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Invito al convegno: “Vie di libertà e di lotta. Le vie di espatrio clandestino dall’Italia durante gli anni della dittatura fascista.

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Invito tutti a partecipare al convegno

Vie di libertà e di lotta. Le vie di espatrio clandestino dall’Italia durante gli anni della dittatura fascista.

che si terrà il 30 novembre 2018, dalle ore 16 alle ore 20, a Gorizia,

presso la  Casa della Cultura slovena / Kulturni dom – via Italico Brass, 20. 

Il convegno è parte della rassegna Novecento Inedito organizzata da Anpi Gorizia e  ISREC Friuli Venezia Giulia.

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Interverranno:

1 – Marco Puppini  (vicepresidente Aicvas, ricercatore): Le vie di fuga e di lotta nelle carte di polizia.

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2 – Marta Ivašič (ricercatrice): Španski borci – le vie per la Spagna nelle memorie dei combattenti repubblicani sloveni.

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3 – Antonio Bechelloni: (già direttore del Centre d’Etudes ed Documentation sur l’Emigration Italienne di Parigi, co-redattore del Dictionnaire des fusillés, exécutés massacrés en France 1940-1945): L’emigrazione clandestina italiana in Francia durante il fascismo e la politica delle organizzazioni antifasciste francesi.  

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4 – Renato Simoni: (Fondazione Pellegrini Canevascini di Bellinzona), L’emigrazione clandestina italiana in Svizzera durante il fascismo e la politica delle organizzazioni antifasciste svizzere.

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5 – Claudio Longhitano: (Presidente Anpi Catania): Il reato di emigrazione clandestina nella legislazione fascista.

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6 – Valter Merazzi: (Presidente della Associazione Schiavi di Hitler di Cernobbio,  ANPPIA di Como) Il confine permeabile con la Svizzera. Passaggi e scambi clandestini durante il fascismo nel Comasco.

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Dalia Vesnic, Rotta balcanica e situazione al confine italo – francese per i nuovi esuli in fuga da guerre e dittature (comunicazione).

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E’ prevista l’esposizione di mappe digitali elaborate da Saverio Werther Pechar. Accompagnerà e chiuderà il convegno uno concerto con le canzoni della resistenza internazionale del gruppo OVCE di Trieste (Piero Purich).

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L’incontro è organizzato da Aicvas, Anpi Gorizia, Isrec FVG. L’immagine che accompagna l’articolo mi è stata inviata da Marco Puppini, rappresenta la Valle della Baccia ed è tratta dal sito  https://it.wikipedia.org/wiki/Valle_della_Baccia, ed ha come attribuzione:Di Pinky sl – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2718816.  

Laura Matelda Puppini.

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Gregorio Piccin. Bombardamento climatico: necessario ripensare i concetti di “difesa e sicurezza”.

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« Reti idriche, elettriche e stradali saltate contemporaneamente, oltre centomila persone colpite direttamente dagli eventi calamitosi e/o isolati completamente per giorni, decine di morti e poi i dispersi ed i feriti.  Sembrano gli effetti di un massiccio bombardamento. Questo il bilancio, per il momento, dei nubifragi che hanno colpito il Paese dalla Sicilia al Friuli passando per quasi tutte le aree interne (già in crisi strutturale). Emergenze multiple che si sono scaricate sui territori lasciando dietro di sé danni enormi. Fronti franosi si sono già abbattuti su strade e abitazioni mentre altri incombono e sono in movimento. Le immagini dei boschi del Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli, abbattuti dalla trebbia di un vento spaventoso stanno facendo il giro del mondo. Si parla di migliaia di ettari schiantati, milioni di metri cubi di legname a terra.

Già solo questa si prefigura come una catastrofe economica e ambientale. Mentre si pensa alla piantumazione (che richiederà ingenti risorse e nuovi piani forestali), bisognerà rimuovere tutto il materiale a terra. Se questi milioni di metri cubi di legname verranno gestiti secondo le regole del mercato deprimeranno inevitabilmente il prezzo della materia prima mandando a gambe all’aria il già sofferente comparto delle attività boschive. C’è poi il rischio concreto che buona parte di questo materiale si trasformi, a causa del suo rapido deperimento, in un “rifiuto speciale” e quindi in un ulteriore pesantissimo costo. Ed è quello che succederà se inopinatamente si deciderà di scaricare sui singoli enti locali la responsabilità della gestione di questa partita. 

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Questa situazione inedita, sia per la scala del disastro che per le diverse realtà territoriali coinvolte, richiederebbe un immediato commissariamento di tutta la filiera del legno da parte delle Regioni. Solo una soluzione drastica come questa potrebbe agire concretamente contro la caduta verticale del prezzo della materia prima, coinvolgere ordinatamente nei lavori tutte le imprese boschive disponibili sul territorio, organizzare le vendite degli stock, gestire in maniera organica l’opera di ripristino boschivo. È da incoscienti, irresponsabili ed infine idioti non rendersi conto che i molteplici e devastanti segnali che ci arrivano da ogni parte del mondo e non solo dal nostro Paese, ci parlano chiaramente di cambiamenti climatici epocali. Su questo tema c’è peraltro un consenso della comunità scientifica globale che è preciso, allarmato, inequivocabile: manutenzione, prevenzione, conversione energetica e industriale, rivoluzione della mobilità, stop al consumo di suolo sono le linee di intervento che dovrebbero essere messe in campo a partire da domani, secondo gli scienziati (e il buon senso). 

Un Paese fragile come il nostro dovrebbe essere tra i primi a fare i conti con queste evidenze ma né il governo del cambiamento (climatico?) né quelli che lo hanno preceduto sembrano concretamente interessarsi alla questione. E lo dimostra, tra le altre cose, la strutturale e gravissima insufficienza nella gestione delle crisi ambientali acute, le così dette “emergenze” che ogni anno colpiscono sempre più pesantemente e contemporaneamente i territori come alluvioni, terremoti, nubifragi e grandi incendi. Questa insufficienza, è doveroso precisarlo, esiste al netto della ammirevole reattività degli abitanti delle zone colpite e della generosità dei volontari della Protezione Civile (espressione dei territori), dei Vigili del Fuoco e dei Forestali (presenti solo nelle Regioni a statuto speciale ossia dove sono sopravvissuti all’infausta legge Madia targata Renzi-PD).  Molto semplicemente mancano i mezzi adeguati e mancano gli uomini. 

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Forse è per questo che i sindaci del centro Italia, travolti quasi due anni fa insieme ai loro cittadini dal terremoto e dalle bufere di neve, invocarono l’intervento dell’esercito (che fece giusto qualche comparsata ad uso per lo più d’immagine). Probabilmente quei sindaci avevano in mente il “modello Friuli” dove, in occasione dell’esteso e devastante terremoto del 1976, l’esercito fu per lungo tempo insostituibile nei soccorsi e nella rimozione delle macerie (che infatti fu rapidissima) restituendo un proprio senso d’esistenza ad una Regione che ne sopportò oltremodo l’elefantiaco sovradimensionamento da guerra fredda. Fu da quella esperienza che nacque poi la Protezione Civile. Ma ancora oggi la Protezione Civile vive una cronica carenza di mezzi ed una capacità operativa/logistica nemmeno paragonabile a quella delle forze armate di allora. Nel frattempo, invece di ridimensionare l’elefantiasi e di concentrarsi sull’unico senso che può avere un esercito in tempo di “pace”, si è trasversalmente deciso di trasformarlo in un costosissimo corpo di spedizione hi-tech impegnato a supportare le guerre statunitensi post ’89 oltre confine. Per far fronte a questa nuova funzione neocoloniale è stata organizzata la professionalizzazione della truppa e necessariamente sospesa la leva costituzionale, l’obiezione di coscienza e il servizio alternativo nei Vigili del Fuoco. Il risultato è che l’esercito oggi (al modico costo d’esercizio di 70 milioni di euro al giorno) è un’organizzazione pressoché inutile per affrontare emergenze acute come quella che abbiamo sotto gli occhi nè tantomeno è in grado di offrire un supporto logistico massiccio ed efficiente in cui inserire sinergicamente anche le altre risorse. 

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Oggi le forze armate sono impegnate in Iraq, Afghanistan, si apprestano a partire per il Niger, oppure le troviamo in Norvegia, proprio in questi giorni, per partecipare alla più grande esercitazione NATO dalla fine della guerra fredda, la miliardaria Trident Juncture 2018. Aggiungiamo a questo quadro desolante l’aziendalizzazione del comparto elettrico ed idrico che da servizio pubblico strategico si è convertito alla massimizzazione del profitto cessando di destinare risorse alla manutenzione nelle zone periferiche con poche utenze e perdendo conseguentemente capacità di intervento. Ecco spiegato il disastro nel disastro ed il comprensibile e terribile senso di abbandono vissuto dai sindaci e dalla popolazione colpiti da emergenze multiple. E se agli eventi calamitosi di questi giorni si sommasse un’altra emergenza, magari causata da un terremoto in una qualunque delle tante zone sismiche del nostro Paese? Considerato che il massimo dell’operatività è quella dimostrata in centro Italia le conseguenze sarebbero definitivamente catastrofiche. 

Si impone come urgente una riforma organica che riporti l’esercito alla sua funzione costituzionale difensiva/territoriale, puntando sulle specializzazioni genieristiche e mediche e su concrete sinergie con Protezione Civile, Vigili del Fuoco e Corpi Forestali regionali. In questa prospettiva (e solo in questa) acquisterebbe senso l’abbandono della “professionalizzazione” della truppa delle forze armate e il ripristino della leva militare e civile affinché queste possano diventare strumenti attivi ed integrati di un efficace sistema di gestione delle crisi e delle grandi manutenzioni ambientali, che sia popolare e diffuso, preparato ad affrontare e/o alleviare le conseguenze del caos climatico montante. In questo senso sembra urgente ripensare alla radice i temi della “sicurezza” e della “difesa”: oggi più che mai non abbiamo bisogno di un costosissimo corpo di spedizione “professionalmente” belligerante, impegnato all’estero in una non meglio precisata “difesa” della patria” e dell’interesse nazionale. Non abbiamo bisogno di seguire la Nato nella sua guerra fredda 2.0. Abbiamo bisogno che tutte le risorse potenzialmente disponibili vengano organicamente impegnate nella difesa dalle vere minacce alla sicurezza dei cittadini (terremoti, grandi incendi, alluvioni, dissesto idrogeologico.

Gregorio Piccin».

Prima pubblicazione dell’articolo: sia su FriuliSera, sia su: pressenza.com il 5 novembre 2018. Richiesta di pubblicazione da parte dell’autore. L’ immagine che corrada l’articolo è tratta da: https://www.ilfriuliveneziagiulia.it/legambiente-friuli-venezia-giulia-sui-disastri-del-maltempo-non-sottovalutare-i-cambiamenti-climatici/.

Faccio notare come le immagini sinora viste di boschi distrutti pare evidenzino che erano in generale peccete, probabilmente non sempre naturali, ma se mi sbaglio precisate. Mi ricordo che anni fa vidi sulla strada di Verzegnis degli abeti, mi pare nel caso specifico di piantagione, caduti sulla strada e sul pendio retrostante, ed allora si diceva che i pecci cadono come i birilli: basta che la furia del vento prenda i primi … Laura Matelda Puppini.

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Chi è Gregorio Piccin.

Inizia la sua militanza pacifista nel 1991, a diciassette anni, all’epoca della prima guerra del Golfo. Nel 1992, appena diciottenne, vede per la prima volta la guerra in faccia a Mostar (Bosnia Erzegovina) seguendo come volontario civile una carovana della campagna Dai Ruote alla Pace. Colpito dal “mal di Jugoslavia” segue per il Consorzio italiano di Solidarietà vari progetti rivolti alla popolazione colpita dalla guerra nella riva est della città dove ha vissuto a più riprese e in pianta stabile tutte le condizioni dell’assedio Ustascia: assenza di elettricità e acqua corrente. Lavora per l’Unhcr tra Belgrado e Budapest nel quadro di un programma per il rifornimento di combustibili verso campi profughi ed ospedali nel lungo periodo dell’embargo sulla Serbia. Studia la storia ed acquisisce il metodo materialista dialettico che gli fa comprendere come la guerra stessa sia un articolato e lucroso processo produttivo. Abbandona quindi il campo umanitario per impegnarsi nella lotta aperta al neocolonialismo e a quella che definisce “privatizzazione della guerra”. E’ stato co-redattore della rivista telematica Intermarx e del bollettino di controinformazione Quemada. Dal 2009 al 2014 è stato assessore all’ambiente, attività produttive e politiche sociali del comune di Tramonti di Sotto (PN) per cui ha seguito interventi di sostenibilità ambientale e rilancio di produzioni locali di qualità. Ha pubblicato vari articoli e saggi sulle riviste Giano, Guerre e Pace, AlternativeEuropa sui temi della corsa agli armamenti, dei nazionalismi, delle multinazionali, della storia della Jugoslavia socialista. Ha collaborato con Il Manifesto e Le Monde Diplomatique e scrive per il quotidiano on-line FriuliSera. Per l’editore KappaVu ha curato i libri “Se dici guerra…basi militari, tecnologie, profitti” “Frammenti sulla guerra. Industria e neocolonialismo in un mondo multipolare”. Attualmente segue per Rifondazione Comunista le questioni legate alla corsa agli armamenti, all’industria bellica, alla belligeranza permanente. E’ stato carpentiere, pizzaiolo, conducente di scuolabus, operaio edile, gestore di attività ricettive. Le sue passioni sono l’alpinismo, la pesca in apnea, la falegnameria e la fotografia. Crede fermamente che la vera utopia sia pensare, come umanità, di poter sopravvivere all’attuale modo di produrre e consumare. In questo senso si sente un inguaribile anticapitalista. (Da: https://www.pressenza.com/it/author/gregorio-piccin/).

 

Secab e Paularo: bolle qualcosa in pentola o è solo un’impressione errata?

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Nel mio “Considerazioni sull’alluvione in Carnia e su alcuni problemi non solo carnici, mentre fuori ha ripreso a piovere”, pubblicato su www.nonsolocarnia.info il primo novembre 2018, mi soffermavo sull’antica e gloriosa Secab (Società Elettrica Cooperativa Alto But), che non sapevo ancora essersi rinnovata nello Statuto, sorta per portare benessere alla popolazione, e che ora si oppone alle leggi di minima tutela dei fiumi, imposto dal piano regionale di tutela delle acque, ed al deflusso ecologico stabilito dall’autorità di bacino in Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino, e in una parte della Lombardia cioè vuole di deserto. (Cfr. Giacomina Pellizzari, guerra alle norme: impossibile rilasciare più acqua nei fiumi, in Messaggero Veneto, 27 maggio 2018). E, come per ogni notizia inattesa mi chiedevo il perché. Così andavo a cercare risposte sul sito stesso della Società, venendo a scoprire alcuni aspetti interessanti.
Ora Secab ha puntato maggiormente «sull’acquisizione di commesse esterne», chiudendo in attivo «a prescindere dall’incidenza, ormai marginale, dei cosiddetti Certificati Verdi» (Maurizia Plos, Intervista al Presidente della Secab, in: http://treppocarnico.org/notizie-dalla-secab/).  Inoltre intende portare avanti il rifacimento globale dell’impianto di Enfretors, anche per la sua «importanza e strategicità […] correlata […] al collegamento in serie con gli altri due impianti più a valle, ovvero quelli di Museis e Noiariis», e poi in successione, procedere con i progetti minori «che interessano le centrali del Fontanone (rifacimento globale), di Noiaris (implementazione) e del Coll’Alto (nuova realizzazione)». (Ivi).

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Parallelamente, sempre sullo stesso mio articolo, mi soffermavo sulle dichiarazioni del Sindaco di Paularo, Daniele Di Gleria, che pare voglia permettere l’edificazione di centraline su ogni rio del suo comune, senza analisi alcuna dell’impatto ambientale territoriale di tali opere. Il sindaco Di Gleria, a differenza dei suoi colleghi bellunesi, «durante una riunione con la gente della frazione di Dierico assieme ai responsabili della ditta Tarussio interessata al progetto idroelettrico, ha illustrato i benefici della nuova centralina. “Porterà economia, con assunzione di manodopera per la sua costruzione e con produzione di energia elettrica con benefici a favore delle popolazione locale”» (Gino Grillo, Il sindaco Di Gleria difende la centralina: «Porterà lavoro», in: Messaggero Veneto, 27 settembre 2018). Inoltre sottolineavo come il sindaco Di Gleria immaginasse un panorama locale nel quale le tre centraline in funzione sul territorio comunale, assieme a quella di proprietà dell’Uti della Carnia, sarebbero state messe in rete da una società costituita all’uopo, con gli obiettivi di produrre energia elettrica per la popolazione e le aziende locali, ma pure di «vendere il surplus all’ente nazionale dell’energia». (Ivi).
Queste le prime informazioni reperite, che commentavo anche chiedendomi chi sarebbe restato a vivere in Carnia, a Paularo come a Paluzza, ed a Dierico fra 20 anni per avere come contropartita dello sfruttamento delle ultime acque il pagare meno l’energia elettrica per un congruo periodo. (Laura Matelda Puppini, Considerazioni sull’alluvione in Carnia, op. cit.). Comunque contro la centralina sul Rio Pecol si esprimeva anche Franceschino Barazzutti, con il suo: “Perché no alla centralina sul rio Pecol, in comune di Paularo”, pubblicato prima da FriulSera, poi da me su www.nonsolocarnia.info ed il 17 novembre 2018 anche dal Messaggero Veneto.

Quindi, quasi per caso, leggevo alcune successive dichiarazioni del Sindaco di Paularo, non si sa a chi rivolte, rilasciate al Messaggero Veneto. (Gino Grillo nel suo: “Il sindaco Di Gleria: con le nuove centraline i costi diminuiranno”, in Messaggero Veneto 4 novembre 2018). C’è una frase riportata da Gino Grillo che mi preoccupa, ed è la seguente: «Di Gleria racconta di incontri già avuti, e altri programmati, con Cooperativa Secab […] per far entrare il territorio nell’area servita dalla cooperativa di Paluzza». (Ivi). Come non è dato sapere. Vuole mettere in piedi una nuova società con Secab, per vendere anche lui energia a terzi? – mi chiedevo, e la cosa mi interessava a tal punto da postare questo mio pensiero come commento al pezzo di Franceschino Barazzutti, il 9 novembre 2018. Inoltre detta società avrebbe avuto anche, grazie alla partecipazione della sua centralina, la benedizione dell’Uti? Ma, quando ho chiesto lumi ad una persona che conosco, quella mi ha risposto che la Secab era una cooperativa e non una società per azioni. Ma era forse  mutato qualcosa almeno nella Secab?

Infine trovavo cosa era mutato, anche se non sono in grado di valutarne appieno le conseguenze: la Secab, nel corso dell’Assemblea straordinaria dei Soci del 26 giugno 2017 aveva cambiato lo Statuto Sociale, in particolare gli articoli n. 5, 34 e 35, pur restando una Cooperativa a.r.l.. Ma non so neppure se gli altri articoli fossero già presenti, nella loro stesura attuale, da anni. Ora leggendo il nuovo Statuto, dal sito di Secab, si viene a sapere alcuni aspetti non di poco conto.

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«La Cooperativa potrà, con deliberazione del Consiglio di Amministrazione, istituire e/o sopprimere sedi secondarie, filiali, punti vendita, succursali, agenzie, rappresentanze ed uffici anche altrove, sia in Italia che all’estero, nei modi e nei termini di legge». (Art. 2. Sede).

La Cooperativa è retta e disciplinata secondo il principio della mutualità senza fini di lucro, svolge la propria attività mutualistica, diretta a far conseguire ai Soci il vantaggio economico di contrarre con la Cooperativa – tramite scambi mutualistici attinenti l’oggetto sociale – le migliori condizioni economiche, morali e sociali, attua una politica gestionale volta a favorire i Soci nei loro fabbisogni di beni e servizi oggetto dell’attività stessa. (…). La Cooperativa può svolgere la propria attività anche con i terzi e il Consiglio di Amministrazione, valutate le esigenze della Società, stabilirà le condizioni dei rapporti.». (Art. 4. Scopo mutualistico).

Ma poi, all’art. 5 compare una parola strana: ‘prevalentemente’, che non è esclusivamente.
Esso così inizia. «La Società, con riferimento allo scopo definito all’articolo precedente, ai requisiti ed agli interessi dei Soci, sia in via diretta sia per il tramite di società controllate o partecipate, si propone l’esercizio di un’impresa, rivolta prevalentemente in favore dei propri Soci, per attività di studio, ricerca, produzione, approvvigionamento, trasporto, trasformazione, distribuzione e vendita nei settori energetico, ecologico, della trasmissione dei dati, dei segnali radio e TV e della telefonia in genere su qualsiasi tipo di supporto, avvalendosi di ogni mezzo e costruendo e/o gestendo le relative reti». (Art. 5 – Oggetto).

Ed ancora, sempre all’art. 5: «Rientrano nell’ambito di operatività, senza peraltro esaurirlo, le attività connesse o comunque inerenti quali: a) provvedere, sia in Italia sia all’estero, alla produzione, all’acquisto, al trasporto, alla fornitura, alla trasformazione, alla distribuzione, alla vendita di energia elettrica e termica, generata da fonti rinnovabili e/o assimilate e/o convenzionali;  b) la distribuzione e la fornitura di gas combustibili e di risorse idriche;  c) la gestione di servizi a rete, anche nel campo delle telecomunicazioni;  d) l’esecuzione di lavori in genere su tutto il territorio nazionale ed all’estero, comunque inerenti all’oggetto sociale». (Art. 5. – Oggetto). A me pare un bel salto dalla vecchia Secab, ricordata da Franceschino Barazzutti.

Ed inoltre «La Società può, altresì, svolgere l’attività di gestione di negozi per la vendita all’ingrosso ed al minuto di: – mobili, casalinghi, elettrodomestici, apparecchi radio e televisivi, apparecchi per la registrazione e la riproduzione sonora e visiva, apparecchi per telecomunicazione e relativi accessori; – materiali, articoli, apparecchi ed accessori elettrici, elettronici ed informatici di qualsiasi tipo; – ferramenta; – macchine, attrezzature e articoli tecnici per l’agricoltura, l’industria, il commercio, l’artigianato. In attuazione del proprio oggetto sociale, la Società, anche per conto di privati, imprese, associazioni ed enti pubblici, potrà: a) realizzare, installare e gestire, sia direttamente sia in forma associata, impianti per la produzione e la somministrazione di energia di qualsiasi tipo; b) provvedere, sia in Italia sia all’estero, al reperimento delle materie prime, dei semilavorati e dei prodotti finiti necessari allo svolgimento dell’attività, al fine di assicurare una regolare fornitura ed un regolare servizio ai propri Soci ed utenti; c) eseguire lavori nel settore delle i installazioni e delle attrezzature elettriche, termiche e per fluidi quali, a titolo esemplificativo ma non esaustivo: – centrali idroelettriche, centrali per la produzione di energia da fonti rinnovabili ed assimilate, centrali termoelettriche e termiche e relativi impianti di distribuzione; – strutture di approvvigionamento e stoccaggio per gas e acqua e relativi impianti di distribuzione; – impianti elettrici per centrali, cabine di trasformazione, linee di alta, media e bassa tensione, impianti di illuminazione pubblica e privata; – linee telefoniche ed opere connesse, impianti di telecomunicazione; provvederà altresì all’esecuzione dei relativi servizi di manutenzione e di gestione; d) eseguire lavori nei settori degli impianti tecnologici speciali, degli impianti elettrici, telefonici, radiotelefonici, televisivi e simili, degli ascensori e scale mobili, degli impianti trasportatori, di quelli pneumatici e di sicurezza; provvederà altresì all’esecuzione dei relativi servizi di manutenzione; e) assumere lavori e provvedere all’esecuzione dei relativi servizi, alle manutenzioni e alla gestione degli impianti nei settori: – del ciclo idrico integrato, ivi compresa la commercializzazione delle acque; – dei gas combustibili; – dei rifiuti e delle biomasse; – delle opere idraulico/forestali; f) curare, sia per conto proprio sia per conto di terzi, la fornitura di servizi contabili ed elettrocontabili relativi al monitoraggio, utilizzazione e gestione delle risorse energetiche, idriche, dei gas combustibili e dei relativi impianti, provvedendo, altresì, allo svolgimento di ogni attività utile e connessa alla gestione del territorio; g) attuare e/o gestire iniziative nel settore turistico, delle comunicazioni e delle telecomunicazioni; h) promuovere e/o gestire corsi di formazione e ogni altra attività sociale, anche ricreativa, atta a garantire la crescita culturale e professionale dei Soci e delle popolazioni della zona in cui la Società svolge l’attività». (Art. 5.- Oggetto).

Siamo sicuri che tutto ciò sia possibile per una cooperativa a.r.l. e non in contrasto con le leggi della  Regione Fvg? – mi domando, da profana.

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Ma andiamo avanti nella lettura sempre dell’art. 5. La Società, in via non prevalente, con esclusione delle attività e dei servizi riservati previsti dai Decreti Legislativi n.385 del 1.9.1993, n. 415 del 23.7.1996 e n. 58 del 24.2.1998 e successive integrazioni e modifiche, può, inoltre, compiere tutte le operazioni immobiliari, mobiliari, commerciali e finanziarie ritenute opportune od utili al raggiungimento dell’oggetto sociale.

A tal fine, avvalendosi di tutte le provvidenze ed agevolazioni di legge, può: a) assumere interessenze, quote e partecipazioni anche azionarie in società, consorzi, associazioni e gruppi cooperativi paritetici ed altri enti ed organismi economici e non, aventi scopi affini, analoghi o complementari o dissimili; b) acquisire e cedere “certificati verdi” dell’energia elettrica o titoli similari; c) concedere fideiussioni, prestare avalli, consentire iscrizioni ed ipoteche sui beni sociali e prestare ogni altra garanzia reale e/o personale per debiti e obbligazioni proprie e di terzi, assunte in funzione del conseguimento dell’oggetto sociale, ogni qualvolta l’Organo di Amministrazione lo ritenga opportuno; d) costituire fondi per lo sviluppo tecnologico o per la ristrutturazione o per il potenziamento aziendale, ai sensi della Legge 31 gennaio 1992, n. 59, ed eventuali norme modificative ed integrative.

La Cooperativa, nello svolgimento delle proprie attività applica, qualora sussista l’obbligo di legge o per disposizioni dell’organismo di regolazione del settore elettrico, le regole di separazione funzionale aventi la finalità di: a) favorire lo sviluppo della concorrenza nel settore dell’energia elettrica; b) garantire la neutralità della gestione delle infrastrutture essenziali per lo sviluppo di un libero mercato energetico; c) impedire discriminazioni nell’accesso e nell’uso delle informazioni commercialmente sensibili; d) impedire trasferimenti incrociati di risorse tra i segmenti delle filiere». (Art. 5.- Oggetto).

Ma cosa vuol diventare la Secab, cooperativa arl?  – mi chiedo. Vuol trasformarsi di fatto da arl a Società per azioni, o a multinazionale? Può darsi però mi manchi un pezzo di storia e lo abbia già fatto prima, o che ne so, forse sono rimasta indietro parecchio. E chi sono e saranno i soci? Saranno solo nostrani o ci sarà anche qualche foresto?Cosa hanno inventato questa volta i paluzzani? Ma cos’è ora la Secab? 

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Ed ancora all’art. 6 del nuovo Statuto si può leggere che il numero dei Soci della Cooperativa è illimitato, all’art. 7 che ci possono essere soci persone fisiche o persone giuridiche, che sottoscrivono azioni, e le persone giuridiche possono avere sia la qualifica di Socio cooperatore che di Socio sovventore. Ed ai Soci sovventori è dedicato il titolo IV del nuovo Statuto. All’ art. 18, che si trova sotto questo titolo, si viene a sapere che «Salvo che sia diversamente disposto dall’Assemblea ordinaria in occasione della emissione dei titoli, le azioni dei sovventori possono essere sottoscritte e trasferite esclusivamente previo gradimento del Consiglio di Amministrazione. Esse devono essere comunque offerte in prelazione alla Società». L’art. 19, sempre del Titolo IV, dice, in sintesi, che la Cooperativa arl emette azioni destinate ai Soci sovventori. Quando si parla, poi, del diritto di recesso, ci si rifà all’art. 2437 che, se non erro, regola non le Cooperative arl, ma le società per azioni.

Quindi si viene a sapere, dall’art. 33, relativo al Consiglio di Amministrazione della Secab, che la cooperativa arl o la società per azioni o …   (scusatemi, ma data la mia ignoranza non sto capendo più nulla e attendo vostri chiarimenti nel merito) può avere un consiglio di Amministrazione composto da un minimo di 7 fino ad un massimo di 13 di componenti, e dall’ art. 34, che « Il Consiglio di Amministrazione è investito dei più ampi poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione della Società, esclusi solo quelli tassativamente riservati dalla legge all’Assemblea e fatte salve le prerogative del Gestore Indipendente se nominato in ottemperanza alla normativa sulla separazione funzionale richiamata all’Art. 5 del presente Statuto. (…) La denunzia al tribunale di cui all’art. 2409 del codice civile può essere promossa da almeno un decimo dei Soci». E se non erro, anche l’art. 2409 riguarda le società per azioni. Inoltre, all’ art. 35 si legge che, qualora sia previsto, deve esser nominato un Gestore Indipendente, funzione che pare, dall ‘art. 35, esser attribuita al Dirigente apicale dell’attività di distribuzione. Insomma, francamente, mi pare che lo statuto di Hera, tanto per fare un esempio, e quello di Secab, da che si capisce trasformata in quasi società per azioni, ma sì ma no, ma certamente in base alla legge, perchè non è mio compito entrare o meno nella liceità di uno statuto, possano esser similari.

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Allegato al nuovo statuto, si trova il nuovo “Regolamento per la raccolta dei prestiti da soci” che prevede la possibilità per la Secab di concedere prestiti e funzionare, se ho ben capito da profana, come una banca. (Articoli 1 e 2 – Regolamento cit.). Infine l’art. 16 di questo Regolamento ci ricorda che «La SECAB Società Cooperativa è regolarmente iscritta all’albo delle Cooperative, ed osserva inderogabilmente le clausole di cui all’art. 26 del DLCPS 14 dicembre 1947, n. 1577 e successive rettifiche, modificazioni ed integrazioni».  (Cfr. https://www.tuttocamere.it/files/dirsoc/1947_1577.pdf).

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Io termino qui, dicendo che il mio intendimento non è certo quello di offendere Secab, ma solo di porre dei problemi sul tappeto e di chiedere informazioni nel merito, perché sono invero una ignorante in materia. E mi scusi Secab per questo mio limite, da cui parte questo articolo, che ho scritto anche per rispondere a chi diceva che Secab era ancora al 1911. Ma ritornando all’inizio di questo testo, che vuol fare il sindaco Di Gleria? Non lo so, ma potrebbe fare una società con Tarussio e fare accordi con Secab, come mi pare abbia dichiarato, almeno questo io ho capito.

Senza voler offendere alcuno, ma per chiedere lumi. E mi scusi pure il sindaco di Paularo, ma dall’articolo di novembre di Grillo invero non si capisce che voglia fare.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo ritrae la copertina del volume “SECAB un secolo di immagini e ricordi (1911-2011) a cura di Andrea Cafarelli – Edizioni SECAB, 2011” ed è tratta da: https://www.secab.it/pubblicazioni/secab-un-secolo-di-immagini-e-ricordi–1911-2011-/ Laura Matelda Puppini.

 

 

 

 

 

 

 

 

Regione FVG. Traccia per gli Stati generali della montagna.

Sandro Cargnelutti, presidente regionale Legambiente. Intervento al Convegno transfrontaliero “War is over”.

