presentazione su Radio Studio Nord.

Per quanto riguarda il programma elettorale, Dario Zearo dice che esso non è ancora quello definitivo, e non si configura come un programma contro qualcuno ma per Tolmezzo. Esso ha come punto di forza il ruolo di Tolmezzo per l’intero territorio carnico, e per l’intero territorio montano dell’Alto Friuli. E avrà come temi di impegno politico la sanità, tenendo presente l’importanza dell’ospedale tolmezzino per l’intero Alto Friuli; la giustizia ed i problemi creati dal trasferimento del tribunale tolmezzino; le periferie cioè le frazioni del comune capoluogo.

Infine Zearo ha chiuso il suo intervento, dicendo che utilizzerà la stima e la fiducia che i tolmezzini gli hanno sempre accordato per sostenere la candidatura dell’avvocatessa Laura D’Orlando a sindaco di Tolmezzo.

Prendeva quindi la parola Renzo Tondo, che asseriva che oggi le campagne elettorali si giocano più sui blog che sulla carta stampata, ma diceva anche che verso certi denigratori è preferibile utilizzare la famosa frase di Dante: “Non ti curar di lor ma guarda e passa”. E chi se ne frega se Leonarduzzi attacca il centro- destra carnico! I suoi attacchi sono piccole cose. Chiuso questo argomento, egli passava a sostenere la necessità di cambiare l’amministrazione tolmezzina, (sia lui che Zearo tolmezzini, utilizzano il termine nostro paese, nostra comunità ndr). Quindi si soffermava sul coraggio di Laura D’ Orlando, che egli chiama solo per nome, dimostrando di avere una certa confidenza con lei, nell’accettare la candidatura, perché «candidarsi è sempre un mettersi in gioco», significa poter essere al centro di commenti e valutazioni di ogni tipo, anche basati su presupposti inesistenti.

Sottolineava, poi, come Laura D’ Orlando sia una giovane donna tolmezzina, che esercita a Tolmezzo la sua professione, che abita ed ha la sua famiglia a Tolmezzo. Ed a lei, che ha deciso di impegnarsi per il suo territorio, Renzo Tondo dedicava un doppio grazie.  Diceva poi che è evidente che, quando ci sono sei candidati sindaci e bisogna sceglierne uno, qualcuno rimane scontento. Ma approfittava per chiedere, a chi non era rimasto soddisfatto dalla scelta della coalizione di centro- destra, di non allontanarsi, perchè il centro-destra deve rimanere alla guida del capoluogo carnico.

Per Renzo Tondo a centrodestra bisogna esser uniti, al di là delle sigle, per dare una svolta alla Carnia ed a Tolmezzo in questo momento difficile. Qualcuno, secondo lui, può non condividere la scelta di Laura D’ Orlando a candidato sindaco, ma questo non deve rompere l’unità a centro- destra. Ed ora vi è una tendenza a ritirarsi nel privato che deve essere superata, perché, invece, è proprio il momento di essere più che mai presenti nelle scelte della comunità. E dichiarava di impegnarsi ‘pancia a terra’ cioè in ogni modo, a sostenere la candidatura dell’avvocatessa tolmezzina a sindaco di Tolmezzo.

Infine rivolgeva a Valter Marcon e Gianroberto Riolino l’invito a fare una scelta di responsabilità, anche al fine di mettere insieme competenze e conoscenze, in modo da formare una amministrazione comunale che cercasse di dare ai problemi dei giovani una risposta.

Chiudeva il suo intervento dicendo che, pur non intendendo togliere qualcosa all’amministrazione uscente, già il fatto che Francesco Brollo avesse dichiarato che intende andare verso il secondo tempo della partita induce alla considerazione che di solito il secondo tempo è sempre meno entusiasmante del primo, e nello specifico il primo di Brollo non è stato in alcun modo memorabile, richiedendo quindi un cambio di passo.

L’intervento di Laura D’ Orlando candidato sindaco.

L’avvocatessa candidata a sindaco di Tolmezzo, ricordava, all’ inizio,  che la Lega era stato il primo partito a proporre il suo nome per il centro-destra, e che era  stata sempre la Lega ad aver intrattenuto rapporti con gli altri partiti dello schieramento per giungere ad una sintesi. Dice pio, di aver accettato l’incarico perché desidera un rinnovamento, un cambiamento per Tolmezzo, ove la proposta del suo nome è nata, e perché una svolta verso il centrodestra collegherebbe l’ambito locale a quello regionale.

Passava quindi a ringraziare le persone che la stanno sostenedo e l’hanno sostenuta, al di là dei partiti, e che le hanno dato il coraggio di prendere la decisione di candidarsi, ed hanno formato un gruppo do lavoro coeso.

