Quantcast
Channel: Non solo Carnia
Viewing all 1257 articles
Browse latest View live

Su ‘Angeli terribili. Una storia di frontiere’, di Gianni Barbacetto.

$
0
0

Suonano al campanello. È un giovane che mi porta un piccolo pacco di cui non stento a conoscere il contenuto: è un volumetto di Gianni Barbacetto, una delle prestigiose firme di ‘Il Fatto Quotidiano’ intitolato “Angeli terribili. Una storia di frontiere”, edito dalla Garzanti.  Lo attendevo e voglio iniziare a leggerlo subito.

Il titolo, che il Barbacetto dice di aver preso da ‘Elegie duinesi’ di Rainer Maria Rilke, unisce due termini che paiono antitetici ‘Angeli’ e ‘terribili’. Ma forse non fu ‘terribile’ Satana, che dalla luce passò agli inferi eterni, per aver voluto sfidare Dio? O non è ‘terribile’ quel San Michele, non a caso Arcangelo, che con la spada ingiunge a tutti di convertirsi?  Eppure pare che, per Rilke, l’angelo non avesse nulla a che vedere con la figura tradizionale cristiana, e che fosse portatore solamente di attributi positivi, come Bellezza e Grandezza, intesi come dimostrazione di superiorità e positività. (https://it.wikipedia.org/wiki/Elegie_duinesi). Ma ‘Elegie duinesi’ pone pure il problema dell’affidabilità dei sentimenti, e l’incombere della morte quale limite che falsa qualsiasi prospettiva umana. (Ivi). Ma anche ai tempi della seconda guerra mondiale, nel cui contesto si inserisce la resistenza e la figura di Cruchi, da cui parte il volume di Gianni Barbacetto, l’incombere della morte su qualsiasi persona era una netta realtà. Si poteva morire da combattenti partigiani, da militari collaborazionisti, da civili presi in ostaggio, per ritorsione germanica contro la popolazione, per essersi trovati al posto sbagliato nel momento sbagliato, per esempio sotto un bombardamento, e per mille altri motivi. Mai come nelle guerre, vita e morte sono strettamente collegate, ed insieme presenti.

Barbacetto, nelle poche righe di introduzione al suo volume, precisa di voler scrivere storie e di non essere uno storico, di scrivere in primo luogo la sua storia e  quella della sua famiglia e del suo paese, come da lui conosciuti. Quindi inizia soffermandosi su Cruchi, a cui qualcuno ha regalato un epitaffio tremendo, di quelli mai visti prima: «Qui giace Cruchi, uomo iniquo e perverso, pregare per lui è tempo perso». Esso passa di bocca in bocca, senza sapere però dove si trovi la lapide su cui è scritto, o se sia stato solo sussurrato, fino a essere ripreso da Gianni Conedera, a cui risponde Marco Puppini, ponendolo fra gli «insulti inutili e gratuiti ai partigiani». (Marco Puppini. La “verità unica” di Gianni Conedera, in: www.nonsolocarnia.info). Ma pure una maestra della Val Pesarina aveva narrato a Romano Marchetti che Italo Cristofoli, Aso, anarchico e poi forse comunista, morto da partigiano, era chiamato da tutti nel paese ‘Scell’, da Lei interpretato come ‘scellerato’. Realtà in un mondo ove i comunisti avevano contro preti, beghine e fascisti, o leggende metropolitane nate nello stesso ambiente? E sono forse proprio questi ‘cattolici’, magari ripieni anche di pessima letteratura locale, i veri ‘Angeli terribili’ perché Angeli perfetti si considerano, ma in realtà sono i ‘terribili’ di questo romanzo?

Basta vedere la figura emblematica dell’anziano che Barbacetto incontra sulla via per malga Promosio, e che così lo apostrofa: «Lei non sarà mica uno di quei comunisti di merda?» (Gianni Barbacetto, Angeli terribili, Garzanti, 2018, p. 94).  Ed alla sua risposta che era solo uno che voleva salire alla malga per vedere dove i nazifascisti avessero ucciso tante persone, così aveva ribattuto: «Ah, lei crede ancora a quella storia? (…). La storia la scrivono i vincitori. Ma noi sappiamo che gli assassini erano comunisti, banditi, fuorilegge, che hanno ammazzato e rubato e violentato le donne, come facevano sempre con la scusa della Resistenza». (Ibid). «Ho tentato di controbattere – scrive Barbacetto – che avevo letto qualche libro e che la storia non era come la raccontava lui.  (…). Ma il vecchio non mollava: “Voi comunisti credete a quello che volete credere, ma noi sappiamo come è andata davvero». (Ibid). Forse questo anziano ha incontrato Nazario Screm, penso fra me e me, forse è un lettore di quanto scrive Alberto Soravito sui partigiani, o ha incontrato sulla sua via le opere di Igino Piutti, certamente poco amante di comunisti e resistenti, come del resto il Carnier, o magari aveva sentito le tesi di Giampaolo Pansa … o più verosimilmente quelle di Antonio Toppan … (Cfr. Laura e Marco Puppini. ‘Su quel dissacrare la Resistenza che ha radici lontane: Antonio Toppan ed il suo: Fatti e misfatti …’, in: www.nonsolocarnia.info; Marco Puppini. ‘Partigiani come causa di tutti i guai: L’assedio della Carnia di Igino Piutti’, in: www.nonsolocarnia.info; Laura Matelda Puppini, Sulle opere di Pier Arrigo Carnier, note metodologiche in particolare da Mons. Aldo Moretti, in: www.nonsolocarnia.info). Certo che vi è stato più d’uno, poco avezzo agli archivi ed ai contesti, che ha scritto cose discutibilissime sulla seconda guerra mondiale in Carnia, accreditandosi però così, ed in qualche modo, come portatore del vero.

Ma chi era in realtà ‘Amadio De Stalis, detto Cruchi o Crucchi? Quello che non viene specificato a sufficienza dal Barbacetto è che egli è Alfonso, quell’Alfonso che rappresenta la Valle del But nel Cln carnico nel periodo della Zona Libera di Carnia e dello Spilimberghese, e tanto attivo da essere presente in diversi incontri del Comitato di Liberazione Nazionale della Carnia, la cui riunione del 6 agosto 1944 si svolge proprio a Ravascletto. Vi immaginate cosa avranno pensato i fascistissimi del paese e dintorni? Perché anche Paola Del Din ci ricorda che i fascisti c’erano allora nei paesi, come c’erano le spie, e che i fascisti non finirono certo con la Resistenza.  (Cfr. Laura Matelda Puppini, Considerazioni su guerra, resistenza, dopoguerra con riferimento all’incontro tolmezzino con Paola Del Din, in: www.nonsolocarnia.info).

Ma come mai un organo democratico come il Cln carnico, non certo composto solo ed unicamente da comunisti, aveva scelto, quale rappresentante della Val del But, Amadio De Stalis, operativo prevalentemente sul terreno, se non fosse stato considerato affidabile? Ed egli è esponente ufficiale nel Cln, se partecipa anche ad alcune riunioni del Cln Val di Gorto. (Giannino Angeli, Natalino Candotti, Carnia libera, La Repubblica partigiana del Friuli – estate autunno 1944-, Del Bianco ed., pp. 210- 231). Il Cln carnico aveva bisogno di uomini leali e buoni mediatori, come per esempio Osvaldo Fabian, del cui diario, purtroppo, esistono sicuramente 4 copie diverse fra loro, di cui la prima edita, e forse la più verosimilmente scritta solo da lui, introvabile.

Ma vi furono in Carnia, allora, ‘Angeli terribili’, buonissimi e cattivissimi, o solo uomini che lottarono per la libertà o che collaborarono con l’invasore per interesse od altro? (Cfr. Laura Matelda Puppini, Seconda Guerra Mondiale. Friuli e Carnia in Ozak, Bretagna nella Francia occupata: Terre diverse, esperienze similari, in: nonsolocarnia.info).

 Pensate solo quanto poteva ricevere una spia, se segnalava un commissario politico, e forse anche un pezzo grosso della resistenza garibaldina ai tedeschi o ai repubblichini o ai cosacchi: fino 100.000 lire!!! Pertanto il denaro potrebbe essere stato il motore di tante azioni, insieme all’indifferenza per l’altro ed al tornaconto personale. E, nel dopoguerra, alcuni che rimasero nei paesi della Carnia come della nostra Regione e non solo, forse non avevano il desiderio che la realtà venisse a galla, e riempirono la storia reale di storielle e storielline. Ma se dici ora ai parenti di un giustiziato dai partigiani perché magari spia, che potrebbe esser stato un collaborazionista per denaro, apriti cielo. Ma davvero in una Italia e Carnia poverissime, erano tutti idealisti? Comunque la discutibile amnistia Togliatti, che pare stesse tanto a cuore anche al Re, prima che facesse le valige, promulgata con decreto presidenziale 22 giugno 1946, (https://it.wikipedia.org/wiki/Amnistia_Togliatti) mise una pietra tombale su molte verità, e fu letta, pure da Mimmo Franzinelli, come un «colpo di spugna sui crimini fascisti», (Ivi), mentre i gruppi anticomunisti prendevano piede in particolare in Fvg. (Cfr. Giacomo Pacini, Le altre Gladio, 2014 e Ferdinando Imposimato, La repubblica delle stragi impunite, Newton Compton ed.).

Ma per ritornare al volume di Gianni Barbacetto, con nonni di Ravascletto ed una vita gran parte vissuta a Milano, di cui ci narra, in modo piacevole e scorrevole, i fatti salienti ed i contesti, certamente si nota, nella sua stesura, una certa limitazione nel mestiere dello storico da parte dell’autore, ma anche una onesta ricerca della verità. Non bleffa scrivendo che la sua è l’ultima verità, Gianni Barbacetto, pur firma prestigiosa di tante inchieste, volumi, articoli, ma scrive che ha provato a dare forma discorsiva a quanto a lui noto, nulla di più. Ieri, a Pordenone, egli diceva che la storia di quell’epitaffio e di Cruchi a cui era rivolto, erano storie che lo avevano affascinato sin da bambino, quando passava le sue serate estive a Ravascletto, comune d’origine dei suoi genitori, pur essendo egli nato a Milano. «Sentivo i grandi, mio padre, mia madre, i miei zii, che raccontavano storie, storie di paese, nelle lunghe serate estive […], ed io ascoltavo. Erano storie molto diverse tra loro, ed alcune erano un po’ licenziose, e si parlava di sesso, di magie, di altre cose». (Intervista a Gianni Barbacetto, di Tullio Avoledo a Pordenonelegge, 22 settembre 2018, per la presentazione del suo volume: ‘Angeli terribili’). Ed egli aveva, in quel contesto, sentito pure citare le parole tremende scritte su di una lapide, mai vista: «Qui giace Cruchi, uomo iniquo e perverso, pregare per lui è tempo perso». Ed egli incominciò a pensare chi fosse stato Cruchi, perché neppure il più cattivo degli uomini può meritarsi sulla lapide una iscrizione così. E, adulto, avendo preso dimestichezza con il giornalismo e la scrittura, gli era nata la voglia di narrare quella storia, di capire chi fosse stato l’uomo che qualcuno aveva definito: ‘iniquo e perverso’.

Barbacetto ha detto, ieri, di aver provato più volte a scrivere la storia di Amadio De Stalis, su cui aveva iniziato vent’anni fa ad indagare facendosi raccontare da un vecchio del paese un pezzo della vicenda, oppure cercando in un archivio un documento… Però poi non era riuscito a ‘buttarla giù’, in modo soddisfacente, anche perché era storia intima e personale al tempo stesso, che si intrecciava con i suoi ricordi di infanzia e con i momenti passati a Ravascletto, finchè ce l’aveva fatta, mettendoci pure passione.

Ed a suo avviso, anche le storie private, in particolare quelle originantisi in una Regione così complicata come il Fvg, meritano attenzione, e da una storia piccola e personale si può giungere ad aspetti legati alla storia ‘grande’, non più ‘figlia di un Dio minore’. Perché le persone non vivono chiuse in una stanza, ma nel contesto sociale che le circonda. E quella di Cruchi, a differenza di tante altre, è storia «meno magica, più, dura, più reale» (Gianni Barbacetto, Angeli terribili, Garzanti, 2018, p. 12).

«Probabilmente- diceva ieri Barbacetto – questa Regione è a così alta concentrazione di conflitti, di storie, di personaggi, di guerre, di contrapposizioni, di odi, di amori, che qualunque storia, anche piccola, tu vada a tirar fuori, è come tu tirassi un filo e ti trovassi in mano un pezzo della storia ‘grande». (Intervista a Gianni Barbacetto, op. cit.). E così «Partendo da una lapide, che tutti raccontavano e che nessuno ha visto» e che egli non è riuscito a trovare, Barbacetto narra di esser stato trasportato negli avvenimenti della storia drammatica della seconda guerra mondiale.

La storia di Cruchi non è un giallo che leggiamo di un fiato per vedere come va a finire – precisa Barbacetto – ma sappiamo che il De Stalis era un partigiano, comunista, che è stato ucciso dai cosacchi, che avevano occupato la Carnia.  Presumibilmente, prima di esser comunista era socialista, era nato il 15 novembre 1899, e quindi, in epoca resistenziale era già quarantenne, e fu fra i primi a prendere contatti con altri per formare una rete resistenziale in Carnia. (Marco Puppini, La casa del popolo di Prato Carnico, ed. Centro Isontino di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale ‘Leopoldo Gasparini’ 2004, p. 111). Sul diario inedito di Osvaldo Fabian, detto copia Ferigo, si legge che egli era un vecchio compagno iscritto al Partito Comunista Italiano fin dal suo nascere, nel 1921, e che andava in giro per la Carnia, con la sua automobile, a vendere vestiti. Era, altresì, un bravo compagno, anche se di carattere un po’ impetuoso, ed uno dei pochi comunisti attivi in Carnia durante il fascismo. I cosacchi gli bruciarono la casa e, tempo dopo, una spia segnalò la sua presenza ai cosacchi, che lo uccisero il 21 gennaio 1945.  (Osvaldo Fabian, diario inedito, fotocopia del 1983, presso archivio Giorgio Ferigo, pp. 188 – 189). Ma queste notizie fanno parte anche del bagaglio di acquisizioni del Barbacetto, insieme ad altre, ed al chiedersi chi fosse questa persona che si voleva essere dannato anche nella memoria, come tanti altri che avevano lottato per un mondo migliore, in armi o meno. Basti pensare al grande Vittorio Cella, da me riportato definitivamente alla luce, con il mio: “Cooperare per vivere. Vittorio Cella e le Cooperative Carniche (1906-1938)”, Gli Ultimi, 1988, leggibile su: www.nonsolocarnia.info, e condannato da una pubblica opinione locale spesso pilotata, perché socialista e massone, quando fu uno dei fondatori del gruppo economico delle Cooperative Carniche, unico nel suo genere in Italia, e distrutto poi dal fascismo.

Ma Barbacetto scrive pure altre preziose informazioni su Cruchi: che forse era diventato comunista a Milano, che aveva una Balilla, e che, dopo che gli fu bruciata la casa, visse tra i boschi, che aveva conosciuto il carcere, a causa delle sue idee, (Gianni Barbacetto, op. cit., p. 41), mentre pare che anche sua moglie, pur vedova, non avesse avuto vita facile.

Ieri Barbacetto, nel presentare il suo volume, godibile nella lettura, ha parlato anche dell’incontro avvenuto all’Albergo Belvedere, l’11 novembre 1943, fra un misterioso ufficiale de R.E.I., all’epoca disciolto, la maestra del paese Gisella De Crignis, che poi si sa essere comunista, e passata alla Resistenza, e Cruchi. Barbacetto ci dice di avere reperito un documento nel merito, ma non ne cita gli estremi né dove lo ha trovato, come non ci mostra l’immagine della registrazione del capitano Francesco De Gregori, perché pare trattarsi di lui, presso l’Albergo Belvedere. Pertanto detto incontro risulta ipotetico, per me, ma non dimostrato. Le fonti vanno citate perchè possano essere controllate e visionate da altri. Che il De Gregori, (da cui poi il Barbacetto prende spunto per inserirsi, con il racconto, anche nella sua storia ed in quella dell’ eccidio di Topli Uorch e per tatteggiarne la figura), fosse stato in Carnia, lo dice anche Marchetti, che lo incontrò (Romano Marchetti (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, p. 89). Ma egli data tale visita dopo la creazione della ‘Osoppo’, che sostiene essersi formata il 14 febbraio 1944 con l’incontro fra azionisti e cattolici ad Udine, e cioè verso marzo. Può darsi però che il De Gregori fosse venuto due volte in Carnia, per conoscere la possibilità di creare un movimento armato, ma bisogna visionare le prove a conferma.

Gisella De Crignis di Ravascletto, nata il 9 novembre 1921, residente ad Udine, è citata anche a p. 99 del volume di Flavio Fabbroni ‘Donne e ragazze nella Resistenza in Friuli’, Quaderni della Resistenza n.15, a cura del Comitato Regionale dell’Anpi del Friuli Venezia Giulia, 2012, come partigiana combattente dal 20 ottobre 1943 all’ 8 giugno 1945, ma qui non capisco il motivo della data iniziale, perché o le fu riconosciuto un periodo di attività antifascista come attività partigiana, o prestò attività partigiana in zona diversa dalla Carnia, con sloveni o con garibaldini, perché la resistenza garibaldina nacque in Carnia nel marzo 1944, quando i primi partigiani garibaldini, presumibilmente un gruppo guidato da Vincenzo Deotto, Falco, entrarono in Carnia allo sciogliersi delle nevi. (Cfr. anche: Ciro Nigris, il comandante carnico garibaldino’Marco’. Io, ufficiale del R.E.I., passato alla resistenza, in: www.nonsolocarnia.info).
Con metri di neve si faceva ben poco dovunque, e si era facile preda di un nemico forte ed organizzato.

Infine, se la De Crignis era già a combattere con la Garibaldi, come faceva a trovarsi a Ravascletto, con il capitano De Gregori e Amadio De Stalis, l’11 novembre 1943? Ed è possibile che l’attività antifascista della stessa, se già si configurava come partigiana, fosse sfuggita a Santo Arbitrio, che però comandava i carabinieri di Tolmezzo?  Sappiamo invece, sempre da ‘Angeli terribili’ in particolare da un documento della Questura di Udine visionato dal Barbacetto ma senza estremi per la reperibilità, che poi Gisella fu una capace rappresentante dell’Udi, in sintesi una funzionaria del Pci, e che non si arricchì mai. (Gianni Barbacetto, op. cit., pp. 62-63). Ed ancora una cosa resta oscura. Dove risiedeva allora la De Crignis? A Udine od a Ravascletto? O si portò da Ravascletto ad Udine durante la Resistenza?