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Domenica 11 novembre si è tenuto a Klagenfurt/Celovec, in Austria, un convegno  trinazionale in occasione della fine della Prima Guerra Mondiale. Esso ha voluto essere una riflessione sull’importanza della pace e della cooperazione tra i popoli, in occasione dei 100 anni dalla fine della prima guerra mondiale; un incontro tra diversi movimenti della società civile presenti in Austria, Italia e Slovenia per far sentire una voce di fratellanza tra i popoli in una zona dove si è combattuto aspramente durante la “grande guerra”. Più di 50 organizzazioni di 3 stati della regione Alpe Adria hanno aderito già all’iniziativa, che ha preso il titolo da una nota canzone di John Lennon: War Is Over. (Note da: https://friulisera.it/fine-della-prima-guerra-mondiale-war-is-over-la-guerra-e-finita-per-sempre-se-lo-vuoi/.

Il convegno è stato promosso dalle Associazioni: ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti); ANPI FVG (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia); ARCI (Associazione Ricreativa e Culturale Italiana) comitato territoriale di Udine e Pordenone; dal Centro di accoglienza e di promozione culturale “Ernesto Balducci”; dal CEVI (Centro Volontariato Internazionale); dal CVCS (Centro Volontari Cooperazione allo Sviluppo, Gorizia); da Legambiente FVG, per l’Italia; e da alcune associazioni carinziane e slovene. (L’elenco delle associazioni promotrici ed aderenti all’iniziativa si trova in: https://cms.legambientefvg.it/temi/altro/1891-war-is-over.html).

Riporto qui l’intervento, per l’occasione, di Sandro Cargnelutti, Presidente Legambiente Fvg, come da lui giuntomi.

SANDRO CARGNELUTTI. INTERVENTO A KLAGENFURT.

Ich fühle mich sehr geehrt, heute hier zu sein. Diese deutsche Wörter verbrauchen sich hier, aber die Meinungen nicht. Und jetzt mache ich einen kleinen Vorschlag auf italienisch, so wie die Veranstalter mir verlangen haben.
Sono onorato di essere con voi. Le mie parole in tedesco si esauriscono qui ma non il nostro pensiero. Continuerò in italiano con una breve proposta, così come ci è stato richiesto dagli organizzatori.

Le persone dimenticano, le comunità dimenticano. I segni sulle rocce ci aiutano a ricordare. Le alpi Giulie e Carniche conservano le tracce della follia della guerra. Demone mai sopito, sempre all’opera. Papa Francesco ci ricorda, ora, la 3^ guerra mondiale a pezzi, la cultura dello scarto e le crescenti e insostenibili disuguaglianze.
Sono passati 100 anni dalla fine della prima guerra mondiale e quasi 100 dalla firma del trattato di San Germano del 1919 che ha delineato il nuovo assetto europeo, centrato sulle nazioni. Potrebbe essere, quest’ultima prossima ricorrenza l’occasione per rinforzare la cooperazione transfrontaliera nell’ottica della pace e nello spirito della Convenzione delle Alpi.

L’Unione mondiale per la protezione della natura (IUCN) ha individuato diverse modalità di cooperazione transfrontaliera: le aree protette transfrontaliere, il paesaggio transfrontaliero di conservazione e l’area di migrazione transfrontaliera di conservazione. Designazione speciale è inoltre il Parco per la pace che può essere applicato a ognuno dei tre tipi di aree di conservazione transfrontaliere e dedicato alla promozione, celebrazione e commemorazione della pace e della cooperazione.
Può essere questa una delle prospettive per ricordare la fine della prima guerra mondiale e i cento anni dalla emanazione del trattato di San Germano, continuando a credere in un’Europa di pace e solidarietà.

Sul  monte Forno convergono i 3 confini. Ogni anno alla Festa dell’Amicizia si incontrano migliaia di persone per condividere una giornata conviviale e di fraterno spirito montanaro.
In prossimità dei confini insistono diverse  aree protette che costituiscono l’ossatura della protezione della natura nei tre territori transfrontalieri. Le ricordiamo:

  • In Austria: Naturpark Dobratsch, le aree della Rete Natura 2000 Villacher Alpe e Schütt – Graschelitzen che ricadono in parte nel parco naturale, Görtschacher Moos – Obermoos im Gailtal.
  • In Slovenia: Triglavski Narodni Park, le aree della Rete Natura 2000 Julijske Alpe e Julijci, che ricadono parte o integralmente nel Parco del Tricorno e lo Zelenci, la Riserva di Biosfera MAB Unesco Alpi Giulie.
  • In Italia: la Riserva Naturale Nazionale del Cucco e di Rio Bianco, le zone di conservazione speciale dei Valloni di Rio Bianco e di Malborghetto, della Conca di Fusine, del Jȏf di Montasio e Jȏf Fuârt e della Alpi Giulie.

In tutto, una superficie di oltre 130.000 Ha a testimoniare l’enorme importanza ecologica e naturalistica di questi territori ma anche il loro potenziale in termini di sviluppo sostenibile.

A ridosso di queste, altre aree transfrontaliere (es. Parco naturale regionale delle Prealpi Giulie e Parco nazionale del Triglav) sono ormai realtà consolidate di cooperazione costante e buone pratiche.
Diversi progetti, anche transfrontalieri, sono già condivisi da tempo dalle realtà soprarichiamate come pure da altri soggetti pubblici e privati. Come non citare, ad esempio, l’esperienza delle Cime dell’Amicizia / Gipfel der Freundschaft / Vrhovi Prijateljstva, portata avanti dai Club Alpini di Friuli Venezia Giulia, Carinzia e Slovenia?

Legambiente, associazione ambientalista, considera e propone che le aree tutelate in Carinzia, Friuli e Slovenia, possono costituire un’area transfrontaliera riconosciuta dall’IUCN come “paesaggio transfrontaliero di conservazione”. E’ un’area omogena dal punto di vista ecologico e paesaggistico e può comprendere sia le aree protette sia le aree destinate ad utilizzo di risorse (ad esempio la foresta di Tarvisio che gode di una legislazione transtatuale) attraverso uno o più confini internazionali e comporta forme di cooperazione. Può essere considerata anche Parco della Pace? Auspicabilmente si. Anche lo IUCN lo cita come possibile sito transfrontaliero che può richiedere questa speciale designazione. Una proposta rivolta al futuro per dare tardivo senso alle morti del primo conflitto mondiale.

La cooperazione potrebbe calarsi in progetti concreti. Ad esempio utilizzare nell’area una struttura militare dismessa per istituire la sede del volontariato internazionale proveniente dai 3 paesi, aperto anche a giovani rifugiati. Uno spicchio d’Europa che desideriamo. Un modo per declinare oggi la pace in attività di manutenzione degli habitat e di promozione sociale.
La cooperazione dovrebbe favorire la ricerca sull’impatto dei cambiamenti climatici su questa parte delle Alpi e facilitare il coordinamento dei relativi piani di prevenzione e adattamento.
La cooperazione può nutrirsi, infine, del sogno di un Europa dei popoli, comunità e cittadini, federale, presidio di democrazia, di sviluppo sostenibile e solidale.

La montagna non ha confini, così come il cervo che l’attraversa.

Sandro Cargnelutti Presidente Regionale FVG

L’immagine che accompagna l’articolo rimanda a: https://cms.legambientefvg.it/temi/altro/1891-war-is-over.html, anche se non è contenuta nel testo di riferimento, ed è tratta da: https://www.google.it/.

 

 

Stati generali della montagna. Sabato 24 novembre 2018. Sintesi dell’intervento conclusivo del presidente Massimiliano Fedriga.

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Riporto qui la sintesi del discorso del Presidente della Regione Fvg, Massimiliano Fedriga, tenutosi a Tolmezzo per la conclusione degli stati generali della montagna.

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Il Presidente inizia il suo intervento Ringraziando per l’organizzazione delle due giornate dedicate alla montagna ed anche per le sintesi fatte in così poco tempo. Quindi prosegue dicendo che metterà a fuoco solo alcune questioni emerse dai tavoli di lavoro nella giornata precedente.

Dice di condividere l’esigenza di semplificazione burocratica per procedere alla manutenzione del territorio, intervenendo, per esempio, per sghiaiare i fiumi, che vanno sghiaiati, tagliando qualche albero nei pressi delle linee elettriche, e per evitare in futuro l’isolamento degli abitati, come accade negli altri paesi europei.
La prima ad esser stata danneggiata da questo alluvione è stata la natura del territorio montano, e l’obiettivo della sua tutela deve accomunare tutti, abbandonando pregiudiziali ideologiche. In tutti i paesi che ha visitato – dice- i boschi vengono mantenuti tagliando anche alberi maturi, e la natura non si tutela guardandola, ma curandola, e pensa che su questo aspetto la sensibilità di tutti converga.
Non serve per raggiungere detta finalità, a suo avviso, fare opere megagalattiche o follie, ma la regione e le comunità devono sapere che degli interventi devono venire eseguiti, con senno, ovviamente.

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Quindi, passando ad altro argomento, egli sostiene la possibilità di cambiare destinazione d’uso di aree, in modo che quelle abbandonate possano venir ripopolate o passate ad uso diverso dal precedente, a fini di riutilizzo e sviluppo.

Sostiene inoltre l’importanza di dotare i piccoli comuni di pullmini scuolabus multiuso, agevolando così la realizzazione, anche da parte del volontariato, di diverse attività sociali e sportive. Infatti la montagna è sì ambiente naturale ma è fatta anche di persone, e parte dalle persone. Ed una coppia, per vivere stabilmente in un luogo, deve avere, per i propri figli, la possibilità di mandarli a scuola, ma anche di far loro praticare attività sportiva, e partecipare a tutta una serie di attività che, per un ragazzino o bambino di pianura, sono scontate. Ma ciò non è scontato per chi vive in montagna, e la Regione deve fornire le opportunità perché ciò diventi possibile.
Dice poi, come nel documento riassuntivo dei lavori, venga sottolineata l’importanza che i vari attori della politica in montagna: regione, comuni, privati, operino in sinergia, altrimenti si sarà votati al fallimento. E le difficoltà si superano aiutandosi a vicenda. Fedriga è convinto pure che, lavorando insieme, si raggiungano dei risultati, perché è troppo facile dire agli altri di fare senza mettersi in gioco, e poi lamentarsi, senza assunzione alcuna di responsabilità.

Quindi Fedriga passa a trattare del settore dedicato allo sport, al turismo ed alla cultura, e ritiene che le competenze specifiche possano essere “messe insieme”, anche per giungere ad un processo unico. «Non possiamo scollegare, per esempio, la promozione della cultura e dello sport dal turismo» e quest’ultimo dall’agroalimentare, dice. E nello specifico si deve, per il Presidente, valorizzare il prodotto trasformato, perché è impossibile essere competitivi vendendo la materia prima, mentre invece si deve cercare di vendere i prodotti della montagna servendosi, pure, di un collegamento tra la montagna e le città, utilizzando pure le città per valorizzare il prodotto montano, perché la città è il mercato di riferimento del prodotto montano di altissima qualità.

Continuando, poi, a parlare della commercializzazione di un prodotto, dice che non si può scegliere un marchio di qualità, che poi nessuno sa che esiste, anche perché l’attribuzione di un marchio implica il fare una procedura particolarmente complicata, per poi,se rimane sconosciuto ai più, non avere un risultato apprezzabile. Inoltre bisogna riuscire a far percepire, al consumatore, quanto ‘quel’ prodotto valga più di altri in qualità.
Per i prodotti della montagna, quindi, si deve fare un marchio che sia riconoscibile e che rimandi immediatamente alla peculiarità del prodotto, data anche dal territorio che lo produce. Ed i prodotti montani si ‘giocano’ sulla qualità, non sulla competitività nel prezzo.

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Per quanto riguarda la promozione culturale, essa deve essere collegata alla promozione turistica nella comunicazione e nell’organizzazione. E bisogna creare pacchetti turistici. Infatti, se uno decide di venire qui, quello che gli si deve proporre non è un singolo evento, ma un pacchetto che permetta al turista di fermarsi più giorni sul territorio, perché l’evento singolo, anche se bellissimo, comporta che una persona venga qui tre o quattro ore e poi se ne vada. Una persona lascia soldi sul territorio se rimane ivi per qualche giorno, il che comporta una adeguata offerta di posti letto.

I dati dicono che, nel 2017, il Fvg ha avuto 9 milioni di presenze, nel settore turistico, mentre il Veneto, che comprende però Venezia, ben 69 milioni. Il Fvg non vuole paragonarsi al Veneto, ma parliamo di 69 milioni di turisti, contro 9 milioni!
Bisogna allora mettersi in testa che non basta portare il turista la domenica sulla pista da sci, che non basta avere una struttura sciistica per fare turismo in senso economicamente remunerativo, perché succede esattamente come per il grande evento: la gente scia e poi torna a casa.

Perché la gente si fermi in importanti località turistiche, bisogna, quindi, che ci sia una offerta complessiva, di cui lo sci può rappresentare una parte ma non può essere proposta unica ed esaustiva. Ed anche per questo bisogna che fare rete, tanto più che la montagna ha tantissime proposte eccellenti, ma è il turista che lo deve sapere, attraverso il pacchetto delle offerte. Così si può proporre ad uno di andare a sciare, poi di andare alle terme, quindi a fare il percorso turistico nella natura, ed a seguire di visitare un piccolo museo, e via dicendo.
Ed in Fvg bisogna fare una alleanza territoriale, che permetta a chi viene a sciare in montagna poi di andare a visitare una città d’arte, e ciò si può fare, perché il Fvg è una regione di un milione e duecentocinquantamila abitanti e non gli Stati Uniti! Ed allora ben venga il turista in Fvg, ma per andare qui e là, un po’ dappertutto, non solo in un luogo.

Ma all’offerta turistica deve unirsi la presenza di servizi per la tutela e cura della salute, perché nessuno porta i propri figli ove la sanità è carente. E la carenza o mancanza di servizi sanitari è un problema che può comportare danni economici non solo ai residenti, ma anche al territorio, che non diventa attrattivo per l’insediamento di nuovi nuclei familiari, e per il turismo.

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La Regione pensa di investire, per la montagna regionale, circa 250 milioni di euro. Infatti, secondo Fedriga, il tempo degli investimenti è giunto, perché negli ultimi anni, in Fvg, si è investito poco o nulla, e se non si investe non ci si proietta verso il futuro. E aggiunge che, quando parla di investimenti, parla anche di investimenti in campo sanitario e di aggiornamento tecnologico, che permetta, per esempio, ad una persona di fare analisi e tenersi monitorata senza lungaggini varie e spostamenti, proiettando il Fvg dal 1978 al  2018!

In Fvg vi è una spesa sanitaria di due miliardi e seicentomila euro, ma gli investimenti riguardano solo 64 milioni, il che vuol dire che non esiste innovazione. Ma questo vale per tutti i settori del Fvg. Il Presidente dice di essere convinto che ora la Regione debba investire, per guardare lontano.

Quindi afferma di essere favorevole ad un metodo elettivo degli amministratori della cosa pubblica da parte dei cittadini, che poi giudicheranno il loro operato la tornata elettorale successiva, e di essere favorevole alla democrazia, che qualcuno ritiene superata. Ma bisogna che gli amministratori eletti facciano davvero programmazione, e che facciano gli interessi di tutti i cittadini, non presenzino ad una gara su chi è il più forte a chiedere e richiedere. Ma per una programmazione integrata serve anche l’ente di area vasta, coadiuvato da uno staff tecnico di supporto, di cui anche i singoli comuni possono avvalersi. Perché l’ente intermedio tra Regione e comune potrebbe, oltre che curare la programmazione, essere di supporto ai comuni, per esempio nel redigere bandi di gara.

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Per quanto riguarda gli Enti locali, Fedriga dice che scriverà subito al governo, trovandosi in fase di trattativa con lo stesso per la parte finanziaria, di dare la possibilità che i tributi locali vengano gestiti dal e per il territorio, volgendo sempre più verso l’autonomia.  Così si potrebbero fare politiche territoriali differenziate, e dare risposte diverse alle diverse esigenze locali. Sono queste scelte importanti a livello fiscale, e come l’azzeramento dell’Irap Per qualto riguarda invece l’agricoltura, sostiene che gli obiettivi del PSR (Piano di sviluppo rurale) sono stati raggiunti, grazie al grande lavoro svolto dalla Regione.
Ma bisogna però, riuscire a scrivere un Dsr, un disegno strategico regionale, che dia alla montagna quelle risposte di cui ha bisogno, e, fin dall’inizio del nuovo anno, si incomincerà a buttar giù le sue basi.

Egli crede, poi, che serva una grande politica che non riguarda solo la montagna, ma in particolare la montagna, a sostegno della natalità, e non bastano solo interventi di carattere economico e nell’area dei servizi per raggiungere questo obiettivo, perché serve, pure, un grosso processo culturale. E anche questo aspetto verrà tenuto in considerazione nella legge di stabilità della Regione, cercando di trovare le risorse che servono perché il Fvg diventi capofila della rete famiglia a livello nazionale, a cui altre autonomie locali e comuni possono ispirarsi, e con cui scambiarsi le migliori idee per conseguire lo scopo. E la rete-famiglia deve anche entrare nelle scuole, per ridare la cultura della famiglia alle nuove generazioni, pure in un’ottica di sopravvivenza, perché con i tassi di natalità che si  vedono a livello europeo, nazionale, regionale, locale, il destino della società è morire. E per favorire la natalità, Fedriga dice di essersi rivolto anche al Dipartimento per la politica delle famiglie, per conoscere le pratiche positive in corso in altre realtà e riversarle sul territorio.

Si avvia quindi alla chiusura del suo intervento, dicendo che, dopo aver tenuto per sé la delega della montagna fino agli stati generali della montagna, ha deciso di darla all’assessore Zanier. E precisa che vista la complessità ed eterogeneità dei problemi che la montagna presenta, ha chiamato agli stati generali della montagna tutti gli assessori, cioè tutte le competenze. Ringrazia infine e nuovamente per il lavoro svolto nei due giorni, che rappresenta un primo passaggio e che deve continuare in modo strutturato, e si dice disponibile al confronto, ai suggerimenti ed anche alle critiche, perché una amministrazione che non si mette in discussione ascoltando anche delle voci contrarie, è una amministrazione che non guarda più in là del proprio naso, ed è una amministrazione che non vuole lavorare bene.

Laura Matelda Puppini

La registrazione dell’ intervento è mia, ma in un paio di punti non sono riuscita a capire alcune parole, data la lontananza del registratore dall’oratore. Pertanto se trovate delle imprecisioni siete pregati di avvisarmi, perchè possa correggere. L’ immagine che accompagna l’articolo, è stata scattata da me, nell’estate 2017, in comune di Ligosullo. Laura Matelda Puppini

6 agosto 1943: l’incontro di Tarvisio tra italiani e nazisti.

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Con questo articolo inizio le riflessioni sul volume Giulio Del Bon, 1943-1945. Vicende di guerra. La Carnia durante l’occupazione nazista, Associazione Culturale “Elio cav. Cortolezzis, 2018.

Il volume ha già nel titolo un grosso limite rappresentato dalla definizione del periodo preso in esame: 1943- 1945, quasi che fatti accaduti durante la resistenza  non avessero avuto un prima, e che la previsione di un poi non avesse influenzato alcune situazioni. La nuova moda storica, presente sicuramente dal 2000, ma che data ben più lontano, vede al centro del discorso non certo scientifico lo screditamento a tutto tondo dei partigiani, basandosi unicamente su opinioni di tizio e caio, sconvolgendo o meglio dimenticando i contesti, spezzettando, omettendo fatti, scrivendo con una precisa base ideologica antipartigiana, antislava ed anticomunista, in sintesi in un’ottica simil fascista. Ed anche il Del Bon, nella sua contestualizzazione e poi, non è scevro da alcuni di questi limiti; inoltre prende tutte le fonti per buone, non analizzandole, dimenticando l’uso politico della storia ed accreditando Marco Pirina, tanto per fare un esempio, come attendibile e, non conoscendo il mestiere dello storico, si basa principalmente su fonti orali e diari parrocchiali a queste assimilabili, spesso redatti o terminati, per il periodo resistenziale, a posteriori, quando, a guerra finita, il Vescovo chiese ai sacerdoti il rendiconto di quanto svolto in quel periodo, in particolare delle opere di carità. (Liliana Ferrari, Il clero friulano e le fonti per la sua storia, in: AA.VV., La Repubblica partigiana della Carnia e dell’Alto Friuli, IL Mulino ed., 2013, pp. 232-233). Ed i parroci scrissero dei resoconti in base a quello che sapevano allora, ed alla loro visione del mondo, in cui coloro che erano comunisti od in odore di comunismo venivano parificati al diavolo in persona. Ed i parroci erano persone, con le loro idee politiche, i loro limiti, le loro paure, la loro solitudine. (Per l’uso di fonti orali nella storia cfr il mio: L. M. Puppini. Lu ha dit lui, lu ha dit iei. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica. La storia di pochi la storia di tanti, in: www.nonsolocarnia.info).

Il problema reale, però, è che testi scritti seguendo una chiave di lettura antipartigiana e dissacratrice del movimento partigiano, hanno trovato spesso, e non solo in Fvg, un editore e sono stati diffusi ‘urbi et orbi’ si fa per dire, con una scusa o l’altra.  (Cfr. i miei: ‘Mode storiche resistenziali e non solo: via i fatti, largo alle opinioni, preferibilmente politicamente connotate’, in: www.nonsolocarnia.info, e ‘Sull’uso politico della storia’, in: www.nonsolocarnia.info). Non da ultimo, il 1943 inizia con la ritirata anche nazista dalla Russia, (la battaglia di Stalingrado terminò il 2 febbraio 1943) che segna la grande sconfitta dei nazifascisti e l’inizio del loro declino. Ma chi scrive, compreso il Del Bon, di storia italiana e carnica in particolare, non ci narra della disfatta da cui il resto discese, compreso l’armistizio.

La resistenza ebbe luogo perché vi fu lo sfascio dell’esercito e dello Stato con la fuga del Re e di Badoglio, con altri al seguito, e la successiva occupazione nazista. Così mi diceva Bruno Cacitti, il partigiano osovano Lena, nel lontano 1978: «Senti, bambina: ci siamo trovati, il vot di …di settembre quarantatrei, abbandonati, soldati abbandonati: i capi, il re, Badoglio, andati al Sud, al Nord… e noi altri ci siamo trovati in un mare di fango. Per salvarci abbiamo dovuto andare in montagna. Se non si andava, ci aspettavano i lager tedeschi. Basta. Non fu una questione politica. Siamo scappati perché ci hanno abbandonato i capi – chiuso. Ma come si fa? Loro scappano, e noi … Ci hanno messo in una condizione … (…) Ci hanno lasciato in un mare di fango e di guai, abbandonati». Ma nella descrizione del contesto, il Del Bon dedica solo poche righe a questa immane tragedia per i soldati, di cui una parte si trovava all’estero.  Cefalonia fu una realtà, non una invenzione virtuale, come quanto accadde alla caserma di Tarvisio, ricordato dal Del Bon. Ed uso questo riferimento per introdurre l’argomento di questo mio testo.

Giulio Del Bon, pasticciando fra l’altro con le date nella parte generale e dimenticandosi il viaggio di Mussolini a Berlino prima di creare l’R.S.I. ed altre quisquiglie di cui parlerò nel prossimo articolo dedicato a questo volume, si sofferma particolarmente sull’entrata di truppe germaniche a Tarvisio nell’agosto del 1943, dimenticando che si era in guerra ed anche prima dell’8 settembre truppe germaniche alleate si potevano trovare in Italia. In sintesi, il contesto descritto in poche righe dal Del Bon, è un immane pasticcio in racconti e datazioni (Giulio Del Bon, op. cit., pp. 15-16), ed essendosi soffermato in particolare su Tarvisio, che non è in Carnia,  dimentica uno fatto fondamentale: il convegno tenutosi il 6 agosto 1943 a Tarvisio tra tedeschi e italiani, sul quale riporto, qui, un pezzo pubblicato dall’Anpi di Lissone, ed una parte dal diario di Ivanhoe Bonomi. Da queste fonti si comprende bene la situazione creatasi dopo lo sbarco alleato nelle isole ed in Sicilia, e dopo il 25 luglio 1943, tra Italia e Germania. Eravamo ancora alleati dei nazisti, allora, e gli anglo americani bombardavano paesi e città, perché eravamo in guerra, uccidendo anche civili, come accade in ogni guerra, mentre l’Italia se da un lato confermava la sua fedeltà all’alleato nazista, dall’altro cercava in vario modo di trattare con gli anglo-americani, aspetto ben presente ai tedeschi.

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Il 9 luglio 1943 iniziava l’operazione Husky, (nome in codice degli anglo-americani per designare l’invasione della Sicilia), preceduta nel mese di giugno dall’occupazione delle isole di Lampedusa, Linosa, Lampione e Pantelleria, che cadde il 12 giugno, dopo aver subito forti bombardamenti, e venne occupata da reparti di una divisione britannica. Il 10 luglio 1943 avveniva lo sbarco degli Anglo americani in Sicilia. L’11 luglio l’8ª Armata occupava senza difficoltà Siracusa e Augusta, il 14 luglio gli Alleati congiungevano le loro teste di ponte e conquistavano Ragusa e Comiso. Probabilmente oramai sia Mussolini che i tedeschi sapevano che l’occupazione della Sicilia da parte anglo americana, era solo questione di tempo. E chi rallentò ancora una volta l’avanzata Alleata furono i tedeschi, che schierarono in Sicilia la veterana 29. Panzergrenadier-Division e l’eccellente 1ª Divisione paracadutisti del generale Richard Heidrich, trasferita d’urgenza dalla Francia meridionale. Quindi il comando di dette forze germaniche fu affidato al generale Hans-Valentin Hube, reduce dalla battaglia di Stalingrado. Il 3 settembre 1943, giorno in cui fu realmente firmato l’armistizio di Cassibile, in Sicilia, gli angloamericani iniziavano l’invasione della parte continentale della penisola italiana, sbarcando a Reggio Calabria. (https://it.wikipedia.org/wiki/Campagna_d’Italia_(1943-1945).

Nel frattempo, nella riunione iniziata il 24 luglio 1943, e conclusasi il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciava Mussolini, a causa della situazione bellica e dello sbarco anglo- americano in Sicilia e si formava il governo Badoglio. Ma l’Italia era ancora alleata con i tedeschi, e questo fu un periodo di intensi sforzi per gestire la situazione, mentre i germanici si fidavano sempre meno degli italiani.  E i nazisti incontrarono gli italiani anche a Tarvisio, per sapere che cosa intendessero fare e per porre le loro condizioni.

«Dopo il 25 luglio 1943 la sola ed esclusiva preoccupazione del re era che si verificasse una sollevazione di popolo che avrebbe ostacolato il pacifico trapasso dei poteri dal governo fascista al governo militare di Badoglio e quindi messo in pericolo le sorti della corona. Avvenne perciò che, alla folla in tripudio, si rispose con lo stato di assedio. Vigeva la legge marziale. L’ordine venne mantenuto al prezzo di 83 morti, 308 feriti e 1554 arrestati, per la quasi totalità operai scioperanti e dimostranti.

Questo rigore mascherava una profonda incertezza. Il maresciallo Badoglio, che col governo era passato al Viminale, circondava di mistero le sue intenzioni. Per le cose essenziali e la condotta della guerra, la liquidazione del fascismo, i rapporti con i tedeschi, agiva all’insaputa dei suoi ministri. La sua condotta era ambigua, anche nei confronti dei partiti antifascisti usciti dalla clandestinità.
Lo stato d’assedio ch’egli aveva imposto al Paese, con tutto il seguito di misure eccezionali e severissime, era una novità nella storia d’Italia degli ultimi trent’anni. Inutilmente i rappresentanti dei partiti, riuniti nel Comitato delle opposizioni presieduto da Ivanhoe Bonomi, avevano chiesto una maggiore libertà di stampa. I nuovi giornali continuavano ad essere vietati e i vecchi sottoposti a una severa censura.  E tuttavia gli antifascisti non avrebbero desiderato di meglio che collaborare, a patto che il governo avesse affrontato francamente il problema della pace. Su questo punto, pur comprendendo le difficoltà del maresciallo, erano irremovibili: volevano finirla con la guerra.  Badoglio si dichiarava d’accordo. Ma continuava a far da solo. Sembrava che non si fidasse di nessuno.

Dal canto suo il re aveva deciso di insistere (almeno per il momento) nell’alleanza con i tedeschi avendone bisogno per tenere il fronte quel tanto che fosse bastato – egli credeva – a negoziare l’armistizio. Al Viminale l’inquietudine cresceva. Mentre spediva diplomatici in Vaticano, a Lisbona, a Tangeri per conoscere le intenzioni degli Alleati, Badoglio si preoccupava dei tedeschi. Una sua richiesta a Hitler per un convegno, presente il re, al fine di studiare amichevolmente l’uscita dell’Italia dalla guerra, fu respinta. Allora, per non rivelare il suo animo, fu costretto ad accettare la controproposta del Führer per una conferenza fra i ministri e i capi militari.
La scelta dimostrava la reciproca diffidenza dei due alleati. In realtà il convegno di Tarvisio segnò la fine della collaborazione fra italiani e tedeschi. Ribbentrop e Guariglia, nuovo ministro degli Esteri italiano, guidavano le due delegazioni. Li accompagnavano il maresciallo Keitel e il generale Ambrosio. Ribbentrop chiese se il governo italiano avesse avviato i preliminari d’armistizio con gli anglo-americani. Guariglia rispose di no ed effettivamente i suoi tentativi di trattare con gli Alleati erano fino a quel momento falliti.
A sua volta Guariglia chiese il perché dei movimenti tedeschi in Italia; Keitel assicurò che le truppe inviate dovevano creare una riserva strategica. Più insolentemente, Ribbentrop aggiunse che le Divisioni tedesche servivano solo per combattere. Tutte le speranze di Badoglio si riponevano ora sul generale Castellano, partito per Lisbona il 12 agosto per un altro incontro con gli Alleati. Ma questi, messi in sospetto da tanti indugi, dettero ordine di riprendere i bombardamenti sulla penisola.

Su Milano la notte dal 12 al 13 agosto cadde una pioggia di bombe e di spezzoni incendiari che trasformarono il centro storico in un braciere. La Galleria e palazzo Marino furono semidistrutti. Anche la Scala andò in rovina. Si dovette al sipario metallico se il palcoscenico non fu devastato dalle fiamme. Torino fu anch’essa colpita nel centro, nei suoi quartieri più belli, carichi di ricordi e di storia. Il 13 agosto toccò di nuovo a Roma, che per fortuna subì danni soltanto nella periferia sud, adiacente alla zona degli scali ferroviari.
Gli Alleati erano decisi a finirla. A Quebec, dove in quei giorni si riunivano per stabilire le future operazioni in Europa, Churchill e Roosevelt insistettero per l’Italia sulla resa senza condizioni. Anche Stalin, che non partecipava alla conferenza, fece pervenire il suo benestare. (…).

Fino a un mese prima le Divisioni tedesche in Italia erano 8, quasi tutte concentrate al sud e nelle isole. Le Divisioni italiane erano 23, delle quali 10 in via di ricostituzione e perciò inutilizzabili. C’erano inoltre 14 Divisioni costiere disperse e male armate, quindi anch’esse inservibili. Ma dal 26 luglio 9 Divisioni e 1 Brigata germaniche si dislocarono nell’Italia settentrionale, in forma di vera e propria occupazione, disponendosi a ridosso dei reparti italiani. Un’altra scese presso Roma e le quattro che erano in Sicilia si unirono a quelle dell’Italia meridionale. La situazione si era così capovolta. Le 13 Divisioni italiane efficienti, più le 3 rientrate all’ultimo momento, col permesso dei tedeschi, ma ancora in viaggio, erano ora controllate da 18 Divisioni e una brigata germaniche, divise in due Gruppi di Armate. A nord il Gruppo d’Armata B fu affidato al Feldmaresciallo Rommel, mentre il comando supremo per il Sud andò al Feldmaresciallo Kesselring». (“Agosto 1943: il convegno di Tarvisio”, in: http://anpi-lissone.over-blog.com/article-agosto-1943-il-convegno-di-tarvisio-91888187.html).

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Così scrive Ivanhoe Bonomi, nel merito del convegno di Tarvisio, preceduto da quello di Feltre, il 19 luglio 1943, fra Hitler e Mussolini.