Diceva, quindi, che da molti anni ha deciso di mantenere a Tolmezzo i suoi affetti e la sua famiglia e la sua professione, e quando le è stata chiesta la disponibilità per candidarsi sindaco del capoluogo carnico l’ha data ritenedo di doversi di impegnare al massimo anche su temi e progetti concreti relativi al territorio carnico ed alle sue peculiarità.  La voglia di rimanere a vivere a Tolmezzo, anche con i sacrifici che questo comporta, e l’attaccamento profondo con questo territorio l’hanno spinta ad accettare, sentendo la sua disponibilità come un dovere verso tutti, non solo una parte dei cittadini. E precisava che sarà al servizio di tutti i cittadini della comunità. Inoltre sottolineava di non avere tessera di partito e di avere scelto il centro destra ‘hic et nunc’, in questo momento storico per vissuti personali, per quanto ha visto rinnovarsi in questi mesi a livello regionale e per realizzare questo rinnovamento anche a livello tolmezzino.

Ribadiva poi l’importanza dell’unità del centro-destra, e che si impegnerà perché anche quelle due persone, perché di due persone trattasi, due bravi amministratori, possano convergere verso l’unità del centrodestra. Dice poi di capire che aspettative legittime possano aver influito sulla loro posizione attuale, ma è importante giungere al traguardo finale uniti.   

Affermava poi di aver letto sulla stampa che si sarebbe presentato il programma, ma come si fa a presentare un programma il 9 marzo quando le elezioni sono il 26 maggio? Sarebbe stata scelta prematura e strategicamente non azzeccata. Infatti la dott. D’ Orlando ritiene di dover dare la massima importanza all’ascolto dei cittadini, aspetto spesso trascurato, in modo da conoscere bisogni ed istanze provenienti dagli stessi. Infatti senza questa accortezza, si rischia di stilare un programma pensando di conoscere comunità e territorio, per poi scoprire che non è così scontato. E il calare il programma dall’alto non pare alla candidata sindaco un buon modus operandi in questo contesto e momento, caratterizzato da un forte sconforto da parte dei singoli.

Detta fase di ascolto partirà con una serie di incontri nelle frazioni per poi proseguire nei vari quartieri tolmezzini.  Questi incontri si caratterizzeranno per essere momenti di confronto fondamentali, e coinvolgeranno anche le varie categorie economiche e professionali presenti sul territorio comunale. Infatti il tema dell’occupazione è in testa a quelli da prendere in considerazione, cercando un confronto diretto con la regione ed aprendo un tavolo di discussione. Perché Tolmezzo deve assumere un ruolo di protagonista per tutta la montagna carnica e dell’Alto Friuli.

Inoltre la dott. D’ Orlando chiariva che l’impegno suo e del gruppo che la sostiene volgerà anche a trattare come migliorare i servizi sociali, come sostenere l’ospedale di Tolmezzo importantissimo, come avere un presidio di giustizia che di fatto manca e su cui si potrebbero dire molte cose ma non è il momento adatto. Uno dei maggiori obiettivi del programma è quello di dare prospettiva seria di vita alle giovani coppie. E questa è una scommessa su cui ci si deve impegnare, cercando di dare loro servizi adeguati e lavoro.

E ha parlato, per alcuni obiettivi, di possibile progettualità con la vicina Carinzia, per esempio per la realizzazione del traforo di Monte Croce Carnico, della cui realizzazione si è iniziato a discutere ben 30 anni fa. Ora esso sarebbe più fattibile dato che molte condizioni allora presenti sono mutate, e detta infrastruttura risulta ora essenziale, guardando all’Europa. Inoltre ora i costi di realizzazione sarebbero inferiori rispetto ad allora, e la Carinzia è più aperta ora di allora a discuterne. Il traforo sarebbe, secondo la D’ Orlando, un volano per aprire a commerci ed scambi culturali e di persone con il nord Europa.

E concludeva dicendo che sono previsti momenti successivi di dibattito su temi e prospettive del progetto politico per Tolmezzo e la Carnia da trattare in modo più dettagliato, che potranno riguardare sia aspetti pratici come la manutenzione delle strade, che aspetti a più ampio respiro che sono importanti per la comunità.

Nel corso dell’ incontro hanno preso la parola anche Ivan Pascolo, segretario della sezione tolmezzina della Lega, che ha ricordato: l’importanza del collegamento con la Regione Fvg, a livello progettuale e pratico; dell’ascolto dei cittadini e delel loro esigenze; dei litigi in maggioranza perchè se non si esprimono idee diverse l'”encefalogramma è piatto”; della sua collaborazione positiva con Aurelia Bubisutti; Luca Ornella di Progetto Fvg Tagliamento, di Ampezzo, che si è soffermato sull’ importanza del dibattito ma anche dello scontro tra persone con diverse idee ma che cercano un obiettivo comune; Laura Tosoni di Fratelli d’Italia che ha ribadito l’importanza che Tolmezzo ritorni al centro destra e sia polo di riferimento per la Carnia.

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Quando l’incontro pareva terminato, Tanja Ariis del Messaggero Veneto ha chiesto, con tono di voce invero un po’ duro, ricordando che anche la stampa poteva intervenire, la parola, domandando lumi sulla posizione di Marcon e Riolino, e ricevendo le risposte già date. Ma forse anche questa volta è giunta in ritardo, e mi scusi Tanja se scrivo così, ma non l’ho vista quasi mai giungere in anticipo.