Parlare di Francesco De Gregori e giungere a parlare dell’eccidio di Topli Uorch è inevitabile, ed allo stesso il Barbacetto dedica più di una pagina di considerazioni. Ma egli, nel corso dell’incontro a Pordenone, ha parlato anche delle stragi italiane, affermando che a livello metodologico ha proceduto nello stesso modo utilizzato per le sue inchieste, pure per quella su ‘Gladio’, che collega passato a presente, in un’Italia che è paese «complicato, ove tutto si intreccia […] e non sappiamo ancora chi ha messo le bombe a piazza Fontana» quasi cinquant’ anni fa. (Intervista a Gianni Barbacetto, op cit.).  Inoltre in questo paese non c’ è memoria condivisa su nulla: per esempio i gladiatori erano eroi od erano para-terroristi? – diceva a Pordenone. Non da ultimo, in questo paese complicato – sono parole sue-  c’è una Regione che è ancora più complicata, che è il Friuli Venezia Giulia, perché qui ci sono i confini, non solo geografici. (Ivi).

Ma questa ricerca pure della verità ha un senso nel mondo d’oggi, che pare averla dimenticata? – chiede Avoledo a Barbacetto. «Ormai mi sono convinto da tempo- risponde Barbacetto – che faccio un lavoro inutile, perché tu ti impegni per anni a raccontare la corruzione, la mafia, le stragi, i tre grandi sistemi di illegalità, […], tu passi la vita a lavorare su queste cose, ed ad un certo punto ti rendi conto che il tuo lavoro non è proprio utilissimo, non è che le cose vanno migliorando. Però devo dire che ho raggiunto anche una leggerezza su questo, perché non pretendo di cambiare il mondo, lo racconto. Dopo di che, ragazzi, ognuno faccia il suo mestiere.  Io mi guardo allo specchio e penso di aver fatto al meglio, come posso, il mio lavoro, non solo, ma anche divertendomi e con piacere. Perché raccontare storie è bello». (Ivi). E quindi prosegue dicendo che ha scritto ‘Angeli terribili’, «perché avevo voglia, mi piaceva raccontare questa storia, che pareva essere una storia diversa da quelle che racconto e ho raccontato giorno per giorno su Il Fatto Quotidiano e sui giornali per cui ho lavorato, ma che poi tanto lontana non è, perché gli ingredienti della storia italiana, sempre quelli sono». (Ivi). Ma vi è anche il piacere di dire che quello che uno può fare lo fa – continua il noto giornalista – e «se so raccontare storie, o meglio se spero di saper raccontare storie, questo faccio. Poi chi le legge faccia le sue scelte. E tutti insieme possiamo migliorare a cambiare un po’ le cose. Ciascuno di noi, da solo, non può far nulla. Io non sono uno storico. Ho raccolto voci, documenti, molte testimonianze private personali […]. (…). Ma c’è anche un lavoro di passione sul territorio che si trasforma in racconto, a cui forse è bene dare un’eco più grande». (Ivi). Ma ciò presuppone il non restare «prigioniero dentro una identità, e riesci forse a raccontare meglio cose che forse sai meno bene di tanti altri che le raccontano […] ma forse standone troppo dentro». (Ivi). E, sempre per Barbacetto, non ci si può basare solo sulle narrazioni orali, perché «i documenti sono la possibilità per la memoria di mantenersi memoria. La nostra memoria è labile, e quindi la possibilità di fermare e di tramandare la memoria è data dai documenti e dalla scrittura».  I documenti possono essere aridi, le ricerche noiose, e devono essere tradotte in una lingua che possa raggiungere tutti, e per far questo bisogna farle diventare storie, in modo che quella memoria un po’ congelata nei documenti, possa diventare appetibile a tutti. (Ivi).

È un romanzo quello del Barbacetto, ma è anche un racconto non privo di fonti, che indaga, cerca, si interroga sul passato e sul modo di leggerlo, che pone interrogativi sulla tradizione orale, ma anche su quanto riportato sul computer, a cui ci si affida talvolta acriticamente, demandando allo stesso la funzione del ricordo, senza voler più imparare, senza fare nostra la memoria, che può servire anche a costruire il futuro ed a leggere l’attuale. ‘Angeli terribili’ è un romanzo scritto da un grande narratore del presente, di agevole e piacevole lettura, senza pretesa di ‘verità vera’, e sui cui contenuti si può essere d’accordo o meno. Basta che le critiche abbiano un fondamento. Perché come diceva Marco Travaglio, bisogna puntare ai fatti, non alle opinioni, che restano sempre aspetto personale. Senza voler offendere alcuno.

Laura Matelda Puppini – 23 settembre 2018.

L’immagine che accompagna l’articolo, è la mia scannerizzazione del retrocopertina e dorso del volume ‘Angeli terribili’ di Gianni Barbacetto, edito da Garzanti. La registrazione dell’ incontro pubblico di Pordenone, nel contesto di Pordenonelegge, è mia, come la trascrizione. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Raibl verso la fine. Dalla gestione Ammi alla protesta dei ‘sepolti vivi’. Ultimo capitolo.

$
0
0

SOTTO L’AMMI.

Ci siamo lasciati con il passaggio della miniera di Raibl all’AMMI. E chiudevo il terzo capitolo di questa storia scrivendo: «Di fatto, come vedremo nel prossimo capitolo di questa storia intrigante, con l’arrivo dell’AMMI, molte delle grandi questioni emerse nei mesi precedenti al passaggio di mano di Cave del Predil, rimasero senza risposta e “il cottimo, il grande nemico nelle lotte operaie di fine anni ’50, allentava la sua presa ma […] non portava alla scomparsa di questa prassi” (Paola Tessitori, Rabil-Raibl Cave del Predil. Una miniera, un paese, una sfida, Ud, Kappa Vu 1997, p. 71), rimanendo ancora per anni “a scandire i ritmi della differenza in miniera”. (Ibid.). ” […] né scomparivano i bracci di ‘ferro’ con la dirigenza su piccole e grandi questioni che avevano segnato la fine degli anni Cinquanta, anzi, per certi versi le relazioni sindacali fra operai e dirigenza si complicavano rispetto al passato” (Ibid.), ma vedremo nella prossima puntata perché.  (Ibid)». (Laura Matelda Puppini, Storia di Cave del Predil – Raibl. Parte terza. Arriva la ‘Pertusola’, in: nonsolocarnia.info).

Non occorse molto tempo ai lavoratori di Cave per capire che, con l’AMMI, erano ricomparsi privilegi, simpatie, favori e meritocrazia. (Paola Tessitori, op.cit., p. 72). Inoltre per l’AMMI, Cave del Predil, a causa delle scelte fatte negli anni ’60, acquistava una posizione secondaria rispetto alle miniere sarde ed ad altre realtà, portando i minatori alla coscienza della propria marginalità nel sistema produttivo nazionale. (Ibid.). E parallelamente, con il trascorrere del tempo, i bilanci delle miniere di Raibl diventavano sempre più illeggibili, fino a giungere, negli anni ’80, a documenti contabili che costituivano «una sorta di rebus di ardua decifrazione». (Ibid.), mentre il sistema politico-economico nazionale mostrava, come del resto prima quello privato, l’incapacità di dare risposte concrete ai problemi del settore minerario, ed il sogno di costruire in Friuli un impianto di seconda lavorazione andava svanendo. (Ibid.).

UNA MINIERA REGIONALE.

Nel 1965 le miniere di Raibl I, II, III divenivano ‘de iure e de facto’, patrimonio della Regione Fvg, che prorogava la concessione temporanea all’AMMI, scaduta il 21 dicembre 1964. La Regione stilava con l’AMMI una convenzione, che però, sempre secondo Paola Tessitori, nei successivi 20 anni sarebbe stata spesso elusa e non applicata. E non ci si può nascondere che legalmente, era il primo caso di una società che gestiva una miniera sulla base di una convenzione con un Ente Regione, che, fra l’altro, a posteriori, si rivelò vantaggiosa per l’AMMI piuttosto che per la Regione Fvg.  (Ivi, pp. 77-78).

Nei primi anni di gestione AMMI, la miniera continuò ad andar bene, ma poi, verso la fine degli anni ’60 ed inizio degli anni ’70, l’arretratezza dei processi produttivi, l’esaurirsi di vecchi giacimenti, i problemi della manodopera che andava rarefacendosi, si fecero sentire in modo deciso. E nel giugno 1970 i sindacati segnalavano la tendenza dei lavoratori ad abbandonare le miniere ed a volgere verso fabbriche ove il lavoro era meno pesante e pericoloso. Inoltre il rapporto di lavoro, invece che su tre livelli operativi e salariali, si distribuiva, con il nuovo contratto di lavoro siglato 1973, su sette livelli, ed alla strategia dura del ‘muro contro muro’ i sindacati iniziarono a preferire quella della concertazione. (Ivi, pp. 78-79).
Non da ultimo, il minatore non appariva più come un uomo che combatteva contro fame, miseria, rischi, ma un salariato a cui venivano riconosciute esperienze e capacità professionale. Terminava così lo stereotipo del cavatore come lavoratore duro, rozzo, analfabeta, tanto che bisognava saper leggere e scrivere per entrare in miniera. (Ivi, p. 79). Ma nel contempo, a livello nazionale, la programmazione mineraria proponeva, davanti al problema dell’economicità delle estrazioni, una continua riorganizzazione, foriera di un futuro incerto.

Inoltre anche nel settore estrattivo facevano capolino nuove tecnologie ma che, paradossalmente, lo rendevano più pericoloso per chi vi operava. A Raibl, il sistema di estrazione a ‘gradino rovescio con ripiena cementata’ poneva il problema del cemento con cromo esavalente ed i macchinari disel accentuavano l’insalubrità dell’ambiente di lavoro. (Ivi, p. 80). Negli anni ’70 si incominciò a estrarre anche calamina, mentre il settore ‘ricerche minerarie’ andava a rilento, costringendo la Regione Fvg ad accollarsi la partecipazione agli oneri finanziari per ricerca e miglioramenti. (Ivi, pp. 80- 81).   
E le condizioni di lavoro andavano via via deteriorandosi, con i lavoratori sempre meno attenti alle stesse. «Problemi in passato vitali come la sicurezza nei cantieri e la salubrità dell’ambiente lavorativo sembravano quasi passare in secondo piano […] mentre l’aria della miniera si faceva vieppiù irrespirabile, […] e la sua luminosità s’ increspava di polveri varie lasciando il posto ad un’atmosfera pesante, densa di detriti e di gas, aggravata dalla condensa e dall’ umidità favorite dall’uso del cemento […]». (Ivi, p. 89).
Il consumismo travolgeva tutti, e poco i minatori si interessavano ormai delle condizioni di lavoro che stavano portando ad un degrado personale e sociale.  (Ibid).

E mentre tutti avevano sperato in una tranquillità aziendale, nel 1973 entrava in crisi l’EGAM, Ente Autonomo di Gestione per le Aziende Minerarie e Metallurgiche, di cui faceva parte anche l’AMMI. Di fronte a disavanzi paurosi, l’EGAM veniva invitata pressantemente a riorganizzarsi, e lo faceva privilegiando il settore meccanico a scapito di quello estrattivo. Ma fu tutto inutile: l’EGAM veniva travolto e veniva sciolto definitivamente nel 1977. Per Cave si profilava all’orizzonte la minaccia di chiusura definitiva e la perdita di 450 posti di lavoro, pure a causa dell’indebitamento dell’AMMI che ormai raggiungeva, nel 1976, i 59 miliardi. (Ivi, p. 82).

Per fronteggiare l’emergenza, i rappresentanti dei lavoratori e gli enti locali territoriali fra cui la Regione Fvg, sponsorizzavano una commissione di studi che redigeva, sotto la guida del Presidente della Provincia di Udine, un documento che sottolineava le grandi potenzialità di Cave sollecitando la salvezza di quella realtà produttiva ed inserendola nel progetto di riorganizzazione del comparto minerario. (Ivi, p. 83).
Il salvataggio delle miniere di Raibl avveniva grazie al ‘piano SAMIM’ un piano triennale di investimenti e sviluppo del settore minerario, che contemplava il riordino totale del settore a livello nazionale, privilegiando il polo sardo, come già ipotizzato negli anni ’60 e come indicato dalla CEE. E Cave trovava una sua collocazione in detto piano solo perché le analisi effettuate la davano ancora come una realtà atta a soddisfare le esigenze dei pianificatori nazionali. (Ivi, p. 85).

DA AMMI, A SAMIM A SAI.

Quindi all’AMMI subentrava la SAMIM, ma i limiti propri del piano di riorganizzazione e la nuova gestione non mancarono, ben presto, di farsi sentire, ad iniziare dal 1979- 1982. Infatti la progettazione nazionale non teneva conto delle diversità geomorfologiche dei siti minerari. Davanti a radicali e discutibili innovazioni, i minatori restarono perplessi, ma, nonostante tutto, in un primo tempo riuscirono a raggiungere risultati produttivi ed economici soddisfacenti. Ma nell’arco di pochi anni, appariva chiaro che il piano SAMIM non poteva funzionare dovunque a scatola chiusa.  I lavoratori incominciarono a segnalare incongruenze, modifiche al piano iniziale che rendevano il lavoro meno affidabile, sperperi di gestione, alla Regione Autonoma Fvg, che però seguiva nel settore le linee nazionali più che il sostegno al locale. (Ivi, pp. 87-88).

Comunque incongruenze di gestione, adattamenti, revisioni, portavano ad uno stato di tensione fra lo staff tecnico della SAMIM ed i lavoratori, in particolare dal 1982, anno a cui seguirono tempi duri e difficili, con blocco del turnover. Inoltre per ragioni di bilancio, i servizi erogati alla popolazione esclusivamente da parte dell’azienda andarono scemando, mentre il patrimonio edilizio, di cui la Regione Fvg non intendeva farsi carico, finiva in una specie di limbo, in attesa di esser rilevato dal Comune di Tarvisio o dallo Iacp di Tolmezzo, e, nel contempo, Regione e gestore investivano nelle centraline idroelettriche, che però presupponevano personale diverso da quello già assunto. (Ivi, pp. 88-89).
In ogni caso i nodi della disastrosa gestione precedente venivano tutti al pettine sotto la SAMIM, creando una situazione stranissima per cui più materiale si estraeva più aumentavano le perdite societarie. (Ivi, p. 91).

Nel 1990 Erberto Rosenwirth del PSDI, diventato sindaco di Tarvisio, chiedeva che la miniera restasse aperta per almeno 5 anni, lasso di tempo per studiare prospettive future per detta realtà produttiva.
«Nonostante le infinite complicanze, qualcosa induceva a credere che anche questa volta Raibl avrebbe vinto su decisioni esterne e su interessi ‘altri’» (Ivi, p. 95), mentre altre realtà minerarie si avviavano verso la chiusura definitiva, e i cavesi scoprivano, un giorno del gennaio 1991, che l’irreversibile fine della miniera era stata collocata dalla Regione Fvg, il 30 giugno di quell’anno. Infatti alla SAMIM subentrava, nella gestione di Cave del Predil, la SIM spa, che, per l’appunto, dichiarava di non essere interessata a proseguire con la miniera.  (Ivi, pp. 95-97).

VERSO LA CRISI DEFINITIVA.

Così a fine anni ’80 ci si trovò in una situazione per cui «un proprietario conducente (la Regione Fvg. ndr) […] accettava di partecipare finanziariamente ai bilanci di una società concessionaria (SIM ndr) riluttante, coprendone il disavanzo a patto che quest’ultima non abbandonasse la coltivazione ma proseguisse il suo impegno anche al minimo possibile». (Ivi, p. 99).
Il clima creatosi era tale però che la minaccia di disimpegno della SIM appariva sì preoccupante, ma governabile, mentre la Regione prorogava la concessione dello sfruttamento di Cave alla SIM fino al 1990, per scongiurare licenziamenti immediati e pensare al futuro.  (Ivi, p. 98).  «Cessate le emozioni della primavera 1986 – scrive Paola Tessitori – […] tutto sembrava essersi incanalato in un’apparente, sbiancante attesa di qualcosa, di tanto in tanto interrotta da voci e ‘si dice’». (Ivi, p. 100).

Varie proposte per la salvezza della miniera vennero esplicitate dal 1986 in poi, mentre prendeva sempre più piede l’ipotesi della chiusura dell’attività produttiva, tanto che la Tessitori parla di una «giostra delle alternative», mentre emergeva, in tutta la sua drammaticità, il dato del rosso in bilancio: le perdite societarie annoveravano a 9 miliardi di lire, esclusi i tre stanziati dalla Regione a sostegno dell’attività estrattiva. (Ibid.).
Davanti ad una situazione caratterizzata più da interessamenti di cortesia che altro, la popolazione ed i cittadini di Cave parevano immobili, mentre proposte fra le più disparate e di dubbia possibilità di realizzazione, come quella di creare in loco una grande centrale a carbone, si succedevano.

Infine gli stessi lavoratori cavesi, «sui quali la lunga attesa stava già agendo come fattore di disgregazione» (Ivi, p. 102) approdarono ad una proposta, sostenuta anche dai sindacati ed amministratori locali e regionali, di riconversione dell’attività estrattiva in una diversa centrata sulla creazione di diverse piccole realtà artigianali, che avrebbero dovuto prender piede sul territorio cavese «con progressione tale da permettere di giungere alla chiusura della miniera senza gravi traumi». (Ibid.).
Ma l’unica ipotesi che superò, allora, la soglia dei ‘pare’ e dei ‘ si dice’, fu quella di continuare l’attività estrattiva da parte della società mineraria austriaca B.B.U., mentre le altre finirono nel limbo del silenzio, delle difficoltà improvvise di realizzazione, della vaghezza per i nomi degli interessati a portarle a termine, creando un clima di «alternanze fra speranze e delusioni». (Ivi, pp. 102-103).
Ma neppure l’ipotesi B.B.U. andò in porto, non solo per la mancanza di impianto di stoccaggio, ma pure perché, sempre secondo Paola Tessitori pur in assenza di documenti, pareva che l’Eni, già nel 1988-1989, avesse iniziato ad accordarsi con il ‘Gruppo Cividale’ facente parte di quello siderurgico friulano, a fini di riconversione dell’attività di Raibl. (Ivi, pp. 107 e segg.).
Intanto, fra una ipotesi e l’altra, si giungeva la 31 gennaio 1991, alla notizia, inattesa dai minatori, che la Regione Fvg aveva prorogato la concessione di sfruttamento della miniera solo fino al giugno di quell’anno, senza possibilità di proroga alcuna.