«7 agosto 1943. […] mi indugio con Orlando sul Convegno di Tarvisio” che è avvenuto ieri, e di cui non abbiamo ancora notizie ufficiali. Certamente a Tarvisio i rappresentanti dell’Italia e della Germania avranno ribadito: “La guerra continua”.  (…).  10 agosto 1943. Ho avuto fra ieri e oggi precisazioni sull’incontro di Tarvisio. (…). Ieri me ne ha parlato l’ex- ambasciatore, Cerutti, amico e collega del Ministro degli Esteri, e oggi me ne ha riferito a lungo De Gasperi che ha raccolte le notizie dalla bocca del Guariglia.

L’ incontro ha avuto sin dall’inizio e fin dai segni esteriori, aspetto non di intese fra pari, ma di intimidazione e di minaccia del più forte verso il più debole. I tedeschi sono arrivati in treno blindato, irto di mitragliatrici, con abbondanza di guardie armate e di personaggi in divisa militare. Gli italiani sono arrivati in treno comune, senza armi, con prevalenza di personaggi civili, con camerieri in bottoniera dorata e pochi Carabinieri dall’antiquata lucerna.
La delegazione tedesca, cappeggiata da Ribbentrop e da Keitel si è mostrata subito arrogante ed ostile. Ha rimproverato al Governo Badoglio di essere sorto sulle rovine del fascismo e facendo arrestare Mussolini, l’amico di Hitler. Ciò non poteva essere tollerato senza precise dichiarazioni ed esplicite assicurazioni.
Che se le une e le altre fossero apparse insufficienti, era intenzione tedesca di punire il Governo italiano e di ristabilire l’ordine turbato. Già alcune divisioni erano scese in Italia (da cui una distaccata da Hitler dal fronte russo di Orel ed inviata, in tutta fretta, a … vendicare il suo amico) e tali divisioni potevano convertire il loro proposito difensivo contro la temuta invasione anglo-americana in un proposito offensivo contro il Governo Badoglio e contro l’antifascismo italiano.

Naturalmente il Guariglia ha replicato rivendicando all’Italia – alleata e non subordinata della Germania – il diritto di risolvere i suoi problemi interni. Il rovesciamento del regime fascista era un problema interno, e la Germania non ha alcun legittimo diritto di immischiarsi in una vertenza che non la riguarda. La Germania e l’Italia sono legate da un patto di alleanza in una guerra che è diventata comune. Il Patto non è rotto, il patto sussiste, la guerra comune continua. Al di fuori dell’alleanza e della condotta della guerra, la Germania non ha nulla da chiedere all’Italia.

I delegati tedeschi, dopo avere (andando ostentatamente oltre il confine, telefonato al loro capo per riceverne istruzioni, hanno finito per accogliere le dichiarazioni italiane. E poiché tale accoglimento implicava il proseguimento della guerra, le conversazioni hanno continuato sui nuovi problemi militari imposti dalla situazione.
I tedeschi hanno confermato l’’antico proposito di difendere la valle del Po, per impedire un pericoloso avvicinarsi degli anglo-americani alle loro frontiere. La linea difensiva dovrebbe partire da Genova-Spezia, inoltrarsi sul crinale dell’Appennino a sud di Piacenza, di Parma, di Reggio, di Modena e di Bologna per raggiungere il mare intorno a Rimini. Per presidiare tale linea, alcune divisioni tedesche sarebbero scese dal Brennero ed altre sarebbero venute dalla Francia. Taluna di queste divisioni era già passata, rovesciando di viva forza il segno simbolico del nostro confine, ed era già oltre Trento, sulla via di Verona.

La delegazione italiana ha chiesto allora di potere avere almeno l’onore di difendere anch’essa la valle padana, ed a tal fine ha fatto istanza di ritirare quattro divisioni italiane dalla Francia. I tedeschi- rivelando così interamente la loro avversione per noi – hanno osservato subito che le divisioni italiane non avrebbero dato che uno scarso contributo giacché, come in Sicilia, avrebbero lasciato combattere i tedeschi ed avrebbero forse disertato in gran numero. Comunque essi hanno finito per accogliere la proposta italiana aggiungendo però che, ove l’ordine pubblico venisse compromesso da agitazioni popolari, i tedeschi si sarebbero immediatamente sostituiti al Governo Badoglio nella repressione, non potendo tollerare moti di alcun genere nelle loro retrovie.

Raccolte queste notizie ho chiesto, tanto all’ambasciatore Cerutti quanto all’amico De Gasperi, se avessero potuto cogliere il pensiero del Guariglia circa il suo atteggiamento verso gli Alleati.
Dalle abili risposte del Ministro nulla di certo è trapelato.  Il Guariglia – che è spirito sottile – ha detto di aver potuto facilmente impegnarsi sul suo onore di non trattare con gli Anglo – americani (l’impegno era richiesto solennemente ai tedeschi nel convegno di Tarvisio) giacchè con un nemico che chiede la “resa senza condizioni”, non si può, per la contraddizione che è nelle parole, “trattare”.  La risposta, dunque, esclude le trattative, ma non esclude i sondaggi. Ed è da credere che sondaggi ci siano, e che mirino ad aprire una vera trattativa».

(Ivanhoe Bonomi, Diario di un anno. 2 giugno 1943 – 10 giugno 1944, Castelvecchi ed., 2014, prima ed. 1947, in anteprima pagine non numerate).

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Non ci si può meravigliare, quindi, che in una situazione di questo tipo, truppe entrassero e fossero entrate in Italia anche prima dell’8 settembre 1943, ma non per occuparla, essendo ancora alleata. La storia della gloriosa resistenza all’occupazione della caserma Italia è altra storia, che si colloca dopo l’8 settembre 1943, data in cui venne reso noto l’armistizio di Cassibile.

E per ora mi fermo qui, rimandando il lettore che è giunto sino a questo punto al prossimo articolo sul volume da cui ha preso origine questa mia riflessione e ricordando, a chi voglia scrivere la storia dal 1943, che molti furono i fatti che accaddero dal primo gennaio di quell’anno.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://anpi-lissone.over-blog.com/article-agosto-1943-il-convegno-di-tarvisio-91888187.html, e ritrae Corso Vittorio Emanuele a Milano dopo un bombardamento anglo-americano, quando l’Italia era ancora alleata di Hitler.

 

 

 

 

 

 

 

 

Comunicato del “Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferiche”.

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Mi è giunto il comunicato dal CISADeP “Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferiche” il comunicato steso dopo l’incontro con il Dott. Giuseppe Amato, Capo della Segreteria Tecnica del Ministro della Salute Giulia Grillo del 22 Novembre scorso per discutere e denunciare la drammatica situazione di tutti i presidi ospedalieri delle aree disagiate, montane, insulari e ad alto rischio sismico di tutte le regioni Italiane, che qui riporto, ringraziando, e su cui riflettere.

«COMUNICATO A SEGUITO DELL’INCONTRO AL MINISTERO DELLA SALUTE DEL 22 NOVEMBRE 2018

In data 22 Novembre a Roma presso la sede del Ministro della Salute, una delegazione del CISADeP, guidata dal Presidente, Emanuela Cioni (Emilia Romagna), Don Francesco Martino (Molise), Flavio Ceccarelli, Valerio Bobini, Piero Tiezzi, Eva Giuliani (Toscana), Teresa De Santo e Antonio Amatucci (Basilicata) ha incontrato il Capo della Segreteria Tecnica del Ministro GiuliaGrillo, Dott. Giuseppe Amato e due funzionari del Ministero, la Dott.ssa Laura Vinci e l’Avv. Maria Romana Mastrangelo per continuare il dialogo iniziato il 21 Novembre 2017 con la struttura tecnica del Ministero della Salute tendente ad ottenere un ripensamento e una modifica sostanziale, a mezzo chiarificazioni, modifiche ed integrazioni del D. M. 70/2015 sui servizi sanitari ospedalieri e territoriali nelle aree periferiche e particolarmente disagiate d’Italia per garantire veramente una vera emergenza urgenza, un vero percorso nascita, una vera garanzia di servizi di supporto, una vera struttura ospedaliera di garanzia per raggiungere la tutela della salute prevista dall’art. 32 della Costituzione, oggi non garantito nelle periferie.

Ad un anno di distanza dall’incontro avuto con i tecnici del Ministero della Salute che si occupano delle aree periferiche e svantaggiate e delle problematiche delle Strategie Nazionali delle Aree Interne con la delegazione CISADeP, come si evince dalle criticità che abbiamo rappresentato in quella sede, la situazione dei servizi di emergenza/urgenza, della riconversione dei presidi montani e ultraperiferici che potrebbero essere riconvertiti in presidi di area particolarmente disagiata, dei servizi sanitari periferici è decisamente peggiorata in tutta Italia.

Il CISADeP, ha consegnato al Dott. Giuseppe Amato e al suo staff, come documento di lavoro, la sua PIATTAFORMA PROGRAMMATICA, tutta una serie di proposte complessive e poi anche delle proposte in merito al Percorso Nascita in aree disagiate e periferiche.
Il CISADeP si augura siano prese in considerazione dal Ministro della Salute e dal Governo tutto per una definizione da parte della Conferenza Stato Regioni, il CISADeP chiede inoltre che, anche in caso della completa devoluzione della sanità alle regioni, progetto al quale sembra stia lavorando il Ministro per gli Affari Regionali a cominciare da Lombardia e Veneto, la questione della sanità nelle aree disagiate e periferiche del paese, essendo questione di garanzia di uguaglianza tra i cittadini viventi in condizioni di disagio maggiore nelle aree periferiche ed ultraperiferiche nonché disagiate e particolarmente disagiate del paese, in base all’art. 32 della Costituzione, rimanga come definizione degli standard e dei servizi competenza dello Stato.

Inoltre, nella chiarificazione del D.M. 70/2015, il CISADeP, in merito agli ospedali di area particolarmente disagiata chiede si elimini il principio di discrezionalità del “possono prevedere” sancendo il principio dell’obbligatorietà “devono prevedere”.
In merito al cosiddetto Decreto Lorenzin sui punti nascite in aree disagiate il giudizio, elaborato il riordino della materia della sanità delle aree particolarmente disagiate e periferiche del paese, sia affidato, in base alle chiarificazioni approvate, esclusivamente al Comitato Nazionale per il Percorso Nascita presso il Ministero della Sanità.

L’interlocuzione è stata positiva. In un clima di grande ascolto, il presidente Emanuela Cioni ha introdotto l’incontro, mentre Eva Giuliani, Valerio Bobini e Piero Tiezzi hanno presentato la situazione Toscana, Teresa De Santo ed Antonio Amatucci la situazione dell’ospedale di Chiaramente, (Basilicata) non riconosciuto di area particolarmente disagiata e la vicenda relativa al ricorso al Presidente della Repubblica. È stato alla fine il Segretario Francesco Martino a fare la  sintesi di cui sopra e a descrivere la situazione ed entrare nel dettaglio delle criticità delle altre regioni Italiane.

Il Dott. Giuseppe Amato, considerando proficuo l’incontro, ha assicurato l’impegno del Ministro sia per i problemi presentati, come anche di lavorare, per quanto di competenza, per arrivare in un percorso condiviso con le Regioni, ad una definizione normativa e legislativa più chiara per le aree disagiate e periferiche del paese, che tuteli effettivamente il diritto alla salute in questi territori sancito dall’art. 32 della Costituzione, a partire all’approfondimento e dall’analisi delle proposte presentate dal CISADeP su tutta la materia, dall’emergenza urgenza, agli ospedali di area particolarmente disagiata, alle strutture ospedaliere nelle aree terremotate e nelle isole, alle strutture territoriali, ai punti nascita e servizi sostitutivi.

In montagna, nelle zone disagiate e periferiche si accendono sempre meno luci conclude la Presidente del Coordinamento Nazionale, Emanuela Cioni, vogliamo vedere riaccendersi tante luci e tanti giovani devono ritornare a vivere in questi territori e, dobbiamo rassicurarli e promettere loro che i servizi primari (le scuole i trasporti e la sanità) saranno tutelati; non dobbiamo mai abbassare la guardia, ecco perché abbiamo chiesto al Ministero di vigilare costantemente su quelle regioni che in questi anni gli è stata concessa la “liberta’” di tagliare i tanti servizi.

La Presidente infine ringrazia di cuore l’On. Chiara Gagnarli per l’impegno costante mostrato per aver favorito questo incontro.

La Presidente del CISADeP

Emanuela Cioni

COORDINAMENTO ITALIANO SANITA’ AREE DISAGIATE e PERIFERICHE – Sede Sociale:Piazza Vittorio Veneto, 11 Porretta Terme – 40046 Alto Reno Terme (BO).
C.F. 91393800379   IBAN :IT 30 S 08472 05533 051000655655   E mail: cisadep@gmail.com       Pec: cisadep@pec.it»

Chiederò ora al Coordinamento se mi può inviare il testo consegnato al dott. Giuseppe Amato, per porlo qui. Laura Matelda Puppini

 


Invito all’incontro: La montane dai Sants: alluvione 2018. Isis “Fermo Solari”– Tolmezzo, 1 dicembre 2018.

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Mi è giunto questo avviso da Legambiente Carnia, che volentieri pubblico, invitandovi a partecipare. L’incontro si svolgerà a Tolmezzo, dalle 9 alle 12, presso l’aula magna dell’isis Fermo Solari, sabato 1 dicembre 2018. Sono previsti interventi di Francesco Brollo, sindaco di Tolmezzo  e attuale presidente Uti; Marco Virgilio, giornalista; Massimo Valent geologo; Flavio Cimenti, ispettore forestale; Matteo Cuffolo, ingegnere ambiente e territorio; Alberto Candolini, biologo ambientale. Modera Caterina Ferri. Laura Matelda Puppini

Laura Matelda Puppini

Marco Virgilio su: La montana dei Santi, alluvione 2018. Una cosa così non si era mai vista prima, davvero.

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Il primo dicembre sono andata ad ascoltare il convegno “La montane dai Sants: alluvione 2018. Conoscere e capire per saper gestire”, che si è tenuto presso l’isis Fermo Solari di Tolmezzo. Sono intervenuti, all’inizio dell’incontro, il sindaco di Tolmezzo Francesco Brollo e la dirigente scolastica Manuele Mecchia, ma, avendo un impegno improrogabile alle ore 9, non sono riuscita a sentirli e mi scuso con loro e con altri che avessero preso la parola prima di Marco Virgilio, con cui inizia la mia registrazione. Quindi, sono intervenuti, nell’ ordine: Massimo Valent geologo; Flavio Cimenti ispettore del corpo forestale regionale; Matte Cuffolo ingegnere ambiente e territorio; Alberto Candolini, biologo ambientale. L’incontro è stato diviso in due parti: la prima intitolata: ‘Gli eventi e gli effetti sui versanti e sulle vallate, la seconda: ‘Torrenti, fiumi ed aree goneali’. I vari interventi erano supportati da interessanti immagini in sequenza, ma spero di rendere i concetti ugualmente.

Riporterò ogni intervento con un articolo, per non rendere la lettura difficoltosa. Questo è il primo.

MARCO VIRGILIO- GIORNALISTA, METEOROLOGO, OPERATIVO A TELEFRIULI. 

Qualcuno ha sottolineato come un’alluvione, accompagnato da vento così forte come quello avvenuto alla fine di ottobre e primi giorni di novembre 2018, nella montagna friulana non si fosse mai visto, ed in realtà è vero, perché non c’è mai stato. Ed anche la raffica di vento di Monte Rest, che ha toccato i 202 chilometri orari, è certamente importante, ma neppure quella ha distrutto gli alberi come è successo in certe vallate della Carnia. Ma, recatomi in val Pesarina con l’ispettore forestale Flavio Cimenti, per una analisi dei boschi distrutti, ho notato un aspetto molto interessante. Tutta la zona che va da Piani di Casa a Forcella Lavardet aveva gli abeti ed anche i faggi completamente distesi, mentre in altri luoghi vi erano pure piante spezzate e sradicate, ma ciò poteva dipendere dal terreno.

Quello che stupiva lì era che tutti gli alberi avevano la punta rivolta verso la direzione del vento. E si capiva che non erano stati abbattuti dalla raffica di vento di scirocco ma da qualcosa d’altro, cioè dal modo in cui si era mosso il vento. Un vento con raffiche a 200 chilometri orari aveva raggiunto le montagne di Sauris, a sud della val Pesarina e le aveva superate in parte cadendo, in parte ondulandosi a ricciolo di burro, e facendo il rotore in discendenza totale sul versante opposto, in zona ‘Creton di Clap’, e precipitando pure in caduta, investendo gli alberi da nord e distendendoli.

In altre zone, invece, nel corso dell’alluvione, sono avvenuti fenomeni di turbolenza locale, come per esempio in val VIsdende, già Veneto, dove vi è stata una distruzione incredibile di bosco. Ma la Val Visdende ha una zona di ingresso molto stretta, che poi si apre a ‘V’, ed in quel corridoio il vento, probabilmente, si è incanalato benissimo, ed ha prodotto un ‘effetto Venturi’ che, unito a effetti di caduta, ha creato un disastro ambientale.

È sicuramente piovuto tanto, ma certamente meno che nel 1966, ed è piovuto sino in cima alle montagne carniche, prive di neve. Ed è piovuto tanto per la montagna mentre in pianura, ma anche a Musi e Barcis, è piovuto molto meno. Questa volta le piogge sono state trasportate dai venti all’interno delle zone alpine, che in genere sono esenti da fenomeni piovosi della portata di quelli dell’alluvione 2018. Sappada ha avuto quasi 600 millimetri di pioggia in una manciata di giorni, come del resto Cave del Predil. Quindi vento e alta piovosità hanno scatenato, in particolare nella zona Sauris Sappada, Val Pesarina, qualcosa che ha inciso in modo importante sull’intero territorio. Ma questo evento verrà ricordato, più che altro, per la forza del vento.

Virgilio ha detto, poi, che non si può sostenere, tra l’altro senza avere alcun termine di confronto, ma basandosi solo su evento nuovo, che quanto accaduto alla fine del mese di ottobre e primi giorni di novembre in Carnia e sulla montagna Veneta sia il frutto del riscaldamento climatico, ma indubbiamente, allora, il Mar Mediterraneo era estremamente caldo da mesi, e c’erano stati ben tre cicloni simil-tropicali nell’ arco di un mese, che avevano colpito la zona tra il Tirreno e la Grecia. Come non pensare che questo sia un segnale che qualcosa non va, che non tutto è come prima? Ed anche l’erba verde a Sappada nel mese di novembre, sta a dimostrarlo.

Ed anche in Carnia ed in Friuli il mese di ottobre è stato caldissimo, con temperature di tre, quattro gradi sopra la media, ed il Friuli ha avuto un periodo, da metà aprile ad oggi, sistematicamente al di sopra delle temperature medie stagionali. E proprio nell’Artico e nel Mediterraneo, che sono le cartine di tornasole del pianeta, si sono verificate, nel corso dell’anno, temperature molto più alte della media. Meno risentono invece gli Usa dell’innalzamento delle temperature, per questioni di circolazione atmosferica.

Immagine da: https://www.ilfriuliveneziagiulia.it/legambiente-friuli-venezia-giulia-sui-disastri-del-maltempo-non-sottovalutare-i-cambiamenti-climatici/.

Qualcuno ha detto che questo è un fenomeno che rompe con il passato e apre ad un futuro ancora ignoto, e si può concordare su questa considerazione. E probabilmente ci si dovrà abituare ad avere fenomeni frequenti di questa portata nei prossimi decenni. E sarà meglio fare subito qualcosa per arginare il progredire veloce del riscaldamento climatico, perché, altrimenti, i figli dei nostri figli avranno a che fare con una situazione che la terra non ha mai vissuto prima, dato che, alla fine del 2100, è previsto un aumento della temperatura della terra di 6 °. E l’aumento vertiginoso delle temperature, e l’uscita della terra dal suo ciclo climatico, sono dovuti, principalmente, all’industrializzazione.

Il vero problema quindi non è il mutamento, ma la velocità con cui si sta realizzando, dove ci porterà, e l’adattamento dell’uomo e di flora e fauna alla nuova situazione. E questo ce lo dicono in particolare la natura e gli animali: qui è ritornato dopo mezzo secolo il castoro, specie arrivano da climi più caldi si adattano a vivere qui, piante salgono di quota, la vita marina muta, i ciliegi sono fioriti due volte, i girasoli sono ricresciuti due volte, e nessuno può per ora sapere cosa potrebbe succedere nel 2100.

L’ atmosfera è un sistema delicato, e non è poi così difficile influire sulla stessa, e non dobbiamo dimenticare che ci sono sei miliardi di uomini a vivere sulla terra, con un consumo e fabbisogno energetico in aumento, mentre continuiamo a bruciare gas ed elementi fossili che la natura ha incamerato in tre quattrocento milioni di anni. Ed alla fin fine trattasi di energia solare che l’uomo ha messo in circolo nell’ atmosfera in una cinquantina d’anni, ed in particolare sta emettendo adesso. 

Infine, per ritornare al Friuli, esso è una delle zone più sensibili alle variazioni climatiche, e questo 2018 resterà, per il nostro territorio, uno dei più caldi della sua storia. I climatologi dicono che il Mar Mediterraneo tende alla desertificazione, cioè all’inaridimento. In Friuli, per quanto riguarda la zona alpina, vi saranno piogge di maggiore intensità ma più concentrate nel tempo. Per esempio, ad ottobre vi sono stati 20 giorni senza una goccia ed è piovuto solo tre volte, ma nel corso dell’ultimo episodio, in tre giorni si è riversata sul territorio una quantità di acqua pari a due o tre volte quella media del mese.
Insomma, si va verso eventi piovosi più rari ma più intensi e quindi devastanti, come nella montagna carnica sta già avvenendo, mentre parallelamente si alza il livello altimetrico delle nevi. Ma mentre la terra può vivere senza di noi, noi non possiamo vivere senza la terra.

I giovani devono prendere coscienza di queste problematiche e non seguire certi anziani che lo sottovalutano, e che dicono che il cambiamento climatico è una fola, ma non è così, basta pensare al Friuli- Venezia Giulia con 26 gradi e le maniche corte ad ottobre, per capirlo.   

Immagine da: https://www.valigiablu.it/trentino-friuli-veneto-maltempo/

In sintesi Marco Virgilio ha chiarito, con interessanti immagini, come si sono formate le eccezionali situazioni metereologiche della fine di ottobre e primi di novembre, e come non sia stata solo la velocità del vento ad aver abbattuto gli alberi, ma il suo tragitto, il suo movimento.  Inoltre, ha sottolineato la strana situazione meteorologica creatasi fra Italia e Francia, ha ricordato le temperature alte per un tempo lungo mai viste prima sul Mediterraneo, ha puntato il dito anche sulle modificazioni meteorologiche presenti sul pianeta, come concausa di un aumento dei danni ed una tipicità di fenomeni, con giorni e giorni di secco seguiti da piogge intense, più intense che in passato. Ciò ha prodotto una serie di problematiche che hanno generato gli ultimi fenomeni atmosferici che hanno colpito in modo massiccio in particolare la montagna, con una intensità e caratteristiche mai viste in precedenti alluvioni.

Laura Matelda Puppini

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Io ho registrato, ascoltato, riportato l’intervento di Marco Virgilio, che ringrazio per quanto ci ha narrato. Laura Matelda Puppini

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Storia. Quel terribile ’42-’43, periodo di svolta in Italia.

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Vorrei riprendere qui il discorso sul 1942- 1943, dedicando questo testo a quelli che continuano a citare il 1943 facendolo iniziare dopo l’8 settembre invece che il 1° gennaio, dimenticandosi molte cose, e magari non ben descrivendo altre. E va beh’ revisionismo, ma …. E vedremo come il ’43 fu preceduto dalla fine del ’42, quando apparati industriali e statali incominciarono ad isolare Mussolini.

Questa volta mi servirò per narrare alcuni fatti del volume di Roberto Battaglia “Storia della Resistenza italiana, 8 settembre 1943- 25 aprile 1945”, Einaudi 1964.  

La guerra aveva ancora una volta mostrato i limiti di armamento e preparazione del R.E. I. ed aveva fatto salire i prezzi del 112%, rispetto al periodo precedente l’inizio del conflitto, mentre i salari erano rimasti bloccati all’anteguerra, ed avevano perso parte del loro valore reale. (Roberto Battaglia, op. cit., pp. 17-19). Inoltre, anno dopo anno, si era venuto a creare un pauroso deficit nel bilancio statale mentre «i gruppi monopolistici italiani […] prosperavano fra la generale miseria». (Ivi, p. 19). Tanto per fare alcuni esempi: prima della guerra d’ Etiopia il capitale della Montecatini ammontava a 300 milioni, nel 1942 aveva raggiunto i due miliardi e 500 milioni, quello della ‘Terni’ era passato da 645 milioni ad un miliardo e 500 milioni, e via dicendo. (Ibid).

Nel maggio 1942, il Consiglio dei Ministri fascista affermava, demagogicamente, di voler incamerare, sotto forma di Buoni del Tesoro, i maggiori utili derivati dalla guerra, ma prevedeva subito di non farlo per il 20% dei proventi ricavati dalle grandi società sorte per fusione, dando un’ulteriore decisiva spinta alla concentrazione del capitale finanziario, che fu uno degli scopi che il fascismo seguì nel ventennio. (Ivi, pp. 19-20).

Ma, fin dagli ultimi mesi del 1942, si iniziarono ad intravedere nuovi scenari, ed il tentativo, da parte della vecchia classe dirigente italiana di separare le responsabilità, cercando di far ricadere unicamente su Mussolini ogni causa della situazione venutasi a creare. «Per la prima volta – scrive Battaglia – la vecchia classe dirigente, responsabile e complice del fascismo, dà cenno, in questo periodo, di meditare lo sganciamento del regime, tentando di separare le proprie responsabilità da quelle di Mussolini». (Ivi, p. 23).

E così si poteva leggere sulla rivista americana “Life” il 14 dicembre 1942: «La netta tendenza in seno al regime fascista è di liberarsi di Mussolini e dei filo-tedeschi, ma di conservare il sistema. Oggi questa è l’idea dei grandi industriali italiani condotti, a quanto viene riferito, da Ciano, dal conte Volpi, dal sen. Pirelli. In altre parole, un cambiamento dal fascismo pro- tedesco in un fascismo pro- alleati. I gerarchi fascisti sono molto impressionati dal fortunato voltafaccia di Darlan (1) da Vichy verso gli Alleati» (Ivi, pp. 23-24).

E vi era chi, all’epoca, riteneva che il primo suggerimento a sposare la nuova politica del “passaggio graduale” avesse avuto origine in Vaticano, ove pare si fosse pure parlato dei nomi dei candidati per il nuovo governo. (Ivi, p. 24). E correvano molte voci pure dopo il colloquio fra il portavoce di Roosvelt, Miron Taylor, e il Papa avente come oggetto la sistemazione da dare all’ Europa dopo la vittoria, ma anche all’ Italia, per cui pare si fosse proposto un governo a guida Federzoni o De Stefani. (Ivi, p. 24).

E quindi si può dire che il Vaticano stesso non avesse atteso l’acutizzarsi della crisi per iniziare la cauta manovra di sganciamento dal regime. (Ibid.).

Ma anche gli Inglesi sposavano la nuova tendenza di addossare la responsabilità della politica filo-tedesca unicamente al Duce. Lo stesso Churchill, nel suo discorso pronunciato alla radio il 30 novembre 1942, aveva ammonito l’Italia sulle gravi conseguenze se avesse perseverato nella guerra a fianco di Hitler, ed aveva ribadito uno dei suoi slogan preferiti: «Un uomo, un uomo soltanto ha portato l’Italia fino a questo punto», ed il riferimento a Mussolini era chiaro. (Ivi, p. 23). Non si deve credere però, per questo, che Churchill fosse un antifascista, ma l’Inghilterra voleva riabilitare la Monarchia e togliere palesi responsabilità al fascismo, o meglio a uomini compromessi con il fascismo che si adoperavano a voltare pagina. (Ivi, pp. 23-24). Non solo: iniziava, alla fine del ’42, anche il tentativo di sganciamento dalla politica che aveva creato l’asse Roma- Berlino, dell’apparato statale, delle istituzioni asservite al regime, ma ormai ben orientate a distinguersi da esso ed a cercare di riacquistare una nuova autonomia o meglio, una nuova verginità. (Ivi, 25). Ma non bisogna dimenticare che alcuni ufficiali dell’Esercito Italiano non avevano mai amato molto il fascismo, in particolare dopo la creazione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e dopo le dimissioni di Badoglio, e che i soldati mandati a morire in guerra lo aborrivano, anche se esistevano militari fascistissimi che picchiavano, depredavano uccidevano, torturavano, per esempio in Grecia, pastori, donne, bimbi, vecchi. (Ivi, p. 41, e “Propongo la visione di: “Fascist legacy» da History Channel”, in: www.nonsolocarnia.info).

E poi come dimenticare Stalingrado, l’eroica?

Soldati sovietici esultano a Stalingrado.

A fine 1942- inizi 1943, quindi, con la sconfitta della Russia e quella tragica ritirata che in Italia si voleva nascondere, si era giunti ad un punto di rottura con il passato, anche all’ interno del fascismo, mentre nel marzo ’43, gli operai scendevano in sciopero, un lungo e grandioso sciopero che portava venti di novità, facendo impensierire la chiesa, timorosa di sovvertimenti sociali ed ansiosa di riprendere, con il fascismo sulla difensiva, la teoria del ventilato “pericolo rosso”. Non per nulla, in fondo, i camerati cantavano “All’arme siam fascisti, a morte i comunisti!”, non per nulla il fascismo era sorto come il braccio armato di industriali ed agrari, contro il pericolo rosso.

Ma nonostante tutto, il comunismo e l’antifascismo anche non comunista (si pensi ad Aldo Capitini, per esempio, che, religiosissimo, non volle giurare al fascismo) non erano mai morti, mentre si veniva creando un movimento antifascista “di guerra”, che andava in crescendo, formato da soldati che non avevano mai vissuto la guerra come propria, che si poneva al fianco di quello politico, mentre la popolazione incominciava a passare dalla rassegnazione al rancore, alla ribellione latente. (vi, p. 37).  La spinta ad unirsi delle forze antifasciste diventava via via sempre più forte, mentre gruppi sia comunisti che cattolici e di diversa matrice si andavano formando in Umbria come a Milano, ed intorno ai confinati del “governo di Ventotene”.  (Ivi, p. 35).

Ma già nell’ottobre 1941, Silvio Trentin si era fatto promotore, insieme ai comunisti ed ai socialisti, del patto di unità di azione antifascista, conosciuto come “Manifesto di Tolosa”. (http://www.dircost.unito.it/altriDocumenti/docs/NI__progettoCostituzioneTrentin.pdf).   

Per quanto riguarda i militari, sentivano sempre più un senso di «disfacimento organico», in quella assurda guerra, la mancanza di ideali profondi, e andavano cogliendo gli amari frutti della patria fascista. (Ivi, p. 39).  

Anche questo fu il 1943, posto fra il 1942, ed il 1944. Infine, non si possono scrivere testi sul movimento resistenziale che prese forma decisa e militare dopo l’8 settembre 1943, dimenticando il contesto di una guerra mondiale, il prima ed il poi. 