 IL MIO INTERVENTO E COSA PENSO DELL’ INCONTRO.

Poi ho preso la parola io e scrivo qui le mie richieste, alcuni problemi esistenti, oltre cosa penso di questo incontro. A me è parso quello che doveva essere e cioè la presentazione del candidato sindaco ai politici della propria area, con riferimenti ed inviti alla collaborazione a Valter Marcon ed a Gianroberto Riolino. Il programma, tranne che per pochi accenni, non è stato trattato perché si è rimandato ad una sua definizione dopo aver ascoltato la popolazione del comune in successivi incontri, chi sarà in lista con la D’ Orlando neppure.

Io ho precisato che il traforo di monte Croce Carnico non è tema per un candidato sindaco di Tolmezzo, e che attendo risposte dettagliate su temi che interessano i cittadini locali chiamati alle urne: per esempio il disturbo psicofisico provocato dalla cosiddetta ‘pista guida sicura’, anche variabilmente : ‘palestra addestrativa’ e ‘autodromo della Carnia’, (e molto ci sarebbe da dire anche sul contratto di appalto stilato dal comune per dare pista guida sicura in concessione), ora pare messa fuori gioco dall ‘alluvione; per esempio il disturbo psicofisico provocato, in particolare la domenica, anche oggi 10 marzo 2019, dal poligono di tiro, rumore che il cervello e il sistema cardiovascolare registrano, e presente in zona casa di riposo, mensa comunale, polo scolastico liceale, ma anche a casa mia; il problema dell’Aas3 passata di botto alla Aas4 per volere dei nostri sindaci e regionale, e della sanità. E questi aspetti non richiamano famiglie e deprezzano gli immobili. Non ho chiesto risposte immediate, ma di averne prima delle elezioni. E i relatori mi hanno assicurato che prenderanno in considerazione le mie richieste. Non da ultimo il tema ‘sicurezza la notte a Tolmezzo’ non è di poco conto ed anche ieri c’era una bottiglia rotta sul marciapiedi in via Del Din angolo piazza XX settembre, mancano le aree verdi, perché siamo sepolti di cemento, le sale gratis per incontri, perchè tutto è a pagamento, oltre che punti reali di incontro che non siano bar od enoteche e si rischia la morte anche sui marciapiedi per autisti indisciplinati, parcheggiatori abusivi e momentanei, o ciclisti bambini che vi sfrecciano scambiandoli per una pista ciclabile.

Infine ho parlato con Pascolo per continuare un discorso già iniziato anni fa e relativo alla raccolta differenziata porta a porta, che richiede ai frazionisti di tenere il biologico per una settimana in casa ed agli abitanti del centro tre giorni. Basterebbe mettere nuovamente i grandi cassonetti comuni dove svuotare, e un paio di telecamere nei paraggi. Infine anche chi svuota spesso sporca. Non da ultimo, poi, i bidoni pieni sono pesantissimi per chi è anziano e li deve trascinare per le scale su e giù, perchè non abita a piano terra ed è senza ascensore; i bidoni condominiali dovrebbero essere obbligatori; alcuni non sanno come lavare i bidoni, e farlo nella vasca da bagno non è igienico e può ostruire i tubi. Non da ultimo tenere il biologico così può portare ad un aumento di virus e batteri in casa. Non per nulla i vecchi, ben più robusti di noi, tenevano le spazzature rigorosamente fuori casa. Infine e non da ultimo, abbiamo perso qualsiasi notizia sul depuratore e gestione acque, e non sappiamo se ora la cartiera paghi per intero la depurazione o no. Ma questi sono solo degli spunti.

Se non ho capito bene qualcosa vi prego di avvisarmi, che posso correggere. L’ incontro è stato per la gran parte registrato da me ed a detta registrazione ho fatto riferimento. L’ immagine che accompagna l’articolo è tratta da:  https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2014/07/21/news/laura-d-orlando-alla-guida-del-lions-1.9637395, ci ricorda che l’avvocato Laura D’Orlando è stata o è ancora presidente dei Lions, Tolmezzo – Carnia.

Vi è chi, come Paolo Iussa, uomo non certo di sinistra, in un commento alla presentazione della D’ Orlando come sindaco di Tolmezzo su radio studio Nord si chiede se la candidata sindaco, una volta eletta, reggerà a tutti gli impegni che ha, compreso ora la presidenza della ASP di Villa Santina, e credo abbia qualche ragione a domandarselo. Se poi è anche presidente dei Lions …  (Cfr. commento di Paolo Iussa a : https://www.studionord.news/video-intervista-a-laura-dorlando-candidata-sindaco-del-comune-di-tolmezzo/).

Laura Matelda Puppini.

  1. Il noto quotidiano locale ha anche sbagliato l’ora dell’incontro, collocandolo un’ora prima del previsto. Laura Matelda Puppini.
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