Quindi la Regione buttava sul tappeto il piano ‘Saro’ (dal nome del proponente Ferruccio Saro), un progetto di riconversione del sito minerario collegato all’intervento diretto del ‘gruppo Cividale’, che comportava una drastica riduzione della manodopera.
La reazione dei lavoratori dopo momenti di «Rabbia, turbamento, confusione, disappunto», (Ivi, pp. 112) non tardò a farsi sentire. Quello che era sotto gli occhi di tutti era che la Regione Fvg aveva siglato la fine della miniera, che aveva alle spalle una storia di vita comunitaria e di lotte. E neppure le interviste della stampa a politici locali aiutavano a capire quale fosse il futuro (Ivi, pp. 112-113), mentre Bruno Lepre, allora consigliere regionale per il P.S.I., interpellava d’urgenza la giunta regionale per ottenere precisazioni su «una decisione che aveva sorpreso un po’ tutti» (Ivi, p. 113), ed «una pioggia di notizie frammentarie, tutte poco confortanti», inondavano Cave ed i lavoratori, che capivano sempre meno su quanto stava accadendo. (Ibid.).

Infine i lavoratori producevano un documento in cui stigmatizzavano la posizione della Regione (Ivi, p. 114) rifiutando la cassa integrazione proposta dal ‘piano Saro’, che avrebbe comportato, nel lungo termine, una riduzione drastica del salario che non avrebbe permesso alle famiglie di restare a Raibl, paese periferico e dall’alto costo della vita.  (Ibid.).

1991: L’OCCUPAZIONE DELLA MINIERA, DETTA DEI SEPOLTI VIVI: UNA AZIONE SENZA UGUALI.

Il 5 febbraio 1991, nel corso di una assemblea con presenti i rappresentanti di Cisl e Cgil, i minatori decidevano di occupare la miniera di Raibl, per forzare la Regione a fare chiarezza sui suoi programmi e sul loro futuro ed ad aprire un tavolo di consultazione che comprendesse pure minatori e sindacati. (p. 117-118).
Così 55 uomini, di turno il 6 febbraio 1991, scesero in miniera alle 6 del mattino, per non uscirne più per giorni e giorni. Essi si asserragliarono al 17° livello, a quasi cinquecento metri di profondità, in un ambiente che aveva il 98% di umidità, aria quasi irrespirabile ed una temperatura spesso inferiore ai 7°. Alla fine, dopo 17 giorni di occupazione, gli ultimi 27 risalirono in superfice. Che quella sarebbe stata l’ultima battaglia lo avevano capito tutti, e l’occupazione creò una grossa solidarietà verso i minatori. (Ivi, p, 123).

L’occupazione della miniera fu qualcosa di umanamente grandioso, di umanamente terribile, (Ivi, p. 125) a cui parteciparono anche le donne, fornendo coperte, abiti, cibo, informazione. Famosi restano la presenza delle donne di Cave, con cartelli esplicativi della lotta, lungo le piste di sci di Tarvisio, e i lumicini che ogni notte venivano accesi sulle finestre di Raibl per mantenere una luce per il futuro, in segno di speranza. (Ivi, pp. 126-127).
Fu l’occupazione dei ‘sepolti vivi’, mentre in superfice l’umanità partecipava al dramma di Cave del Predil e trattative si succedevano, accompagnate da politici spesso insensibili alle giuste richieste dei lavoratori ormai stanchi. (Ivi, p. 126).

Vivere in galleria, per il gruppo che non ne era più uscito e aveva occupato la miniera, fu un’esperienza estrema, faticosissima, perchè laggiù non vi erano né giorno né notte a scandire il tempo, non vi erano sole, neve, pioggia o vento, e l’umidità infradiciava abiti e coperte, mentre tutto scorreva lentamente tra il gioco delle carte e qualche litigio sempre più frequente, in uno spazio ridotto, privo di servizi igienici, con ben poca acqua. (Ibid.).
A Cave, con il passare dei giorni, la tensione diventava sempre più alta, mentre si segnalavano, sulla stampa, anche interventi ben poco opportuni come quello di Adriano Biasutti, democristiano ed allora presidente della Regione, che davanti alla disperazione dei minatori, rispondeva con un calcolo dei costi per la Regione di ognuno di loro, dalle pagine del Messaggero Veneto. (Ivi, p. 128). Più vicino ai lavoratori appariva, invece, il sindaco di Tarvisio, Erberto Rosenwirth, anche se alcuni dicevano fosse solo apparenza. (Ivi, pp. 128-131). Infine la proposta, giunta da Roma, di prorogare di sei mesi la concessione alla SIM, fino a giungere al 31 dicembre 1991. Ma il no dei lavoratori, asserragliati in miniera, fu secco.

«Le trattative sono fallite. Restiamo sotto. Facce scure alla miniera di Raibl, in Friuli. I minatori sepolti vivi da 16 giorni, che lottano contro la chiusura della miniera, hanno respinto, in un’assemblea durata tutta la mattina al pozzo Clara, la proposta del governo di prorogare di sei mesi, dal 30 giugno al 31 dicembre, la morte del giacimento»- scrive Roberto Bianchin su Repubblica (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/02/22/minatori-non-accettano-restiamo-qui.html) – riportando anche i motivi del no: «Anche ammettendo che le promesse di una nuova fabbrica siano vere, abbiamo davanti a noi tre anni di disoccupazione dice Giovanni Tribuch del consiglio di miniera. I minatori si oppongono, soprattutto, alla cassa integrazione. Con 900mila lire al mese come facciamo a vivere, quando ne paghiamo 300 solo di riscaldamento? dice Lorenzo Zangrandi» (Ivi), mentre i sindacati chiedevano «di utilizzare i minatori – tra i quali ci sono una trentina di sloveni – per i lavori necessari alla messa in sicurezza della miniera, al ripristino ambientale del monte Re, e alla creazione di alcuni percorsi turistico-didattici». (Ivi).

E che il mantenimento del lavoro o meglio averne uno, fosse il motivo della lotta di Cave, è chiaro anche dall’articolo, sempre a firma di Roberto Bianchin, pubblicato su Repubblica del 21 febbraio 1991, intitolato: “Il grido dei minatori in sciopero ‘dateci lavoro o moriremo tutti’. «Papà, papà, quando torni? Ilaria ha cinque anni, due grandi occhi neri, un cappottino a fiori. Singhiozza nel telefono che porta la sua voce giù nel pozzo. È la figlia di Sergio Monego, uno dei minatori che da 15 giorni sono sepolti vivi a 540 metri sotto terra, nell’inferno della miniera di Raibl, sul monte Re, in Friuli, a due passi dal confine slavo e da quello austriaco. Protestano contro la chiusura della miniera.
Il medico del paese, Mario Quai, ha tirato fuori due volte il papà di Ilaria dal ventre della terra. La pressione gli era salita alle stelle. Ma lui, poco dopo, ha voluto tornar giù. Per non tradire i compagni ha detto. (…). Dopo un’iniezione all’ospedale ha voluto tornar sotto. Anche lui. Il medico, negli ultimi giorni, è riuscito a strapparne 22 dalle viscere della terra. Stavano rischiando la vita, malati di cuore, di broncopolmonite, di stress. Adesso, laggiù, da 54 che erano, sono rimasti in 32. Ma non molleremo dicono. E tutto il paese, con le donne, i bambini, il sindaco e la giunta, minaccia di scendere in miniera. Con loro». (Ivi). «La proroga non piace a nessuno, perchè non risolve il problema, […].  Ferruccio Saro, assessore regionale all’industria, sostiene che la miniera perde un miliardo al mese (quasi tutto sulle spalle della Regione) e che non ci sono alternative alla chiusura. Promette, in cambio, la nascita, tra due anni, di un’acciaieria. Parole. In realtà non c’ è alcuna garanzia concreta, né sui tempi né sull’ occupazione dice Gianfranco Pontarini.». (Ivi).

Ma, purtroppo, sarà così. Il 22 febbraio 19991 si profilava un accordo tra Regione Fvg, SIM, Gruppo Cividale ponendo fine all’occupazione. «Si aprono cigolando le vecchie porte di ferro e il paese si butta dentro la miniera. I sepolti vivi, la lampadina illuminata sul casco, salgono dal ventre della terra». (Paola Tessitori, op. cit., p. 136). Detto accordo veniva visto, però, da alcuni, come una sconfitta sindacale, da altri come un accordo a metà. (Ivi, pp. 133-134 e 137). Alla Regione sarebbero spettati: la messa in sicurezza del sito, il ripristino ambientale, il patrimonio abitativo ed edilizio anche per destinarlo a fini produttivi, la creazione di un museo minerario, alla SIM la gestione e ricollocazione del personale, al Gruppo Cividale la creazione di una fabbrica che potesse occupare 90 dipendenti. (Ivi, p. 134). Ma la realtà sarà ben diversa.

LA MINIERA E L’ABITATO DI RAIBL VERSO LA FINE.

Gli accordi per la riconversione si mossero, da che si legge, tra problematiche legate ai finanziamenti, al lievitare delle spese, a quelle geomorfologiche relative al sito ove doveva sorgere la nuova realtà industriale promessa, che nessuno sapeva perché non fossero note in precedenza.
Così i tempi per realizzare almeno parzialmente quanto promesso il 20 febbraio 1991 andarono dilatandosi.

«Di fatto i politici ed amministratori regionali e locali – scrive Paola Tessitori – non hanno saputo […] gestire nei modi e nei tempi pattuiti quanto promesso, risolvendo l’attuazione di un accordo assai importante (l’intesa del 20 febbraio 1991) in un susseguirsi di provvedimenti […]» mentre uomini e famiglie venivano vissuti come ‘carne da voto’ più che altro. (Ivi, p. 162). E di fatto si giunse ad una riconversione monca, raggiunta fra mille fatiche, in un clima politico connotato pure da ‘Tangentopoli’, mentre i sindacati cavesi denunciavano «interessi non limpidi» intorno ai miliardi stanziati per la riconversione del sito minerario. (Ivi, p. 162 e p. 164). E la Cisl, un anno dopo l’accordi, denunciava come la promessa di quaranta miliardi di lire fosse stata di fatto vanificata, e neppure una lira fosse stata spesa, mentre l’antica combattività dei minatori pareva essersi dissolta ed a Cave regnavano disincanto e rancore. (Ivi, p. 166).

 Venivano venduti i beni mobili facenti parte del patrimonio della miniera facendo gridare «all’esproprio» e discutere sulla gara di aggiudicazione ed i concorrenti (Ivi, p. 168), mentre le recriminazioni andavano aumentando ed a notizia seguiva notizia, (Ivi, pp. 168-169) in una grande confusione informativa. Non da ultimo, quando si andò a sondare l’area ove doveva sorgere il capannone per la nuova attività produttiva, ci si accorse della presenza di uno sperone roccioso, non si sa come mai non segnalato prima, e così si scelse di costruirlo nel sito dell’ex laboratorio chimico, abbandonando la promessa di realizzare a Cave un laboratorio di ricerca per le Università di Udine e Trieste. (Ivi, pp. 174-175). Nel frattempo i soldi previsti per la sistemazione del Rio del Lago venivano dirottati per la messa in sicurezza della miniera, non si sa se per pagare la SIM che rivendicava lavori già svolti o altri, (Ivi, p. 176), mentre la riconversione di ‘Cave’ e dei suoi lavoratori appariva sempre più scandita da negligenze e carenze. (Ivi, p. 177). E lo stesso Commissario Straordinario per la gestione di Cave del Predil e dei suoi beni, invano scriveva una relazione che evidenziava le problematiche ambientali e geologiche presenti, che gli permettevano di applicare a Cave l’attributo di zona degradata. (Ivi, pp. 178-179).

Con due anni di ritardo, che per i lavoratori erano equivalsi a «centinaia di giorni trascorsi nell’ incertezza del lavoro e del salario» (Ivi, p. 179), iniziava, poi, la ‘riconversione’ dei lavoratori, mentre la somma elargita pro capite dalla cassa integrazione era calata, e gli esiti del ‘tira e molla’ istituzionale e degli enti preposti andava facendosi sentire anche sui bambini, attraverso l’impoverimento delle famiglie. Ma una parte dei minatori, forse 250, aveva già abbandonato Cave ed un futuro incerto, modificando pure la struttura sociale dell’abitato di Raibl, per collocarsi presso ditte che eseguivano grandi opere. (Ivi, p. 182). Altri operai, una cinquantina, avrebbero dovuto esser occupati dal ‘Gruppo Cividale’ nel ripristino ambientale, ma tale promessa, secondo Paola Tessitori, fu lungamente disattesa. (Ivi). Nel frattempo SIM e ‘Gruppo Cividale’, in accordo con la Regione Fvg, creavano, per Cave, una nuova Società, la Società Metallurgica Cave, (Ivi, p. 184), mentre il paese lentamente si univa agli altri montani, segnati dallo spopolamento e dall’abbandono. Venivano eseguiti lavori costosissimi sul sito minerario, mentre le case dell’abitato venivano messe in forse per le famiglie, ed infine cedute all’Iacp. Veniva portato a termine, nel 1995, il capannone per la nuova attività produttiva, ma il tessuto sociale era ormai degradato. (Ivi, p. 195 e p. 197).
Infine veniva allestito i promessi: museo e parco geominerario, visitabili, sui quali si possono trovare informazioni sul sito: “http://www.polomusealecave.coop/?lang=it/.

Questo resta ora di Raibl- scrive Giordano Sivini: «un museo minerario, gestito con competenza e passione da un gruppo di ex-minatori, e un tratto di gallerie che si possono visitare. A cinquant’ anni dal mio primo soggiorno- continua- […] ho ritrovato Cave del Predil lentamente proiettato verso il turismo. La miniera, che un tempo era condizione della sua vitalità, ora potrebbe contribuire a questo diverso futuro, se da Tarvisio e da Udine si prestasse maggiore attenzione alle risorse da valorizzare». (Giordano Sivini, Il banchiere del Papa e la sua miniera, il Mulino, 2009, pp. 191-192).

______________________________________________________________________________________

Per la storia della miniera, rimando ai miei articoli precedenti:

Storia di Cave del Predil – Raibl. Prima parte in attesa di presentare l’archivio Gabino.

Storia di Cave del Predil – Raibl. Parte seconda.

Storia di Cave del Predil – Raibl. Parte terza. Arriva la ‘Pertusola’.

______________________________________________________________________________________

Ricordo che le fonti principali per i capitoli da me stesi sulla storia della miniera di Cave del Predil/Raibl sono: Paola Tessitori, Rabil-Raibl Cave del Predil. Una miniera, un paese, una sfida, Ud, Kappa Vu 1997, introvabile che io sappia in commercio, seguita da: Giordano Sivini, Il banchiere del Papa e la sua miniera, il Mulino, 2009, che però rimanda a Paola Tessitori per la parte seguente alla concessione alla ‘Pertusola’.

E ritorniamo a Guerrino Gabino, seduto ad una scrivania di legno nella ‘Casa rossa’ che mi consegna un pacco di fogli: si tratta del suo archivio privato su Cave del Predil, che gli sta tanto a cuore, e che mi parla di ‘cottimo’ e ‘cronometraggio’ con il cuore volto ai minatori di Cave, mentre io gli chiedo della Cartiera di Tolmezzo.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: http://www.albergoallecrosere.it/2011/11/cave-del-predil/. Se vi sono diritti d’autore, prego avvisare che la tolgo. Laura Matelda Puppini

Rifiuto la guerra: pacifisti, renitenti, disertori, ammutinati. La grande guerra dalla parte di chi cercò di evitarla. Conferenza-concerto di e con Piero Purini Purich

$
0
0

Dopo una sera trascorsa con mio fratello Marco e Mariangela, decidemmo di andare a vedere uno strano ed interessante spettacolo musicale a Staranzano, sotto un tendone, che riguardava la prima guerra mondiale, reso più drammatico dalla pioggia scrosciante, con tuoni e fulmini come accompagnamento.
Ho il piacere di comunicarvi che detto spettacolo, si spera con tempo atmosferico migliore, intitolato: 

Rifiuto la guerra: pacifisti, renitenti, disertori, ammutinati. La grande guerra dalla parte di chi cercò di evitarla

Conferenza-concerto di e con Piero Purini Purich

verrà riproposto a

Trieste

il 6 ottobre 2018 – con inizio alle ore 20.30 

al: Teatro Miela, Piazza Duca degli Abruzzi 3.  

e vi invito ad andarlo a vedere.

_________________________________________________________

 

 

Presentazione.

«Migliaia di uomini tentarono di evitare la guerra, chi cercando di resistere alla montante esaltazione patriottica e alla propaganda bellicista, chi cercando semplicemente di sfuggire al fronte attraverso la diserzione o la renitenza, chi ancora rifiutando di eseguire gli ordini ed ammutinandosi. “Rifiuto la guerra”, spettacolo storico-musicale di e con Piero Purich fa luce su questi ed altri aspetti poco conosciuti del primo conflitto mondiale.

Gli episodi di fraternizzazione tra nemici, le rese di massa, le decimazioni e le esecuzioni “pour l’exemple”, il destino postbellico dei mutilati e degli “scemi di guerra” si intrecciano con le canzoni di protesta e di rivolta che i soldati di tutte le nazioni coinvolte intonarono come atto di dissenso contro il conflitto e con immagini che mostrano quella che fu la vera faccia della guerra, in contrasto con la rappresentazione edulcorata ed eroica che ne diede la propaganda bellica».

Da foglio accompagnatorio dello spettacolo a Staranzano. fonti storiche:

 

 Siete tutti invitati, per capire, per discutere, per ascoltare buona musica.

Laura Matelda Puppini

Droghe, sballo, nichilismo, lotta al narcotraffico ed allo spaccio. Perché no all’iniziativa del sindaco di Tolmezzo.