Laura Matelda Puppini

(1) Francois Darlan è stato un ammiraglio e uomo politico francese nato nel 1881 morto nel 1942. Partecipò alla prima guerra mondiale e nel 1929 fu nominato contrammiraglio. Capo di gabinetto del ministro della marina G. Leygues, collaborò alla riorganizzazione delle forze navali francesi. Comandante della squadra dell’Atlantico (1934-1936), poi capo di SM generale della marina nel 1939-1940, fu comandante in capo della marina mercantile e militare nel governo Pétain, e dopo il licenziamento di Laval, assunse anche la carica di vicepresidente del consiglio e di ministro degli esteri. Fautore di una politica di collaborazione con la Germania, ebbe due incontri con Hitler, il 25 dicembre 1940 a Beauvais e il 10 maggio 1941 a Berchtesgaden; in seguito a quest’ultimo firmò a Parigi (28 maggio 1941) il protocollo Darlan-Warlimont, poi respinto dal governo di Vichy, che metteva a disposizione dei Tedeschi alcuni porti francesi in Africa. Il 10 dicembre 1941 si incontrò con Ciano a Torino. Al ritorno di Laval al governo (aprile 1942) si dimise da tutti gli incarichi governativi, ma rimase comandante in capo delle forze armate. Trovatosi ad Algeri al momento dello sbarco alleato dell’8 novembre 1942, con brusco voltafaccia il 10 concluse un armistizio col comando americano e il 13 ordinò alle truppe francesi di battersi contro le forze dell’Asse, ma poi fu sconfessato da Pètain. Poco dopo venne ucciso ad Algeri (24 dicembre) da un giovane francese, Bonnier de La Chapelle. (http://web.tiscali.it/alexanderbauer/darlan.htm).

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L’immagine inserita nell’articolo è tratta da: http://www.artspecialday.com/9art/2018/02/02/battaglia-di-stalingrado-resistenza/, quella che lo accompagna ha come didascalia: Di Bundesarchiv, Bild 183-R76619 / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 de, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5368542. Laura Matelda Puppini. 

 

 

Ira Conti. Storie fornesi, per ripartire da scuole e biblioteche, fra proteste, proposte, e tisana party.

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Ho chiesto io a Ira, volontaria e cittadina attiva, di scrivermi la storia un po’ intricata della biblioteca di Forni di Sotto e mi ha accontentato. Ecco il testo che mi ha inviato, che sottolinea l’importanza della cultura e dell’istruzione per guardare in modo aperto al futuro.

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«Di fronte alla tracotanza, prepotenza e disumanità di una classe dirigente grottesca e incurante del ridicolo, la mente a volte vacilla; come possono persone adulte, forse con un titolo di studio, immaginare un mondo monocolore? Come possono giungere a togliere ai bambini le bambole di un colore sgradito e selezionare i giocattoli affinché non abbiano nessuna valenza “etnica”? Siamo alle prese con le peggiori pulsioni espresse dalla nostra specie, quelle stesse pulsioni che in passato hanno portato anche alle camere a gas, iniziando sempre il loro sporco lavoro nelle scuole e nei luoghi di cultura.

Tralasciamo in questa sede chi fomenta e manovra codesti bassi istinti e poniamo l’attenzione sui possibili anticorpi; certo, la malattia è grave, rende ciechi e furiosi come zombie, ma come possiamo combatterla?
Tralasciamo pure coloro che avrebbero avuto gli strumenti politici per impedire di arrivare a tanto e non li hanno utilizzati, permettendo l’apertura di porte che credevamo sigillate per sempre e arriviamo, finalmente, a noi, gente comune, cosa possiamo fare? Come superare lo sbigottimento e la sensazione di impotenza? Dove attingere forze e conoscenze?

Per farlo vi racconto una storia, la storia della piccola biblioteca di Forni di Sotto.

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La Biblioteca Nora Tani Vidoni, frutto di un generoso lascito, per anni venne gestita per lo più dai volontari e saltuariamente da qualche giovane a progetto; essi aprivano la biblioteca al pubblico, organizzavano eventi, curavano il patrimonio librario.
Ma un bel giorno dell’anno 2014, la volontaria di turno trovava sulla porta della biblioteca un cartello con nuovi orari di apertura. In questo modo poco ortodosso, veniva così comunicato al gruppo di volontari che la gestione della struttura era stata loro tolta e affidata, dietro compenso, alla moglie di un assessore comunale. Da maggio a settembre di quell’anno la biblioteca non organizzerà più un solo evento, dopo di che la struttura comunale rimarrà chiusa e il paese si troverà privato della propria biblioteca.

Dopo la chiusura, il Sindaco di Forni di Sotto, l’architetto Lenna Marco, convocava in municipio una riunione con i volontari e componenti della Commissione Biblioteca e, sfidando il senso del ridicolo, declamava che da quel momento la biblioteca stessa avrebbe dovuto “alleggerirsi” di moltissimi libri per “diventare una biblioteca monotematica del design”.
Quella dichiarazione provocava immediatamente lo sbigottimento delle persone presenti all’incontro, incerte di aver ben capito, che si ponevano la domanda che sorgeva spontanea: “ma cosa ce ne facciamo di una biblioteca del ‘design’ a Forni di Sotto?” Ma la domanda rimase senza una risposta ragionevole, mentre il sindaco faceva seguire alla stessa solo uno strano discorso a proposito di un “pericolo incendi” dato dalla presenza dei libri nella struttura…

Ed il Sindaco si lasciava sfuggire, in quell’occasione, anche qualcosa a proposito della “mancata riconsegna delle chiavi”; ma certo, nessuno le aveva mai riconsegnate perché nessuno era mai stato congedato dalle proprie funzioni, né alcuno aveva mai manifestato questa nuova e originale interpretazione circa il “valore culturale della struttura e della filosofia del lascito”: una biblioteca del design!
Atterriti, i volontari ed i componenti al Commissione biblioteca guardavano la bandiera del “restyling funzionale”, sventolare sopra la biblioteca ormai deserta. Nessuna discussione possibile, solo una comunicazione di servizio. I volontari, liquidati, si facevano da parte in silenzio, la Commissione biblioteca istituita anni prima si scioglieva e la Biblioteca Nora Tani Vidoni, nel dicembre 2014 chiudeva i battenti.

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Su internet, poco tempo dopo, si leggeva che il Sindaco aveva affermato, nel corso di un consiglio comunale, che la biblioteca era diventata, ai tempi dei volontari, un centro di fermento della vita politica ed ecologica più oltranzista. Il che creava ancor più stupore perché, a parte l’idea risibile della biblioteca quale covo di sedizione e rivolta sociale, quando mai il sindaco Lenna aveva concesso l’onore della sua presenza? Eppure, tutti a Forni di Sotto sanno che egli collabora sempre con molto impegno nelle feste di borgata, ma, che si ricordi, egli ha partecipato solo un paio di volte ad un evento culturale organizzato dai volontari della biblioteca!

E che dire, poi, del suo atteggiamento poco rispettoso dell’impegno altrui, nel liquidare tutti i volontari senza nemmeno una parola di commiato, un riconoscimento del lavoro svolto, una spiegazione, semplicemente facendo trovare loro un cartello con i nuovi orari di apertura apposto sulla porta?

Nonostante tutto, i congedati speravano ancora di veder riaprire la biblioteca comunale, magari in una nuova veste, magari gestita da qualcuno di fiducia del Sindaco, comunque di vederla riaprire. Invece trascorreva l’inverno, trascorreva l’estate e giungeva l’autunno 2015 senza che si muovesse foglia.
In concomitanza a questi avvenimenti, si riuniva un gruppo di cittadini preoccupati dal  modo di gestire gli sfalci dei prati di Forni, con la preponderante presenza di un’impresa di Dobbiaco che, appoggiata da alcuni imprenditori del paese si comportava come se fosse proprietaria di tutti i terreni agricoli, che si si attivava al fine di contrattare e regolamentare l’accesso ai terreni stessi; ma questa è un’altra storia.
Il medesimo gruppo, poi, allarmato dal silenzio che circondava la biblioteca, decideva infine di agire per smuovere l’Amministrazione comunale e spingerla a riaprire la struttura: venivano così organizzati i “Tisana party” (da non confondere con i “tea party” di americana memoria).

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Ogni sabato mattina alle 11, armati di termos e biscotti, i volontari della biblioteca si trovavano nello spazio antistante il Comune e la Biblioteca e lì conversavano e si scambiavano libri.

Alcuni paesani partecipavano, altri osservavano incuriositi, altri ancora camminavano rasente ai muri guardando altrove: essi erano la fotografia della nostra società anche attuale, con i suoi cittadini coraggiosi o indifferenti ed i suoi quaquaraquà: nulla di nuovo sotto al sole.

E che ci fosse sole, pioggia o vento, la cosa andò avanti per tutto l’autunno e l’inverno, senza che mai qualcuno dell’Amministrazione si avvicinasse o interloquisse. Solo voci di paese riferivano di battute pesanti e di grande fastidio per l’immancabile e innocuo sit-in del sabato; ma erano solo voci di paese.
In primavera il gruppo dei tisana party si costituiva in associazione regolarmente registrata; così nasceva l’associazione di volontariato fornese “Podén”, la quale chiedeva ufficialmente al comune di poter gestire la biblioteca e riaprirla. Finalmente nel 2016, il Sindaco ne concedeva la riapertura.

Da allora il gruppo ha organizzato molte presentazioni interessanti, convegni, mostre e persino una rappresentazione teatrale in memoria dell’incendio nazifascista del maggio 1944; ha collocato e prestato libri vecchi e nuovi, ha lavorato con i bambini delle scuole e con gli anziani del centro diurno di Forni di Sotto, ricevendo spesso apprezzamenti da varie parti ma mai dall’ amministrazione comunale, mentre il Sindaco è giunto in biblioteca in occasione delle prime due presentazioni, poi mai più.

Si deve però riconoscere che il Comune ha fornito la materia prima per i piccoli rinfreschi che seguono ogni evento ed ha concesso il patrocinio alle iniziative, ed è sempre stato ringraziato per questo. Ma in occasione di un ufficioso e sommesso rimprovero per la sua assenza alla presentazione del vocabolario di dialetto fornese scritto da Erminio Polo, il sindaco ha palesato la sua sensazione di “non sentirsi benvenuto” in biblioteca, senza però supportare la propria affermazione con un qualsiasi episodio o fatto concreto.
Contrariamente alla sua impressione invece, tutti noi di “Podén” saremmo felicissimi di accoglierlo nella “sua” biblioteca; infatti, pensiamo che un Sindaco debba essere sindaco di tutti, anche di coloro che gli sono poco simpatici.

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Questo è il clima in cui i volontari di “Podén” offrono il loro piccolo contributo alla comunità di Forni di Sotto, questo è lo spirito con cui le persone che amministrano il nostro paese osservano e supportano ciò che si muove nella società civile; non attraverso un giudizio di merito ma sempre in forza di un pregiudizio personale, di una simpatia o antipatia, di una critica o di un appoggio alle scelte della giunta in carica.
Forse capita che alcune persone associno i libri con la facoltà di pensiero e con la volontà di opposizione, ma una cosa hanno certamente ben chiaro nel loro agire: che la società si cambia, in peggio o in meglio, a partire dalle scuole e dalle biblioteche, ed anch’ io penso così.

Ed è proprio per questo motivo che scuole e biblioteche sono così importanti, perché da lì proviene l’anticorpo principale contro la barbarie: si chiama cultura e forma le coscienze.

Ira Conti dell’Associazione di volontariato Podén».

 

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Ora, dopo aver letto il testo di Ira, non capisco perché spesso si giunga a screzi di questo tipo in Carnia, mentre il lavoro del volontariato deve venir valorizzato, riconosciuto supportato. Inoltre a Forni di Sotto vi è anche la sala Azzurra, ben più capiente della biblioteca, dove si è tenuto lo spettacolo intitolato “Cenere”, sull’incendio di Forni di Sotto per mano nazifascista, che sarebbe interessante fosse replicato all’Alpina di Comeglians, per esempio, ma anche a Tolmezzo al Luigi Candoni, che andrebbe valorizzata e maggiormente utilizzata.

E i tisana party, con scambio o regalo di libri personali già letti, potrebbero diventare una peculiarità turistica per Forni di Sotto d’estate, come la lettura di qualche testo di Erminio Polo, che in un modo o nell’altro ha rappresentato in diverse situazioni e con i suoi volumi il paese.

Siamo stati forse troppo litigiosi talvolta in Carnia, e spesso vi sono state persone che hanno subito ingiustizie paesane, ma ora non è più tempo per queste cose, se non si vuole che la Carnia muoia. Dobbiamo costruire il nostro futuro, dobbiamo unirci e proporre, come accaduto grazie principalmente a Lino Not ed alla gente di Carnia, per il piano paesaggistico regionale.

Dobbiamo alzare la testa, dimenticare il ruolo di sotàns, le piccinerie paesane, la grande politica e dobbiamo rimboccarci le maniche per rinascere, per contare ancora. Insieme si vive, insieme si propone, insieme si fa sentire la propria voce. E mi auguro di ritornare presto a Forni di Sotto e di partecipare ad un tisana party, sperando che carabinieri o la polizia municipale fermino le macchine che attraversano il paese a velocità elevata mettendo in pericolo anche i bambini che vanno a scuola, almeno così mi dicono. Laura Matelda Puppini

Massimo Valent, geologo. Su quella montagna troppo friabile e su quelle piogge intense.

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Riprendo, con questo articolo, gli interventi che si sono succeduti all’incontro “La montane dai sants: alluvione 2018” che ha avuto luogo presso l’isis Fermo Solari di Tolmezzo in data 1° dicembre 2018.

Dopo Marco Virgilio, ha preso la parola il geologo Massimo Valent.

L’INTERVENTO DI MASSIMO VALENT GEOLOGO.

Massimo Valent, geologo, esordisce dicendo che mentre il giornalista Marco Virgilio ha disegnato un quadro davvero preoccupante a livello climatico, egli proverà ad enucleare, invece, i dissesti geologici nel territorio carnico che si sono verificati nel mese di ottobre, rapportandoli a quella che è stata l’evoluzione dell’ambito montano negli ultimi dieci anni.
Quindi inizia il suo intervento parlando dei luoghi ove si sono manifestati maggiori dissesti nel mese di ottobre 2018, corredando la sua esposizione con immagini.

Il primo esempio è in territorio di Timau, in Val del But. Il torrente But a Timau, vicino alla frazione di Cleulis, ha prodotto un’erosione spondale, portandosi via un pezzo della strada statale. Ora questa erosione si è prodotta in una zona particolare, definita da una grande convessità, un conoide di accumulo prodotto dal torrente Moscardo, che scende verso il But.  Ora il torrente Moscardo è conosciuto perché è caratterizzato da frequenti colate detritiche, cioè ha un trasporto solido molto frequente e consistente. Queste caratteristiche hanno consentito al Moscardo di edificare il grande conoide di accumulo, che ha ostruito in parte il torrente But costringendolo a spostarsi sulla sponda opposta, modificandone, pure, il regime delle acque. Negli anni, dal 1700 in poi, si è cercato di frenare l’elevata dinamicità di questo corso d’acqua in vario modo, ma solo ultimamente, grazie ad opere costose e di elevata portata ingegneristica, il torrente Moscardo è stato costretto a correre sul lato meridionale del conoide. Questo è però accaduto fino agli anni settanta del secolo scorso, quando era ancora in grado di divagare, e la sua forza era ancora difficilmente controllabile. Questo per descrivere l’ambiente in cui si è verificata questa erosione.

L’erosione del torrente But ha inciso proprio parte degli accumuli che si sono verificati, nei secoli, grazie ai materiali trasportati dal torrente Moscardo. Ma come mai è avvenuta questa erosione? Dobbiamo guardare alla testata di alimentazione, cioè il punto da dove arriva questa grande quantità di detriti, formata da una testata rocciosa molto friabile, molto facile da erodere, e che produce questa grande quantità di detriti che il torrente Moscardo porta giù, verso valle.

Inoltre nel 1985 il But aveva un andamento quasi rettilineo nel settore dove è avvenuta l’erosione, ed il suo alveo era abbastanza sgombro da vegetazione. Ma vediamo cosa è successo poi. Nel 1998, ci sono degli indizi di accumuli proprio nel settore in cui è avvenuta l’erosione, ed è una zona che tende comunque ad accumulare materiale a causa dell’interferenza del Moscardo. Ma vediamo cosa è successo poi negli anni.

Si vede, a monte del punto ove è avvenuta l’erosione, che si è formata un’isola, che ha determinato una deviazione del corso d’acqua verso la sua sponda sinistra. L’isola è poi diventata stabile e si è vegetata e finché il corso d’acqua aveva delle portate abbastanza “normali”, esplicava una erosione solo in un settore limitato e controllabile. Ma quando è arrivata la botta del 2018, si nota, guardando il comportamento del torrente Moscardo da monte, come l’acqua dello stesso abbia dovuto fare una curva molto consistente, a causa dell’isolotto con vegetazione stabile, e così, invece che procedere, come prima, in forma quasi rettilinea, è andato ad erodere la parte più fragile che, sebbene protetta da una scogliera, non ha resistito alla piena dell’ottobre. E l’erosione ha prodotto lo smantellamento del depuratore comunale.
Ecco che diventa quindi importante ciò che si diceva prima: il controllo costante del territorio ed il suo monitoraggio, anche al fine di una manutenzione dello stesso.

Comeglians: un altro esempio di interruzione stradale, in questo caso sul ponte. La situazione qui è stata un po’diversa da quella sopra descritta e certamente è stata causata anche dall’ uomo. Il ponte aveva alcune luci attraverso le quali passava l’acqua. In un punto, per congiungere il ponte alla sponda opposta, è stata realizzata una muratura, in una posizione, però, in cui andava ad interferire con il corso d’acqua.
I lavori iniziati dopo l’alluvione dell’ottobre novembre 2018, hanno avuto come scopo quello di cercare ampliare la sezione del corso d’acqua, anche demolendo una parte dello sperone roccioso presente sulla sponda di sinistra. Infatti esso aveva costretto il Degano, soprattutto nei momenti di piena, ad incidere la sponda opposta. Nel caso qui in esame, l’incidenza del filone d’acqua che è andato a sbattere contro questo sperone roccioso, ha determinato il rimbalzo dell’acqua dalla parte opposta, andando a colpire la muratura edificata dall’ uomo sulla spalla destra del fiume, che è stata spazzata via. I lavori per la ricostruzione del ponte, diretti dal dott. Cuffaro, hanno comportato la demolizione dello sperone roccioso, proprio per cercare di ampliare la sezione del fiume.

Immagine da: https://www.triesteallnews.it/2018/10/31/maltempo-dal-zovo-m5s-servono-politiche-contro-il-cambiamento-climatico-basta-soluzioni-tampone/maltempo-fvg-carnia/

Il terzo caso rappresenta la formazione di una frana vera e propria, ad Avaglio, in comune di Lauco.
C’è una strada, appena fuori le ultime abitazioni di Avaglio. In questa zona, anche parlando con le persone più anziane, nessuno si ricorda la presenza di una frana in questo tratto di strada. In realtà la strada passa attraverso una frana di accumulo molto vecchia, originatasi non si sa quando e che adesso, in occasione dell’alluvione di ottobre, si è messa nuovamente in moto. E qui qual è il problema? Che un fianco della frana si trova al di fuori delle case ma l’altro a ridosso delle stesse, e tutta la parte compresa tra loro, sia a monte che a valle, strada compresa, si sta muovendo lentamente, coinvolgendo pure alcune abitazioni. Sono visibili fratture sul terreno, ed è evidenziabile dai tecnici l’”orlo di scarpata” che ha prodotto l’accumulo della frana. Si stanno facendo, quindi, per la Protezione Civile, dei sondaggi del terreno, e si stanno posizionando dei sensori per verificare la profondità e l’entità del movimento.

Infatti dopo una prima rottura del versante che ha determinato le fratture che abbiamo visto, ora siamo in una fase di assestamento, e movimenti stanno avvenendo anche ora in quella zona, e stanno continuando, come avviene in presenza di fenomeni di questo tipo.

Noi ci troviamo in una zona: Fvg parte montana, che è caratterizzata da un alto rischio idrogeologico, perché ci troviamo in una situazione in cui le cause esogene, esterne, determinano questi cambiamenti. L’entità e la velocità con cui detti cambiamenti avvengono, dipende dalle caratteristiche geologiche e geomorfologiche del territorio. E la zona montana del Friuli è una zona particolarmente vocata al rischio idrogeologico. È una zona fragile, caratterizzata da masse rocciose frequenti e da superfici con masse rocciose fratturate scadenti che determinano un’elevata produzione di detriti, come a Rivoli Bianchi di Tolmezzo.
Fenomeni franosi sono estremamente diffusi sul territorio montano e pedemontano friulano, caratterizzato, pure, da una forte torrenzialità dei corsi d’acqua, con una variabilità nei regimi che cambia molto nell’arco stagionale.

Prendiamo come esempio il parcheggio del “Girarrosto” di Venzone. Nell’alluvione del 2006, un camionista aveva lasciato il rimorchio proprio sotto il conoide che ora è stato in parte sistemato, e lo ha trovato sepolto dai detriti. Ecco cosa producono le colate detritiche: tagliate che, se analizzate in senso verticale, mostrano detriti grossolani che, per questioni di peso, si accumulano alla base e poi tutto il resto cioè detriti con granulometria decrescente, si dispongono verso l’alto. E si tratta di depositi che, come i corsi d’acqua, possono raggiungere velocità molto elevate.

Dopo l’alluvione dell’83, sono stati fatti in Carnia degli studi per capire qual era la quantità di pioggia critica, cioè che quantità di pioggia è necessaria per produrre le frane. Ovviamente questa è differente a seconda di dove questa pioggia cade. Si è visto che in Carnia, generalmente, precipitazioni che nel corso delle 24 ore superano la soglia dei 250 mm, generano comunque una calamità notevole. Si stima che, dal 1925 ad oggi, ci siano stati 22 eventi che hanno superato i 200 mm nell’arco delle 24 ore, quindi uno ogni tre anni, con eventi che hanno superato questa soglia fino ad arrivare alla soglia proprio critica, quella che determina un evento catastrofico, con caduta di 250 mm di pioggia nelle 24 ore, ogni 5 – 10 anni. Fin qui dall’analisi dei dati storici. Ma aggiornando la stima si è visto come il tempo di ritorno per questi eventi catastrofici si stia accorciando, come ha anche evidenziato Virgilio. Siamo in presenza di una tendenza ad avere eventi più consistenti con tempi di ritorno più bassi.

Articolo di Laura Matelda Puppini sull’alluvione del 1692, su InCarnia n.7, settembre 2014.

Ma per ritornare all’ambiente particolare della Carnia, essa ha già subito negli anni eventi naturali anche particolarmente catastrofici. Nel 1692, per esempio, nel corso di un evento alluvionale piuttosto consistente, si è staccata una frana, quella denominata frana di Borta, che ha preso il nome dall’abitato che ha investito, e che ha prodotto anche dei morti. Il villaggio si trovava in località Caprizi, sopra Socchieve, sul Tagliamento, e fu travolto da un distacco dal monte Auda, che avvenne nell’arco di poche ore, ad incominciare dalla mezzanotte. Esso ostruì il Tagliamento che andò a colpire Borta, posta ai piedi della frana. Detto sommovimento causò un accumulo di circa 30 milioni di metri cubi di materiali, e si può dire che fu un fenomeno paragonabile a quello del Vajont, ma di origine naturale. Anche in questo caso, come in quello del Vajont, la massa che è si è staccata è risalita sul versante opposto, ed ha determinato la morte di 55 persone. Così questo piccolo villaggio è sparito e la frana ha determinato un lago a monte di questo sbarramento, dalla lunghezza di 7 chilometri, e da una profondità stimata intorno ai 50 metri.

E se andiamo a vedere oggi cosa è rimasto di quella catastrofe, vediamo ancora i limi lacustri che si sono formati sul fondo di quel lago, e che testimoniano quell’evento. Più di recente, nel 1966, si è verificata un’altra alluvione che ha determinato molti danni, ed anche in questo caso ci sono state delle vittime, 12 solo in Carnia. Nel corso di quell’alluvione, la passerella che unisce Pioverno a Venzone, fu smantellata dal colmo di piena.

E passiamo al 1983. In quell’anno vi fu un’altra alluvione che colpì la Valle del But, quella di Arta Terme, Paularo e Paluzza. Vi fu allora anche una casa in cemento armato che fu scalzata dal corso d’acqua, che ne provocò il ribaltamento nell’alveo.

Perché fatti di questo tipo non accadano bisogna fare prevenzione, in particolare anche perché i cambiamenti climatici portano ad un aumento di caduta di piogge fortissime in breve arco di tempo. Si sa già, dal passato, che questi eventi calamitosi si sono presentati con una certa frequenza, e che la Carnia è un territorio estremamente fragile. Ma questa situazione idrogeologica richiede pure una attività di pianificazione, accanto a quella di progettazione. Questo vuol dire che la conoscenza del territorio, per esempio attraverso il censimento degli eventi passati, e la conoscenza di qual è la dinamica, la velocità con cui questo territorio cambia, ci consente di fare una pianificazione corretta, individuando quelli che sono i fattori di rischio, ed andando a tradurre tutto questo nei piani regolatori comunali.

In proposito mi vorrei soffermare su quello che è accaduto nel 1983 a Paularo, frazione di Villamezzo.
In questo caso vi è un torrentello che scende a monte delle prime case di Villamezzo, e che si getta nel Chiarsò. All’altezza di alcune case il corso d’acqua è stato tombato alle spalle di un negozio. Questa attività di regimazione delle acque, è stata fatta pensando di riuscire in qualche modo a contenere le portate di del torrentello che, come gli altri corsi d’acqua in Carnia, è asciutto quasi tutto l’anno ma, in occasione di questi eventi si riempie. Ma questo tentativo di contenimento ha creato una fuoriuscita forte di acqua all’altezza del negozio, che ha subito gravissimi danni.

Nell’ ottobre 2018, a Ravascletto, è successa una cosa simile. Un piccolo ruscelletto attraversava il manto stradale sotto la strada attuale per poi scendere verso valle. Purtroppo gli attraversamenti non erano adeguati e si è determinato, co l’alluvione, il dislivellamento del corso d’acqua, con il trasporto di materiale sulla strada. Ecco che, quindi, in un territorio fragile come la Carnia, va ben valutato il rischio Dobbiamo cercare di diminuire la pericolosità del territorio con degli interventi mirati, ma anche diminuire il rischio, che è la pericolosità per la vulnerabilità per il valore degli elementi di rischio.

Siamo spesso noi, sono le nostre attività, è quello che costruiamo, che diventano elementi di rischio. Ovviamente se noi andiamo a realizzare opere e strutture in ambienti particolarmente pericolosi, può essere che il rischio aumenti. Quindi se andiamo verso una situazione in cui questi alluvioni avranno un tempo di ritorno più breve e saranno ancora più intensi, noi dobbiamo confrontarci con questa situazione, e soprattutto i geologi dovranno e devono essere in grado di leggere come il territorio cambia e cosa muta in particolare, perché cambia, per esempio, la dinamica dei corsi d’acqua e la dinamica dei versanti. Però questo cambiamento avviene con diverse velocità, per cui per noi è fondamentale conoscerle per porre in atto le misure necessarie.

Alluvione in Val Canale, 29 agosto 2003, da: http://www.pompierivolontari.it/Sito/Corpi%20in%20regione/Ugovizza/X%C2%B0alluvione03a/valcanale2003/valcanale2003.html

 

Vi è una tabella incisa dopo l’alluvione del 2003 nella val Canale. Il proprietario che aveva ricostruito una casetta di legno, aveva scritto questa frase: «I ricorrenti eventi idrogeologici hanno sempre un solo imputato: l’incuria dell’uomo con la sua ingombrante presenza e la sua drammatica assenza. Ecco questa era la sua riflessione. In realtà io direi che i fenomeni naturali sono catastrofici, e non sono eccezionali, nel senso che si sono presentati nel tempo e certamente rappresentano l’evoluzione dell’ambiente che ci circonda. Ma se questa dinamica cambia frequentemente, sta a noi comprendere cosa sta accadendo e rapportarci al meglio con queste trasformazioni mettendo in atto le misure necessarie».

Laura Matelda Puppini

La relazione del dott. Massimo Valent, riportata in questo articolo, è stata da me registrata il 1° dicembre 2018. L’immagine che accompagna l’articolo è quella già proposta dell’alluvione del 29 agosto 2003 in Val Canale, da: http://www.pompierivolontari.it/Sito/Corpi%20in%20regione/Ugovizza/X%C2%B0alluvione03a/valcanale2003/valcanale2003.html. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

Sole De Felice, La Decima Flottiglia Mas e la Venezia Giulia, 1943-45, un libro davvero brutto e fuorviante.

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Il 20 gennaio 2017 scrivevo, su www.nonsolocarnia.info, un articolo intitolato: “No alla X Mas nelle sedi istituzionali della Repubblica italiana. Motivi storici”, e commentandolo, Lorenzo De Min mi invitava a leggere, nel merito, Sole De Felice. La Decima Flottiglia Mas e la Venezia Giulia. 1943-1945, edizioni Settimo Sigillo, 2000. Ho accettato l’invito ed ho letto il volume. Riporto pertanto qui alcune considerazioni sullo stesso.

Non so, francamente, come Sole De Felice possa essersi laureata con il massimo dei voti in Storia Contemporanea con questa dissertazione sulla Decima Mas (Sole De Felice, op. cit., Introduzione, p. V.), perché a me pare molto lacunosa sia nel titolo che nella contestualizzazione, sia nella chiave di lettura, (che in storia non può essere fantasiosa ma deve essere rigorosamente scientifica), che nella bibliografia.  

E chi presenta il volume è Bartolo Gallitto, avvocato del Movimento Sociale Italiano- Destra Nazionale, marò nella Decima e presidente dell’associazione combattenti Decima flottiglia Mas, che nell’introduzione scrive questa sua opinione personale: «Indubbiamente tempi bui ed incerti, ma altrettanto indubbiamente va rilevato che la causa non poteva essere sbagliata se si concretizzava, come del resto riconosciuto, nell’estrema difesa del suolo della Patria, contro le orde di invasori comunisti, il cui ruolo internazionale, ora ingloriosamente crollato, ha travolto molti suoi sostenitori nostrani, così come ha rammentato il ben noto Romolo Gobbi nel suo altrettanto noto “Il mito della Resistenza”: di loro la storia ricorderà soltanto le atrocità ed i proditorii assassinii». (Bartolo Gallitto, Introduzione, p. IX, Sole De Felice, op. cit.) il che non sta né in cielo né in terra, perché la Decima collaborava con i tedeschi, e lottava contro i partigiani, definiti allora e poi ‘patrioti’, perché volevano cacciare i nazifascisti dal suolo italico, rendendolo agli italiani e sognando la fine del fascismo ed un governo democratico. Romolo Gobbi, poi, è ben strano personaggio, passato dalla collaborazione con ‘Quaderni rossi’ e ‘Classe operaia’, e dalla vicinanza ideologica ai gruppi di ultrasinistra, a sostenitore di ben strane teorie quali quella che la «Resistenza fu un espediente della sinistra per assolvere gli italiani che erano stati fascisti», (https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/08/29/la-resistenza-un-mito-da-buttare.html) che fa da sfondo al volume citato da Bartolo Gallitto.

Il primo limite del volume è relativo all’argomento scelto: ‘La Decima Flottiglia Mas e la Venezia Giulia 1943-1945’, in primo luogo perché la Xa fu in Venezia Giulia, o, correttamente, nella Zona di Operazioni del Litorale Adriatico, inizialmente e poi dal dicembre 1944 al gennaio 1945 al seguito dei tedeschi, ed utilizzata in una fase di azione fra le tante, per impedire l’afflusso di viveri ai partigiani dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia e permettere il deflusso verso la Germania dei soldati nazisti in ritirata dai Balcani, per poi ritornare in Veneto. Infatti, così scrive Luca Valente nel suo: “La Decima Mas nel vicentino: una prima ricognizione, in: Quaderni Istrevi, n. 1/2006, a p. 60: «Poco dopo la sanguinosa battaglia di Tarnova della Selva la Decima Mas rientrò in Veneto: la maggior parte delle unità si acquartierò nel Vicentino nel febbraio-marzo del 1945. Un gruppo si sistemò tra Padova e Vicenza, e venne schierato a scaglioni, un altro si suddivise tra Thiene, ove si locò pure il gruppo comando guidato dal generale Giuseppe Corrado, Carrè, Chiuppano, Bassano e Marostica. (Ivi, p. 60). Ma non è l’unica fonte nel merito.