$
0
0

Il problema del consumo di sostanze stupefacenti, di droghe, è un problema maledettamente serio, come quello dell’abuso di alcolici, e marciano pari passo con sballo, nichilismo, autodistruzione. Ma ahimè vi è un altro risvolto: gli effetti di droghe ed alcolici in eccesso sul fisico potrebbero portare non solo danni enormi allo stesso, ma anche ad altre persone, distruggendo, pure, famiglie intere. Mi ricorderò sempre quando, alla fine di un incontro di aggiornamento ad Udine, si alzò in piedi una signora che si trovava tra il pubblico, e, con le lacrime agli occhi, ci narrò che aveva una figlia drogata, che rubava soldi, scappava, che le aveva fatto mille promesse ritornando a casa, per infrangerle ogni volta, e che lei non ne poteva più. Questa è la realtà, penso fra me e me, come quella ben descritta in un film, in cui una minorenne, che aveva imparato a contattare clienti attraverso un telefono pubblico, si prostituiva con vecchi laidi per un bianco ed un nero, pur di racimolare quattro lire per una sniffata od un buco di eroina.
Ma è indubitabile che pure piloti, manager, medici, infermieri, controllori di volo, gruisti, conducenti di camion, autobus e treni, ecc. ecc. potrebbero presentarsi al lavoro sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o alcol, come racconta Cristiana Bassi nel suo: “Quei tossici che hanno in mano la nostra vita”, in: Il Giornale, 22 agosto 2016. L’articolo ha toni allarmistici, ed è anche discutibile, ma il dato di fatto permane.

L’uso di droga ed il suo mercato pongono problemi reali alle forze dell’ordine, ed a pochi sfugge il collegamento fra mafia – produzione- trasporto – spaccio. Basti vedere cosa erano riusciti a fare i re del narcotraffico in Colombia, anche se ora è mutato il modello di controllo dello smercio di stupefacenti, che è passato dalle grandi organizzazioni rigidamente gerarchizzate, a nuovi gruppi, più piccoli e specializzati, nessuno dei quali controlla tutta la catena del traffico di cocaina.
E ci si deve rendere conto, pure, per capire a fondo il problema, di quanto vale questo mercato: «Secondo i dati Onu sulle droghe, l’esportazione di cocaina riguarda entrate da 940 a 1.400 milioni di euro per le organizzazioni criminali colombiane». (http://www.antimafiaduemila.com/home/terzo-millennio/232-crisi/65823-gli-eredi-di-pablo-escobar-nel-narcotraffico-colombiano.html). Ma non esistono solo queste.

Ж

Da un po’ di tempo la droga era scomparsa dai nostri giornali, e ringrazio Peter Gomez di “Il Fatto Quotidiano” ed i suoi collaboratori per aver dedicato un numero unico di ‘Millennium’, quello datato giugno 2018, intitolato “Siamo tutti drogati” al problema, e dal quale ho tratto molte informazioni.
Da Laura Margottini si viene infatti a sapere che «In Italia il consumo di cocaina riguarda il 6 % della popolazione, secondo gli esperti. Un problema sociale enorme e sommerso, di cui non si parla e che tocca tutte le fasce sociali, soprattutto i giovani tra i 15 ed i 35 anni» (Laura Margottini, Per i cocainomani arrivano le neuroscienze ma gli operatori dicono: non bastano, Millennium, giugno 2018, p. 25), mentre secondo il titolo del pezzo di Luigi Franco e Thomas Mackinson, «un ragazzo su quattro si fa». (Luigi Franco e Thomas Mackinson, Un ragazzo su quattro si fa, ma di droga non parla più nessuno. “La politica ci ha lasciati soli” e Palazzo Chigi non risponde, Millennium, giugno 2018, p. 10).

Ma cosa si spaccia e consuma in Italia? Di tutto, pare, dalla pericolosissima eroina gialla, prodotta in Afghanistan, che continua a mietere vittime a Mestre (“Tredici morti in un anno per eroina gialla. Viaggio nelle piazze dello spaccio di Mestre, Millennium, giugno 2018, p. 38), alle nuove droghe sintetiche come l’Mdma, dal Ghb, detto droga dello stupro, al Mef ed alla vecchia cocaina, propria degli ambienti ‘ bene’, dall’ectasy al crack, dalla cannabis anche ormai sintetica, preferita dagli studenti anche universitari, all’hashish ed al mai cancellato Lsd. (L’ectasy rimane la più bella. Le sostanze più diffuse raccontate da chi le usa. “Qui a Roma si trova di tutto, dappertutto”, Millennium, giugno 2018, pp. 22-23).
E spesso chi usa droga mischia sostanze, le unisce ad alcol, o a psicofarmaci ed antidolorifici, in particolare oppioidi, che, sommati all’eroina, negli Stati Uniti hanno finito per provocare un morto ogni 8 minuti. (Peter Gomez, La guerra inutile, Millennium, giugno 2018, p. 5).

Studenti, operai anche per reggere ai turni massacranti di lavoro, impiegati, professionisti, medici, infermieri, formano un popolo di consumatori che rende moltissimo alla criminalità organizzata, e forse vi è l’uso di droga pure alle spalle di molti incomprensibili omicidi conditi variabilmente da sevizie: basti pensare al povero Luca Varani, assassinato in modo brutale e crudele da Manuel Foffo e Marco Prato, sfatti di cocaina ed alcol. (Gabriele Bertocchi, Omicidio Roma, “L’abbiamo torturato e ucciso poi abbiamo dormito con il corpo”, in: http://www.ilgiornale.it/news/cronache/, 8/3/2016).

Ж

I luoghi dello spaccio e del consumo, sono spesso discoteche e zone antistanti o di pertinenza delle stesse, che però si configurano come spazi privati, basta leggere solo alcuni fatti di cronaca del 2017 e 2018, relativi agli arresti da parte delle forze dell’ordine, per rendersene conto. (1). Ma non ci si deve illudere: non solo i soli. Anche parchi, stazioni e vie adiacenti, scuole, sono luoghi di traffico di sostanze piscotrope, in cui sono spesso coinvolti, quali ultime pedine, magrebini, neri ed altri, oltre che bianchi nostrani e non. I motivi per trasformarsi in spacciatore sono tanti e spesso banali: basta potersi comperare «la Play Station, le scarpa, la tuta della Adidas ed il telefono». (Gaia Scacciavillani, A 15 anni spacciavo coi genitori dei miei compagni di classe ma per la giustizia sono l’unico colpevole, Millennium, giugno 2018, p. 31).

E non si può certo dire che le forze dell’ordine sinora non abbiano fatto nulla per fermare il narcotraffico, la lotta al quale si configura come un impegno assiduo e sfiancante, e che deve essere affrontato in un’ottica di collaborazione fra Stati, in particolare finalizzata al controllo delle vie del mare ma non solo, con lo scopo di colpire ed aggredire il fenomeno in una fase antecedente all’ingresso dei carichi di droga in una nazione. (Antonio Massari, In Italia un arresto ogni 20 minuti. La gigantesca macchina dell’antinarcotici, Millennium, giugno 2018, pp. 33-34).

E non si può certo dire, in Italia, che Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza siano stati con le mani in mano. A marzo 2018, erano in corso 2.027 indagini relative al traffico di stupefacenti e loro spaccio, mentre 2000 erano i fascicoli aperti, comportanti relative perquisizioni seguite da arresti e processi.
Nel 2016 sono state effettuate 22.245 operazioni antidroga, salite, nel 2017, a 24.334; sono state segnalate all’autorità giudiziaria per reati legati alla droga, 31.086 persone, di cui 21.958 sono state arrestate, mentre è ormai chiaro che molte di queste riempiono le nostre carceri.
Nel 2017 le indagini hanno portato all’arresto di ben 23.690 individui collegati allo smercio di stupefacenti. Nel 2016 sono stati sequestrati 59.898 chilogrammi di sostanze psicotrope, che sono diventati 110.183 nel 2017. E se impressionanti sono i sequestri di cocaina, essi sono però superati da quelli di cannabis ed haschish; mentre aerei italiani della Guardia di Finanza sorvolano, sulla base di precisi accordi, il territorio albanese per individuare le piantagioni di marijuana; nuove tecnologie stanno surclassando quelle tradizionali nella lotta al narcotraffico, e si sta volgendo a protocolli di intesa e coordinamento tra Stati a tal fine. Ma per giungere a risultati di un certo livello, bisogna colpire, come sta appunto facendo la Guardia di Finanza, l’origine territoriale della droga ed i luoghi ove la stessa viene stoccata.  Per questo, da gennaio 2018, tutte le procure d’ Italia stanno segnalando i sequestri di eroina, cocaina e cannabis, in particolare provenienti dall’area balcanica. (Ivi, p. 34). Questo per le droghe note, mentre per scoprire se ne esitano di nuove ancora ignote, si deve procedere all’analisi di reperti e campioni biologici prodotti dai consumatori.

Questi dati impressionanti dimostrano anche l’impegno delle forze dell’ordine italiane nel settore, mentre ormai appare chiaro come sia «impossibile pensare che lo Stato possa contrastare il narcotraffico guardando soltanto il proprio recinto». (Ivi, p. 33).

Ж

Per questi motivi una azione come quella criminalizzante verso gli studenti tutti, voluta dal sindaco di Tolmezzo, il filo – Serracchiani Francesco Brollo, eletto con i voti del centro destra, del centro sinistra e della sinistra, appare come minimo fuori luogo. Ma forse l’avvicinarsi della fine del mandato pesa sul primo cittadino del capoluogo carnico, forse egli si è fatto prendere un po’ troppo la mano dalla linea salviniana che avanza. Ma riprendo qui, dall’articolo di Alessandra Ceschia, intitolato “Tolleranza zero contro gli spacciatori. Autostazione e centro studi al setaccio”- sottotitolo: “Il “sindaco sceriffo Brollo schiera la polizia municipale: due giorni di controlli. Bloccati pullman e controllati tutti gli studenti”, in: Messaggero Veneto, 27 settembre 2018, le fasi salienti di questa operazione ed il motivo dichiarato dal Sindaco Brollo per farla eseguire, corredandoli da qualche mia considerazione.

«Erano le 7 quando, nei pressi della stazione delle corriere di Tolmezzo, all’arrivo degli studenti è scattata la prima grande operazione antidroga.
Una ventina di agenti della Polizia locale con due unità cinofile giunte da Treviso – supportati dal personale del locale commissariato di polizia e dai carabinieri – hanno bloccato le porte dei pullman in arrivo per controllare uno per uno gli studenti e gli stessi mezzi. Due giorni di controlli serrati, all’orario di ingresso e di uscita dalle scuole degli studenti. Al setaccio un’area sulla quale ogni giorno si riversano quasi mille persone, in prevalenza giovani. Zona di spaccio sulla quale l’amministrazione guidata dal “sindaco sceriffo” Francesco Brollo ha deciso di dare un giro di vite. «Quest’operazione – spiega Brollo – nasce dal bisogno di monitorare un luogo, quello della stazione, che è una piattaforma di passaggio per tante persone. Abbiamo voluto dare un segnale forte e dimostrare che la zona dell’autostazione e quella del centro studi non sono un porto franco dove si può fare ciò che si vuole, ma un’area nella quale deve essere garantita la sicurezza». (Alessandra Ceschia, op. cit.).

Ж

Peccato però che l’autostazione e dintorni siano monitorate da telecamere visibili, e che la notte Tolmezzo sia sguarnita di polizia municipale Uti, perché pare proprio che alle 19 chiuda i battenti, mentre sembra che anche nei giorni festivi la sua presenza sia limitata. Inoltre non si sa più chi debba fare cosa, a Tolmezzo, perché i vigili urbani sono diventati la nuova polizia dell’Uti, ed è comparsa una polizia ambientale fatta da 2 o 3 volontari, (L.G. e c. per intenderci) che sappia io mai stati prima delle forze dell’ordine, e non certo giovanissimi, che copre il servizio di vigile urbano, a metà, perché non è polizia municipale. Ad affibiare multe, invece, provvedono ‘ausiliari del traffico’ sempre voluti da Brollo, (https://www.studionord.news/tolmezzo-giro-di-vite-i-furbetti-del-divieto-di-sosta/), mentre un povero cittadino si chiede, umanamente, se il sindaco presidente Uti ormai faccia tutto da solo. Ma un dato resta sotto gli occhi di tutti a Tolmezzo: la notte, comunque, è scoperta, e per fatti di spessore si può chiamare il 112; ma che fare per i soliti’ balordi locali’ e non locali? Inoltre a Nord di Udine sembra, da quanto mi si narra, che neppure le forze dell’ordine in servizio per le emergenze abbiano molto personale da utilizzare.

Almeno ad Udine – penso tra me e me- ai tempi di Honsell sindaco, ma credo anche ora, i vigili urbani, che non so se si identifichino con la polizia municipale Uti, prestano servizio fino alle 2 del mattino, lavorando a turno, mentre qui, in Carnia, è una desolazione.

Ж

Ma ritorniamo all’operazione voluta da Francesco Brollo. Con le carenze quotidiane sopra descritte, che ha fatto Francesco Brollo, sindaco di Tolmezzo? Ha utilizzato un dispiegamento importante di operatori di polizia locale, una ventina in totale, per controllare «decine di studenti evitando che si sottraessero alle verifiche grazie alla presenza di una pattuglia automontata della Polizia di Stato di Tolmezzo. (…) […] e mentre alcuni vigili in divisa bloccavano in via John Lennon il flusso dei ragazzi da e verso il centro studi, altri in borghese fermavano quelli che tentavano di sfuggire ai controlli, mentre alcuni garantivano il supporto dalla sala operativa grazie alla visione diretta della videosorveglianza. Così è stato possibile fermarne alcuni in possesso di stupefacenti. Con i militari dell’Arma dei carabinieri, è stata setacciata la zona della rosta a ridosso dell’argine del fiume But con il rinvenimento di hashish in dosi già preparate. Sui pullman è stato trovato altro stupefacente nelle cappelliere e sono stati predisposti sulle strade alcuni posti di blocco che hanno consentito il fermo di un’altra persona in possesso di droga. L’attività condotta in appoggio ai carabinieri, ha inoltre consentito l’arresto di un giovane». (Alessandra Ceschia, op. cit.).

In sintesi tutto questo dispiegamento di polizia municipale, che paghiamo noi, ha portato al fermo forse di qualche consumatore di droga, ed all’arresto di un ventiduenne, che, o era di molto fuori corso, o non era affatto studente. In compenso si sono criminalizzati tutti gli studenti delle superiori, facendoli fermare, tastare, annusare dai cani (e correggetemi se le mie informazioni sono errate), dimenticandosi però di quelli che quei due giorni sono venuti a scuola in macchina o a piedi perché magari residenti a Tolmezzo, seguendo altro percorso.

Ж

Inoltre pare che Brollo, il cui mandato scade fra pochi mesi, abbia intenzione di fare il replay, e ritenga l’operazione una ideona, una genialata.  «Si tratta della prima operazione di questa portata che coinvolge l’area dell’autostazione e il centro studi, ma non l’ultima, lascia intendere Brollo, assicurando che sul territorio l’attenzione è massima.
“Abbiamo fatto arrivare apposta l’unità cinofila della Polizia locale da Treviso perché in regione non c’è – è la precisazione di Brollo –. Quando dicevo che avremmo dato una stretta senza precedenti sulla sicurezza non scherzavo: oggi posso dire con orgoglio che per la prima volta a Tolmezzo, in Friuli e, a memoria, probabilmente in regione, abbiamo condotto un’inedita operazione antidroga da parte della Polizia locale con l’utilizzo dei cani. Abbiamo controllato studenti, con posti di blocco pedonali, per filtrare il flusso da e verso il centro studi con attenzione particolare all’autostazione delle corriere”». (Alessandra Ceschia, op. cit.).

Ma ‘cui prodest’, se non a lui, nell’immediato, come immagine?  – mi domando- pensando che Brollo forse si è dimenticato di leggere qualcosa di serio sulla lotta alla droga. Inoltre vorrei sapere quali famiglie degli studenti pendolari dalla Carnia erano lì ad applaudire, perché i ragazzi che sono stati fermati, indiscriminatamente, erano quelli che avevano raggiunto Tolmezzo con le corriere, e quindi senza genitori al seguito, altrimenti li avrebbero accompagnati in macchina al centro studi. Forse qualche salviniano o destrorso tolmezzino avrà sperato che scomparissero indiani e c, che popolano, la sera, la zona retrostante l’autostazione, e che vivono segregati nei paesi della Carnia, credo, ma non è stato così perché ritengo che, se erano lì la sera seguente, non siano considerati dai carabinieri spacciatori o consumatori di stupefacenti, ed inoltre l’operazione non era condotta contro di loro. Era condotta contro gli studenti della Carnia, secondo me, leggendo Alessandra Ceschia, ed io se fossi un genitore di uno studente alle superiori tolmezzine, forse gli farei fare le valige e cambiare città. Perché una cosa del genere, di destra, quasi estrema destra, e se erro correggetemi, non si era mai vista. E con questo non voglio dire che droga e disagio non alberghino in Carnia ed a Tolmezzo, ma che sono ben altri i metodi per intervenire, qui come là.

Ж

A difesa di Francesco Brollo bisogna dire che egli probabilmente potrebbe aver rubato l’idea di dedicare il mese di settembre a fare la lotta agli studenti possibili drogati (e che droga venga consumata da studenti non è una novità, ma, come ho riportato da Millennium, ne fanno uso tantissimi non studenti, ricchi, intoccabili, professionisti, operai, comunitari ed extracomunitari e via dicendo), creando una pessima immagine del mondo della scuola, a Matteo Salvini, Ministro dell’interno, senza però leggere bene il testo. Infatti il Ministero degli Interni emanava, il 26 agosto 2018, una direttiva indirizzata ai Prefetti della Repubblica, ai Commissari del Governo per le Province di Trento e Bolzano, al Presidente della giunta regionale della Valle d’Aosta e, p.c., al Ministero dell’Istruzione dell’Università e della ricerca – Roma, ed  al capo della polizia – direttore generale della pubblica sicurezza; non ai Sindaci e men che meno ai Presidenti Uti, avente come oggetto: «Attività di prevenzione e contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti nei pressi degli istituti scolastici. ” Scuole sicure”, che incomincia, però, tenendo presente l’inizio dell’anno scolastico, dicendo che si impone di «prestare la massima attenzione a tutti quei fenomeni di devianza che, proprio in concomitanza con lo svolgimento dell’attività didattica, raggiungono i maggiori livelli di diffusione. Il riferimento è, in particolare, al bullismo e al cyberbullismo, nonché al consumo di droga. Molto è stato fatto, al riguardo, anche d’intesa con le istituzioni scolastiche e con gli enti locali. Diverse iniziative hanno visto attivamente impegnato il Ministero dell’Interno, sia a livello centrale, in collaborazione soprattutto con il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, che a livello locale, attraverso il concorso delle Prefetture e delle Forze di polizia nella definizione di protocolli con gli Enti locali e gli Uffici scolastici regionali e provinciali nonché attraverso la diretta partecipazione di propri rappresentanti a corsi di educazione e di sensibilizzazione degli studenti. Su tale piano appare indispensabile intensificare ulteriormente le proficue interlocuzioni già avviate con tutte le componenti del sistema, fornendo la più ampia collaborazione e ogni necessaria forma di supporto allo scopo di stringere sempre più le maglie della prevenzione e favorire il processo di superamento delle più gravi forme di devianza». (www.interno.gov.it/it/…/droga-nelle-scuole-piano-straordinario-governo-contro-spaccio).

Quindi il testo continua così: «In questo quadro, e con riferimento specifico al consumo di droga, un’efficace politica di prevenzione, da condurre su vari piani, non può prescindere da una più generale azione di controllo delle aree circostanti gli istituti scolastici, considerate da sempre “luoghi di elezione” per la vendita e la cessione di sostanze stupefacenti, oltre che da una mirata attività info-investigativa, che ha già inflitto duri colpi alle consorterie criminali. In tal senso, accanto all’intensificazione dell’impegno che sarà richiesto alle Forze di polizia, anche in attuazione delle direttive impartite dal Capo della Polizia -Direttore Generale della pubblica sicurezza, si rende necessario mettere in campo una più ampia e complessiva strategia d’ azione sul territorio, da realizzare in stretto raccordo con le Amministrazioni locali e con la piena condivisione delle Autorità scolastiche.
È noto come il contributo dei Comuni possa dispiegarsi su più piani: dagli improcrastinabili interventi di messa in sicurezza delle scuole nella propria disponibilità agli interventi di riqualificazione delle aree limitrofe agli istituti scolastici, dalla realizzazione di impianti di videosorveglianza alla partecipazione della Polizia locale alle attività di controllo del territorio». (Ivi). Ma il Ministero dell’Interno non ha mai ipotizzato un fermo generale ed indiscriminato degli studenti nelle autostazioni o nei percorsi per raggiungere gli Istituti scolastici. Lo facessero solo ad Udine, apriti cielo!!!! Ma forse Francesco Brollo si è fatto prendere un po’ la mano, penso fra me e me.

Ж

Infatti anche se si può ipotizzare che Francesco Brollo concordi con il Ministero dell’Interno, questo non è vero, perché il testo, pur discutibile e discusso del Ministero, non contempla le azioni solitarie di un sindaco, con controllo di tutti gli studenti, ma l’agire insieme alle dirigenze delle scuole, e non dice di far bloccare il trasporto pubblico ed annusare studenti non ancora a scuola, quasi che fossero tutti potenziali spacciatori o utilizzatori di stupefacenti.

E se erro su alcune mie ultime considerazioni, correggetemi e dite la vostra, ma, secondo me, così a Tolmezzo, con i cani, che ricordano ben altri scenari, ecc. ecc. ed il sindaco sceriffo, che è preferibile davvero ritorni a fare il giornalista, non si può andare avanti. Ed a me cadono le braccia quando leggo le sue dichiarazioni finali ad Alessandra Ceschia: «In questo caso – conclude il sindaco e presidente dell’Uti Carnia Brollo – non ci interessava tanto il grande quantitativo di droga da sequestrare, quanto dimostrare che ci siamo e che chi crede di fare il furbo a Tolmezzo e nel territorio dell’Uti della Carnia ha un ostacolo in più e non deve credere di farla franca» (Ivi).
Se ho ben capito, quindi, Brollo ha impiegato tutta questa nostra polizia municipale, con il risultato di fermare qualche consumatore di cannabis ed un ventiduenne, tra l’altro arrestato dai carabinieri, e ritiene in questo modo di aver mostrato i muscoli? Ma a chi?  Ma per cortesia …  Va beh che siamo in periodo quasi pre – elettorale, ma questo figlio del Pd, senza tessera dello stesso, mi pare abbia esagerato un po’, e se erro correggetemi.

Infine, e non da ultimo, abbiamo visto in Carnia, in Friuli ed in Fvg, e Veneto, azioni brillanti e ben concertate di Carabinieri e Polizia di Stato con indagini ed altro, che hanno portato a brillanti risultati nella lotta al narcotraffico. Ed a queste forze dell’ordine va il nostro grazie.
Guardate cosa sono riusciti a fare a Roma arrestando solo un rugbysta, senza fermare e far annusare pubblicamente tutti i regbysti della nazionale italiana ed italiani, ma con indagini mirate. (Moira Di Mario, Roma, trovato con 2 chili di droga: arrestato Sami Panico, ex rugbysta delle “Zebre” e della Nazionale, in: https://www.ilmessaggero.it/roma/cronaca/trovato_con_due_chili_di_droga_in_casa_arrestato_il_rugbista_delle_zebre_sami_panico-4007715.html, 30 settembre 2018)

Ж

Brollo inoltre deve essersi dimenticato di leggere «Laura Carcano, Stretta contro la droga nelle scuole, 2,5 milioni per 15 città: più vigili e telecamere, in: https://it.notizie.yahoo.com/, ove non solo si sottolinea l’importanza data dal Ministero al cyberbullismo, ma anche si precisa che un doveroso spazio, nelle scuole, deve venir dato alle attività di educazione e sensibilizzazione degli studenti, mentre, par di capire dal testo firmato dal ministro Matteo Salvini,  devono venir monitorati gli spazi esterni per vedere che non ci siano spacciatori nei paraggi, magari già segnalati, che non è detto debbano essere studenti. Inoltre il Ministero ha ipotizzato un piano straordinario contro la droga nelle scuole, per le maggiori città italiane: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia, Verona, Messina, Padova e Trieste, con un finanziamento complessivo di 2,5 milioni per incrementare i controlli. Ma a chi destinarli è già deciso.

Infine non tutti i dirigenti scolastici e le forze politiche concordano su queste idee del Ministero dell’interno. «Lodovico Arte, preside dell’istituto tecnico per il turismo “Marco Polo” non brinda all’iniziativa di Salvini: “La lotta alla droga si fa con l’educazione prima ancora che con la repressione». (https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/08/28/droga-salvini-lancia-scuole-sicure-soldi-a-15-comuni-per-contrastare-lo-spaccio-negli-istituti-presidi-e-genitori-divisi/4585756/). Arte inoltre non vuole cani antidroga a scuola, e il dirigente scolastico Mario Rusconi, se è favorevole a telecamere fuori dalla scuola, non le vuole assolutamente all’ interno. (Ivi). Non da ultimo vi è anche chi ha detto che, visto il numero di edifici scolastici nelle 15 città, con la cifra pattuita, non si parla neppure di lotta antidroga, e lo credo anch’io se ci sono voluti 2 milioni di euro per la pavimentazione della piazza di Tolmezzo ed una fontana che di uguali se ne trovano davanti a molte stazioni europee.

«Sarà qualcosa di soft, di carattere non punitivo, ma preventivo», ha detto Salvini (Scuole sicure, Salvini: 2,5 milioni contro spaccio droga/ Ultime notizie: “Finita la pacchia per chi spaccia”, in: http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2018/9/5/). «Scuole sicure prevederà controlli straordinari anti-droga in numerose città per bloccare gli spacciatori di morte (spesso immigrati irregolari) davanti alle scuole italiane, alla riapertura di settembre” è l’obiettivo indicato dal titolare del Dicastero degli Interni Salvini», (Stretta contro la droga nelle scuole, 2,5 milioni per 15 città: più vigili e telecamere, in: https://www.lapresse.it/) che non ha mai detto di fare operazioni in un paese di 10.000 abitanti stile estrema destra, bloccando le porte delle corriere di linea, neanche si trattasse di scovare un esponente internazionale del terrorismo. (Alessandra Ceschia, op. cit.).

Ж

Ben diversa era la posizione di Francesco Brollo un paio di anni fa (“Aumenta l’accesso al Sert degli under 18”. Sottotitolo: L’allarme del dipartimento dipendenze Alto Friuli. Il Sindaco Brollo: “Questione giovanile prioritaria, in Messaggero Veneto, 4 giugno 2016), quando parlava di rilanciare, assieme alla scuola, ai genitori ed agli educatori, la questione giovanile come prioritaria, di coinvolgere i giovani in attività alternative allo sballo, di tenere nella dovuta considerazione l’abuso di alcolici da parte dei ragazzi e ragazze, di riqualificazione dei luoghi degradati, colorando la stazione autocorriere. Ma forse allora c’era l’asse Renzi Serracchiani al comando ed ora vi è la Lega. Ma Brollo è un uomo per tutte le stagioni? – mi domando.

Ж

Uno degli aspetti che Luigi Franco e Thomas Mackinson mettono in risalto, nel loro articolo su Milellennium, già citato, è la scomparsa, in Italia della prevenzione ed il crollo delle risorse per sostenerla. Maria Contento, da anni a capo del Dipartimento per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri non rilascia colloqui con i giornalisti, e pare con alcuno, e detto Dipartimento è passato da 22 a 16 dipendenti, «L’attività arranca tanto che sul sito viene propagandata come un mezzo miracolo la ricostruzione dell’Osservatorio nazionale permanente sulle dipendenze, l’unica newsletter informativa porta il numero 0, e i progetti di prevenzione sono, per lo più , piccole iniziative spot». (Luigi Franco e Thomas Mackinson, op. cit., p. 11). Perfino il sistema ‘Allerta precoce’ (Snap), ha rischiato di chiudere, ed al Fondo nazionale per la lotta alla droga arrivano briciole, perché si sono dispersi finanziamenti nel calderone del Fondo Sociale. (Ivi, pp. 11-13). I finanziamenti per i Sert o Serd che dir si voglia sono ridotti all’osso, dato che la spesa sociosanitaria destinata alle tossicodipendenze è inferiore all’ 1% del budget complessivo, e la Consulta degli esperti e degli operatori sociali sulle tossicodipendenze è lettera morta, come altri adempimenti di legge nel merito della lotta alla droga, mentre anche Associazioni private operative nel settore vanno chiudendo, (Ivi, pp. 13-16), ed i ragazzini non vengono più a sapere  che certi sballi possono portare alla morte, come alcuni problemi fisici collegati alla assunzione di sostanze psicotrope.

«[…] è inutile sostenere che la cannabis fa venire ‘i buchi al cervello’, invece è importante dire ai ragazzi che se uno comincia a sudare freddo e gli batte forte il cuore e gli manca l’aria, ecco questo può essere un attacco di panico scatenato dal Thc che c’è dentro la cannabis. Quindi importante è non spaventarsi e soprattutto chiamare qualcuno in aiuto» – sottolinea Sabrina Molinaro, ricercatrice responsabile della ricerca Epsad, realizzata dall’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr.  – E a proposito della morte in discoteca: «Se a quel ragazzo avessero spiegato che prendendo Mdma sarebbe andato incontro a disidratazione, con 45 gradi, mentre stai ballando e dimentichi di bere e di fare la pipì, ecco, se gli fossero state fornite le informazioni […], il ragazzo sarebbe potuto essere ancora vivo». (https://www.left.it/2015/07/31/droghe-e-studenti-informazioni-pratiche-e-serie-sulle-sostanze-cosi-si-salvano-vite/). E se è vero che ci sono volontari che spiegano, aiutano soccorrono, non sono molti e rischiano. E ci sono i giovani che bevono e vomitano, seguendo la stessa logica: lo sballo del sabato, poi la routine che annienta. Una vita tra droga e jobs act, e nichilismo, senza futuro. (Laura Matelda Puppini, Pillole di informazioni su cui riflettere, da vecchi giornali pronti per il cassonetto, in: www.nonsolocarnia.info).

Aiutiamo almeno i giovani a tornare a sognare e educhiamoli a non cadere nella rete dell’uso e dello spaccio, ma a dare valore e dignità alla propria vita, attraverso il recupero di valori etici accantonati dalla società dei consumi, e non sparando, come Brollo, nel mucchio. Lo Stato ha il dovere anche morale di fare la lotta alla droga ed al narcotraffico, se non altro perché il costo sociale del problema si aggira intorno ai 15 miliardi di euro. (Luigi Franco e Thomas Mackinson, op. cit., p. 14), ma non così.

Ж

Con questo articolo voglio solo dire la mia opinione documentata sull’argomento, dopo aver letto quello di Alessandra Ceschia sulle iniziative antidroga del Sindaco di Tolmezzo, da cui dissento. Senza offesa per alcuno, men che meno per Francesco Brollo, ma per esercitare, se possibile, il diritto di critica, che pure i lettori possono utilizzare nei miei confronti, e se non ho capito bene qualcosa, per cortesia fatemelo presente.

Laura Matelda Puppini

(1). Qui di seguito riporto solo alcuni degli articoli e video recenti reperibili su internet nel merito. 

  • Droga in discoteca, 9 arresti e decine di segnalazioni …www.oggitreviso.it/droga-discoteca-9-arresti-decine-di-segnalazioni-20568. Treviso – La squadra mobile della questura di Treviso sta eseguendo una decina di provvedimenti nell’ambito di un’indagine sullo spaccio di droga ai giovani …
  • Droga in discoteca: tre arresti per spaccio e decine di segnalazioni ,  …www.piazzasalento.it/droga-in-discoteca-tre-arresti-per-spaccio-e-decine-di-segnalazio… 2 set 2018 – Tre arresti per droga nel corso dell’ultimo controllo dei carabinieri in una discoteca a Santa Cesarea Terme.
  • Ciampino, cinque giovani arrestati per spaccio di droga vicino a una discoteca.Ciampino, cinque giovani arrestati per spaccio di droga vicino a una discoteca. Video:https://www.ilmessaggero.it/video/roma/ciampino_sequestro_di_droga_vicino_discoteca-134933.
  • Ragusa: andavano in discoteca carichi di droga, arrestati due fidanzati.Video: http://m.tribunatreviso.gelocal.it/video/cronaca/ragusa-andavano-in-discoteca-carichi-di-droga-arrestati-due-fidanzati/53356/53556.
  • Droga a fiumi fuori da una nota discoteca bergamasca ideo in: https://www.ecodibergamo.it/videos/video/droga-a-fiumi-fuori-da-una-nota-discoteca-bergamasca_1032016_44/Immagini e dialoghi che lasciano basiti. Spaccio e consumo con una facilità disarmante. Ragazzini di 14 anni che in una nota discoteca della bergamasca parlano senza alcuna inibizione e soprattutto consumano senza preoccuparsi delle conseguenze, droghe di ogni tipo. Sono immagini girate da Striscia la notizia che documentano una situazione lampante, sotto agli occhi di chiunque, nel parcheggio e all’interno della discoteca. Un supermercato della droga che difficilmente possiamo pensare sia sfuggito ai proprietari del locale. I ragazzini vanno lì perchè lì, dicono, si trova tutto, facilmente e a prezzi accessibili».
  • Droga a fiumi in discoteca: 8 arresti in una notte per i Carabinieri di …https://www.altarimini.it/News59646-droga-a-fiumi-in-discoteca-8-arresti-in-una-notte-p.. 8 persone arrestate e quasi 100 grammi di droga sequestrati. E’ il risultato dell’attività di controllo effettuata dai Carabinieri, nella notte.
  • Spacciavano droga davanti a discoteca arrestati due baresi – La …https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/…/spacciavano-droga-davanti-a-discoteca-arr…Castellaneta Marina – Spacciavano droga all’interno di una nota discoteca di Castellaneta Marina (Taranto), ma sono stati scoperti e arrestati dai …
  • Ecstasy e Ketamina fuori dalla discoteca: arresti e denunce, in: www.lecceprima.it/cronaca/arresti-denunce-santa-cesarea-terme-13-agosto-2018.html 13 ago 2018 – Centinaia di pasticche di Ecstasy fuori dalla discoteca: arresti e … per vari reati che vanno dalla detenzione di droga alla guida in stato alterato, …
  • Spaccio di stupefacenti nelle discoteche del Salento, arrestati tre … www.baritoday.it/cronaca/droga-arrestati-baresi-discoteca-salento..html. Spaccio di droga in discoteca: in manette venditore e acquirente https://www.quotidianodipuglia.it/…/santa_cesarea_droga_discoteca_arrestati-261827..14 ago 2017 –
  • Erika e lo spaccio in discoteca sotto le luci strobo: “Mi porta 200 euro …www.palermotoday.it/…/arresti-droga-spaccio-discoteche-erica-trapani-retroscena.htm.. 12 ott 2017 – Tra i 12 arrestati anche una ragazza di 24 anni: “E’ troppo forte, per le feste … La droga viaggiava dall’Argentina e arrivava in Sicilia pronta per …
  • Due arresti per droga in discoteca – RomagnaNOI www.romagnanoi.it/news/home/1232521/Due-arresti-per-droga-in-discoteca.html
  • Droga dinanzi alla discoteca. Due arresti. | Studio100 https://www.studio100.it/droga-dinanzi-alla-discoteca-due-arresti/
  • Spaccio nelle discoteche, arresti e perquisizioni – La Voce di Rovigo www.polesine24.it/home/…/spaccio-nelle-discoteche-arresti-e-perquisizioni-27883/ 7 giu 2018 – Spaccio nelle discoteche, arresti e perquisizioni … L’arrestato era solito cedere stupefacente a persone di Rovigo e nelle discoteche delle altre due province, tra cui cocaina, … Traffico di droga, arresti anche in Polesine …
  • Con armi e droga in discoteca: arrestato. fiumicino.civonline.it/articolo/con-armi-e-droga-discoteca-arrestato. 18 set 2018 – Con armi e droga in discoteca: arrestato. In manette un 44enne con precedenti al Country House di Anguillara. Controlli a tappeto dei …
  • Droga in discoteca, arrestati pusher in trasferta – – Lecce News 24 …247.libero.it/lfocus/36258046/1/droga-in-discoteca-arrestati-pusher-in-trasferta/2 set 2018 – In un locale della costa adriatica i controlli hanno portato all’arresto di due roani e un salentino. Quest’ultimo è di Tricase.. Gli arrestati …Taranto: ​Sballo in discoteca, scattano 3 arresti​ https://www.tarantobuonasera.it/news/cronaca/…/sballo-in-discoteca-scattano-3-arresti
  • Il pr spacciava coca in discoteca: arrestato dalla Polizia – Il Gazzettino, in: https://www.ilgazzettino.it/nordest/rovigo/droga_cocaina_pr_discoteche-3783137.html
  • Spaccio in discoteca: 8 arresti. Fiumi di droga tra i giovani della …https://internapoli.it › Cronaca 2 feb 2017 – Spacciavono droga in discoteca, sono stati arrestati dai carabinieri di Capua coordinati dal capitano Fancesco Mandia. Si tratta di otto persone …

E questi sono solo alcune indicazioni.