Pertanto non è vero che a Tarnova si impedì la “corsa per Gorizia”, salvando l’italianità, perché esisteva ancora l’Ozak nel dicembre 1944 – gennaio 1945, ed azioni dei tedeschi, compiute assieme a truppe collaborazioniste, contro partigiani ed alleati vi furono prima e dopo l’intervento della Decima Mas nella selva di Tarnova, nel contesto della seconda guerra mondiale, non ancora terminata. (Cfr. Storia della collaborazionista X Mas con i nazisti occupanti, dopo l’8 settembre 1943. Per conoscere e non ripetere errori., in: www.nonsolocarnia.info).

Mi pare poi invero quasi fantascientifico, sostenere, come fa la De Felice, che «Borghese costituì la Divisione Xa con l’obiettivo principale di inviarla in Venezia Giulia» (Sole De Felice, op. cit., p. 86) pensando di «dedicare il periodo piemontese al suo addestramento» (Ibid.), e che «Ciò nonostante sarà coinvolta in quella ‘guerra civile’ da cui, in fondo ingenuamente, contava di restar fuori» (Ibid.). E sempre la De Felice pare sostenga seriamente, non si sa come, che allora si era diffusa in molti italiani la sensazione che l’8 settembre avesse significato non solo la sconfitta militare, ma qualcosa di molto più grave e profondo vale a dire la ‘morte della Patria’, cioè «la fine della nazione come vincolo di appartenenza ad una realtà etico – politica consapevole della ‘propria ragione storica’». (Ivi, p. 49). Ora che la fuga del Re e di Badoglio non avesse creato l’idea dello sfacelo dell’Italia come Nazione, ma avesse creato davvero detto sfacelo non vi è dubbio, ma chi mantenne allora saldo il vincolo etico – politico della Nazione italiana fu il movimento partigiano, che ebbe centinaia di martiri e di torturati per rendere l’Italia agli italiani. Inoltre non si sa perché la De Felice, dopo aver inventato la categoria degli ‘afascisti’, che mi è invero nuova, completi il quadretto dello sfacelo dell’idea di Nazione, (che potrebbe quindi giustificare il passaggio ai tedeschi della Decima, tanto la Patria come idea etico- politica non c’era più), con una citazione di Curzio Malaparte (Ivi, p. 51) che notoriamente è uno scrittore e non uno storico, per screditare, a mio avviso, gli ufficiali del Regio Esercito Italiano, riprendendola da altro autore e cioè Renzo De Felice. Le righe sono tratte da ‘La Pelle’, romanzo ambientato nella Napoli liberata in preda a peste e dissoluzione, che nulla ha a che fare con l’R.S.I., l’occupazione tedesca, Ozak e Ozav.  Ma pare che la De Felice, od ambedue i De Felice, in questo caso, amino i voli pindarici. 

Altro limite del volume, scritto quasi del tutto su fonti non documentaristiche tranne che per quel che riguarda mezzi d’assalto ed altri argomenti generali relativi alla storia della Marina Italiana, sta nella bibliografia citata, che non tiene conto di quanto emerso nei processi di Vicenza e Treviso, pur essendo già stato pubblicato il volume di Federico Maistrello, La Decima Mas in provincia di Treviso. Fatti e documenti., ed. Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea della marca trevigiana, 1997, e dimentica gli orrori perpetrati dalla Xa Mas in Liguria, Piemonte, Veneto, Pordenonese, e dovunque si fosse recata dopo l’8 settembre, liquidandoli con l’asserzione che non si vogliono negare «i rastrellamenti e le fucilazioni compiute dalla Decima in Piemonte, dal Canavese al Monferrato, in Friuli e in Lombardia, nell’ambito di azioni di controguerriglia». (Sole De Felice, op. cit., p. 86).

Così facendo, la De Felice nega le torture e le azioni contro i civili inermi, spacciandole per mera controguerriglia, come se l’orrore ed il terrore, dovunque essa si fosse portata, non fossero stati causati dalla Decima Mas ma non si sa da chi, forse dai partigiani che potevano starsene a casa e collaborare. Inoltre, cita come fonte, più volte, il volume di Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia Mas. Dalle origini all’armistizio, Garzanti, 1950, scritto all’indomani dei processi dal comandante della Decima, oltre Junio Valerio Borghese, Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas, dall’ 8 settembre 1943 al 26 aprile 1945, (a cura di Mario Bordogna) Milano, Mursia, 1995;  Renzo De Felice, Mussolini l’alleato, vol. II, Einaudi ed., 1997, pubblicazione postuma; Giorgio Pisanò, Gli ultimi in grigioverde, Storia delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, Mi, FPE, 1967-69; Giampaolo Pansa, Borghese mi ha detto, Mi, Palazzi, 1971; Giampaolo Pansa, Il gladio e l’alloro. L’esercito di Salò, Mi, Mondadori, 1993, dimenticando di attingere più ampiamente dal documentatissimo volume di Ricciotti Lazzero, intitolato ‘La Decima Mas. Compagnia di Ventura del Principe Nero’, Rizzoli, Milano, 1984, da cui prende un paio di citazioni evitando l’impostazione del volume, e, come già detto, di riportare i processi post- bellici a rappresentanti della Decima Mas ed al suo comandante, su cui, bellamente glissa. E ho citato solo alcune delle fonti di parte. È chiara, poi, la tendenza della De Felice a minimizzare la dipendenza della Decima Mas dai tedeschi, e massicciamente portarla alle dipendenze di Mussolini, come invece non fu, e l’autrice tenta di dare una personalissima visione dei motivi che spinsero la Decima a cercare contatti con il nemico, cioè con l’Osoppo ma anche meno conflittuali con l’R.S.I., che invece potrebbero aver avuto come motivazione, quando fin dall’ottobre 1944 Borghese sapeva che la guerra era perduta (Sole De Felice, op. cit., p. 91), lo sganciamento progressivo dai tedeschi e l ‘entrata nell’ alveo delle forze accreditate come italiane, cioè di quelle dell’ R.S.I., al fine di salvarsi la pelle, salire in qualche modo sul carro del vincitore, con la scusa dell’ italianità di Trieste e del pericolo rosso. Ma sganciarsi dai nazisti non era cosa facile.

Non da ultimo, onestamente, sostiene che deve molto, per la stesura del volume, a Sergio Nesi, che era stato ufficiale della Xa, a Mario Bordogna, che, nel 1944, divenne ufficiale d’ordinanza del comandante Borghese, ed al dott. Mario Sansucci, che combatté con il Brg. Lupo, (Sole De Felice, op. cit., p. XI) non esenti, credo proprio, dall’essere di parte su questo argomento. E pare quasi che il volume sia un tentativo di difesa della Xa Mas, francamente indifendibile.

Per quanto riguarda quanto citato dall’Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore Marina, esso riguarda o genericamente i mezzi d’assalto della Marina Italiana, (Cfr. nota 12 p. 9; nota 51 a p. 20 e altre), o dati statistici); e per quanto riguarda i riferimenti all’Ufficio Storico della Marina Militare, essi riguardano argomenti generali relativi alla Marina Militare Italiana, alla sua storia ed all’armamento e sua evoluzione nel tempo.  

Altro volume più volte citato come fonte è: Guido Bonvicini, Decima Marinai! Decima Comandante! La fanteria di marina 1943-1945, Mi, Mursia 1988-1989, ampiamente criticato da Federico Maistrello, in: La Decima Mas in provincia di Treviso. Fatti e documenti., ed. Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea della marca trevigiana, 1997, a p. 15, per le affermazioni in esso contenute, come per esempio, quella che voleva che i partigiani non dessero fastidio, e che, grazie al vescovo di Vittorio Veneto, nel trevigiano essi si fossero accordati con i marò, per non intervenire l’uno contro l’altro. Detta tregua, sempre secondo Bonvicini, venne rotta dai partigiani che attaccarono i poveri marò disarmati, ma tali opinioni personali non hanno documentazione a supporto, come non l’ha quella che vuole i marò aver fatto un rastrellamento sul Cansiglio, nel corso del quale non successe assolutamente niente.  Pare quindi che per Bonvicini il trevisano fosse, ai tempi della X Mas, una specie di isola felice, dimenticandosi di citare ben altri fatti, scenari, storie.

Relativamente alle fonti orali, la De Felice ha riportato o ripreso i racconti di: Mario Bordogna, Mario Sansucci e Sergio Nesi, a cui dedica una lunga intervista a fine volume, cioè fonti di parte, mentre manca una qualsiasi intervista a chi, in particolare civile, patì tutto l’orrore di cui si circondò la decima Mas collaborazionista dei nazisti e per nulla patriota. Eppure non mancavano fonti nel merito.

Per quanto riguarda la parte relativa alla Decima Mas nella Venezia Giulia, azione collocata temporalmente fra dicembre 1944 e gennaio 1945, che implica l’utilizzo in particolare del Btg. Fulmine, quando già si sapeva che la guerra era perduta, le fonti utilizzate dalla De Felice sono sempre di parte, e confondono il problema cosiddetto delle ‘foibe’ con l’invio da parte nazista della Decima nella selva di Tarnova, per aprire la via di fuga ai soldati tedeschi in ritirata dai Balcani e per tagliare la via di rifornimento viveri al IX° Korpus.  Per inciso relativamente al termine ‘foibe’ anche Roul Pupo e Roberto Spazzali riconoscono l’uso non storicamente corretto del termine per indicare fatti accaduti nel dopoguerra (Raoul Pupo Roberto Spazzali, Foibe, prima ed. Mondadori 2003, seconda ed. Il Giornale, 2017, p. 2), ma sicuramente è termine emotivamente pregnante. E intorno alle ‘foibe’ vi era un vissuto anche precedente, tanto che la citatissima frase “A Pola xe l’Arena,/ La “Foiba” xe a Pisin” era  stata pubblicata da vate Giulio Italico, al secolo Giuseppe Cobol (poi italianizzatosi in Cobolli Gigli) sul suo: “Trieste. La fedele di Roma” nel 1919. Inoltre anche dal punto di vista geologico sulle ‘foibe’ si dovrebbe fare chiarezza, perché anche Pupo e Spazzali riconoscono che la cosiddetta ‘foiba’ di Basovizza era in realtà un pozzo minerario scavato all’inizio del XX secolo dall’impresa Skoda, per intercettare una vena di carbone, e che veniva chiamata dalla popolazione slovena ‘šoht’, cioè , per l’appunto, pozzo. (Ivi, p. 225).

Ed ancora: Sole De Felice si sofferma su aspetti politici vari, che ben poco interessavano a chi combatteva sul campo, che fosse partigiano italiano, sloveno jugoslavo, soldato repubblichino o della Decima Mas, cercando di far passare l’idea che questa si fosse magari mossa in Venezia Giulia al servizio del governo del Sud, il che non è vero. Insomma il volume della De Felice, a mio parere, non è un buon libro, è un libro che a me sembra politicamente connotato da una linea di destra, che dimentica molto e ricorda poco.

Scrivo questo senza voler in alcun modo dare giudizi sull’autrice e senza voler offendere alcuno, perchè i giudizi si danno sui testi, non facendone derivare giudizi morali sulle persone che li hanno prodotti, e senza voler offendere alcuno.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://web.tiscali.it/latorrevalcanneto/recensioni/intervista_sole.htm, e rappresenta la copertina del volume. Laura M Puppini.

don Pierluigi Di Piazza ed altri. Sentinella, quanto resta della notte? Riflessioni per Natale 2018.

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Nell’iniziare questa Lettera avvertiamo l’esigenza dell’umiltà e del coraggio: la prima come ascolto, condivisione e partecipazione di tante storie e di diversi percorsi; il secondo perché, nel tempo presente, sentiamo con particolare evidenza che la neutralità è impossibile, che è urgente esserci, riflettere, prendere posizione con parole e azioni credibili.

Parole e germogli di speranza
Pur vivendo una preoccupazione che ci addolora, una lettura veritiera della realtà ci consegna alcune esperienze che diventano ragioni di speranza capaci di giustificare l’impegno di ciascuno di noi. È lo stesso profeta Isaia che ci invita a rimanere in attesa vigile del momento in cui le oscurità si diraderanno per lasciare spazio alla flebile luce dell’aurora, che illuminerà quei piccoli germogli di speranza che già intravediamo nel tempo presente. A partire dalle tante persone che nei diversi ambiti e situazioni personali e comunitarie, di volontariato e di responsabilità professionali e istituzionali, si dedicano e si impegnano ogni giorno con onestà, rettitudine e coerenza, anche al di là del compito strettamente inteso con umanità e credibilità ammirevoli.
La straordinaria attenzione, partecipazione e tensione emotiva che hanno caratterizzato la visita di Domenico Lucano al Centro Balducci il 10 dicembre scorso (400 persone nella sala e altrettante che non sono riuscite ad entrare) non è stata generica curiosità e neppure solo un appoggio a un’esperienza percepita come positiva. La vicinanza dimostrata nei confronti di quella esperienza ci dice qualcosa di più, ovvero ci parla della volontà di non assuefarsi a un clima fatto di ostilità quando non di vero e proprio disprezzo per lo straniero e il “diverso” in generale.
La caparbia storia di Lucano che da vent’anni lotta contro il declino sociale, demografico e culturale della sua piccola comunità vedendo nell’arrivo dei migranti l’inizio di una nuova pagina di storia da riconoscere e coltivare, evidenzia una “tenacia del bene” che sa parlare ancora a tutti gli uomini e donne di buona volontà spingendoli a vivere il presente e a guardare il futuro in modo diverso da ciò che oggi sembra essere (ma forse non è affatto) il pensiero dominante.
Domenica 7 ottobre 2018 si è svolta la Marcia PerugiAssisi della pace e della fraternità. Oltre centomila persone hanno dato vita ad una straordinaria giornata d’impegno civile. Di fronte ad una realtà che costringe a fare i conti con problemi sempre più difficili e complessi, partecipare alla marcia della pace e della fraternità ha voluto dire vincere l’indifferenza, la rassegnazione, la sfiducia, recuperare la capacità di pensare, di agire e non solo re-agire, di farlo assieme e non da isolati. E’ stata una giornata importante, bella, emozionante. Giovani, giovanissimi, studenti, insegnanti, scuole, gruppi, associazioni, Enti Locali, Regioni giunte da ogni parte d’Italia, ciascuno con le proprie ragioni e tutti con qualcosa di positivo in testa e tra le mani.
Moltissime le adesioni raccolte dal comitato organizzatore: 990 Enti Locali, Regioni, scuole, gruppi, associazioni provenienti da tutte le Regioni italiane di cui 172 Scuole; 287 Comuni, Province e Regioni; 531 Associazioni (116 nazionali, 415 locali).
Sabato 3 novembre a Trieste alcune migliaia di persone hanno formato un lungo corteo per manifestare la contrarietà a ogni forma di discriminazione e di razzismo. Ugualmente a Roma sabato 10 novembre centomila persone hanno formato una grande comunità delle differenze per riaffermare, senza etichette politiche, l’importanza fondamentale della dignità di ogni persona, dei diritti umani uguali per tutti. Ricordiamo anche le reazioni diffuse alla decisione o ai propositi della separazione degli alunni delle scuole, con una umiliazione per i figli di stranieri, a Lodi, a Monfalcone, a Trieste, a Codroipo.
Forti reazioni ci sono state e ci sono in tutta Italia, come su tutto il Pianeta con un’attenzione particolare a quelle che avvengono negli Stati Uniti per motivazioni, finalità e grande coinvolgimento, soprattutto dei giovani. Reazioni di contrarietà alla produzione, alla vendita e all’uso delle armi, alla politica dei muri, dei fili spinati e dei respingimenti, all’esclusione di milioni di poveri.
Ricordiamo ancora il segno emblematico dell’occupazione di alcuni istituti scolastici a Roma da parte degli studenti: una presa di posizione dei giovani di fronte all’indifferenza o all’impotenza di molti adulti, per affermare il valore della vita umana, la necessità di investire nella scuola pubblica, nelle strutture sanitarie, nei trasporti della città. Il tutto ci fa pensare a quanto il mondo giovanile sia in grado di esprimere, in positivo e già oggi, in preparazione a quanto accadrà domani, soprattutto per volontà e per scelta delle nuove generazioni. Crediamo sia molto importante permettere ai giovani di creare luoghi d’incontro e di dialogo, di progettazione per quello che sarà il futuro della nostra umanità.
Il progetto sociale “Parole o_stili” di sensibilizzazione contro la violenza nelle parole; nato nella nostra Regione e promosso a livello nazionale si è fornito di un manifesto proprio per una comunicazione che si sta diffondendo in modo capillare.
Di particolare rilievo sono due segni riguardanti la situazione dei detenuti nelle carceri. A Gorizia, con il Progetto “La città entra in carcere”, i volontari penitenziari hanno coinvolto l’Associazione “Gorizia a tavola” e la Cooperativa “Hanna House” nell’offrire gratuitamente il pranzo ai detenuti di via Barzellini nelle domeniche di dicembre e a Natale. Un segno di attenzione e di accompagnamento della città verso chi ha sbagliato e che, in questi giorni festivi, lontano dalla famiglia, sente più acuto il senso di solitudine nel proprio percorso educativo.
A Udine a fine novembre l’Associazione “Icaro” di volontari per il carcere ha consegnato i riconoscimenti del Premio “Maurizio Battistutta” per ricordare questo amico che si è speso per umanizzare le condizioni dei carcerati. È un segno straordinario che abbiano accolto l’invito a partecipare ed esprimere i propri vissuti nella poesia, nella prosa e nel disegno centottanta detenuti di molte carceri italiane: così hanno potuto comunicare con noi e fare in modo che la voce nel silenzio possa essere ascoltata chiedendo una nostra risposta.
Le parole manifestano chi siamo, anche se mai in modo completo e definitivo; di per sé sono azioni. In questo momento storico spesso diventano espressione di aggressività e violenza perché non sono precedute dall’ascolto che si vive nella relazione. Avvertiamo pertanto l’esigenza di purificare le parole, di liberarle dall’inimicizia e dalla violenza che ferisce; dalla sconsiderata amplificazione distruttiva sui social media resa possibile anche da quell’anonimato che di per sé esclude le relazioni, i rapporti diretti e gli sguardi.
Inoltre per noi è importante interpretare la composizione di questi movimenti: sono una mescolanza, un intreccio di diversità, tanti i giovani, senza segni direttamente riconducibili a partiti politici, a movimenti sociali e culturali, a comunità di fede. Le persone diverse sono animate dal sogno di una umanità contraddistinta dal rispetto della dignità di ogni persona con la sua diversità, dalla giustizia, dall’uguaglianza, dall’attenzione alla cultura, a relazioni significative fra gli esseri umani e tutti quelli dell’ambiente vitale. Per noi cercare di cogliere e di indicare questi “germogli” nella complessità di una situazione preoccupante, è un’arte indispensabile e benefica.

Né indifferenti, né impassibili
Se guardare le situazioni negative può generare tristezza e senso di impotenza, osservare “i germogli” nutre in noi l’energia interiore per riproporre idealità, dedizione e impegno, per sentirci solidali con l’umanità sofferente il cui grido – come ha affermato nelle scorse settimane papa Francesco – è talmente forte che emerge la domanda: “Come mai questo grido che sale fino al cospetto di Dio, non riesce ad arrivare alle nostre orecchie e ci lascia indifferenti e impassibili?”.
Pur guardando “i germogli” desideriamo condividere la nostra seria preoccupazione; denunciare alcune situazioni, condividere possibili percorsi alternativi.

Degrado culturale, etico e politico
Denunciamo il degrado culturale, di quella cultura che riguarda l’essere umano, il suo orientamento, le sue convinzioni e decisioni, le azioni e le relazioni con gli altri. Lo rileviamo nelle affermazioni presuntuose, arroganti e violente che pretendono di definire le diversità e le discriminano, come se chi è al di fuori del perimetro stabilito dal pensiero unico e forte non debba avere gli stessi diritti e la stessa considerazione. È molto preoccupante il pensiero negativo che diffonde indifferenza (“me ne frego”) e ostilità fino all’odio verso l’altro: sessualmente diverso, carcerato, nomade, povero, mendicante e soprattutto immigrato.
Come conseguenza si rileva un degrado etico. L’etica dell’attenzione alla dignità e ai diritti di ogni persona, comunità e popolo viene gravemente colpita da chi è al potere e agisce con la presunzione e l’arroganza di decidere per il bene comune confondendolo con quello proprio e della propria parte, anche se verbalmente è coinvolto sempre tutto il popolo senza alcuna distinzione.
L’ulteriore conseguenza riguarda la crisi della politica, di quella politica definita nella scuola di Barbiana come “l’arte di uscire insieme dai problemi, perché il resto è egoismo”. Siamo convinti che solo una continua rinascita culturale nel senso antropologico profondo di umanizzazione della vita, della società, della storia delle persone e delle situazioni può essere una strada di salvezza.
Questo processo richiede riflessione, profondità, studio, dialogo, confronto, razionalità umanizzata. Di per sé, poi, esige progetti condivisi, dedizione e impegno per attuarli, e richiama in causa l’etica del bene comune e dei diritti umani – presente nella Dichiarazione universale, della quale quest’anno ricorre il 70° anniversario, come nella nostra Costituzione – pretendendo che la politica sia ripulita dall’arroganza e dalla forza di un consenso emotivo oggi preoccupante per motivazioni, modalità e diffusione.
Condividiamo con tante e tanti di voi la grave preoccupazione per le scelte a livello mondiale ed europeo, del nostro Paese e della nostra Regione, segnate in modo evidente da discriminazioni a vari livelli. Si pensi alla legge sicurezza riguardo agli immigrati e alle decisioni regionali, in parte già attuate e proposte in prospettiva di rinchiuderli, vanificando l’accoglienza diffusa, in grandi centri di reclusione, confermando la logica terribile che per risolvere questioni problematiche si decide di rendere invisibili le persone coinvolte nelle stesse.
Il problema della sicurezza non riguarda solo la presenza degli stranieri ma tutte e tutti noi: la vita delle persone, la dipendenza dalle sostanze e dal gioco; la viabilità e i trasporti, la madre terra e tutti gli esseri viventi, l’acqua, i fiumi, l’aria, i boschi, le montagne. Non sarà certo l’attribuzione di un potere salvifico alle telecamere, alle pistole elettriche e ai manganelli a salvare la sicurezza, intesa appunto in senso globale.
A proposito dell’ambiente, ha suscitato impressione, desolazione e preoccupazione l’evento disastroso che ha coinvolto le nostre montagne con esiti devastanti nei boschi e la distruzione di milioni di piante. Si può definire nuovo per la forza distruttiva e ripropone in modo urgente non più procrastinabile la questione del rapporto dell’uomo con l’ambiente vitale, fermandone in modo risoluto qualsiasi sfruttamento e azione che favorisca squilibri, distruzione di ecosistemi, innalzamento della temperatura.

Identità e fede
La questione dell’identità personale, comunitaria, occidentale, nazionale, cristiana è presente costantemente, riguarda i sovranismi e i populismi, incide sulle scelte personali, politiche, ecclesiali. Le esperienze e le riflessioni pare facciano emergere due concezioni e attuazioni dell’identità.
La prima è quella considerata come un monolite, un blocco unico formatosi in modo definitivo: eventuali apporti sono solo incremento, rafforzamento a quello che già esiste. In questa concezione e pratica, ogni diverso è percepito come una minaccia, un pericolo per l’integrità intoccabile dell’identità; ne derivano due atteggiamenti: quello difensivo e quello aggressivo, entrambi animati da violenza latente e anche esplicita. Si sente affermare: “noi siamo occidentali, bianchi, friulani, giuliani, veneti, cristiani, cattolici. Noi ci difendiamo da coloro che vengono a minacciare la nostra identità, in particolare dai musulmani”. Questo atteggiamento, insieme ad altre cause e motivazioni, porta a costruire muri e fili spinati, ad alimentare la cultura del nemico fino all’avversione e all’odio, a negare in radice l’accoglienza di ogni altro “diverso”, non solo dei migranti. L’ultimo rapporto del Censis ha evidenziato una società insicura, impaurita e rancorosa.
L’altra concezione e attuazione dell’identità è aperta, libera, in divenire. Nello stesso momento in cui se ne riconosce il nucleo portante, con le caratteristiche proprie, si avverte e si sperimenta che può aprirsi, vivere una dinamica continua del dare e ricevere, senza per questo sminuire e diluire il nucleo portante personale, sociale, comunitario. I riferimenti religiosi, se vengono richiamati in modo corretto e non strumentale, proprio per le loro qualità e caratteristiche, favoriscono la dinamica dell’apertura dell’identità in un dare e ricevere reciproci.
Dalla fede deriva solo l’identità dell’amore e della donazione, non il supporto strumentale e la legittimazione a identità culturali, sociali e politiche di chiusura e avversione per le quali si utilizzano in modo vergognoso perfino i simboli religiosi per confermare scelte politiche e ricercare consenso (diversi sono gli esempi anche nella nostra Regione; ci si può riferire alla vicenda della rimozione delle panchine a Udine per collocarvi il presepe). Seguire l’una o l’altra concezione e pratica dell’identità ha conseguenze, anche religiose, evidenti.

Nella Chiesa e nella storia
Ci sentiamo credenti in ricerca e preti in cammino con le persone, nella Chiesa cattolica, cioè universale, e nelle nostre Diocesi in modo convinto e specie alle volte, anche sofferto.
Siamo preoccupati per la difficile situazione attuale della Chiesa e rileviamo che quasi nulla è stato fatto fino ad ora per nuovi ministeri e nuove forme di servizio nella Chiesa.
Riteniamo, nel rispetto dell’impegno e delle fatiche, che la questione principale non sia quella del riordino territoriale delle parrocchie ma un’altra, fondamentale che spesso per inerzia e pigrizia si suppone come scontata: quali sono i segni che ci rendono credibili come Chiesa nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo di Gesù nella storia attuale? Cosa diciamo nelle nostre parrocchie e diocesi della Regione rispetto a questo pensiero negativo nei confronti dell’altro diverso, immigrato e non solo? Gesù nella stalla di Betlemme è nato per tutta l’umanità, ha poi annunciato che, innalzato fra cielo e terra nella crocifissione, avrebbe attratto tutti a sé, tutti senza esclusione di alcuno. Ci sentiamo coinvolti nella Chiesa povera e dei poveri, con le porte aperte, in uscita per abitare le periferie, umile e coraggiosa e sempre accogliente.
Sosteniamo e ringraziamo papa Francesco, camminiamo con lui; rileviamo che ancor scarsa è la ricaduta della sua presenza e del suo magistero in parole e segni nelle Diocesi e nelle parrocchie. La pazienza evangelica ci lascia però ben sperare che i segnali positivi nel tempo troveranno sempre più accoglienza fiduciosa nelle comunità cristiane. Il Concilio Vaticano II conserva ancora la sua freschezza profetica per aiutare il popolo di Dio a non cadere nella rassegnazione e quindi a incamminarsi con decisione e con gesti concreti verso la realizzazione del Regno di Dio.

La prospettiva, la dedizione e l’impegno che ci uniscono a tante persone
Ci sentiamo insieme a tante e tanti di voi nel rinnovare il progetto di un’umanità in cui giustizia, pace e salvaguardia dell’ambiente non restino declamazione di principi, ma percorsi ed esperienze storiche.
Riteniamo fondamentale l’incontro con le persone tutte, anche con coloro che pensano diversamente da noi, con attenzione a chi è povero, ai margini, affamato, assetato, denudato di dignità e di vestiti, ammalato nel corpo, nell’animo, nella psiche; a chi è carcerato, a chi immigrato a chi è senza casa, mendicante nelle nostre città e nei nostri territori, alla Terra e a tutti i viventi. La vita ci insegna come sia decisivo l’ascolto che chiede disponibilità interiore, tempo, dedizione. La mancanza di ascolto prepara la violenza.

Vivere la fede
Sentiamo che la fede è dono, grazia, ricerca, dubbio, ancora ricerca e soprattutto affidamento al Dio umanissimo di Gesù di Nazareth che ci guida, ci accompagna e ci sostiene. Non può essere mai separazione, superiorità, presunzione, supponenza, giudizio che esclude, ma – come ci insegna il Natale di Gesù – condivisione completa, incarnazione totale, giorno dopo giorno.
Gesù nella stalla di Betlemme e nelle Betlemme attuali ci rivela amore, dedizione, fragilità.
Sentiamo come sia importante riconoscere le nostre fragilità per poter condividere quelle altrui. È su questa strada che siamo certi resterà poco della notte.
Continuiamo a condividere il cammino.

20 dicembre 2018.

I preti firmatari:
Pierluigi Di Piazza, Franco Saccavini, Mario Vatta, Pierino Ruffato, Paolo Iannaccone, Fabio Gollinucci, Giacomo Tolot, Piergiorgio Rigolo, Renzo De Ros, Luigi Fontanot, Alberto De Nadai, Albino Bizzotto, Antonio Santin.

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Il documento è stato ripreso da: http://www.centrobalducci.org/easyne2/LYT.aspx?Code=BALD&IDLYT=359&ST=SQL&SQL=ID_Documento=3447. L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://www.rivieradeibambini.it/alla-scoperta-dei-presepi-piu-amati-liguria/. Laura Matelda Puppini


Ing. Dino Franzil. Origine ed autonomia vitale del Lago di Cavazzo. Bisogna fare subito il bypass.

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Dagli studi dei nostri geologi, fra cui M.Gortani ed F.Feruglio, risulta che, un tempo lontano, nella valle del Lago di Cavazzo, alias, Lago dei Tre Comuni, vi era il mare ed in seguito il Grande Lago della piana di Osoppo.

Dalla fine del Tilaventino, ultima era glaciale di diecimila anni fa, il Tagliamento ha iniziato l’inghiaiamento di quel lago ed i torrenti ”Leal” e “Palar”, in primis, coadiuvati dalle deiezioni delle montagne franose circostanti, chiusero il fondo valle. In seguito, il “Palar” trasportò ghiaia verso est formando la morena su cui posa Alesso e confinò il nostro Lago che visse fiorente fino alla costruzione della centrale idroelettrica a metà del secolo scorso.

Le conseguenze di questo devastante impianto sono state evidenziate dai recenti studi, del sottoscritto, in “Lago-Energia-Ambiente” e dai rilievi dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR) di Bologna del Consiglio Nazionale Ricerche (C.N.R.). Risulta che, per colpa della centrale idroelettrica di Somplago, che da oltre mezzo secolo scarica acque fredde e limose, il fango trasportato ha ricoperto abbondantemente il fondale seppellendo le alghe ed assieme al freddo ha fatto estinguere quasi totalmente la vita biologica lacustre ed anche quella ittica che un tempo era molto varia ed abbondante. Inoltre, è stato valutato che “il Lago scomparirà” tristemente in meno di cento anni, perché lo stesso fango lo riempirà e lo trasformerà in una palude attraversata da un canale.

Deviando lo scarico della centrale, con tubi o galleria, il Lago non solo diventerà più caldo, ma riacquisterà anche la sua “antica autonomia vitale”, come ora dimostrerò analizzando i fattori che la determinano, ossia la piovosità, l’evaporazione e l’apporto idrico diretto.

I rilievi pluviometrici dicono che nella Valle del Lago, sui 21kmq del bacino imbrifero montano, negli ultimi decenni sono caduti in media 2800mm/ anno d’acqua, equivalenti a 230/235mm/mese, e che mediamente è stata rilevata una temperatura di 16 C° ed un’umidità del 72%.

Ora, considerando la conformazione geologica del sito, si stima che il 25% dell’acqua piovana, filtrando, vada nelle falde freatiche e che i rimanenti 43 milioni di metri cubi/anno arrivino nel Lago in parte con veloce scorrimento superficiale, ed in parte lentamente attraverso le numerose sorgive del fondale ancora attive. A questo si aggiunge l’apporto diretto della pioggia sul bacino valutato di 3,25 milioni/mc anno. Poi vi è anche il contributo continuo del rio “Scjasazze”, che con un minimo di 200 litri al secondo, versa almeno 6,3 milioni/mc anno.