L’immagine che correda l’articolo è la scannerizzazione della copertina del numero di Millennium citato nell’ articolo. Non ho trovato indicazione che l’immagine sia coperta da copyright, ma se lo fosse per cortesia avvisatemi. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

Lettera di Remo Cacitti sul convegno ” Un volto ricomposto. Il Duomo di Venzone”.

$
0
0

Oggi, dopo aver partecipato alla Messa ed alla celebrazione in ricordo dei caduti civili e partigiani nell’ottobre 1944 a Casanova, mi sono fermata a bere un caffè ed a leggere il Messaggero Veneto. Con mia grande sorpresa vi era un articolo relativo al Duomo di Venzone, e si parlava, pure, di una misteriosa lettera del prof. Remo Cacitti, mio amico da una vita, docente universitario di Letteratura cristiana antica e Storia del cristianesimo antico presso l’Università Statale di Milano, ed in precedenza docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Cosa era accaduto? Perché Remo aveva preso la penna in mano, per scrivere il suo disappunto?

Dovete sapere che, nel 1976, subito dopo la terribile scossa del 6 maggio, quando andrai a trovare Remo, Clara e loro padre Bruno a Venzone, nella loro villetta nuova, Remo mi mostrò una camera ove aveva posto parti di affreschi del duomo, mentre Brunone Cacìt, uomo pratico, mi faceva presente che egli disapprovava vivamente che in tempi calamitosi si salvassero pitture invece che recuperare formaggi.

Poi conobbi l’impegno diretto di Remo per quella chiesa e per la cittadina murata, tanto che divenne «l’ispiratore del progetto di recupero del centro storico e del duomo di Venzone» (Giacomina Pellizzari, Venzone pietra su pietra. Il grazie dei friulani all’ideatore del restauro. La consegna del premio Maquôr Rusticitas a Remo Cacitti. Lo studioso lo ha diviso con il progettista e chi non c’è più, in Messaggero Veneto, 5 giugno 2016), ma mi resi anche conto, nel tempo, come a fronte del riconoscimento del suo lavoro da parte di alcuni, vi fossero altri che non lo apprezzavano sufficientemente, forse volendo emergere. Non è stato un sindaco della ricostruzione Remo Cacitti, pensai fra me e me sconsolata, ricordando il lavoro da lui svolto per Venzone anche con amici professionisti di Milano, fra cui Maria Pia Rossignani, archeologa, in accordo con il Monsignore, mentre leggevo una lettera apparsa sul Messaggero Veneto nel 2016, in cui se non erro un ex- vicesindaco venzonese lamentava il troppo risalto dato a Remo ed il poco dato al Sindaco di allora, dimenticando che la ricostruzione di Venzone fu fatto corale.

Comunque per ritornare all’oggi, incuriosita dalla pagina del Messaggero Veneto, ho telefonato a Remo per sapere qualcosa di più, e mi ha narrato che si era tenuto, venerdì 5 ottobre 2018, a Venzone un Convegno intitolato “Un volto ricomposto”, dedicato al coronamento della ricostruzione del Duomo, a cui, per inciso, non era stato neppure invitato. Aveva quindi manifestato il suo pensiero, sulla memoria di quella ricostruzione, con una lettera. Ho pregato Remo di darmi il testo della stessa, indirizzata a Paola Fontanini dell”Associazione Amici di Venzone’, di cui Remo per anni ed anni fu Presidente, che pubblico con il suo permesso.

_________________________________________________________________

«Prof.ssa Paola Fontanini,
Presidente Associazione Amici di Venzone,
Sua sede.

e p.c. Dr.ssa Simonetta Bonomi,
Soprintendente ABAP del FVG,
Sua sede.

Dr. Andrea Alberti,
Soprintendente ABAP del Veneto Orientale,
Sua sede.

Cara Presidente,

mi giunge tra le mani proprio oggi il programma del convegno <<Un volto ricomposto. Il Duomo di Venzone: collocate le sculture del coronamento e completato il cantiere della ricostruzione>> che si terrà dopodomani nella Sala Consiliare del Palazzo comunale.

Indirizzo questa mia riflessione a te perché terrai – anche se per un brevissimo intervento – l’unica relazione che ricorda uno dei maggiori protagonisti della ricostruzione del centro storico con il suo Duomo: nella Guida a quell’edificio, approntata nel 1995 da Isabella Vaj, era stata infatti usata l’immagine della meridiana e del suo gnomone – rispettivamente il centro storico e il suo Duomo – per indicare come la meridiana, senza quell’asta, non rappresentasse altro che una muta serie di numeri, mentre lo gnomone, senza il piatto della meridiana, avrebbe invano proiettato la sua ombra.

Mi rendo conto che il convegno che sta per inaugurarsi desideri prioritariamente celebrare la recente collocazione delle copie delle statue che, appunto, dovrebbero “ricomporre il volto” della Pieve di Sant’Andrea Apostolo ma, nello scorrere l’elenco dei relatori e dei titoli dei loro interventi, non posso fare a meno di domandarmi se questa, pur benvenuta, attenzione ai “tratti somatici” del Duomo non rischi di comprometterne la storia e l’identità.

Quelle statue, infatti, poggiano oggi, non solo idealmente, sulla grande mobilitazione popolare che seppe resistere, all’indomani del terremoto, a tutte quelle ovvietà e a tutti quegli schematismi politici, culturali e amministrativi che volevano il Duomo lasciato in rovina a <<tragica testimonianza>> della catastrofe in una Venzone riedificata su moduli prefabbricati lungo la Pontebbana. Questa mobilitazione popolare, già stabilmente irrisa tramite l’identificazione con un freno – piccolo e marginale – nell’immaginifico grafico della “macchina della ricostruzione” della permanente Tiere-motus, è del tutto assente dalle riflessioni di questa giornata di studi.

La ferma richiesta di partecipazione popolare all’intero processo di ricostruzione in Friuli si articolò in Venzone nel lavoro del Comitato di recupero dei Beni culturali, che ebbi l’onore, su mandato della Giunta comunale, di presiedere: fu grazie a questo Comitato che la città poté godere della collaborazione entusiasta e generosa di numerosi e preparati giovani tra cui, desidero ricordare, l’allora giovanissimo architetto che di seguito avrebbe firmato, con i suoi collaboratori, il Progetto esecutivo di riedificazione del Duomo. Il Comitato costituì davvero la porta di accesso a personalità ed Enti di assoluto prestigio e mi limito qui a rievocare la figura di Maria Pia Rossignani – responsabile di gran parte della catalogazione delle pietre del Duomo –, a rendere omaggio a Marisa Dalai Emiliani e, chiudendo un elenco poco più che evocativo non certo complessivo, a ricordare l’Istituto Regionale per i Beni culturali della Regione Emilia Romagna, allora diretto da Giovanni Losavio, che finanziò e patrocinò, per l’intelligente curatela di Pier Luigi Cervellati e Andrea Emiliani, il primo restauro per anastilosi a Venzone, quello della chiesa di San Giacomo.

Il testimone del Comitato passò di mano, dopo le repliche del settembre 1976, al Comitato 19 Marzo, un pugnace gruppo di cittadini che per tre anni – dal 1977 al 1980 – rappresentò, tramite il foglio settimanale Chjase Nestre, la coscienza critica della ricostruzione a Venzone. Nello specifico, per quanto concerne il Duomo, per iniziativa dell’allora pievano, mons. Giovanni Battista Della Bianca, venne riattivato un ormai obsoleto Istituto, la Fabbriceria del Duomo, che in pochi anni assunse un ruolo cruciale nella formulazione delle fondamenta culturali su cui basare il progetto di riedificazione, facendosi promotrice presso l’Arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, dell’istituzione del Comitato Internazionale per il ripristino del Duomo di Venzone che riunì, dall’Italia e dall’estero, taluni tra i migliori igeni dei vari saperi scientifici necessari all’opera.

E come, per altro, dimenticare l’inesausta attività di promozione culturale che si concretizzò, a partire dall’edizione, nel 1980, presso la Casa Editrice Einaudi, de Le pietre dello scandalo. La politica dei beni culturali nel Friuli del terremoto, in una serie di pubblicazioni di cui è buon testimone la raccolta dei Bolletini dell’Associazione Amici di Venzone e nell’organizzazione di Convegni di alto profilo scientifico e culturale, tra cui mi limito a ricordare 1976-1986. Prima e dopo. Per una Carta dei Diritti dei Beni culturali nella catastrofe e Fabrica ecclesiae, specificamente dedicato al Duomo

Mi auguro, e spero che questo auspicio sia anche il tuo, che questo convegno, con le sue troppe omissioni, non voglia configurarsi come un tentativo di dimenticare, più che di ricordare, per confezionare una storia meno conflittuale, che tutti avremmo certo voluto ma che di fatto non vi fu, rappresentando in tal modo il primo passo di un itinerario che condurrebbe il Duomo a diventare <<tragica testimonianza>> di quella rimozione della memoria che connota questi anni.

Ti pregherei, cara Presidente, di inviare questa mia lettera a tutti i componenti dell’Associazione Amici di Venzone; per parte mia, ho ritenuto doveroso indirizzarla, per conoscenza, ai Moderatori delle due sessioni del convegno.

Nel formularti i più fervidi voti di saluto e di augurio, ti prego di credermi tuo obbligatissimo,

Remo Cacitti    3 ottobre 2018».

_________________________________________________________________

Per terminare pongo qui interventi ed intervenuti, coordinati da Andrea Alberti, Soprintendente ABAP del Veneto Orientale, al convegno “Un volto ricomposto. Il Duomo di Venzone: collocate le sculture del coronamento e completato il cantiere della ricostruzione“, titolo neppure molto originale, che richiama quello del volume di Elio Ciol ed L. Pressinotto “Venzone, un volto da ricomporre“, edito dall’ Istituto per l’enciclopedia del Friuli Venezia Giulia nel1978.

10.00-10.15 Guido Clonfero, uomo di parola – Paola Fontanini, Associazione Amici di Venzone. 10.15-11.15. La ricomposizione virtuale e reale delle 9000 pietre. Riflessioni a distanza di tempo – Francesco Doglioni (IUAV), Alba Bellina (Arichitetto), Alessandra Quendolo (UNITN). 11.30-12.00. Il Duomo di Venzone nel confronto tra culture della ricostruzione applicata al Patrimonio in luoghi diversi del mondo – Luisa De Marco (ICOMOS). 12.00-12.30. Il territorio colpito dal terremoto dell’Italia Centrale. Un progetto per la ricostruzione? – Carlo Birrozzo, Soprintendente ABAP delle Marche. 14.45/18.30 Il collocamento delle sculture – coordina Simonetta Bonomi, Soprintendente ABAP Friuli Venezia Giulia. 14.45-15.15. Le sculture del coronamento del Duomo di Venzone. Aspetti storico-artistici – Concetta di Micco, Catia Michelan, Soprintendenza ABAP del Friuli Venezia Giulia. 15.15-16.30. La realizzazione e la collocazione delle copie delle sculture del Duomo di Venzone – Guido Biscontin (UNIVE), Claudio di Simone, Michela Scannerini, Silvia Vanden Heuvel (ESEDRA r.c. srl), con Dumitru Jon-Serban (Scultore) e Alberto Moretti (ingegnere), 6.40-17.00. La valorizzazione degli spazi interni del Duomo e delle sue pertinenze per una ipotesi di sistema museografico integrato – Sandro Pittini (UNIUD). (http://www.venzoneturismo.it/un-volto-ricomposto-5-ottobre-2018/).

Beh, io credo francamente che Remo Cacitti abbia qualche ragione ad essere amareggiato per non esser stato invitato al convegno. Inoltre leggendo l’articolo di Giacomina Pellizzari dedicato alla consegna del premio Maquôr Rusticitas, si coglie come la ricostruzione abbia rappresentato primieramente una sfida contro i poteri che volevano l’antica Venzone azzerata, ma anche un esempio di ricostruzione del popolo intorno alla sua chiesa, non solo un fatto architettonico, come ben ricorda qui Remo Cacitti. 

Senza offesa per alcuno ma per capire l’accaduto. L’immagine che accompagna l’articolo è tratta dal Messaggero Veneto del 5 giugno 2016, ed è una di quelle che corredava l’articolo di Giacomina Pellizzari citato.

Laura  Matelda Puppini.

 

 

 

 

 

 

Uomini che scrissero la storia della democrazia: Bruno Cacitti, Lena, osovano. Perché resti memoria.

$
0
0

Bruno Cacitti mi concede un’insperata intervista.

 Correva l’anno 1968 o 1970, quando dissi a Clara Cacitti che avrei voluto intervistare suo padre Bruno, il famoso osovano Lena, sulla Resistenza, e, con mia sorpresa, mi trovai davanti ad un veto deciso. Mi disse che lo dovevo lasciare in pace, che era già stato qualche mese prima, in forma ufficiale, ad intervistarlo don Aldo Moretti, che suo padre, quando aveva saputo che il prete voleva sentire le sue dichiarazioni, aveva iniziato ad agitarsi, cosa che raramente gli accadeva. Quindi l’incontro era stato preparato e predisposto, con lei presente, ed egli aveva detto quello che ‘doveva dire’, per poi esser lasciato definitivamente in pace. Questo mi colpì tantissimo. Comunque, non volendo disturbare, decisi di rimandare ad un momento migliore l’intervista. Dopo qualche anno, quando ancora abitavo a Trieste, chiesi a Bruno Cacitti, direttamente, se potevo intervistarlo, e mentre Clara, molto legata al padre, si preparava a rispondere nello stesso modo di prima, sorprendentemente Bruno mi disse che avrebbe accettato di parlare con me di quei tempi.

Così, il 24 aprile 1978, mentre le pagine dei giornali si riempivano, giorno dopo giorno, dei nuovi sviluppi del rapimento Moro, mi recai a Venzone, per ascoltare Bruno Cacitti, che mi accolse con un bicchiere in mano e quasi le lacrime agli occhi. Molti partigiani facevano fatica a parlare di quella guerra di liberazione, in cui tanto avevano patito e per la quale alcuni avevano avuto tanti problemi nel dopoguerra ed anche successivamente, in periodi costellati da testi che mettevano in dubbio il valore del loro sacrificio. Non da ultimo ricordare quel periodo contemplava, per molti, ricordare amici e compagni di lotta, morti, feriti, straziati, ricordare orrore e terrore intollerabili.

Qui però non riporterò solo l’intervista, ma la correderò con altri materiali su Lena, in particolare dal Dossier su di lui presente in Archivio Osoppo di Udine, datomi Pietro Bellina di Venzone, per anni instancabile segretario dell’Associazione Amici di Venzone, che sentitamente ringrazio anche per avermelo trasmesso come da lui trascritto.

Bruno Cacitti di Caneva di Tolmezzo, militare effettivo e partigiano.

Nato il 19 luglio 1908 a Caneva di Tolmezzo, Bruno Cacitti diventò, nel 1928, allievo maniscalco alle dipendenze dell’Esercito Italiano, quindi caporale nel 1934, sergente nel 1937, sergente maggiore nel 1939, alternando i suoi periodi di servizio fra l’8° Rgt. Alpini ed il 3° Artiglieria Alpina, salvo le parentesi dell’A.O. Ai tempi della guerra di Liberazione, egli non era nuovo alla guerra, avendo partecipato con la 11ª batteria del Gruppo Artiglieria Alpina “Belluno” del 5° Rgt. “Pusteria” alle operazioni della campagna italo-abissina, con la Divisione Julia all’occupazione dell’Albania nel 1939, alla campagna italo-greca, alle operazioni in Montenegro e, successivamente, all’occupazione armistiziale in Francia.

Dopo l’8 settembre, da Nimis, ove allora si trovava con il gruppo Conegliano del 3° Rgt. Artiglieria Alpina, dopo aver sotterrato, con altri, cannoni ed armi perché non cadessero in mano tedesca, raggiunse Caneva di Tolmezzo suo paese natio e quindi, nella primavera, dopo un inverno passato in montagna, aderì, con il fratello Fermo, Prospero, tenente degli Alpini, alla Osoppo (1) entrando a far parte, con il nome di battaglia Lena (e non Lenna), del btg. Carnia, comandato da Romano Zoffo, Livio, detto localmente Barba Livio, attestato a Salvins di Vinaio. Pare comunque che fosse stato arrestato nel febbraio 1944, perché invitava i giovani a non aderire alla leva tedesca, e poi liberato per mancanza di elementi probatori a suo carico. (2). Probabilmente fu negli ultimissimi giorni del mese perché il Gauleiter emanò il 22 febbraio 1944 il bando di leva obbligatorio in Ozak per le classi 1923-1924-1925. (3).

Egli svolse, nel corso della guerra di Liberazione, un ruolo importante nell’Intendenza osovana, tanto da esser considerato da Marchetti una persona che fu indispensabile per la sopravvivenza dei partigiani nel lungo inverno 1944 – 1945. Anche Mario Candotti ricorda come Bruno Cacitti per la Osoppo/Carnia, e Giovanni Pellizzari Ugo per la Garibaldi/Carnia, riuscirono, operando in condizioni difficilissime, ad organizzare l’attività partigiana sul terreno, durante quel periodo durissimo. (4).
A Tolmezzo il vice – direttore della Cooperativa Carnica Sylva Marchetti, fratello di Romano, aveva promesso a Lena di dargli tutto quello che voleva purché non si facesse più vedere. E Bruno Cacitti fu aiutato, per i rifornimenti ai partigiani, anche da Amerigo Pillinini, che risultò valido collaboratore (5). Gian Carlo Chiussi sottolinea l’impegno di Lena come intendente ed informatore per il btg. Carnia anche dopo la formazione del Comando Unico e, ricordando Lupo, Giovanni De Mattia, scrive: «Lupo (…) è stato per me la più bella figura di partigiano, con la “P” maiuscola, unitamente all’amico Lena» (6).

Si sa, inoltre, sempre dalla stessa fonte, che anche Bruno Cacitti, come del resto lo stesso Gian Carlo Chiussi Paolo/Pitti, e Dirza (probabilmente I° e cioè Pietro Zanussi), rientrarono nell’inchiesta svolta da don Aldo Moretti Lino e dall’avvocato Giovanni Battista Marin, Miari, relativamente a Livio o Barba Livio che dir si voglia, che aveva chiesto che il suo operato fosse giudicato dopo quanto gli era accaduto a causa della crisi osovana di Pielungo. Nulla comunque era emerso a carico di Lena e degli altri due partigiani. (7).

Alla fine della guerra, entrò in contrasto con il fratello Fermo, Prospero, tenente degli Alpini, che pare fosse incline, a guerra finita, a passare per le armi i traditori, i collaborazionisti, gli ex- fascisti, a differenza di Bruno che sosteneva una politica di pacificazione. Quindi Fermo, che era stato fatto pure segno di azioni intimidatorie presso l’osteria Fossâl di Lauco, emigrò in Venezuela, dove ebbe, negli anni ’70, un incidente sul lavoro che lo rese invalido per sempre. (8).
Dopo la liberazione Bruno Cacitti riprese la sua professione di sottoufficiale dell’Esercito italiano, con il ruolo di maresciallo, fino alla pensione. Nel 1970 fu fra i fondatori dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione con sede ad Udine. Morì a Venzone nel 1982.

Religioso a modo suo, buon conoscitore della montagna carnica, uomo di sangue freddo ed abituato alla vita militare, si diceva che un suo pugno facesse più rumore di una fucilata.

Senti, bambina: ci siamo trovati, il vot di …di settembre quarantatrei, abbandonati, soldati abbandonati…

Laura: «La prima cosa che vorrei sapere è come si è formato il movimento partigiano in Carnia e soprattutto l’Osoppo».

Bruno Cacitti: «Senti, bambina: ci siamo trovati, il vot di …di settembre quarantatrei, abbandonati, soldati abbandonati: i capi, il re, Badoglio, andati al Sud, al Nord… e noi altri ci siamo trovati in un mare di fango. Per salvarci abbiamo dovuto andare in montagna. Se non si andava, ci aspettavano i lager tedeschi. Basta. Non fu una questione politica. Siamo scappati perché ci hanno abbandonato i capi – chiuso (l’argomento ndr.).
Ma come si fa? Loro scappano, e noi … Ci hanno messo in una condizione … Ma benedetto Dio, noi eravamo soldati, che vergogna! È stata la ritirata di Caporetto … Ci hanno lasciato in un mare di fango e di guai, abbandonati. Io avevo con me calabresi, avevo con me soldati della Bassa Italia … erano soldati con me … E cosa si poteva fare? Poi dopo …. Per l’amor di Dio, per l’amor di Dio ….
E siamo rimasti noi, semplici soldati … I capi son scappati per salvarsi ci han abbandonati, e basta… E la gente era tutta con noi quando ha visto quello sfacelo.

Io mi trovavo a Nimis quando ho sentito per radio che dovevamo voltare il fucile contro i tedeschi. E cosa avrei dovuto fare se non andare a dormire negli stavoli? Per salvarci abbiamo dovuto andare in montagna. Se non si andava, ci aspettavano i lager tedeschi. Basta. Non fu una questione politica. Siamo scappati perché ci hanno abbandonato i capi – chiuso. E noi siamo andati su, sul “Dobis”, a dormire negli stavoli, e le povere donne di Caneva ci portavano su da mangiare.

Noi non si aveva politica, dopo è giunta la politica: bianchi, rossi, verdi.

«Allora c’era una matrice comune che fece andare questa gente partigiana sia che fosse della Osoppo sia che fosse della Garibaldi …C’era qualcosa che univa… Dopo è entrata la politica dopo che siamo saliti in montagna, e hanno formato la Osoppo e la Garibaldi. Io non ho nessuna tessera politica neppure ora, e sono un cittadino con la coscienza a posto, almeno credo, anzi ne sono sicuro.
Però tra Osoppo e Garibaldi, purtroppo, poi, è subentrato il fatto che la Garibaldi non andava d’accordo con la Osoppo per motivi politici, una storia e l’altra … e ci siamo fatti la guerra tra noi, pensa un po’ tu …. (10).

Noialtri non si aveva politica. Poi, dopo, è giunta la politica: bianchi, rossi, verdi. Dopo si sono create le formazioni della Osoppo e della Garibaldi e via di seguito, ma io ho fatto il mio dovere. Io no mi soi mai intrigat, ho sempre cercato, durante la lotta partigiana, (…) di aiutare la povera gente e ho rischiato la vita: ho rischiato la vita per portare da mangiare su, alla povera gente di Carnia senza rubare. Io non ho alcuna tessera (di partito n.d.r.). Noi siamo andati in montagna per un motivo comune, poi si è inserita la politica.

Ed i contrasti tra la Garibaldi e la Osoppo sono sorti dopo che son venuti qua degli jugoslavi, Mirko e non Mirchi, fanatici, e una storia e l’altra… Ed all’inizio non c’era questa divisione… poi è subentrata la politica, dopo che la Jugoslavia ha mandato qua dei capi… degli ufficiali (11) che han creato il trambusto, ma noialtri siamo andati in montagna semplicemente perché si era stati abbandonati. I nostri capi son scappati tutti, come la ritirata di Caporetto. All’inizio non si percepiva questa divisione tra comunisti e non. Del resto noi non si sapeva di politica allora, perché specialmente noialtri dell’esercito non si aveva neanche il diritto di voto (12), ed io non sapevo cosa fossero i comunisti, i bianchi, o i rossi o i verdi, non potevamo saperlo. Noi siamo andati in montagna per salvarci la pelle. E la gente della Carnia non era che sentisse molto, all’inizio, la differenza tra chi era comunista e chi non era comunista.

Ma io so solo che, prima del discorso Badoglio (carogna, sporco, lurido) alla radio, si era amici della Germania, poi… “voltate il fucile e sparate sui tedeschi”» (13).

E mentre andavo a prendere farina, mi arrestarono l’autista che non era neppure partigiano

«Io sono sempre stato della Osoppo. E diciamo che non mi sono mai interessato di politica, e che ho sempre cercato di aiutare la povera gente. E ho rischiato la vita per portar su da mangiare alla povera gente da Carnia (14). Basta… Andavo giù a Tramonti, avevo contatti con degli amici, e mi hanno messo dentro anche i tedeschi, ma ho avuto la fortuna di salvarmi.  È andata così, ricordati bene. Era autista un ragazzo di Enemonzo che aveva il camion… Però adesso non mi ricordo i due paesi ove avvennero i fatti… Il colonnello Mittoni mi dice di andar giù, in pianura, e mi aveva fatto lo schizzo di questi due paesi … “Lì trovi quello che devi portar su”.

Mi han arrestato sto ragazzo, sto autista, che non aveva nessuna colpa, che non era né partigiano né niente, lo hanno arrestato le S.S. a San Vito al Tagliamento… Dalla mattina alle 7 ho cercato di corrompere pievani, preti e guardie: niente da fare, ma pensavo che io, a Tolmezzo, senza quel ragazzo non sarei mai ritornato. Quel ragazzo non aveva nessuna colpa. Io avevo dei documenti falsi. Io risultavo della Todt di Ampezzo.
E arrivano le cinque della sera. Non essendo riuscito a salvare il ragazzo, mi sono presentato io, personalmente, dalle S.S.. Ci siamo fatti giorni nove giorni di galera, di prigione a San Daniele. Ci han portati a San Daniele ed un bel giorno ci han mollato e basta. Io, felice e a piedi sono ritornato a Tolmezzo». (15).

Lo stesso episodio è descritto in: ““Relazione sul servizio prestato nelle file partigiane del Serg. magg., maniscalco Cacitti Bruno n.b. Lena, Busta 41, fascicolo 12, in: Archivio storico della Divisione “Osoppo”, con qualche particolare in più e qualche particolare in meno.
Da detta relazione si sa che Bruno Cacitti si era recato a Cisterna di S.Vito di Fagagna e San Vito al Tagliamento, che il fatto era accaduto il 12 marzo 1945, che era stato fermato l’automezzo col quale egli si era recato a San Vito al Tagliamento per prelevare viveri su ordine dell’Intendente della formazione, maggiore Mittoni Monti, che egli si era presentato spontaneamente ai tedeschi cercando di far liberare gli arrestati, che però risultano, dall’intervista, essere uno solo. Riconosciuto dal tenente tedesco come uno dei capi della Osoppo, nega, e spiega che è venuto a prendere i viveri che occorrono alla popolazione della Carnia che muore di fame, mostrando i buoni falsi dell’annonaria, ma non viene creduto. Incarcerato a San Daniele e, dopo nove giorni, in via Spalato a Udine, secondo questa versione dei fatti, viene liberato grazie al direttore della Se.pr.al., (Sezione Provinciale Alimentazione n.d.r) il quale, d’accordo col magg. Mittoni, asserisce che i buoni sono stati rilasciati da lui (16).

Una versione di episodio più simile a quella a me narrata è presente, invece, nella trascrizione dell’intervista fatta da don Aldo Moretti e dal cattolico Gianni Nazzi a Bruno Cacitti nel 1968 (17).
Ivi si legge: «La seconda volta fui arrestato a Silvella di S. Vito mentre stavo andando per i miei compiti di intendente, da Varutti Michele. Eravamo pochi giorni prima della Pasqua 1945. Dovevo prelevare per conto della brigata due o più quintali di farina. Avevo un camioncino di Quagliaro di Enemonzo con l’autista del tutto ignaro delle finalità partigiane del carico che stavamo per fare. Avevamo buoni regolari di merce già da noi prelevata a S. Vito al Tagliamento e di quella farina che si doveva ora caricare. Mentre il Varutti mandava al mulino l’autista accompagnato da un suo partigiano, i due incapparono in una pattuglia di SS di stanza a Cisterna. Saputa la cosa, io – per non abbandonare l’autista che non aveva alcuna colpa – mi presentai alle SS di Cisterna. Queste mi arrestarono come “Groβer Partisan”. Ci batterono tutti e due l’intera notte, mentre quel tale che doveva accompagnare l’autista sparì, né lo vidi più, tanto che pensai fosse una spia e avrei voluto vendicarmi di lui, e l’avrei fatto se non fosse venuta Pasqua poco dopo e poi la fine di tutto. Da Cisterna ci condussero nelle carceri di S. Daniele e lì ci tennero nove giorni. Fummo liberati prima della fine senza nessuna spiegazione. Io penso che il Varutti oppure altri partigiani siano riusciti a farci scarcerare. Ma noi fino all’ultimo l’avevamo vista molto brutta».

Ho riportato questi tre testi per far comprendere come possano circolare versioni scarne o con più particolari anche diversi tra loro di uno stesso fatto, magari per desiderio di un intervistatore, in fase di trascrizione, di precisare, di aggiungere qualche particolare letto o sentito, o per un ricordo prima presente poi assente.

Io andavo ad accompagnare le missioni alleate che scendevano da Tramonti …

Sulla relazione sul servizio prestato da Bruno Cacitti si leggono poi alcune azioni belliche compiute dallo stesso come partigiano. Aveva partecipato, il 27 luglio 1944 (18), all’azione contro il fortino tedesco di sbarramento a difesa del ponte sulla But che portava a Caneva, in cui morirono Valeriano Cosmo di Formia e Marcello Coradazzi di Caneva di Tolmezzo; il 15 agosto dello stesso anno, aveva posto una mina in località Vinadia sulla rotabile Tolmezzo-Villa Santina, facendo saltare un automezzo tedesco e con i militari al suo interno. Sopraggiunti altri mezzi del nemico, ingaggiava battaglia, per poi ritirarsi, vista la diversità di mezzi e forze. Ma certamente non furono le uniche. (19).

La “Relazione” citata parla anche dell’aiuto dato dal Cacitti a prigionieri alleati fatti evadere dal campo per prigionieri di Sauris, ma ciò sarebbe potuto avvenire solo subito dopo l’8 settembre 1943, dato che Libero Martinis, nel suo: Neozelandesi nella valle del Lumiei, singolari esperienze di un campo di prigionia italiano, La Nuova Base ed. 1999, a p. 54 sottolinea come detti prigionieri fossero rimasti in zona solo fino all’annuncio dell’armistizio di Cassibile. Invece è possibile che Bruno Cacitti abbia aiutato militari alleati, nell’ inverno 1944-45, ad attraversare la Carnia perché raggiungessero poi Venzone, Musi, Lusevera, Cergneu, S. Antonio di monte Joannes ed infine la zona del Litorale sloveno ove gli alleati che combattevano a fianco dell’esercito di liberazione jugoslavo, avrebbero potuto farli approdare al Sud. (20).

Ma, leggendo la trascrizione dell’intervista fatta da don Aldo Moretti e Gianni Nazzi a Bruno Cacitti, si apprende una versione che pare più realistica di detto accompagnamento di militari alleati, che risulta essere uno solo: «Anche il Btg. Carnia ricevette in consegna, nel dicembre 1944, a Lateis di Sauris sette americani, di cui uno ferito. Mio fratello li condusse fino al casello che si trovava all’ingresso ovest di Caneva. Ivi vennero presi in consegna da me; li feci attraversare a guado (in dicembre!) il But e il Tagliamento. Li accompagnai fino a quei due stavoli che si vedono sul monte che sovrasta a est Stazione di Carnia. Di lì, un certo Valent garibaldino li accompagnò oltre, fino a Plezzo. In primavera ’45 la riorganizzazione in montagna e nei paesi avvenne ovunque in modo deciso» (21).

—————-

Invece Bruno Cacitti sicuramente nel luglio 1944, accompagnò soldati alleati in Val But, perché potessero, grazie all’aiuto del garibaldino Benedetto Plozner, passare il confine tra Ozak e Terzo Reich, e penetrare in territorio austriaco per cercare di organizzare una resistenza interna in casa nazista.

Così ha raccontato Lena a me: «Io andavo ad accompagnare le missioni americane che scendevano da Tramonti. Lì c’era un campo di aviazione, e venivano giù gli elicotteri e consegnavano a me, a me, (i pacchi e le persone ndr) e poi andavo a piedi a Passo di Monte Croce Carnico (…). Avevo un amico a Timau, no, prima di Timau, in quel paese a sinistra, a Cleulis… Andavo la mattina a Sutrio. Lì avevo un mio cugino e lo mandavo ad ispezionare la zona, e poi (se la via era libera) si partiva e si andava su, a Passo Monte Croce, per i sentieri, mica per le strade. (…) Eh…e lì…Mandavano via Inglesi per le missioni americane, inglesi per formare la resistenza in Austria, e dopo l’han ammazzato in il mio amico». (22).

Uno di questi fatti, ma con qualche particolare in più e qualche particolare diverso, è descritto da Patrick Martin Smith, che, dopo aver precisato, all’ inizio, che era stato paracadutato con altri, nel luglio 1944 a Tramonti, in particolare per saggiare l’esistenza di una resistenza austriaca e prendere contatto con la stessa, scrive: «Due uomini su di una berlina rossa mi aspettavano: il responsabile era Lena che […] era l’intendente ed uno dei fondatori della neonata brigata carnica della Osoppo […]. Per andare in Carnia si potevano prendere due strade: una per il monte Rest e l’altra per la val d’Arzino. In entrambi i casi avremmo evitato i dintorni di Tolmezzo in mano ai Tedeschi. Dato che Lena doveva sbrigare delle faccende lungo la strada, prendemmo la seconda per Clauzetto ed Anduins (…), poi Pielungo, per San Francesco […], Pozzis (e) ci immettemmo in una pista che conduceva a Preone […]. Infine, nelle primissime ore del giorno, arrivammo a Timau, ai piedi del Passo di Monte Croce Carnico.
Parcheggiammo l’auto alle porte del paese […].  Lena scese dall’auto ed andò a cercare il bottegaio che, secondo gli accordi, ci avrebbe messo in contatto con Vienna (nome di copertura di un collaboratore austriaco della resistenza, che lavorava per le ferrovie ndr). Passò un’ora e già cominciavo a pensare che qualcosa fosse andato storto, quando Lena riapparve, seguito a distanza da due uomini, ad una ventina di passi l’uno dall’altro.». L’ufficiale narra che l’auto, sconosciuta agli abitanti del paese, aveva portato scompiglio fra gli stessi che erano corsi a nascondersi. Comunque, «Lena, alla fine, era riuscito a trovare l’uomo per il quale il bottegaio faceva da paravento: era un austriaco (sic!) di nome Plotzner, comunemente noto come Piazza. (…). Dietro a lui era Vienna. (…). Prendemmo posto in automobile, girammo l’auto e ritornammo indietro per circa un chilometro, poi svoltammo, passammo sopra il torrente But e prendemmo a salire la montagna. Dopo pochi minuti eravamo nel paesino di Cleulis e ci fermammo davanti l’osteria; Piazza scese dall’auto e ritornò accompagnato da un uomo, Primus. Per Lena ed il suo compagno era tempo di lasciarci. Subito la berlina rossa scomparve dietro la curva». (23).

Io sono sempre stato della Osoppo …

Ma ritorniamo al Bruno Cacitti, che avevamo lasciato a maledire Badoglio ed il Re dopo l’8 settembre. Così egli ha narrato a Gianni Nazzi e don Aldo Moretti la sua adesione alla Osoppo.

«Da quindici a venti uomini di Caneva fuggimmo dal paese sulle montagne soprastanti verso la fine di settembre 1943, perché ricercati dai carabinieri. Vi restammo per quasi un mese. Le donne ci provvedevano delle cibarie e dell’occorrente. Dopo un mese, diversi rientrarono a casa perché il pericolo sembrava allontanato. Sette o otto di noi restarono sui monti, fa cui mio fratello Cacitti Fermo Prospero, Coradazzi Marcello Lazzarino, uno di Ovaro ed io. Vivevamo scendendo noi stessi a prendere i viveri che chiedevamo ad amici. Fra quanti, allora, ci aiutarono vanno ricordati: Cacitti Luigi Sorgnûf che aveva negozio alimentare e Rinoldi Cirillo della Cooperativa Carnica. Ma anche altri ci venivano incontro volentieri, benché non avessimo, in quell’inverno 1943-44, dei buoni, come li avremmo avuti più tardi. Non siamo ricorsi proprio mai al furto o alla prepotenza per provvederci del necessario.

Per quanto ricordo, già nel novembre 1943 noi prendemmo contatto con De Monte, e con un veneziano che si trovava a Tolmezzo [Corradini ? n.d.r.] e con Caufin. L’incontro avvenne sopra il caffè Mondo. In seguito a tale approccio, mio fratello e Lazzarino traversarono a guado il Tagliamento e andarono fino a Pielungo, dove avevano istruzioni di presentarsi dal gestore di un’osteria. Questi consegnò loro dei tesserini tricolore. (24). Da allora, noi ci sentimmo uniti alla “Osoppo”. Eravamo tutti bene armati con armi individuali. L’intero inverno lo passammo così, braccati e nascosti, girovagando sui monti fra Caneva e Vinaio.