Allora, sommando, l’apporto complessivo nel Lago si aggira sui 52,5 milioni/mc anno, ma da questi occorre detrarre l’acqua di evaporazione. Calcolandola con la formula di Vicentini per i piccoli laghi, dall’attuale superficie lacustre stimata di 1.115.000 mq, con una media termica dell’aria di 16 C° ed umidità del 72%, l’evaporazione asporta una quantità d’acqua prossima a 1,5 milioni/mc anno.

Quindi, arrotondando i valori, nel Lago arrivano, per statistica, non meno di 51 milioni/mc d’acqua/anno, ossia circa 140.000 mc/giorno.

Questo potrebbe portare ad un aumento di livello dell’acqua del Lago di ben 12,5 cm/giorno e, come un tempo, con le grandi piogge, “las montanas”, defluire nell’antico canale “Taj”. Oggi, ciò non può avvenire perché quest’acqua naturale è costretta a scaricarsi nell’emissario artificiale della centrale. Quindi, si può immaginare che il suo deflusso continuo sia come una roggia che trasporta 1,6 mc/sec. Non è poi tanto se la centrale scarica giornalmente ben 1.900.800mc, ossia 22 mc/sec.

Inoltre, non bisogna dimenticare che, nel contributo d’apporto, non è stato considerato quello del “Palar”, difficile da valutare, ma continuo. L’acqua del torrente “Palar”, che scorre ad ovest in un letto ben 40m più in alto, passa sotto Alesso, filtra nella citata morena alluvionale ed alimenta il Lago con le famose sorgive di fondale chiamate “Busins” di forma circolare e conica, a me note sin dall’infanzia.

Infine, analizzando bene gli studi dei citati geologi si scopre che “il bacino del Lago” fa parte di quell’antico, profondo e ben più grande bacino che oggi configura le faglie freatiche.

Detto questo, si conclude che l’affermazione gratuita “Il Lago scompare se manca l’acqua di scarico della centrale”, fatta da noti personaggi locali, non può essere altro che una penosa bufala speculativa. Infatti, la “Scienza” afferma il contrario: “Il nostro Lago non si prosciugherà mai, a meno che non smetta di piovere ed anche avverte che se non verrà costruito un bypass per isolare la centrale, il bacino si trasformerà in una putrida palude in circa 95 anni!”.

Si deduce che il bypass è’ un’opera che “si deve fare”!  Il Lago è un bene inestimabile da salvare, rendere fruibile e da tramandare sano!

“Rinaturalizzarlo” è ritenuto un dovere per i governanti dabbene, ai quali, tale opera, non può non provocare uno stimolo morale per spingerli a porre rimedio, almeno in parte, ai noti ingenti disastri causati all’ambiente ed all’economia della Valle, da concessioni, progetti ed opere inique, che da più di mezzo secolo trasferiscono altrove le risorse locali e quelle del Friuli.

 

Ing. Dino Franzil                                                                                                       Tarcento 28/12/2018
Membro del C.D.S.L. Comitato Difesa Sviluppo
del Lago tre Comuni

Indirizzo: Via Giovanni Pascoli n.4 – 33017
Tarcento (Udine)
Tel/Seg: 0432 – 792238

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Ho ricevuto questo testo dall’ing. Dino Franzil, che ringrazio. L’immagine che accompagna l’articolo è stata da me scattata il 23 maggio 1991. Ricordo agli interessati anche il mio: “Il Lago di Cavazzo, tra sogno, natura e sfruttamento”, in: www.nonsolocarnia.info. Laura Matelda Puppini

La fine dell’Aas3, o Ass3 che dir si voglia, cosa comporterà per noi carnici e del gemonese? Chiediamocelo.

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Quale politica e servizi per la Carnia? Me lo sto chiedendo da alcuni anni, in particolare da quel lontano 2014, quando l’abbinata regionale Serracchiani – Telesca propose la riforma del sistema sanitario regionale, approvata da quasi tutto il consiglio, forse per ‘senso di responsabilità’ e via dicendo. Si trattava della poi diventata tristemente famosa legge 17/2014, sul “Riordino dell’assetto istituzionale e organizzativo del Servizio Sanitario Regionale (SSR) e norme in materia di programmazione sanitaria e socio-sanitaria”, che venne pubblicata sul Bollettino Ufficiale Regionale il 22 ottobre 2014.

Da quel giorno, secondo me, per la sanità montana della Carnia, del Gemonese del Tarvisiano è iniziata la debacle, anche se il Tarvisiano può utilizzare, per sua fortuna, la sanità austriaca, da che mi si dice.

“Meno ospedale più territorio”, (1) fu il motto della dott. Maria Sandra Telesca, coadiuvata da Adriano Marcolongo, con il risultato che stiamo perdendo sia ospedale che sanità territoriale, di cui tutti parlano ma che non si sa di fatto che sia e come si debba articolare. In quasi 5 anni, io non l’ho ancora capito, ma può essere limite mio. E le uniche parole che mi vengono alla mente sono quelle di Mauro Saro, già direttore della Cartiera di Tolmezzo e prematuramente scomparso, che diceva che il venerdì pomeriggio si doveva pure abbandonare gli abiti civili e ‘vestire il camice bianco’ per assistere parenti e congiunti. E non mi si dica che per una sanità efficiente bastano ora i medici di base, tra l’altro con fino a 1300 pazienti cadauno, e con un contratto mai rivisto.

Nel frattempo Renzi e company, coadiuvati da Yoram Gutgeld, israeliano, ignoto ai più ma pagato con le nostre italiche tasche,  pensavano, nel 2015, in combutta con Beatrice Lorenzin del Nuovo Centro Destra, di cui ora nessuno si ricorda più (sia del partito che della Lorenzin), di fare ulteriori tagli, e di vietare la prescrizione di alcuni esami, speranzosi di rimpolpare le casse dello Stato, quando sarebbero bastate ben altre quisquiglie per realizzare questo desiderio, per esempio lottare efficacemente contro la corruzione, la mafia, il malaffare, l’evasione fiscale, ed impedire a Renzi, solo per fare un esempio e come minimo, di diventare operativo per volare su di un suo aereo personale. (2).

Primo risultato della riforma per la Carnia ed il Gemonese: la chiusura dell’ospedale di Gemona del Friuli, che aiutava a snellire le liste d’attesa, e che, con la sua chirurgia e medicina interna, era di grande aiuto alla popolazione locale e non, trasformato in un non ben definito ‘presidio ospedaliero’, e l’allargamento della vecchia Ass3 fino al codroipese, che non è sulla porta di casa, si fa per dire, oltre il taglio dei posti letto, la diminuzione del personale anche per la trasformazione di Gemona e per il mancato turn over, il pronto soccorso del San Michele mutato in un punto di primo intervento, né carne né pesce, e l’instaurarsi, per chi abita in Carnia, della sanità on the road, cioè dei viaggi della speranza, per trovare una visita e via dicendo. E per chi non lo sapesse, solo per andare da Tolmezzo ad Udine e ritorno si devono percorrere circa 100 chilometri, pensate se si abita a Forni di Sotto o Rigolato! Già perché, con la riforma, l’utenza regionale piombava ad invadere l’ospedale tolmezzino unico rimasto in ‘Alto Friuli’, che così perdeva totalmente i connotati di territorialità comunque prima in qualche modo mantenuti. Colpa del dirigente Pier Paolo Benetollo, che ringrazio per quanto fatto, fra mille vicissitudini, come dirigente generale dell’Aas3, ed a cui auguro buon lavoro in Trentino, in questi anni? Neanche per sogno, colpa della riforma, che ha destabilizzato, senza riuscire a costruire nulla di positivo. Inoltre, il sostegno smaccato al Santa Maria della Misericordia, ove lavorava come direttore amministrativo Maria Sandra Telesca (3), da parte della stessa, mai eletta dal popolo, e da parte della regione Fvg credo fosse sotto gli occhi di tutti. Ma anche nell’ ospedale udinese non è oro tutto ciò che luccica, per esperienza personale.  Già in precedenza l’idea di area vasta udinese aveva penalizzato la Carnia e l’ospedale tolmezzino, ma la riforma Serracchiani – Telesca ha fatto Bingo.

Insomma io temo che pagheremo tutto noi, montanari, pagheremo tutti i lussi e le spese del nuovo ospedale, ora già declassato a Padiglione 15, dove già piove dentro (se andate in oncologia lo potete vedere da soli), e il personale ricorre a secchi e stracci, in ciò accomunato al San Michele di Gemona. «Inoltre, l’ospedale nuovo di Udine è straziante: ha spazi vuoti anche stile reception a gogò, non si sa per chi, come riscaldabili e con che spesa, ambulatori piccoli e senza adeguata tenda che copra le nudità dei pazienti durate la visita, se per caso qualcuno dovesse entrare od uscire nel mentre (pessima abitudine presente dovunque) essendo il lettino posto di fronte alla porta, mentre questa si apre sulla fila delle sedie d’ attesa. In alcune stanze per due pazienti della chirurgia non stanno neppure i due letti e le due poltrone per far sedere il malato; gli infermieri, almeno quelli di una chirurgia, sono assemblati in uno spazio in vetro- resina o che ne so, praticamente in vetrina, almeno questa è l’impressione, senza sedie sufficienti; i gabinetti per i non ricoverati di fatto non si sa dove siano, e per uscire dall’ edificio devi scoprire la porta che si apre. […].
I corridoi sotterranei sono ben colorati e lunghissimi, e d’inverno fa un tale caldo, dovunque, che ci si chiede se i batteri vadano così a nozze; le finestre non si sa se si possano aprire, forse a causa dei possibili aspiranti suicidi, che troverebbero più comodo però buttarsi dai parapetti delle scale, numerosi ed agibilissimi; le luci sono per lo più artificiali e gli spazi di attesa, talvolta anche poco illuminati, ricordano più un carcere che un ospedale. Insomma, io mi sono chiesta, e scusate l’ardire, chi ha approntato il progetto e chi lo ha approvato, perché il nuovo ospedale è tutto, secondo me, e ben contenta se verrò smentita, tranne che spazialmente funzionale all’uso che ne deve venir fatto, senza tener conto dei problemi già sottolineati l’anno scorso: difficoltà del sistema smaltimento dei gabinetti e quant’altro. Quando guardo i vecchi padiglioni, che dovevano solo esser sottoposti, nel tempo, a manutenzione, penso a come essi fossero più funzionali, anche se, probabilmente non esenti da pecche […]».  (4).

Inoltre la perdita del laboratorio analisi per l’ospedale di Tolmezzo e Gemona è stata una specie di tragedia, di cui man mano che passa il tempo si vedono gli esiti non certo positivi, per esempio nei tempi di attesa per le risposte, ma anche nell’ impossibilità di conferire con il laboratorio come accadeva prima, mentre lo stesso non riesce, mi pare, ad essere in attivo, ma è in costante perdita.

Ed ora le ultime novità. La nuova giunta regionale, guidata da Massimiliano Fedriga, non sa come quadrare i bilanci delle Ass regionali sempre in perdita, anche perché non si vogliono tagliare reparti come quelli per i trapianti che potrebbero convergere in un’unica struttura interregionale funzionante 24 h su 24, ed allora che fa?  In linea di continuità con la giunta Serracchiani, taglia 2 aziende sanitarie, quella del monfalconese – isontino e quella della Carnia, Gemonese, tarvisiano, sandanielese, codroipese, cioè la 2 e la 3, facendole convergere verso Trieste ed Udine, già in netto affanno, che hanno sempre sposato la politica del ‘cicero pro domo sua’ e non si sa perché dovrebbero mutare prospettiva.

È chiaro che pagheremo tutto noi montanari, e quelli di parte della Venezia Giulia. Non so se servissero esperti per fare queste scelte che non solo ci penalizzano ma temo ci distruggano il servizio, mentre continuiamo a vagare qua e là, senza che nulla più funzioni, se non sulla carta e nelle parole dei politici di ieri e di oggi.

A questo punto per fortuna che ci sono  i privati, anche convenzionati? Ma ha un senso sotto-utilizzare il laboratorio di Casa di cura città di Udine, per esempio, per voler far convogliare ( a causa di una imposizione della giunta Serracchiani – Telesca) le analisi in convenzione al Santa Maria della Misericordia, avendo le risposte più tardi e magari neppure online?

Ma lo strabiliante è che, avendo la Regione chiesto il parere dei sindaci dell’Ass3, questi hanno approvato di passare tout court all’Ass4 e cancellare l’Aas3, tranne Francesco Brollo che ha votato contro, ma senza magari prima riunire i sindaci e discuterne con calma. Ed il Presidente Uti è lui. Quindi la Conferenza dei Sindaci ha perso il suo presidente, il sindaco di Cavazzo Carnico Gianni Borghi, dirigente infermieristico dell‘Ass4, ora non più compatibile, ma compatibile per votare positivamente la morte dell’Aas3, che ha, come immediato riflesso, un esubero di 100 amministrativi, che se ne andranno dalla Carnia e dal gemonese, dal sandanielese e dal codroipese, da quelle cosiddette ‘ aree interne’ o marginali di cui tanto si parla o meglio si ‘strombazza’ (5), senza però che sinora si sia visto nulla di concreto, tranne una perdita secca in servizi territoriali ed in territorialità. E credo non ci rendiamo neppure ancora conto, in Carnia, cosa significherà questo distruggere l’Aas3 per noi carnici e dell’Alto Friuli. Ma tranquilli, il vostro sindaco ha votato sì, anche se magari non leghista, anche magari se è Mentil, forse per quello che chiamano, ‘senso di responsabilità’ che forse nasconde una mancanza di capacità di prender posizioni autonome. Il mio, Brollo, ha votato no, ma se voleva salire sulle barricate, cosa che Francesco Brollo non è mai riuscito a fare, doveva fare in altro modo. Inoltre egli è sempre stato un entusiasta della riforma Serrachiani – Telesca, e si è mostrato più che favorevole a cancellare il laboratorio analisi tolmezzino, il cui personale ora dipende dall’ Ass4, come del resto quello del Centro Trasfusionale tolmezzino, dott. Cristiana Gallizia compresa.

Infine l’ultima picconata. La nuova ass4, che comprende la defunta 3, si chiamerà Ass del Friuli Centrale, praticamente come prima. (6). Viva la sincerità!
Inoltre i bilanci di grandi aziende sono sempre meno chiari di quelli delle piccole, e meno leggibili da non super addetti ai lavori, e ogni attivo verrà speso secondo le decisione dell’Ass del Friuli centrale. Ma ci rendiamo conto di ciò? Continuiamo a leggere di stare tranquilli, che la politica penserà anche a noi, ma come non è dato sapere. Ed allora quale futuro per la sanità locale e noi, carnici? Dovremo prendere la valigia?
Senza voler offendere alcuno, ma solo per palesare alcune mie perplessità, e se erro correggetemi. A tutti buon anno.

Laura Matelda Puppini

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(1) http://www.regione.fvg.it/rafvg/giunta/dettaglio.act;jsessionid=7B430D5F1FCBD4194D3BB8B4D9028B93?dir=/rafvg/cms/RAFVG/Giunta/Telesca/comunicati/&id=92554&ass=C04&WT.ti=Ricerca%20comunicati%20stampa.

(2) Daniele Martini, L’eredità di Renzi: ecco il contratto dell’Airbus. Il jet di Matteo – Tutti i dettagli dell’accordo (sconvenientissimo) tra Alitalia, Etihad e la Difesa, in: Il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2018.

(3) http://www.regione.fvg.it/rafvg/export/sites/default/RAFVG/GEN/amministrazione-trasparente/FOGLIA2/FOGLIA7/allegati/Curriculum_Telesca.pdf.

(4) Cfr. in: www.nonsolocarnia.info: “ Riforma sanitaria: un aggiornamento, si fa per dire”    ed anche: “Note sulla riforma sanitaria in Friuli Venezia Giulia”.

(5) Tania Ariis, Fondi europei per sviluppare progetti per la Carnia, in. Messaggero Veneto, 30 dicembre 2018, dove pare che il discorso delle aree interne si limiti a dare una consulenza per domandare soldi all’Europa per progetti non definiti nell’articolo, della cui valenza nulla si sa. E rammento a me stessa quanti soldi abbiamo già buttato via per la Carnia, tanto da riportare a Giorgio Ferigo ed alal sua nota frase. ‘Duta chesta straciaria’.

(6) Messaggero Veneto, 29 dicembre 2018.

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L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://www.blogdem.it/angelo-costanzo/2012/05/10/sanita-di-montagna-un-malato-da-rianimare/, e rappresenta un manifesto di invito ad un incontro con relatori del Pd, dal titolo. “Sanità in montagna. Un malato da rianimare”, ma in Carnia e nel gemonese non so se si potrà neppure fare quello. Laura Matelda Puppini 

Parliamo di Celti. Celti a nord-est. Sintesi della prima parte dell’incontro di Paularo.

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Ho partecipato con interesse al convegno sui Celti che si è tenuto a Paularo, il 6 ottobre 2018, a palazzo Valesio Calice, che era un incontro tra esperti ma allargato ad altri. Infatti, come ha sottolineato in apertura la dott.  Simonetta Bonora, Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia, è importante che ogni tanto gli specialisti e gli archeologi si trovino insieme per condividere i risultati del loro lavoro, per dialogare, per sentire più voci, per analizzare le problematiche emergenti, perché la realtà archeologica non è né semplice né univoca.

La dott. Serena Vitri, già Soprintendente per i beni archeologici del Friuli-Venezia Giulia, ha precisato il perché del luogo scelto per l’incontro. Infatti, grazie alle scoperte fatte in comune di Paularo, è iniziato, nel 2001, il “Progetto Celti”, finanziato dalla Regione Fvg, che ha permesso agli studiosi di documentare molti materiali scoperti in quel periodo. La ricerca della presenza dei Celti in regione è stata condotta anche nella pianura friulana, per vedere se fosse suffragabile l’ipotesi di una presenza di “Galli di pianura”, ma l’esito è stato negativo. Quindi per ora si può parlare, per quanto riguarda il Fvg, solo di insediamenti celtici in montagna. E per quanto riguarda, per esempio, Misincinis, la presenza di Celti, (documentata ma ancora da approfondire), è temporalmente molto lunga e va dall’ottavo secolo al quarto, con tombe che, però, alla fine, non hanno più nulla di lateniano (1) celtico. Ma negli strati sconvolti e negli strati superficiali, è stato reperito materiale lateniano.

Disegno di maschio celtico, dal volantino di invito all’ incontor di Paularo. (http://www.sabap.fvg.beniculturali.it/wp-content/uploads/2018/09/PARLIAMO-DI-CELTI-DEPLIANT-1.pdf).

Inoltre, anche nelle tombe del quinto secolo a. C. si possono trovare dei materiali che possono far pensare a un qualche rapporto con popolazioni celtiche. Ma questo non turba gli studiosi, perché, per esempio in Veneto, vi furono scambi fra le popolazioni locali ed i Celti, o, forse, tra le popolazioni locali e quelle transalpine e cisalpine. Ma una cosa è certa: a Paularo si è trovata la tomba più antica della zona con presenza di materiali di tipo celtico.

Quindi la dott. Vitri pone un primo problema: si può parlare di popolazioni celtiche anche se non vi sono tombe tipicamente celtiche a sostenerlo, ma solo qualche reperto lateniano? Non sembra tutto così semplice agli studiosi, come parrebbe a noi profani, penso fra me e me. Infatti, si sono creati nella nostra mente degli stereotipi dei Celti, anche mutuati dalla politica, che non sono però suffragati dalla realtà che sta emergendo dagli studi, che non vede i Celti come un popolo isolato e confinato, ma che invece documentano scambi di oggetti e di culture.

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Quindi ha preso la parola Mitja Guštin, archeologo sloveno, professore emerito, curatore del Posavje Museum di Brežice, direttore poi della rivista scientifica dell’Accademia Slovena di Scienze ed Arti, e quindi direttore del Dipartimento di archeologia dell’Università di Lubiana, esperto in particolare nello studio dell’età del ferro e delle tribù celtiche locate nelle Alpi orientali e nei Balcani, per illustrare tre volumi, molto diversi tra loro, sui Celti.

Il primo si intitola “Celti d’Italia. I Celti dell’età di La Tène a sud delle Alpi”, ed è un volume edito a Roma nel 2017 a carattere specialistico e di non facile lettura, che contiene le relazioni relative al Nord ed alle zone alpine tenute al convegno di Roma del dicembre 2010, mentre non sono stati pubblicati i contributi relativi al centro Italia; il secondo è il volume di Giovanna Gambacurta ed Angela Ruta Serafini, “I Celti e il Veneto. Storia di culture a confronto”, Archeologia Veneta, supplemento 40, Padova, 2017. Esso è scritto con linguaggio scorrevole e si rivolge ad un pubblico vasto, ed è il risultato di un lavoro di anni ed anni sulle presenze celtiche in Veneto. Il terzo libro, opera di Rosa Roncador, è intitolato “Celti e Reti. Interazioni fra popoli durante la seconda età del ferro, in ambito alpino centro- orientale, Roma, 2017, e si può scaricare anche da internet. Esso non è semplicissimo e rappresenta il lavoro svolto per una tesi di dottorato presso l’Università di Bologna con il prof. Daniele Vitali, che è uno dei maggiori esperti di celtismo in Italia.  Esso fa il punto sulla presenza dei Celti in un territorio a cavallo della Alpi, che comprende sia Italia che non. Il volume è importante perché porta i disegni di tutti gli oggetti di cui parla, e forse si può iniziare ad ipotizzare che, sulla scia di studi come questo, vada ridiscusso tutto il “comparto retico” ma su questo tema gli esperti devono ancora confrontarsi.

La scienza è così, penso fra me e me, è fatta di ipotesi da verificare, e nuovi dati possono aprire la via ad ipotesi nuove, ed è fatta di quadri concettuali che possono mutare ed integrarsi.

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Mitja Guštin ha incominciato la sua relazione dicendo di aver avuto il compito di illustrare alcuni dati scientifici dai volumi citati. Ma in premessa bisogna dire che sotto la voce “Celti” vengono compresi molti popoli presenti, dal settecento avanti Cristo, sulle Alpi. Ed è la Grecia che ha definito, genericamente, questi popoli a nord  ‘Keltoi’, mentre i francesi li chiamarono Galli, come anche i romani.  In ogni caso – continua Guštin – quando si parla di Celti, si deve pensare ad un gruppo di popoli che ebbero molto in comune nel vestirsi, nella foggia delle armature, nelle sepolture, nella costruzione dei villaggi.

Esistono tre grandi personaggi che hanno contribuito alla ricerca sul mondo celtico, ed uno di questi fu Napoleone terzo, imperatore dei Francesi. Egli voleva dare una identità nazionalistica alla Francia, cercandola nella lettura di Cesare e delle battaglie da questi condotte contro i Galli, e nei reperti sul territorio. Per raggiungere questo scopo, ordinò ai suoi generali ed ufficiali di scavare sistematicamente su posizioni ed alture che erano note come luoghi archeologici. In questo modo, Napoleone terzo svolse un grande ruolo per l’inizio degli studi archeologici sui materiali. Ma non si deve credere che prima degli scavi francesi non si sapesse nulla sui Celti, perché Cesare era letto almeno da quattro secoli, ed esistevano altre fonti della storia antica che parlavano di loro. Ma egli fece fare alla ricerca archeologica un salto di qualità.

Altro grande studioso fu Joseph Déchelette, che ha scritto il “Manuel d’archéologiepréhistorique, celtiqueet gallo-romaine”. Egli dedicò questo suo manuale proprio agli studi già fatti sui Galli, a quello che già si sapeva di loro e sulla seconda età del ferro, ma presentò anche molto materiale sui Celti reperito in varie località d’Europa, e non solo in Francia.

Anche Paul Reinecke, archeologo e medico tedesco, fu fondamentale per lo studio dei popoli dell’età del ferro, perché divise la seconda età del ferro in quattro periodi La Tene: a – b- c- d. La sua opera risale al 1910, ma la sua suddivisione viene usata ancora da tutti coloro che si occupano di Celti o di altri popoli che vivevano vicino ai Celti o contemporanei.

Ed è importante ricordare questi tre personaggi per il peso che hanno avuto, oltre cento anni fa, per gli studi seccessivi.

Mitja Guštin. (https://www.uibk.ac.at/urgeschichte/mitarbeiterinnen/mitja-gustin/mitja-gustin.html).

Quindi  Mitja Guštin inizia a parlare della ricerca archeologica sui Celti in Italia. Una delle opere più importanti risale al 1977, ed è firmata da Raffaele Carlo De Marinis, professore di Milano, che ha scritto in lingua Inglese “La cultura La Tène nella Gallia Cisalpina” (titolo originale: “The La Tène Culture of the Cisalpine Gauls”). E Gallia Cisalpina o Gallia Citeriore è il nome conferito dai Romani in età repubblicana ai territori dell’Italia settentrionale compresi tra il fiume Adige a Levante, le Alpi a Ponente e a Settentrione e il Rubicone a Meridione.

Il periodo di diffusione della cultura di La Tène in Gallia cisalpina fu un periodo molto ricco, e la sua analisi ha contribuito allo sviluppo della ricerca sulle radici delle tribù celtiche che si erano spostate in questo territorio. Infatti, popolazioni celtiche si mossero, non restarono sempre negli stessi luoghi. Ma non è vero che,  prima dell’uscita del volume di De Marinis, non si sapesse nulla sui Celti in Italia. Infatti, nel 1977 si era già scavato a Marzabotto, ed erano già stati pubblicati alcuni lavori di Andrew Breeze ed altri, ma per l’Italia fu davvero importante quest’opera.
Nello stesso periodo uscì il volume di Gloria Vannacci Lunazzi “Necropoli preromane di Redemello di sotto e di Ca’ di Marco di Fiesse”, che fu il primo libro di taglio moderno, comprendente la catalogazione di oggetti che si trovavano nei musei. Infine, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, Luciano Salzani della Soprintendenza di Roma scavò necropoli che si rivelarono importantissime per conoscere la presenza dei Celti in nord Italia, e cioè quelle di Casalandri a isola Rizza, di Valeggio sul Mincio e di Santa Maria di Zevio.

Un altro grosso impulso agli studi sui Celti in Europa è giunto dalle diverse mostre che sono state allestite in Mitteleuropa, in Francia, in Jugoslavia, mentre un grande scavo vicino alla città di Bologna, a Monterenzio, iniziato negli anni ’80, ha restituito molti oggetti e permesso numerosi approfondimenti.

Un altro archeologo molto importante sia per i suoi scavi che per le sue pubblicazioni è, secondo Mitja Guštin, Daniele Vitali, che ha pure organizzato convegni sui Celti. Di grande interesse è un volume da lui curato che si intitola: “Celti ed Etruschi, nell’Italia centro-settentrionale dal V secolo a.C. alla romanizzazione: atti del colloquio internazionale, Bologna, 12-14 aprile 1985”, uscito nel 1987. È pure questo un libro di non facile lettura, ma importantissimo. Infine, non si può dimenticare:Les Celtes et l ‘Italie du Nord- I Celti e l ‘Italia settentrionale, XXXVI Colloquio Internazionale dell’AFEAF, Verona 2012, volume che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi nella città scaligera.  Ed è uscito, pure, un catalogo sulla mostra sui Celti tenutasi a Venezia, di levatura europea ed ultima di questo genere in ordine di tempo.

Il professor Guštin, quindi ribadisce come i Celti non fossero popolazioni che non si spostavano mai, tanto che, dopo il periodo di La Tène, giunsero, circa nel 400 a.C., fino a Roma, come ci ricorda la letteratura del tempo, ma non distrussero la città, la lasciarono in piedi e quindi ritornarono verso nord raggiungendo la valle del Po, ora Lombardia, dove si insediarono. E bisogna ricordare che, anche se i Celti vengono sempre rappresentati con elmi e spade, in realtà, pur venendo da Nord, furono pure dediti all’agricoltura, furono, se così si può dire, anche un ‘popolo contadino’, che voleva vivere stabilmente su di un territorio che desse i suoi frutti, che fosse fertile.

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Quindi il professore sloveno passa ad illustrare i 3 volumi proposti nell’incontro, tutti recentissimi, pubblicati tra il 2017 ed il 2018, tratteggiandone gli autori e soffermandosi sugli oggetti più importanti presentati nelle opere.

Il primo volume posto all’attenzione dei presenti è “Celti d’Italia”, libro pesante nella lettura, che lo stesso Guštin confida di non esser riuscito a seguire riga per riga.  Il volume è diviso in tre sezioni e riporta anche una tavola rotonda sull’argomento. Il libro è dedicato a Renato Peroni, grande archeologo italiano, che dette una linea specifica e personale agli studi. Egli studiò in particolare l’età del ferro, ma  non desiderava soffermarsi solo ad analizzare i Celti presenti in Italia, ma anche al di fuori della penisola, per poter fare dei confronti e dei raffronti. Ed il volume “Celti d’Italia” ci permette di conoscere quali argomenti fossero oggetto della sua ricerca. Ma Peroni è importante, in particolare, per aver creato una scuola di pensiero in ambito archeologico, ed aver formato un gruppo di studiosi che proseguono il suo lavoro, tutti di alta levatura scientifica, tanto che archeologi non italiani lo hanno potuto ‘ incontrare’ anche se è morto nel 2010, attraverso i suoi allievi ed i suoi insegnamenti. Egli in particolare è noto per il suo modo innovativo di datare i reperti.

Il volume ha pure una premessa che ricorda in particolare proprio Renato Peroni, scritta da Otto-Hermann Frey, emerito professore di archeologia dell’Università di Marburg, noto studioso dell’area Veneta di insediamento dei Celti in Italia. Egli, quarant’anni fa, ha pure partecipato all’XI° convegno di studi etruschi, tenutosi, ad Este e Padova nel 1976, ed ha scritto un interessante volume sull’arte delle situle, cioè dei secchi, dei contenitori.

Il volume “Celti in Italia” contiene molti articoli, di diversi autori. Uno di loro è Giovanni Colonna, che ha scritto un saggio su “I Celti in Italia nel VI° e V° secolo a. C., dati storici, epigrafici, onomastici”, lavoro molto importante, che aiuta gli archeologi classici, che amano oggetti, spade e fibule, a capire come studiare i reperti seguendo pure una chiave di lettura data da fonti storiche relative alla cultura materiale dell’epoca, ed a comprendere come si possano interpretare, oggi, le scritture celtiche pervenuteci.

Il secondo articolo è scritto da Raffaele de Marinis, Stefania Casini e Marta Rapi, e tratta degli scavi di Forcello, in provincia di Mantova, su cui esistevano già vari studi. Il parco archeologico del Forcello è un importantissimo perché è stato scavato in modo moderno ed ha fatto emergere molti materiali interessanti per lo studio del periodo compreso tra la fine della prima età del ferro e l’inizio della seconda.

Un altro articolo che si trova nel volume è stato scritto da Filippo Gambari, ed è intitolato: “I Celti nella transpadana. L’invasione dei Galli e gruppi celtici preesistenti”. In questo suo breve contributo, Gambari prende in considerazione gli aspetti storici del problema dei Celti in Italia, anche se il saggio si impernia su una situla trovata a Sesto Calende. Gambari tratta pure di questa fibula d’argento, molto bella, molto tipica, molto lateniana, che non sappiamo però se fosse di fabbricazione celtica, ma che sicuramente segue la moda lateniana celtica. Ed anche ora in Italia molti vestono blue Jeans, ma non sono americani, e seguono, semplicemente una moda importata dall’estero.

Esempi di fibule al Museo di Novo Mesto. (Foto di Laura Matelda Puppini).

Scrivendo queste righe, mi sono ricordata di un fatto che ha segnato i miei interessi archeologici. Mi trovavo, tanti anni fa, a Lauco, se non erro, ad ascoltare Maurizio Buora parlare dei Celti. La sala era zeppa di persone, in particolare di democristiani, ma anche di esponenti di altri partiti che erano venuti a sentire una conferenza ‘politicamente corretta’ cioè che seguisse il modo di pensare corrente che voleva gli antichi Carni essere una specie di galli guidati da un Vercingetorige ideale, mai domi e fieramente antiromani. Essi fecero un balzo sentendo quanto diceva il relatore. Buora disse che il fatto che si fosse trovata in un luogo una tomba celtica non significava assolutamente che ivi abitava una popolazione Celtica. Infatti un gruppo di guerrieri Celti poteva essere passato di là ed aver sepolto un capo, un guerriero morto nel tragitto. E sottolineò come, se fra centinaia di anni, uno avesse scavato in Friuli, avrebbe potuto magari trovare una Timberland, ma ciò sarebbe potuto accadere non perché in Italia abitassero americani, ma perché un prodotto americano era giunto sul mercato italiano. Questo è un pensiero profondo, condiviso anche da Mitja Guštin. I popoli non erano segregati, si incontravano, si muovevano, apprendevano, copiavano, facevano giungere oggetti dall’estero: basta vedere quanto influì l’arte greca nel Ferrarese, con riferimento alla necropoli di Spina.

E tanti oggetti reperiti pongono lo stesso problema: sono di popolazione lateniana o solo di fattura lateniana ed espressione di un gusto diffuso allora, anche tra altri popoli?  Se troviamo una fibula lateniana, non possiamo dire, se non analizzando il contesto, se essa fu prodotta da una popolazione celtica o se fu forgiata da altri popoli seguendo un gusto, una moda, che riprendeva oggetti primieramente celtici.

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Gambari poi, nel suo saggio, parla anche dei Taurici cisalpini, che interessano particolarmente al professr Guštin, perché i Taurici, che erano Celti, avevano insediamenti anche in Slovenia centrale ed orientale, e nei pressi di Lubiana.

Vi è, quindi, sul volume “Celti d’Italia”, un altro articolo sempre di Filippo Gambari, intitolato “I Celti nella Liguria”. Egli si è soffermato in particolare sull’analisi di una fibula, ma nella parte iniziale ha citato molti oggetti celtici reperiti in quella regione, tra cui parti di armature, ed elmi. Pertanto si può ritenere che detto testo faccia il punto sulla situazione ligure.

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Poi vi è il saggio di un gruppo di autori che ha evidenziato, costruendo varie cartine, i luoghi di residenza delle varie tribù celtiche. E vi è la presentazione di una tomba femminile caratteristica per i paramenti reperiti. L’articolo tende, sostanzialmente, a far spostare la datazione della presenza dei diversi gruppi di Celti nell’ Italia settentrionale intorno al terzo o quarto secolo a. C..

Quindi vi è il contributo di Philippe della Casa, dell’università di Zurigo, che ha approfondito il tema dei passi transitati e transitabili delle Alpi.
Chi vive nei pressi delle Alpi pensa che esse fossero, prima di Cristo ed anche parzialmente poi, una barriera insormontabile, mentre si sa che vi erano passi transitabili e che persone vi passavano anche per commerciare, almeno nella seconda età del ferro.
Franco Marzatico di Trento ha, tra l’altro, collocato un insediamento alpino, cosa non facile, in base ad una serie di oggetti reperiti in un’area, analizzando quali, tra essi, unissero le società di allora, assieme al modo di vivere, agli usi ed ai costumi.
Vi potevano essere aspetti similari, dati dai comuni problemi di sopravvivenza, che univano popoli, vi potevano essere interazioni, vi potevano essere assimilazioni, vi potevano essere diversità.

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Il volume contiene, poi, anche un articolo scritto a più mani, ed uno degli autori è Serena Vitri. Questo saggio presenta due piantine che mostrano come i Celti si fossero insediati stabilmente sulle montagne, non in pianura. Questo indica agli archeologi che, in futuro, dovranno affrontare il problema di chi si insediò in pianura mentre i Celti abitavano le Alpi.
Quindi il volume riporta due studi: uno di Giuliano Righi, che tratta di una spada posta ritualmente in una tomba, l’altro di Giovanna Gambacurta ed Angela Serafini, che presentano una mappa sintetica ove si vede che anche la pianura era piena di insediamenti celtici. Ma forse si è guardato il territorio con una lente troppo grande. (2).
Questa cartina, se comparata con la precedente, ci indica, pure che vi è una differenza tra gli insediamenti nella seconda età del ferro posti in montagna e quelli posti in pianura, per quanto riguarda il territorio friulano.

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La seconda parte del libro raccoglie un contributo di Gino Bandelli, che tratta dei Celti dopo la guerra Annibalica. Infatti, secondo Guštin, dopo la battaglia di Talamone, combattuta nel 225 a. C. tra i Romani e un’alleanza di tribù celtiche, il mondo si modificò.  Ogni guerra porta dei problemi e quelle Annibaliche mutarono la vita dei popoli coinvolti. Dopo questa battaglia e quelle contro Annibale, iniziò la romanizzazione del territorio, che è avanzata da Sud verso Nord, raggiungendo nel 181 a.C. Aquileia e poi Zuglio, verso il 50 a. C.. Ma non bisogna dimenticare che la romanizzazione dei territori avvenne in modo molto lento.

Quindi vi è, sempre in: “Celti d’Italia”,  il contributo di Francesco Maria Raffaelli ed altri, che hanno distribuito il materiale reperito in modo da dimostrare il procedere della romanizzazione nei territori abitati da Celti. Patrizia Solinas, invece, si è occupata dell’epigrafia celtica nel quarto e terzo secolo ed Ermanno Arslan ha scritto, nuovamente, di monete celtiche, argomento su cui è esperto. Fiondami si è soffermata sulle ceramiche della seconda età del ferro, che ci mostrano la differenza tra diverse culture, in particolare fra quelle appenniniche e quella della pianura lombarda. Alla fine del volume è riportata una relazione sulle armi dei Celti d’ Italia. Le armi che conosciamo, se sono ben conservate, mostrano pure di esser state ben decorate. E gran parte della capacità artigianale dei Certi ruotava intorno alla decorazione delle armi ed alla piccola ornamentazione. Il volume, infine, riporta pure una cartina che mostra la diffusione delle armi celtiche.

 Monete celtiche reperite in Veneto. (https://ambatii.wordpress.com/2012/05/11/la-moneta-celtica/).

Il secondo volume oggetto di presentazione è intitolato: “I Celti ed il Veneto”. Iniziando il discorso sul libro, Guštin dice che egli per primo, non essendo italiano, ha dovuto imparare che il Veneto non è Venezia, che il Veneto ha una parte anche alpina, e che il Veneto si presenta ora, amministrativamente, in modo diverso dal Veneto dei Veneti. Pertanto, il volume “I Celti ed il Veneto” tratta della storia archeologica di un territorio ben più ampio di quello definito Veneto oggi. Il volume è diviso in nove capitoli, e risulta molto utile per gli studiosi ma è anche a carattere divulgativo.

Il primo capitolo tratta della situazione del Veneto al tempo dei primi contatti delle popolazioni autoctone di pianura con i Celti che già abitavano, da centinaia di anni, le Alpi. Ma questo aspetto inizialmente era sfuggito, perché essi furono studiati solo come popoli di cultura Hallstattiana. Invece la loro cultura hallstattiana si cambiò, intorno al 450 a. C., in cultura lateniana. Lo stile delle decorazioni, prima geometrico, mutò in uno stile ‘fantastico’ se così si può dire, e mutarono, nel contempo, molti altri aspetti della cultura materiale. E chi attuò questo mutamento furono gli stessi popoli hallstattiani, che avevano imparato molto dagli etruschi e dai greci, che, avendo visto oggetti lateniani, di gusto diverso dal loro, volevano imitarli. Così non per imposizione ma per scelta, per amore del nuovo, diremmo oggi, cambiarono il loro modo di realizzare ceramiche e oggetti in metallo.

E già durante la prima età del ferro, questi Celti, che vivevano in montagna, mandarono commercianti di oggetti prodotti da loro verso la pianura, e vi furono degli scambi di manufatti, visibili nei reperti, che attestano ora sia i contatti tra i Celti e le grandi tribù che vivevano ai piedi delle Alpi, sia che detti scambi furono vivaci.
La tomba di Posmon, in comune di Montebelluna, risale all’inizio del periodo in cui questi contatti avvennero, ed è una tomba arricchita di oggetti in ceramica e di fibule in bronzo di gusto locale, ma anche di fibule nuove di gusto lateniano, con il gancio tipico lateniano.
Ed allora gli scambi erano facilitati dal fatto che non c’erano frontiere geografiche o fra i popoli, come mostra una cartina inserita nel volume.
Non sappiamo, poi, se i commercianti di allora vendessero in forma diretta o organizzassero dei mercati, o se esistessero ambedue le modalità di vendita o scambio, ma presumibilmente gli oggetti di fattura non locale finivano in ‘scuole’ di artigianato ove un maestro li faceva copiare e realizzare in modo similare.

A questo stesso periodo, posto tra la fine dell’era hallstattiana e l’inizio della lateniana, quando i contatti fra i Celti ed i loro vicini si fecero sempre più forti, risalgono una sepoltura con un cavallo ed alcune fibule, che differiscono totalmente da quelle che si usavano prima, e sono sempre di bronzo ma hanno, invece che un motivo geometrico, il disegno di un animale rituale, seguendo la nuova moda che non veniva dal sud ma dal nord. In sintesi, furono gli abitanti delle Alpi che influenzarono, questa volta, i popoli di pianura.

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Il libro introduce ogni capitolo con un titolo vivace ed attraente. Per esempio, uno si chiama: “Il tempo dei gioielli”, e bisogna capire che, allora, una armilla, cioè un braccialetto, di vetro, era già un gioiello.
Con questa considerazione, Guštin precisa come sia difficile talvolta, per noi, ora, uscire dai nostri schemi mentali per pensare in modo diverso, ma lo studio degli antichi popoli prevede questo. Per noi ora un braccialetto di vetro sarebbe una chincaglieria, allora era un gioiello vero e proprio, con un valore ben differente da quello dato ora.
Quindi il volume parla della tomba di Oderzo, ove si sono trovate fibule autoctone di tipo Certosa, ma che hanno un anello di sella d’oro, che segue un modello svizzero, e fibule celtiche lateniane, a riprova del momento di incontro fra stili diversi.
La tomba è femminile, e al suo interno sono stati reperiti oggetti provenienti, per foggia, da nord, forse portata dai primi gruppi di Celti mossisi verso il piano dai monti.

Ad uno di questi gruppi, insediatosi a Quarto d’Altino, si possono far risalire le due tombe celtiche trovate ivi, che avevano al loro interno spade tipiche celtiche ma ceramiche locali. Pare quindi, che quando i due corpi vi furono collocati, ci si trovasse in un periodo storico in cui l’arte celtica si era già venetizzata, se così si può dire. Quindi se è vero che i Celti influenzarono i popoli di pianura, questi a loro volta influenzarono i Celti.
A Quarto d’Altino si è trovato pure uno scudo ornato da una piccola placca in bronzo, tipico del secondo periodo di invasione, da nord, dei Celti. Il primo spostamento di Celti aveva portato questi popoli fino a Roma, il secondo avvenne intorno alla metà del quarto secolo, e non andò così a sud.

Museo Retico. Località Casalini in Val di Non. Figurine in bronzo di pugile e cavaliere dell’età del ferro. (Foto di Laura Matelda Puppini). 

Gli autori offrono poi una carrellata delle problematiche del periodo che va dal 325 al 250 a. C. in territorio Veneto, e questo, secondo Mitja Guštin, è un bene perché dà il contesto per capire e collocare ed una cronologia adatta agli studenti ed a fini divulgativi. A questo punto Mitja Guštin fa un’altra delle sue considerazioni profonde, che paiono battute buttate là, ma non lo sono.
Quando ero giovane, racconta per esemplificare, mi pareva che ogni cosa dovesse mutare ogni trent’anni, e trent’ anni mi parevano un’eternità, ma poi, studiando archeologia, mi sono ricreduto, e ho capito che talvolta cento anni non sono nulla, che il tempo storico non è valutabile con lo stesso metro di misura di quello di una vita.

Per noi, penso tra me e me, abituati a mutamenti veloci, il tempo anche del Medioevo è quasi impensabile, così come la progettualità e la realizzazione anche di un pellegrinaggio ad un santuario. E la mente va a “The Canterbury Tales”, di Geoffrey Chaucer. Figurarsi il tempo dei ‘Celti’.

Inoltre, se la cronologia aiuta a datare gli oggetti, vi sono però dei problemi, per gli studiosi, rappresentati dal fatto che in un dato periodo nelle tombe potevano esser stati posti oggetti databili precedentemente, che erano appartenuti a persone di una certa età. Cioè è come se ora aprissimo l’armadio della nonna, nel momento della sua morte, e la seppellissimo con gli oggetti a lei cari, che non sono però databili all’oggi, né come gusto, né come funzione, né come fattura. Questo è uno dei grandi problemi per l’archeologo.
Se degli oggetti appartenuti ad una persona sono sepolti con lei, si può dire che il gusto e la foggia con cui sono stati costruiti sono contemporanei al decesso ed all’inumazione? Parrebbe così ma non sempre è vero. Per questo bisogna analizzare i contesti e più fonti, anche scritte, se reperibili, bisogna comparare, bisogna analizzare, per cercare di capire, non fermandosi allo studio del solo manufatto. Questo io ho capito dal prof. Mitja Guštin.

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Naturalmente esistono dei criteri di classificazione: per esempio per chiarire se tombe maschili siano celtiche o meno, quello che conta è vedere come sono forgiati spade ed elmi. Si possono trovare però anche altri oggetti tipici: per esempio, nel volume in questione viene citato un piccolo bronzetto votivo, a figura umana, dotato di mantello decorato allo stesso modo delle spade e ceramiche tipiche.
Invece le fibule femminili, presentate sempre in: “I Celti ed il Veneto”, non sono univoche nel gusto, che muta spesso nel tempo, e quindi non possono esser utilizzate, secondo Guštin, come indicatori definitivi di appartenenza celtica. Ma questo cambiare nella foggia di oggetti prettamente femminili, potrebbe dipendere dal desiderio delle donne e ragazze di non avere prodotti in serie, diremmo oggi.
Però d’altro canto, questo modificarsi delle fibule nel tempo ci permette di creare una cronologia più precisa degli influssi e scambi tra popoli alpini e di pianura.
Bronzetti come quello descritto, si trovano, poi, nei luoghi di culto, nei santuari celtici, la cui collocazione è evidenziata, per l’area veneta, in una cartina da Giovanna Gambacurta ed Angela Ruta Serafini.

Altro aspetto interessante è che, mentre nelle due tombe celtiche di Quarto d’Altino, le spade rinvenute erano integre, in altri luoghi le spade sono ritualmente spezzate, distrutte, perché ai defunti non servono più, ma questo sentire è databile in un periodo successivo.

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Il l volume “I Celti e il Veneto. Storia di culture a confronto” prende quindi in considerazione le iscrizioni in particolare su ceramiche: iscrizioni che sono venetiche, venetiche che risentono dei Celti, fino al nome di un personaggio che è tipicamente celtico. Per quanto riguarda infine i “Torques”, (collari metallici spesso realizzati con fili di metallo intrecciati) essi sono stati già studiati.

Ma nell’idea che ci siamo fatti dei Celti, tutti i maschi portavano il “Torque”, ma tra il secondo ed il primo secolo a.C., “Torques” vennero indossati anche da soggetti che non erano Celti. Popolazioni non celtiche della pianura padana, del Friuli e dell’isontino, indossavano il “Torque” e lo indossavano quando i Celti non lo portavano più. Per esempio, il “torque” trovato in Alto Isonzo, è un pezzo di fattura pesante, un “fuoriserie” forse realizzato per farne un dono diplomatico o qualcosa del genere.

Passando poi alla ricca tomba esposta al Museo di Santa Maria di Zevio, detta la “tomba del carro”, essa è databile in un periodo ove si seppellivano i capi delle piccole società locali, i capi tribù, con tutto quello che possedevano di personale, compreso appunto il carro. Ma questa abitudine non era presente nell’ultimo secolo a.C., mentre si ritrova in sepolture del nord Europa collocabili tra il seicento ed il quattrocento a.C., quando ogni capo dei Celti era sepolto sotto un tumulo e su di un carro simile a quello trovato nella tomba di Santa Maria di Zevio.

Ma alla fine del secondo secolo a. C., venne anche qui l’idea di seppellire alcuni capi con il carro a quattro ruote, e la tomba di Santa Maria di Zevio è uno di questi esempi. E guardando una cartina del volume su “I Celti ed il Veneto”, si può vedere come siano noti, in nord Italia, solo nove esempi di sepolture celtiche con il carro, e due si trovano nel veronese. Questo significa che, allora, tra secondo e primo secolo a. C., la società veronese era molto organizzata, evoluta, se due principi, due capi sono stati sepolti così, con tutti gli onori. Insomma, Guštin ci dice che una sepoltura ci parla anche della società circostante.

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Quindi egli passa ad illustrare il capitolo intitolato. “Il tempo delle tavole imbandite”, dicendo, in modo scherzoso, di non sapere cosa significhi qui, il termine “imbandite”, ma di aver imparato subito, fin dal suo primo viaggio in Italia con l’autostop, che qui si ritiene che mangiare faccia bene.

Il capitolo parla di una tomba trovata ad Isola Rizzo. È la sepoltura di un guerriero, che è stato tumulato con molti oggetti in ceramica che gli dovevano permettere, nel suo viaggio verso l’aldilà, di avere cibo sufficiente.

Quindi il libro porta anche un articolo sulle monete celtiche, provenienti dall’area danubiana e norica, dai dintorni della Sava e del Danubio, che circolavano nell’Italia del Nord e nel Veneto, ma gli studiosi sanno che anche altri oggetti reperiti qui provenivano da altre aree, a riprova degli scambi presenti tra popoli ed insediamenti in vari luoghi. Inoltre, queste monete norico-danubiane, che circolavano anche se non erano la moneta locale, stanno ad indicare la presenza di un commercio ‘monetario’, di un utilizzo, comunque, di diverse monete sullo stesso territorio.

Infine, il prof. Guštin si sofferma, per quanto riguarda le conclusioni del volume, sul territorio definito dagli autori ‘Veneto’, riprendendo una sua considerazione iniziale. Essi hanno definito ‘Veneto’, un’area geografica che va dai Colli Euganei, ad Arquà Petrarca, ad Este, ma che non comprende la pianura friulana. Inoltre, gli autori hanno ribadito, in chiusura, l’importanza delle iscrizioni, delle statuette e delle piccole figure per lo studio della storia dei popoli celtici. Nelle figure, il Celta è rappresentato con l’elmo tipico ed una lunga spada.

Elmo forse celtico. Museo di Novo Mesto. (Foto di Laura Matelda Puppini).

Il volume presenta, alla fine, anche una serie di carte tematiche, da cui si può evincere le variazioni di alcuni aspetti nel tempo, ma la cosa più importante è vedere come le popolazioni incominciarono ad organizzare la loro vita e società nei territori veneti.

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Il terzo volume posto all’attenzione dei presenti, è di Rosa Roncador, ed è intitolato “Celti e Reti. Interazioni fra popoli durante la seconda età del ferro, in ambito alpino centro- orientale”, è stato edito a Roma nel  2017, e tratta delle popolazioni che abitarono le Alpi.  Anche noi, oggi, – afferma il professore sloveno- se andiamo con l’auto da Trento verso Innsbruck, ci accorgiamo di attraversare luoghi molto alti e con valli molto strette. Questo è il territorio analizzato da Rosa Roncador, che ha prodotto un volume riassuntivo di tutto quello che si sa su di esso, per quanto riguarda gli ultimi secoli Avanti Cristo.

Anche in questa zona, che va da Trento ad Innsbruck, si sono reperiti bronzetti, anche qui si sono trovate fibule già inizialmente lateniane, ma con una lavorazione tipica del territorio, che si sono poi evolute verso quelle già prese in considerazione, di cui due esemplari sono buoni prodotti dell’arte celtica. Una fibula, poi, ha, alla fine, un volto con un elmo alpino. E si sono trovate molte armi: lance alte, non tanto tipiche celtiche ma tipiche dei territori alpini, e spade. Sul volume la Roncador riporta un esempio di spada celtica forgiata con ferro di buona qualità, che poteva invogliare anche i non Celti ad acquistarla. Pertanto, la sola presenza della spada non basta a dire che lì abitavano Celti.

Guštin dice che egli ritiene che spade di buona foggia potessero esser state usate anche da popolazioni locali, che le avevano acquistate da Celti, o potrebbero esser state forgiate in loco su modello delle spade celtiche, cosicché la diffusione di armi celtiche può esser avvenuta su di uno spazio più ampio di quello abitato dai Celti stessi.
Si sono trovate molte spade in questo territorio alpino, e si può notare, anche a nord della Rezia, l’abitudine di porre spade spezzate, distrutte nella sepoltura. Questa consuetudine fu assai diffusa tra i Celti nel periodo che va dal terzo al secondo secolo a. C., fino a Sanzeno, nel veronese.
Sanzeno, però, non fa parte della zona presa in considerazione, e lì si sono trovate spade corte, forse di foggia influenzata dai romani, e spade simili sono state trovate anche nei Balcani.

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Per quanto riguarda le Alpi, ed in particolare le Alpi verso la Slovenia, porre un elmo nella tomba del guerriero, nel periodo che va dalla tarda età del bronzo fino all’inizio dell’epoca romana, fu un’abitudine, quasi un obbligo. Invece nella Rezia si sono reperiti molti elmi, ma pochi nelle tombe, per esempio alcuni a Giubiasco, nel Canton Ticino. E nel Tirolo si sono trovati molti elmi in depositi, simili ai depositi votivi.

Quindi il prof. Guštin presenta una carta da lui prodotta qualche mese prima, che mostra l’enorme numero di elmi celtici, sia classici che nella forma alpina, reperiti nello stesso territorio. Questi elmi celtici di ferro si sono diffusi o sono rimasti proprio in territorio alpino, ed in particolare in Slovenia e verso la Pannonia, in spazi accanto a quelli definiti propriamente celtici. E questa distribuzione degli elmi appare un dato molto interessante.

Anche nel volume della Roncador, poi, sono state pubblicate delle immagini di oranti: una tra queste è famosa e risente di influssi etruschi. Ma numerose figurine votive antropomorfe dal VI secolo a.C. appaiono nei santuari retici come oggetti votivi. (3).

Una parte del Karnyx di Sanzeno. (https://www.cultura.trentino.it/Approfondimenti/Il-Karnyx-di-Sanzeno-la-tromba-da-guerra-dei-Celti).

La Roncador ha posto, nel suo volume, molte altre immagini di oggetti trovati in territorio retico, ed in particolare di alcuni “carnykes”, grandi trombe, che venivano suonate in battaglia per spaventare il nemico, (4), sulle quali l’autrice ha fatto studi specifici, in particolare su quello di Sanzeno. Ed anche uno dei bronzetti di Gundestrup ha un oggetto simile, una tromba.

Ma sia Polibio che Diodoro parlano dei «cosiddetti carnykes, nome derivante dal tardo greco per indicare un corno musicale di origine animale. Di tali oggetti, in bronzo, ottone (o entrambi come nel caso del carnyx di Deskford) ed addirittura in terracotta (la tromba celtiberica di Numancia) ne sono stati rinvenuti, frammentari, in diverse località dell’Europa». (5).

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Quindi Guštin mostra una seconda cartina, che segna gli insediamenti celtici e retici, e dove si nota che Sanzeno è al centro del mondo retico, mentre altri centri appartengono al mondo celtico e non retico. Infine egli ricorda ai convenuti, che, presso il Museo di Innsbruck, vi è un pezzo unico affascinante: un disco, trovato a Sanzeno, con figure reali e fantastiche. Esso così viene descritto dalla Roncador: trattasi di un disco in bronzo fuso del diametro di 16, 5 cm e del peso di 885 gr. (lo spessore del disco è irregolare e variabile da 0,4/0,5 cm fino a 1,4 cm), rinvenuto nel corso dell’Ottocento a Sanzeno, che presenta, sul lato anteriore, «una complessa decorazione costituita da un triscele centrale, composto da linee ondulate desinenti in spirali, attorno al quale si dispongono tre grandi figure di animali fantastici in parte cavalli, in parte uccelli o pesci e in parte galli. Gli spazi vuoti sono stati occupati da elementi decorativi probabilmente fitomorfi e da figure mostruose (di dimensioni inferiori rispetto ai cavalli/galli), per metà animali (cinghiali? cani?) e per metà umani (volti). Sul corpo degli animali di maggiori dimensioni (cavalli/galli) sono incise delle linee ondulate […]». (6).

E riportando un bel disegno di cavalieri di Miha Mlinar, del Museo di Tolmino, presentato ad una mostra, Mitja Guštin chiude la rassegna degli ultimi volumi editi in italiano sui Celti e la sua relazione.

Museo di Novo Mesto. Situla ornata. (Foto di Laura Matelda Puppini).

Questo testo è il frutto della trascrizione degli interventi citati, che avevo registrato, con qualche aggiunta personale fatta in particolare per me stessa, che non sono una archeologa o esperta in storia antica. Può darsi che abbia mal interpretato qualcosa, e prego pertanto gli esperti e soprattutto gli intervenuti di inviarmi correzioni di possibili errori, scusandomi subito con autori e lettori.

Questo testo mi è parso importante perché parla di Celti, di problemi degli archeologi e storici nello studiare i Celti, perché rompe stereotipi, per riportare alla realtà. Infatti, non si può non sapere che nel 1800 si cercarono, per sostenere idealità nazionalistiche, le nobili origini di un popolo, unito da una lingua e da usi e costumi tipici, e per esempio in Francia, queste furono individuate nell’ascendenza celtica, idealizzando in senso romantico i Celti stessi. Del resto, come non ricordare che lo stesso Cesare Augusto si era impegnato per dare a Roma nobili origini?

Questa trascrizione un po’ personalizzata, mi ha portato anche a ricercare alcuni testi presenti online, che qui di seguito elenco, senza conoscerne però il valore scientifico, ma gli autori sono alcuni di quelli citati nell’incontro. Naturalmente si trova anche altro sulla rete.

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AA.VV., I Celti nell’ Alto Adriatico, a cura di Giuseppe Cuscito, Antichità Alto Adriatiche XLVIII, Trieste, 2001. https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/15853/1/00-AA-XLVIII-2001.pdf;


Mirta Faleschini, Giuliano Righi, Gloria Vannacci Lunazzi, Serena Vitri, La Carnia tra Celti e Romani. Evoluzione dell’insediamento attraverso l’analisi di alcuni siti campione. https://www.openstarts.units.it/…/1/05-Faleschini_Righi_Lunazzi__Vitri_147-178.pdf


Giovanna Gambacurta, Angela Ruta Serafini, I Celti in Veneto: appunti per una revisione. https://www.openstarts.units.it/bitstream/…/1/12-Gambacurta_Serafini_187-201.pdf


Raffaele C. de Marinis, I Celti e la Lombardia. https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/15858/1/13-deMarinis_203-226.pdf


Paul Gleirscher, I Celti in Carinzia.  https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/15860/1/15-Gleirscher_241-259.pdf


Ermanno A. Arslan, I Celti nell’ Alto Adriatico alla luce dei dati archeologici. https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/15866/1/20-Arslan_325-334.pdf


“I Celti in Friuli: archeologia, storia e territorio”. II. 2002, a cura di Gino Bandelli e Serena Vitri. https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/16126/1/73_17.pdf


Rosa Roncador, Celti e Reti. Interazioni tra popoli durante la seconda età del ferro, in: Antichi popoli delle Alpi. Sviluppi culturali durante l’età del ferro nei territori alpini centro-orientali. Atti. www.academia.edu/…/Celti_e_Reti_tra_V_e_I_sec._a.C._contesto_culturale_e_progetto di ricerca “Karnyk di Sanzeno”.  


Giuseppe Sassatelli, Celti ed Etruschi nell’Etruria Padana e nell’Italia settentrionale. www.academia.edu/…/Celti_ed_Etruschi_nell_Etruria_Padana_e_nell_Italia_settentrionale


Anna Marinetti, Patrizia Solinas, I Celti del Veneto nella documentazione epigrafica locale. www.academia.edu/…/I Celti_del_Veneto_nella_documentazione epigrafica locale


Daniele Vitale, Manufatti in ferro di tipo La Tène in area italiana: le potenzialità non sfruttate. 
https://www.persee.fr/doc/mefr_0223-5102_1996_num_108_2_1954


Giovanna Gambacurta, Angela Ruta Serafini, Veneti E Celti tra V E III Secolo A.C. (Tra La Tène A E La Tène B). https://core.ac.uk/download/pdf/53186453.pdf.

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Note.

(1) Per chi non lo sapesse, i reperti relativi ai Celti si dividono in quelli che contraddistinguono la civiltà di La Tène. Questa cultura ebbe il massimo sviluppo durante la tarda età del ferro (450- 50 a.C.) nella Francia orientale, in Svizzera, in Austria, nella Germania sud-occidentale, nella Repubblica Ceca, in Ungheria, in Inghilterra, in Irlanda e nord Italia. La civiltà di La Tene viene e suddivisa in tre fasi: “La Tène antico” (VI secolo a. C.),”La Tène medio” (dal 400 al 100 a.C.), “La Tène tardo” (I secolo a.C.). (https://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_di_La_Tène). La civiltà di Tène si sviluppò dalla cultura di Hallstatt, (Austria, età del ferro), senza nessuna rottura culturale definita, ed a seguito dell’influenza della cultura greca prima e di quella etrusca poi sui Celti. Uno spostamento degli insediamenti si ebbe a partire dal quarto secolo a.C. (Ivi).

(2) Qui io ho compreso così, ascoltando la registrazione, ma potrei aver capito male.

(3) http://www.altarezia.com/storia.htm.

(4) Rosa Roncador, Celti e Reti. Interazioni tra popoli durante la seconda età del ferro, in: Antichi popoli delle Alpi. Sviluppi culturali durante l’età del ferro nei territori alpini centro-orientali. Atti, in: www.academia.edu.

(5) http://www.popolodibrig.it/public/articoli/Musicanellantichit.pdf

(6) Rosa Roncador, op. cit., p. 171.

Laura Matelda Puppini

 

Alfio Englaro. Una controriforma sanitaria gattopardesca. Cambiare tutto perché tutto resti come prima. Da Cjargne online.

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«Appunti e disappunti su: “Disegno di Legge della Giunta Regionale n° 27 del 29 ottobre 2018. “Assetto istituzionale ed organizzativo del Servizio Sanitario Regionale”.

Prendendo in mano la nuova legge regionale sulla Sanità, presentata il 29.10.2018 dalla nuova maggioranza di Centro Destra scaturita dalle elezioni regionali dello scorso aprile 2018 (Lega & alleati), non può non colpire immediatamente un grossolano refuso alla prima riga: è scritto 29 ottobre 2019 anziché 2018 e se questo è l’incipit, stiamo freschi… E dire che il neo-assessore alla Sanità è un architetto, perciò attento ai dettagli!
Ma andiamo per ordine. Non sembra innanzitutto per nulla adeguato descrivere quello del Friuli Venezia Giulia come un “Servizio sanitario regionale (SSR) che garantisce buoni livelli assistenziali”, come si legge nei primi capoversi introduttivi. Ciò era vero in un passato ormai lontano. Tale affermazione richiederebbe comunque una verifica su dati concreti e oggettivi, quali ad esempio tasso di occupazione dei posti letto in ospedale, malati “fuori reparto”, tempi di attesa in Pronto Soccorso, tempi del soccorso extraospedaliero, dati sull’attività dei servizi territoriali, trattamenti specialistici obbligatoriamente lontani, sia dentro che fuori territorio aziendale o fuori Area Vasta.

La Direzione Centrale Salute
Tutti questi importanti dati (come ha rilevato la Corte dei Conti nel referto di giugno 2018) la Direzione Centrale Salute nel periodo della riforma Serracchiani aveva omesso di conoscere, far conoscere e monitorare. Ci si giustifica dicendo che questa Direzione Centrale Salute “non sarebbe stata sufficientemente valorizzata e potenziata”. Considerando però il giudizio della Corte dei Conti di cui sopra, sarebbe più appropriato affermare che la Direzione Centrale Salute è stata caratterizzata da una inaccettabile inefficienza.

Servizi territoriali
In questi 5 anni vi è stato certamente un potenziamento dei servizi territoriali e sociosanitari ma non è affatto dimostrato dalla letteratura scientifica internazionale che l’incremento delle cure territoriali possa ridurre i ricoveri dei soggetti anziani e fragili e quindi la necessità di cure ospedaliere. Infatti, le persone anziane, fragili e spesso affette da pluri-patologia, sono soggette a frequenti episodi di instabilizzazione/riacutizzazione che è difficile se non impossibile trattare in un ambito di cure primarie (a domicilio o in casa di riposo o in RSA).

Unica Azienda sanitaria

La nostra nuova azienda si chiamerà “Azienda sanitaria universitaria Friuli Centrale” e ingloberà la ASS n 3 (la nostra), la n 2 (Bassa Friulana) e quella Sanitaria universitaria integrata di Udine (in sintesi l’intera provincia di Udine, dalle Alpi al mare Adriatico). Le altre due Aziende Sanitarie regionali saranno quella del “Friuli Occidentale” (cioè la provincia di PN) e quella “Giuliano Isontina” (cioè le due provincie di GO e TS insieme)

Tagli ospedalieri

La riduzione della rete ospedaliera operata nella nostra Regione ha portato a tassi di occupazione dei posti letto spesso vicini al 100%, valori per i quali la letteratura scientifica internazionale ha dimostrato un incremento del rischio clinico. Quindi, definire la rete ospedaliera attualmente “ridondante”, come si legge nella relazione illustrativa, sembra azzardato: l’Italia è tra paesi europei che hanno il minor numero di posti letto in rapporto alla popolazione, insieme alla Gran Bretagna. Un recente articolo del British Medical Journal ammonisce infatti: “ulteriori riduzioni nei posti letto nella vana speranza che aumentando i servizi territoriali si riducano i ricoveri, potrebbe rivelarsi potenzialmente pericoloso per la cura dei pazienti”. Sarebbe quindi condivisibile il proposito annunciato dalla nuova Giunta Regionale nella relazione illustrativa di “rimettere mano con urgenza al sistema.” Ma poi dall’esame dell’articolato del DDL si osserva che questo è dedicato soltanto alla revisione della governance del sistema e nulla viene detto riguardo alla riqualificazione dell’offerta sanitaria, che in pratica viene rinviata sine die, poiché dalla tempistica prevista dallo stesso DDL il processo di revisione della governance andrà a concludersi a giugno del 2020, tra più di un anno e mezzo, ed è una previsione comunque ottimistica. Ma nel frattempo come si ovvierà al decadimento dell’offerta delle cure osservato in questi ultimi anni e che continua a peggiorare a velocità crescente?

Spese ospedaliere e territoriali
Non è ben definita la separazione dell’attività di cura e riabilitazione ospedaliera da quella territoriale, con il rischio, anzi la probabilità che si perpetui la confusione gestionale che ha caratterizzato l’impostazione organizzativa conseguente alla LR 17/14.
Resterebbe quindi per tutto il settore ospedaliero solo il 45 % delle risorse, cifra che si è dimostrata ampiamente insufficiente a garantire sufficienti livelli di cure ospedaliere. Sembra quindi che il legislatore voglia perseverare nel proseguimento di una strada che si è rivelata fallimentare, ricordando in proposito quanto relazionato dalla Corte dei Conti circa la grave mancanza di dati dell’attività di assistenza territoriale che ha caratterizzato tutto il quinquennio precedente. E appare evidente che a tutt’ oggi non sembrano essere intercorsi miglioramenti in tal senso, anche perché i responsabili gestionali della precedente amministrazione continuano a ricoprire tuttora posti dirigenziali. E non si vede perché oggi potrebbero far meglio.

I CAP
Un’ ulteriore conferma dell’intenzione di proseguire sul cammino della riforma Serracchiani è indirettamente fornita dalla mancata abrogazione dell’art. 20 della LR 17/14, quello che istituiva e normava i Centri di Assistenza Primaria (CAP), causa di enormi sprechi di risorse, di inefficienze, di disservizi. I CAP, non essendo abrogato il relativo articolo della LR 17/14, si intendono quindi confermati e mantenuti, quali inutili micro-carrozzoni aggiuntivi.

Organizzazione ospedaliera
L’art. 9 comma 2 relativo alle “strutture aziendali”, prevede che queste siano qualificate in “strutture complesse, semplici e piattaforme assistenziali”, specificando che a tali articolazioni organizzative sono attribuite responsabilità professionali e responsabilità gestionali.
Mentre le strutture, sia complesse che semplici, sono in pratica quelle che una volta si chiamavano divisioni e servizi (quindi i reparti ospedalieri), le piattaforme sono un’articolazione organizzativa nuova introdotta dalla riforma Serracchiani, che viene riproposta da questo DDL. L’articolo 35 della LR 17/2014 “Modello organizzativo del presidio ospedaliero” sovverte completamente, e con palese illegittimità, l’organizzazione degli ospedali: ai commi 1 e 2 si prevede che l’attività dei medici e dei dirigenti sanitari sia limitata in sostanza alla sola attività clinica, e i dipartimenti finalizzati esclusivamente allo scopo di condividere competenze cliniche e definire percorsi diagnostico-terapeutici, mentre il comma 3 attribuisce agli infermieri e al personale tecnico l’organizzazione e la gestione, in completa autonomia, delle degenze, degli ambulatori, delle risorse professionali, di tecnologie e materiali.
Si continua quindi ad attribuire agli infermieri e al personale tecnico la gestione in completa autonomia delle strutture dell’ospedale, contrariamente alla normativa vigente che pone in capo ai dirigenti, medici e sanitari, direttori di dipartimento o di struttura complessa, la responsabilità della gestione. Infermieri e tecnici decidono e operano in completa autonomia, ma a rispondere dei risultati è sempre il direttore, medico o dirigente sanitario, senza poter esercitare il necessario controllo sull’attività del personale del Comparto.
Sembra poi essere previsto un assetto per livelli di intensità di cura dell’ospedale in toto, dando a quest’ultimo l’assetto di un presidio di rete, con la conseguenza inevitabile di disperdere il patrimonio organizzativo, culturale e operativo che caratterizza un ospedale.

Ospedali forzatamente… siamesi
L’art.9 conferma l’articolazione in presidi ospedalieri in hub e spoke (letteralmente: mozzo e raggi di una vecchia ruota di carro; cioè centrale e periferici ad esso convergenti) nell’ambito della cosiddetta Area Vasta, modello ormai accettato e funzionante. Ma il comma 4 ci riserva una sorpresa quando dà indicazioni organizzative e gestionali relative ai presidi ospedalieri con più stabilimenti ospedalieri, richiamando di fatto i disfunzionanti modelli di ospedale unico su due sedi (il cosiddetto “ospedale diffuso” del tipo “albergo diffuso”): Gorizia & Monfalcone; Latisana & Palmanova; San Daniele del Friuli & Tolmezzo; San Vito al Tagliamento & Spilimbergo. E così è chiaro che la Controriforma lascia tutto come sta, perchè vuole mantenere l’assetto organizzativo ospedaliero della riforma Serracchiani. E non importa se questi ospedali-gemelli sono distanti anche decine di chilometri l’uno dall’altro. E così si perpetuerà il fenomeno dei primari a scavalco, degli specialisti reperibili contemporaneamente su più sedi, dei malati che continueranno a girare da un lato all’altro dell’area vasta per ottenere le cure dovute, quando non al di fuori dell’Area Vasta.
E sotto il titolo “Riconversione di strutture ospedaliere” è stata decretata la soppressione dei presidi ospedalieri di Cividale, Gemona, Maniago e Sacile, trasformati in meri contenitori di attività distrettuali o in costosi scatoloni vuoti (ornati però di luccicanti verbose targhe esplicative) mentre gli H sopravvissuti annaspano tra mille difficoltà.

Forti criticità
Non si percepisce alcuna significativa possibilità di miglioramento, o anche di solo arresto del peggioramento dell’offerta delle cure, in tempi ragionevolmente brevi.
Non c’è alcun accenno nel DDL in esame (che sarà presto trasformata in Legge: vedi punto 10) per cui si possa intravedere una qualche soluzione idonea a risolvere problemi ipercritici come i disservizi e ritardi nell’ambito dell’emergenza urgenza (Pronto Soccorso e 112) e della normale accoglienza in reparti Medici (sempre più intasati), i tempi di attesa intollerabili per l’erogazione di prestazioni specialistiche varie, di indagini diagnostiche routinarie (ecografie) e finanche degli interventi chirurgici in elezione; senza dire delle lunghe estenuanti peregrinazioni verso gli H della pianura, quando non addirittura fino a Trieste per le più importanti prestazioni pneumologiche ed ultimamente anche cardiologiche; in pratica: un H spoke (Tolmezzo) che punta non più al suo H hub naturale (Udine) ma verso altro H hub di altra Area Vasta (Trieste)! E i forti disagi li subiscono maggiormente i parenti dei pazienti costretti a lunghi ingiustificati costosi spostamenti!
Da ultimo l’impatto negativo sugli operatori della sanità, a cui si è tolta la speranza di una rinascita del sistema sanitario regionale in tempi ragionevoli, una situazione frustrante inevitabilmente destinata ad approfondire la demotivazione di medici e infermieri.

Approvata la Controriforma
Il 5.12.2018 il Consiglio Regionale ha approvato la Controriforma Sanitaria con 27 sì della maggioranza (Lega, Progetto Fvg, Forza Italia, Fdi/An), 7 voti di astensione (M5s, Patto per l’Autonomia e Cittadini) e 9 contrari (Pd – Sinistre). È stato ribadito che la pura pianificazione sanitaria sarà oggetto di una riforma successiva: ad majora! E Fedriga ha comunicato tra l’altro: “Responsabilmente abbiamo scelto di non fare la riforma perfetta ma quella che nel minor tempo possibile potesse dare risposte migliori ai cittadini”. E se queste risposte sono le migliori per i problemi esposti al punto 9, c’è davvero da preoccuparsi per l’immediato futuro.

Alfio Englaro».

Da: Art. 75.  http://www.cjargne.it/libri/Controriforma.htm.

Tuteliamo i beni comuni. Sosteniamo il disegno di legge della Commissione Rodotà, per noi per i nostri figli, per i nostri nipoti.

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Ricominciamo dai beni comuni

«A poco più di un anno dalla scomparsa di un gigante del diritto come Stefano Rodotà, il suo nome torna al centro di una iniziativa che riprende uno dei suoi ultimi progetti professionali e che sicuramente, se fosse ancora con noi, lui sosterrebbe con il suo proverbiale vigore e la sua estrema gentilezza.

Tra il 2007 e il 2008, infatti, una commissione presieduta proprio da Stefano Rodotà aveva lavorato a un disegno di legge per riformare tutta la disciplina del codice di civile in materia di beni pubblici, che era (e purtroppo è) invariata dal 1942. L’intento era quello di dare allo Stato uno strumento attuale e adeguato per evitare future nuove ondate di privatizzazioni selvagge come quelle che negli anni ’90 avevano svenduto grandi pezzi di patrimonio pubblico a favore di privati, anche abusando della pratica delle concessioni.

Quel disegno di legge, presentato nel 2008 alla conclusione dei lavori della commissione, non è mai stato discusso in Parlamento (con governi e maggioranze di ogni colore) nonostante sia stato il principale motore del successo del referendum del 2011 sull’acqua pubblica e abbia ispirato una stagione di movimenti per la tutela e la riappropriazione dei beni comuni che è tutt’altro che esaurita, ancorché troppo spesso inascoltata. Un segnale, l’ennesimo, che spesso la sensibilità dei cittadini anticipa la politica del palazzo anche nelle scelte apparentemente più tecniche.

Parlare di beni comuni e porre al centro una nuova gestione del patrimonio pubblico significa proprio costruire una nuova visione politica, vuol dire guardare oltre la ristrettezza delle scadenze elettorali per provare a disegnare traiettorie che realmente possono rappresentare un futuro promettente per il paese. In un momento in cui sta già partendo la campagna elettorale per le elezioni Europee di primavera, sarebbe bello poter pensare che il focus non siano le solite scaramucce di piccolo cabotaggio quanto piuttosto prospettive di senso ampio, esattamente quello che una teoria dei beni comuni può rappresentare.

Anche per questo oggi quella commissione vuole ripartire, grazie allo sforzo di due giuristi che facevano parte della squadra di Rodotà, Ugo Mattei e Alberto Lucarelli. Si è partiti da un convegno all’Accademia dei Lincei venerdì 30 novembre scorso, da cui si lancerà una sfida vera e propria: una legge di iniziativa popolare che raccolga le 50.000 firme previste dalla Costituzione affinché il Parlamento sia spinto a discuterla.

Mai come oggi abbiamo un disperato bisogno di strumenti giuridici che tutelino quei beni comuni continuamente minacciati da un modello neoliberista basato sulla massimizzazione dei profitti di pochi e sulla socializzazione delle perdite tra molti. Siamo il paese europeo con il più alto tasso di consumo di suolo agricolo, abbiamo visto lo stato delle nostre autostrade (tutte affidate ai privati tramite concessioni), conosciamo bene la situazione degli acquedotti (e dei relativi servizi) laddove la gestione non è ancora stata ripubblicizzata in ottemperanza al referendum, abbiamo chiaro lo stato del dissesto idrogeologico che colpisce tutte le regioni della penisola.

La proposta Rodotà, poi, include anche i cosiddetti beni pubblici sociali quali il sapere, la salute e la previdenza, che come tali sono intrinsecamente pubblici e dunque vanno messi al riparo da possibili gestioni spregiudicate da parte dei privati.

La vecchia e un po’ frusta dicotomia tra Stato e Mercato, tra pubblico e privato, può essere superata solo ricorrendo a nuove categorie del pensiero e della legge. I beni comuni rappresentano questa nuova via e ci richiamano a un modo completamente differente di relazionarci, da cittadini, con ciò che è di tutti. Non è più ammissibile scadere in atteggiamenti deresponsabilizzati o peggio irresponsabili, al contrario siamo chiamati a farci carico di partecipare e di esigere una gestione ecologista e realmente democratica del pubblico.

Se andrà in porto una legge di iniziativa popolare sui beni comuni che porterà il nome di uno dei più grandi giuristi della storia del nostro paese, avremo di che festeggiare. (Ricominciamo dai beni comuni

(04/12/2018 – http://www.slowfood.it/ricominciamo-dai-beni-comuni/ da Luca Nazzi).

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Ma cosa dice la proposta della Commissione Rodotà, che ha terminato i suoi lavori nel 2008?

Io ho trovato questo su: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?facetNode_1=0_10&facetNode_2=0_10_21&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS47617.

«Commissione Rodotà – per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007) – Relazione.  (…).

La genesi del progetto
La Commissione sui Beni Pubblici, presieduta da Stefano Rodotà, è stata istituita presso il Ministero della Giustizia, con Decreto del Ministro, il 21 giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici.
Una simile iniziativa era stata proposta già nel 2003 da un gruppo di studiosi presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze. L’idea era nata in seguito al lavoro che era stato avviato in quella sede per la costruzione di un Conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche basato sui criteri della contabilità internazionale. Nello svolgimento di tale compito, e alla luce dei primi processi di valorizzazione e privatizzazione di alcuni gruppi di cespiti pubblici (immobili e crediti), era emersa la necessità di poter contare su un contesto giuridico dei beni che fosse più al passo con i tempi ed in grado di definire criteri generali e direttive sulla gestione e sulla eventuale dismissione di beni in eccesso delle funzioni pubbliche, e soprattutto sulla possibilità che tali dismissioni (ed eventuali operazioni di vendita e riaffitto dei beni) fossero realizzate nell’ interesse generale della collettività facendo salvo un orizzonte di medio e lungo periodo.
Inoltre, era emersa la necessità di azioni concrete per una migliore gestione di particolari tipologie di utilità pubbliche che scaturiscono da beni disciplinati ad oggi in modo frastagliato e poco organico. È il caso delle concessioni del demanio dello Stato, degli Enti territoriali e delle concessioni sullo spettro delle frequenze; ed anche di una serie di beni finanziari (crediti pubblici, partecipazioni) ed immateriali (marchi, brevetti, opere dell’ingegno, informazioni pubbliche, e altri diritti) su cui sembrava necessario agire attraverso una riforma generale del regime proprietario di riferimento. L’iniziativa, in una prima fase, fu accolta positivamente dall’allora Ministro dell’Economia e delle Finanze. Essa, tuttavia, con il cambio di Ministro, avvenuto nel mese di luglio del 2005, non fu ulteriormente perseguita.
Nel Giugno del 2006 i lavori del Conto Patrimoniale sono stati presentati in una Giornata di studio che si è svolta presso l’Accademia Nazionale dei Lincei dal titolo “Patrimonio Pubblico, proprietà pubblica e proprietà privata”. In quella sede un autorevole gruppo di studiosi (giuristi ed economisti), era giunti unanimemente alla conclusione che fosse opportuno proseguire nel lavoro sui beni pubblici tramite due iniziative fra loro sicuramente collegate. La prima, una revisione del contesto giuridico dei beni pubblici contenuti nel Codice civile attraverso l’istituzione di una apposita Commissione ministeriale. La seconda, il proseguimento del lavoro conoscitivo avviato con il progetto sperimentale del Conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche per rafforzare il contesto della conoscenza dei beni del patrimonio. Sul primo fronte la proposta è stata accolta dal Ministro della Giustizia. I lavori della Commissione sono stati avviati con la prima riunione plenaria che si è tenuta presso il Ministero il 4 di luglio 2007. I lavori della Commissione Rodotà, coadiuvata con notevole efficienza dalla Segreteria Scientifica e dal personale dell’ Ufficio Legislativo del Ministero della Giustiza, diretto dal compianto Consigliere Gianfranco Manzo, che molto aveva creduto in questo progetto, si sono articolati per complessive 11 riunioni plenarie e 5 riunioni speciali della Segreteria Scientifica in tre fasi : a) la raccolta degli elementi conoscitivi-normativi indispensabili; b) l’ audizione di alcune fra le più rilevanti personalità del mondo accademico, professionale ed altri soggetti a vario titolo direttamente interessati dal progetto di riforma; c) la discussione teorica e la stesura dei principi fondamentali della legge delega.

I presupposti del lavoro.
Meritano di essere brevemente ripercorse talune delle ragioni che hanno suggerito al Ministero della Giustizia di metter mano alla riforma del Titolo II del Libro III del Codice Civile del 1942 e di altre parti dello stesso rilevanti al fine di recuperare portata ordinante alla Codificazione in questa materia.
In primo luogo, i cambiamenti tecnologici ed economici verificatisi fra il 1942 ed oggi hanno reso particolarmente obsoleta la parte del Codice Civile relativa ai beni pubblici. Alcune importanti tipologie di beni sono assenti. Tale assenza ad oggi non è più giustificabile. In primo luogo i beni immateriali, divenuta oggi nozione chiave per ogni avanzata economia. Altre tipologie di beni pubblici sono profondamente cambiate negli anni: si pensi ai beni necessari a svolgere servizi pubblici, come le c.d. “reti”, sempre più variabili, articolate e complesse. I beni finanziari, tradizionalmente obliterati a causa della logica “fisicistica” del libro III, ancora legato ad una idea obsoleta della proprietà inscindibilmente collegata a quella fondiaria, andavano recuperati al Codice civile. Inoltre, le risorse naturali, come le acque, l’ aria respirabile, le foreste, i ghiacciai, la fauna e la flora tutelata, che stanno attraversando una drammatica fase di progressiva scarsità, oggi devono poter fare riferimento su di una più forte protezione di lungo periodo da parte dell’ ordinamento giuridico. Infine, le infrastrutture necessitano di investimenti e di una gestione sostenibile per tutte le classi di cittadini.
In secondo luogo, una nuova filosofia nella gestione del patrimonio pubblico, ispirata a criteri di efficienza, che si è sviluppata anche a causa delle difficoltà e degli squilibri in cui si trovano gran parte dei bilanci pubblici europei, richiede, da una parte, un contesto normativo che favorisca una migliore gestione dei beni che rimangono nella proprietà pubblica, e dall’altra, la garanzia che il governo pro tempore non ceda alla tentazione di vendere beni del patrimonio pubblico, per ragioni diverse da quelle strutturali o strategiche, legate alla necessaria riqualificazione della dotazione patrimoniale dei beni pubblici del Paese, ma per finanziare spese correnti.

Le opzioni ed il mandato della commissione.
La Commissione ha cominciato i propri lavori con un approfondito studio della letteratura più autorevole consacrata negli anni alla materia dei beni pubblici, nell’ambito della quale importanza cruciale riveste tradizionalmente la nozione di demanialità. La matrice della moderna dottrina del demanio nasce da una distinzione nell’ambito dei beni (soggettivamente) pubblici, tendente ad individuare alcune categorie di beni da tenersi fuori dall’applicazione del diritto comune perché strettamente destinati ad una funzione di pubblico interesse. La dottrina ha da tempo dimostrato che l’impianto contenuto nel Codice civile del 1942, presenta più ombre che luci.
L’insoddisfazione per l’assetto dato dal Codice Civile ha prodotto una vasta letteratura nella quale vengono avanzate diverse proposte di soluzioni alternative. La più autorevole dottrina cerca di scomporre le categorie tradizionali attraverso un’analisi storica dell’istituto della proprietà, condotta sia con riferimento alla scienza giuridica privatistica che a quella pubblicistica. Tale opera influenzerà tutta la scienza giuridica successiva sviluppatasi sulla natura e sulla tassonomia dei beni pubblici contenuta nel Codice civile.
Sulla base di questi presupposti, anche corroborati da una indagine comparatistica condotta dalla Segreteria scientifica che ha documentato a fondo i sistemi francese, tedesco, spagnolo, canadese, belga e statunitense, la Commissione ha accolto l’ idea di porsi alla ricerca di una tassonomia dei beni pubblici che riflettesse la realtà economica e sociale delle diverse tipologie di beni, nella convinzione che il mero statuto giuridico delle singole tipologie, consegnato al diritto italiano vigente, costituisse un criterio arbitrario. Massimo Severo Giannini ha scritto a più riprese che la disciplina dei beni pubblici contenuta nel codice è meramente formale, a partire dalla distinzione fra demanio e patrimonio. Per questa ragione, la Commissione ha voluto seguire la via delle scelte sostanziali.

Le linee generali della riforma proposta
Dal punto di vista dei fondamenti, la riforma si propone di operare un’inversione concettuale rispetto alle tradizioni giuridiche del passato. Invece del percorso classico che va “dai regimi ai beni”, l’indirizzo della Commissione procede all’inverso, ovvero “dai beni ai regimi”. L’analisi della rilevanza economica e sociale dei beni individua i beni medesimi come oggetti, materiali o immateriali, che esprimono diversi “fasci di utilità”.
Di qui la scelta della Commissione di classificare i beni in base alle utilità prodotte, tenendo in alta considerazione i principi e le norme costituzionali – sopravvenuti al codice civile – e collegando le utilità dei beni alla tutela dei diritti della persona e di interessi pubblici essenziali.
Preliminarmente, si è proposto di innovare la stessa definizione di bene, ora contenuta nell’art. 810 Codice civile, ricomprendendovi anche le cose immateriali, le cui utilità possono essere oggetto di diritti: si pensi ai beni finanziari, o allo spettro delle frequenze.
Si è poi delineata la classificazione sostanziale dei beni. Si è prevista, anzitutto, una nuova fondamentale categoria, quella dei beni comuni, che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati. Ne fanno parte, essenzialmente, le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; le altre zone paesaggistiche tutelate. Vi rientrano, altresì, i beni archeologici, culturali, ambientali.
Sono beni che – come si è anticipato – soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche. La Commissione li ha definiti come cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità.
Per tali ragioni, si è ritenuto di prevedere una disciplina particolarmente garantistica di tali beni, idonea a nobilitarli, a rafforzarne la tutela, a garantirne in ogni caso la fruizione collettiva, da parte di tutti i consociati, compatibilmente con l’esigenza prioritaria della loro preservazione a vantaggio delle generazioni future. In particolare, la possibilità di loro concessione a privati è limitata. La tutela risarcitoria e la tutela restitutoria spettano allo Stato. La tutela inibitoria spetta a chiunque possa fruire delle utilità dei beni comuni in quanto titolare del corrispondente diritto soggettivo alla loro fruizione.
Per quel che riguarda propriamente i beni pubblici, appartenenti a soggetti pubblici, si è abbandonata la distinzione formalistica fra demanio e patrimonio, introducendosi una partizione sostanzialistica.
Si è proposto di distinguere i beni pubblici, a seconda delle esigenze sostanziali che le loro utilità sono idonee a soddisfare, in tre categorie: beni ad appartenenza pubblica necessaria; beni pubblici sociali; beni fruttiferi. I beni ad appartenenza pubblica necessaria si sono definiti come beni che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. Si tratta di interessi quali, ad esempio, la sicurezza, l’ordine pubblico, la libera circolazione. Si pensi, fra l’altro, alle opere destinate alla difesa, alla rete viaria stradale, autostradale e ferroviaria nazionale, ai porti e agli aeroporti di rilevanza nazionale e internazionale. In ragione della rilevanza degli interessi pubblici connessi a tali beni, per essi si è prevista una disciplina rafforzata rispetto a quella oggi stabilita per i beni demaniali: restano ferme inusucapibilità, inalienabilità, autotutela amministrativa, alle quali si aggiungono garanzie esplicite in materia di tutela sia risarcitoria che inibitoria.
I beni pubblici sociali soddisfano esigenze della persona particolarmente rilevanti nella società dei servizi, cioè le esigenze corrispondenti ai diritti civili e sociali. Ne fanno parte, fra l’altro, le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli ospedali, gli edifici pubblici adibiti a istituti di istruzione, le reti locali di pubblico servizio. Se ne è configurata una disciplina basata su di un vincolo di destinazione qualificato. Il vincolo di destinazione può cessare solo se venga assicurato il mantenimento o il miglioramento della qualità dei servizi sociali erogati. La tutela amministrativa è affidata allo Stato e ad enti pubblici anche non territoriali.
La terza categoria, dei beni pubblici fruttiferi, tenta di rispondere ai problemi a più riprese emersi in questi ultimi tempi, che sottolineano la necessità di utilizzare in modo più efficiente il patrimonio pubblico, con benefici per l’erario. Spesso i beni pubblici, oltre a non essere pienamente valorizzati sul piano economico, non vengono neppure percepiti come potenziali fonti di ricchezza da parte delle amministrazioni pubbliche interessate. I beni pubblici fruttiferi costituiscono una categoria residuale rispetto alle altre due. Sono sostanzialmente beni privati in appartenenza pubblica, alienabili e gestibili con strumenti di diritto privato. Si sono però previsti limiti all’alienazione, al fine di evitare politiche troppo aperte alle dismissioni e di privilegiare comunque la loro amministrazione efficiente da parte di soggetti pubblici.
Si sono individuati, infine, criteri per garantire al meglio la gestione e la valorizzazione dei beni pubblici. Per l’uso di beni pubblici si è previsto, fra l’altro, il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai vantaggi che può trarne l’utilizzatore; si sono stabiliti meccanismi di gara fra più offerenti e strumenti di tutela in ordine all’impatto sociale e ambientale dell’utilizzazione dei beni e in ordine alla loro manutenzione e sviluppo.

Le singole disposizioni del disegno di legge delega.
Veniamo all’illustrazione delle singole disposizioni contenute nel disegno di legge delega predisposto dalla Commissione, che consta di un unico articolo.
Il comma 1 prevede un termine di dieci mesi per l’adozione di un solo decreto delegato avente ad oggetto la modifica del Capo II del Titolo I del Libro II del Codice Civile nonché di altre norme strettamente connesse.
Il comma 2 sottolinea che le norme di delega attuano direttamente i principi di cui agli articoli 1, 2, 3, 5, 9, 41, 42, 43, 97, 117 della Costituzione e tende ad assicurare particolare resistenza alle norme di delega e a quelle delegate, prevedendo limiti per eventuali modifiche disposte tramite leggi di settore concernenti singoli tipi di beni. Il comma 3 detta i principi e i criteri direttivi generali:
    a) La revisione dell’art. 810 cod. civ., al fine di includervi, come beni, anche le cose immateriali.
    b) La distinzione dei beni in comuni, pubblici e privati.
    c) La previsione della categoria dei beni comuni, cioè delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. La norma precisa la titolarità dei beni comuni, le condizioni per la loro fruizione collettiva, gli strumenti di tutela amministrativa e giurisdizionale. Viene fornito un elenco esemplificativo di tali beni. Si prevede il coordinamento fra disciplina dei beni comuni e disciplina degli usi civici.
    d) La classificazione dei beni pubblici, appartenenti a persone pubbliche, in tre categorie:
    1) Beni ad appartenenza pubblica necessaria, cioè quei beni che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. La norma fornisce un elenco esemplificativo di tali beni. Ne prevede la non usucapibilità, la non alienabilità e le forme di tutela amministrativa e giudiziale.
    2) Beni pubblici sociali, cioè quei beni le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona. Anche in tal caso, l’elenco è esemplificativo. La norma prevede un vincolo di destinazione pubblica e ne limita i casi di cessazione.
    3) Beni pubblici fruttiferi, che non rientrano nelle categorie precedenti e sono alienabili e gestibili dai titolari pubblici con strumenti di diritto privato. La norma regola i casi e le procedure di alienazione.
    e) La definizione di parametri per la gestione e la valorizzazione dei beni pubblici. La norma prevede i criteri per il giusto corrispettivo dell’uso di beni pubblici, il confronto fra più offerte, la tutela dell’impatto ambientale e sociale dell’uso e le garanzie di manutenzione e sviluppo.

I commi 4 e 5 regolano le procedure di adozione del decreto legislativo.
Il comma 6 prevede la possibilità di decreti integrativi e correttivi, nel rispetto dei principi e dei criteri di delega.
Il comma 7 sottolinea l’assenza di nuovi oneri a carico della finanza pubblica.

Conclusioni
Il disegno di legge proposto ha tre caratteristiche innovative.
In primo luogo, contiene una disciplina di riferimento per i beni pubblici idonea a recuperare una dimensione ordinante e razionalizzatrice di una realtà normativa quanto mai farraginosa. Essa presenta i tratti di una riforma strutturale e non contingente.
In secondo luogo, il disegno offre una classificazione dei beni legata alla loro natura economico-sociale, che appare sufficientemente agevole da cogliere, a differenza di quella tradizionale fra demanio e patrimonio indisponibile, che, come abbiamo visto, è meramente formalistica.
Infine, la proposta che qui si presenta riconduce la parte del Codice civile che riguarda i beni pubblici – ed in generale la proprietà pubblica – ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale, collegando le utilità dei beni alla soddisfazione dei diritti della persona e al perseguimento di interessi pubblici essenziali.
L’auspicio è che ne possano derivare risultati costruttivi».

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Ugo Mattei ci ricorda, nel suo: ” Legge Popolare per difendere i “beni comuni”, in: http://valderasolidale.it/legge-popolare-per-difendere-i-beni-comuni/, che: «Dieci anni fa la Commissione presieduta dal compianto Stefano Rodotà spiegò che esisteva una terza via, costituzionalmente sancita, tra “pubblico” e “privato”: la via dei “beni comuni”, priva di fini di lucro, collettiva, partecipata, ecologica e nell’ interesse delle generazioni future»

Io credo che si debba leggere attentamente il testo della Commissione, si debbano creare i comitati proposti e racogliere e firme e firmare, per portarlo all’attenzione della politica attraverso una legge di iniziativa popolare che raccolga le 50.000 firme previste dalla Costituzione affinché il Parlamento sia spinto a discuterlo.

E mi permetto di chiudere queste mie righe, che provengono da uno spunto ed un testo speditomi da Luca Nazzi, e da una mia breve ricerca, rubando una frase ad Angelo Branduardi. “Si può fare, si può fare/…/Si può crescere, cambiare/”. (Angelo Branduardi, Si può fare).

Laura Matelda Puppini

L‘immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://valderasolidale.it/legge-popolare-per-difendere-i-beni-comuni/. Laura Matelda Puppini

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