In data che non ricordo, venne Barba Livio insieme a Chiussi Carletto (Paolo I), ora titolare della sartoria sopra l’Odeon a Udine, e Planure di Pontebba e qualche altro. Formammo il Btg. Carnia: era la primavera del 1944. Località: sopra Vinaio. Tranne i suddetti e qualche raro ex militare non friulano, gli elementi erano tutti della zona. All’inizio eravamo 40 – 50; col tempo ci ingrossammo fino a un centinaio. Il Battaglione fece diverse azioni, i cui rapporti noi li mandavamo regolarmente a Pielungo. Altro Battaglione consistente era il Btg. Val Tagliamento sito a Verzegnis. Terzo Battaglione fu il Val But, di più recente origine. Mentre noi stavamo costituendoci avvenne, il 25.4.1944, il fatto di Tolmezzo, nel quale restò ucciso Del Din Renato (Anselmo)» (25).

Inoltre nel novembre 1943, Bruno Cacitti, non ancora osovano, fu arrestato, sul ponte di Caneva, mentre si trovava in compagnia di un certo Arnaldo Cacitti. «Restai in guardina per un giorno e una notte. – racconta Lena – Ci si stava accordando per costituire una specie di guardia territoriale il cui iniziatore era un certo Frontali (26). In quell’occasione, uno che passava con noi, per conto suo, sul ponte e che non si fermò all’intimazione di alt della sentinella, restò freddato» (27).

Del periodo resistenziale, Lena ricorda che la sua zona operativa di competenza comprendeva: «Tramonti, Vinaio, Lauco e Sutrio». (28). E, da quanto riportato sul Dossier a lui relativo, Bruno Cacitti non solo faceva il partigiano, l’intendente, il servizio trasporto per gli alleati, ma anche l’informatore per la Osoppo, basta vedere i rapporti informativi da lui firmati ivi riportati. (29).

E stavo andando assieme a mia moglie con la piccola Reginute in braccio, a Preone, quando … 

Ma essere partigiani comportava anche dei rischi per la propria famiglia.

Così Bruno Cacitti aveva dovuto mettere in salvo la famiglia a Preone, dopo aver passato un brutto momento mentre camminava con la moglie Jole al fianco. Così egli mi ha narrato, sospendendo un altro discorso, e con palese emozione: «Guarda, Reginute, Clara, da Mirko l’ho salvata io. Aveva quattro o cinque mesi: e Mirko mi ha puntato la pistola sul bivio di Preone…perché ho dovuto far scappare mia moglie prima a Sutrio e dopo a Viaso. E una sera, mentre la accompagnavo a Preone, ho trovato una pattuglia di Garibaldini, che mi ha fermato. Per fortuna ho trovato un amico. Era un comunista, credo, ed era con Mirko. Mirko mi ha puntato la pistola perché io ero della Osoppo. Ho detto a me stesso: “Stai calmo”. E ho detto: “Questa è mia moglie” e mia moglie aveva la bambina in braccio…» Poi si interrompe dicendomi: «Vai, vai, non farmi ricordare quelle cose…». (30).

 Non eravamo dei ladri, e davamo i buoni, ma anche noi si aveva bisogno di mangiare.

«”Abbiamo preso anche la pezza del formaggio ma anche noi si aveva bisogno di mangiare. E si andava a prendere anche la polenta, quello che c’era e ora ci trattano da … Vi sarà stato anche qualche delinquente che si presentava come partigiano, ma io li condanno quelli lì, che hanno approfittato anche di vendicarsi magari sotto il nome partigiano». E sostiene che vi erano persone che, qualificandosi come partigiani, rubavano. Inoltre vi erano persone che, in veste di partigiani, “hanno approfittato di vendicarsi per motivi personali. […]. E io quelli li chiamo assassini, non partigiani”. (31). E i partigiani davano dei buoni in cambio dei generi alimentari, e chi li conservò e fece domanda di risarcimento li vide rimborsati dalla Prefettura a fine guerra. (32). “Non siamo ricorsi proprio mai al furto o alla prepotenza per provvederci del necessario”. – dichiarava Bruno Cacitti a don Lino e Nazzi.

Così scrive Paolo/ Pitti nelle sue memorie del periodo partigiano: «Lena faceva la spola tra Tolmezzo, Caneva e Villa Santina. Fu indubbiamente il più sagace, instancabile e coraggioso procacciatore di rifornimenti della Osoppo, in Carnia. Riuscì, con vari espedienti, a far giungere quanto poteva, là dove occorreva, rischiando in prima persona con carichi attraverso i filtri dei posti di blocco, dei continui pattugliamenti, dei cosacchi, eludendo le denunce di qualche spia. Una volta a Caneva, dove abitava, era appena uscito da un piccolo magazzino e stava portando sulle spalle un carico di farina, quando si imbatté in una pattuglia di cosacchi che gli chiesero: “Dove essere Cacitti Bruno?” e lui calmo: “Ha appena girato l’angolo laggiù in fondo”. Ovviamente per un po’ di tempo non si fece vedere più a Caneva». (33).

Sentii narrare questo episodio, tanti anni fa, anche da Remo Cacitti, docente universitario, figlio di Bruno, che ancora se lo ricorda con un seguito. Suo padre non scappò ma attese le persone che lo cercavano e chiese loro se avessero trovato colui che cercavano. Al loro no, disse che Bruno Cacitti chissà dov’era e che quello era sicuramente un grande partigiano. Non mancava sangue freddo a Brunone Cacìt, penso tra me e me (34).

E Livio e Franzac fecero tagliare quegli alberi… Ma io penso che dietro ci fosse Aita Menotti.

Per quanto riguarda il taglio di un bosco nella zona fra Lauco e Vinaio, voluta da Franzac (don Francesco Zaccomer) e Barba Livio, comandante del btg. Carnia con sede a Salvins, dice: «Passato Lauco, lungo la via per andare a Vinaio, c’era un bel bosco. E lo hanno tagliato. Han sbagliato per me. Io ero lì, al comando, che si trovava dopo Vinaio, a un chilometro o due, in una stalla. Allora c’era con me Carletto Chiussi che mi diceva di intromettermi, di dire la mia, perché io non sapevo perché si dovesse fare quella cosa lì. Ma niente da fare. Fu una idea del prete, forse per farsi vedere, ma non lo so … Lì per me ha sbagliato il prete, ma non mi ricordo il suo nome. E secondo me lì c’è stato lo zampino di Aita Menotti di Tolmezzo, che aveva la segheria a Villa Santina. Hanno fatto tagliare un bosco ingiustamente, hanno rovinato su tutto, forse perché avevano bisogno di soldi, ma non lo so anche se mi trovavo al comando. Aita aveva interesse a portare giù le piante tagliate a Villa Santina. E io do la colpa in primo luogo al Pievano che era lì, al Monsignore, del taglio del bosco. Perché erano Aita e gli industriali del legno che avevano bisogno di legno, ed han approfittato.

Gli industriali del legno ci sostenevano, sostenevano l’Osoppo, perché avevano i loro interessi. E mettiamo i puntini sulle ‘i’: erano più docili ed amorosi con la Osoppo che con la Garibaldi, (perché con l’altro partito là, della Garibaldi … niente da fare), per loro interesse, ricordatelo bene, bambina bella.  Quelli hanno fatto i loro interessi coi tedeschi, coi partigiani, con tutti» (35).

Il taglio del bosco di Vinaio è stato sinora letto in positivo, ma in realtà esso avvenne ai tempi della Zona Libera di Carnia e dello Spilimberghese, quando si tendeva a regolarizzare il taglio del legname da parte di privati, per favorirne un uso parco e pubblico, per fini industriali energetici, per il riscaldamento e per le costruzioni, visto che non era risorsa sovrabbondante. (36).

Per me Aulo Magrini era una persona onesta.

Laura: «Ancora una cosa volevo chiederLe: “Sa mica se vi fu un progetto di Aulo Magrini, che era della Garibaldi, per rendere autonoma la Carnia?” Perché alcuni dicono che detto progetto esisteva, altri no. Ma dato che di fatto non si riesce a trovare da nessuna parte, lo chiedo a Lei».  

Bruno Cacitti: «No, non mi ricordo di un progetto del genere. Mi ricordo, invece, di Magrini. L’ho incontrato l’ultima volta a Tolmezzo, no a Sutrio, quando l’hanno ammazzato sul ponte di Noiaris, se non sbaglio. E ho parlato con lui anche a Comeglians ed ad Ovaro. Per me era una persona onesta ed era di sinistra. Ma gli onesti sono sempre onesti che siano comunisti o meno.
 Il colore politico non mi interessa. Io l’ho conosciuto come una persona onesta, per quello che mi riguarda, per i contatti che ho avuto con lui. Ma dopo le dicerie…le dicerie che hanno buttato fuori subito dopo la Liberazione, che lo avevano ammazzato i partigiani, io non lo credo affatto, anche se alla sua morte non ero presente.  Io non voglio difendere il Partito Comunista, ma hanno detto che lo hanno ammazzato gli stessi partigiani comunisti, ma a me … anche se non posso mettere la mano sul fuoco». (37).

Poi, a fine guerra, ha preso il sopravvento del tutto la politica. 

«Poi a fine guerra, sono subentrati del tutto i partiti e la politica, ma io non mi sono mai interessato mai mai di politica né di niente. Ho sempre cercato di aiutare la povera gente e basta, senza rubare e rischiando la vita. Poi è subentrata la politica come ora, che non si capisce più niente. Io non ho nessuna tessera, sono un cittadino con la coscienza a posto, almeno credo, anzi ne sono sicuro. Gli industriali sostenevano, durante la guerra di Liberazione, più il movimento verde che la Garibaldi, perché avevano i loro interessi da tutelare. E ci sono state personalità, fra gli industriali, che hanno messo anche il bastone fra le ruote. Io non ci capivo nulla quella volta … forse adesso, con gli anni che sono passati, ho capito qualcosa … E era una guerra continua fra gli uni e gli altri, … e non so cosa dire.  Ma a me faceva schifo. La gente magari non la sentiva questa lotta, ma era incominciata ormai … Dopo la gente ha incominciato a sentire questa guerra, ha capito e proteggeva più la Osoppo che la Garibaldi». (38).

______________________________________________________________

Conclusioni di Laura Matelda Puppini

Bruno Cacitti ci dice più di una cosa su quello che si narrava e credeva sui comunisti nel dopoguerra, sul terrore di immischiarsi con la politica o di essere accusati per motivi politici, con ripercussioni magari sui propri cari, e ci parla di paure condivise. Il caso di Romano Marchetti, accusato di essere “in combutta con Tito”, mai visto prima nè mai conosciuto, presumibilmente da democristiani, vuoi per il caso Tessitori, vuoi per il suo essere contrario alla legge truffa, appare emblematico, come il fatto che, nel 1948, anno di elezioni che porteranno al potere la Dc,  l’Anpi di Udine avesse affisso, nel febbraio, un cartello contrario a Josip Broz, riportante la scritta “Tito traditore” senza motivo (39). Bruno Cacitti ci pone pure dei dubbi sui motivi del taglio del bosco di Vinaio, di cui temo che non sapremo mai perchè fu fatto. Ci racconta poi che uno dei criteri, allora, per giudicare una persona, era l’onestà, e che se egli prese qualche formaggio era perchè avevano fame. Ma soprattutto chiarisce che, prima della guerra di Liberazione, “non si aveva politica” perchè era vietata, perchè si doveva pensare e dire solo quello che voleva il fascismo, e che lui ed altri andarono sui monti solo perchè il Re e Badoglio li avevano abbandonati, e che poi subentrò la politica. Grazie Bruno per queste precisazioni.  Si legge però, nell’intervista, anche tutto il suo anticomunismo, il suo essere contrario alla Garibaldi da lui ritenuta comunista (40) ed accusata di ogni problema come gli slavi, ed egli fu contrario al secondo comando unico, e si chiedeva se Marchetti, che lo aveva tenacemente voluto, fosse stato un vero osovano (41).

L ‘intervista è stata trascritta appena resa da me Laura Matelda Puppini. Non esiste più la registrazione originale, andata persa a causa dell’utilizzo di una cassetta riciclata, perchè non avevo soldi da spendere in cassette nuove e di buona qualità. Comunque avevo trascritto altre interviste di altro argomento, alcune delle quali pubblicate su www.nonsolocarnia.info, e riascoltando l’audio originale, ho constatato, cosa del resto su cui non avevo dubbi, che la trascrizione delle stesse era fedele e così questa. Buona lettura.

Laura Matelda Puppini

______________________________________________________________

1- Fermo Cacitti, nome di battaglia Prospero fratello di Bruno Cacitti, Lena, era nato a Caneva di Tolmezzo il 16 ottobre 1914, da Giovanni Bartolomeo e Regina Chiapolino. Tenente degli alpini, sposò, il 30 dicembre 1937, Silvia Damiani e spostò, il 3 gennaio 1942, la propria residenza a Villa Santina. Salì in montagna con il fratello, dopo essersi recato, anche a nome di questi, a Pielungo per associarsi alla brigata Osoppo/Friuli, entrò a far parte del btg. Carnia, comandato da Barba Livio, a cui fu fedele come Carletto Chiussi. Dopo l’allontanamento di Livio, Fermo Cacitti andò con il btg. val But. Prospero svolse sia attività come intendente sia come delegato politico in seno al btg. Carnia, e varie mansioni con il val But. Dopo la Liberazione emigrò in Venezuela ove lavorava pure come gruista. Negli anni ’70, durante un lavoro di carico, la benna di un mezzo meccanico lo colpì alla schiena, rendendolo invalido per sempre. Morì a Caracas il 10 febbraio 1985. Di carattere introverso e piuttosto facile ad alzare le mani, se si crede a quanto narra Giacomo Leschiutta, nome di battaglia Carlo, venne, a suo avviso, consigliato di lasciare l’Italia dal fratello, maresciallo degli alpini. Sia per Romano Marchetti che per Giacomo Leschiutta, Prospero veniva talvolta travolto dall’ira e diventava violento per poi, secondo Marchetti, accasciarsi quasi senza forze. Lechiutta afferma, pure, che egli fu fatto segno di azioni intimidatorie, presso l’osteria Fossâl di Lauco. (Giacomo Leschiutta, La resistenza sul massiccio dell’Arvenis, Amaro 2006, pp. 10 – 11). Da quanto si sa Bruno Cacitti ruppe ogni rapporto con suo fratello Fermo a causa di alcuni problemi dovuti al carattere impulsivo di quest’ultimo. Si racconta, infatti che, all’indomani della Liberazione, Prospero, che si trovava con Massimo Accaino, voleva giustiziare degli ufficiali tedeschi catturati da altri partigiani nella frazione di Caneva di Tolmezzo. Accaino, spaventato, andò a chiamare Bruno, che lo fece desistere dal proposito. Lo stesso Bruno Cacitti, che non volle praticamente più parlare di Fermo neppure ai figli, e mi accennò un giorno al fatto che aveva un fratello che aveva fatto con lui la Resistenza, e che aveva litigato con lui a causa del suo comportamento a Liberazione avvenuta, senza aggiungere altro. Anche Fermo Cacitti, partigiano combattente, è da annoverare tra gli uomini che scrissero la storia della democrazia in Italia.

2- Tutte queste informazioni, comprese quelle biografiche, sono tratte da: “Relazione sul servizio prestato nelle file partigiane del Serg. magg., maniscalco Cacitti Bruno (n.b. Lena), figlio del fu Giovanni e fu Chiapolino Regina, nato il 19.7.1908 a Caneva di Tolmezzo (Udine), in atto effettivo all’8° Bgt. Alpini, datata solo 1948 e firmata da Mitri, Mecchia Luigi, vice – comandante la 6^ divisione, in: Dossier proveniente dall’Archivio storico della Divisione “Osoppo”, conservato nella Biblioteca Arcivescovile “mons.Pietro Bertolla” di Udine, e contrassegnato: 12. Fascicolo 41. Bruno Cacitti Lena, Busta 41, fascicolo 12. Trascrizione di Pietro Bellina in data 4 -5 maggio 2011. Detta relazione mi è pervenuta da Pietro Bellina di Venzone, che ringrazio sentitamente.

3- Per i bandi di leva R.S.I. e Nazisti in OZAK, cfr. Laura Matelda Puppini, Considerazioni su guerra, resistenza, dopoguerra con riferimento all’incontro tolmezzino con Paola Del Din, in: www.nonsolocarnia.info.

4- Mario Candotti, La lotta partigiana in Carnia nell’inverno 1944-1945, Storia Contemporanea in Friuli, n. 11, ed. Ifsml, p. 25.

5- Gian Carlo Chiussi,” Con l’Osoppo in Carnia”, memorie del periodo partigiano, Udine, ottobre 1982, pp. 42 – 51 – 52. La numerazione delle pagine è quella presente nella copia non ancora edita delle memorie, in mio possesso e giuntami da Marco Puppini.

6- Ivi, p. 70.

7- Ivi, p. 25. La storia di Livio o Barba Livio che dir si voglia, e del suo siluramento da parte dell’ala democristiana della Osoppo, è stata da me ricostruita e pubblicata in appendice in: Marchetti Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, con titolo: Barba Livio, il battaglione Carnia,e la crisi di Pielungo. (Romano Marchetti, op. cit., pp. 355-368).

8- Il primo che mi parlò di Fermo Cacitti, Prospero, fedele a Barba Livio ed entrato in crisi dopo i problemi osovani a Pielungo, poi da molti dimenticato, al punto che parlare di lui pareva un tabù, è stato Romano Marchetti.

9- Laura Matelda Puppini, Intervista a Bruno Cacitti, Venzone, 24 aprile 2018.

10 – Ibid.. Qui Bruno Cacitti, osovano contrario pure la Comando unico, attribuisce alla Garibaldi ed al suo credo politico la causa degli attriti fra Garibaldi ed Osoppo, ma non andò esattamente così. (Nel merito cfr. ‘Ciro Nigris, il comandante carnico garibaldino’Marco’. Io, ufficiale del R.E.I., passato alla resistenza’, in: www.nonsolocarnia.info).

11- Tale credenza, figlia di un dopoguerra antislavo ed anticomunista, pare sia simile a quella che si trova in una delle quattro versioni, diverse tra loro, del diario detto di Osvaldo Fabian, quella pubblicata con il titolo “Affinché resti memoria”, Kappa Vu, 1999, in cui si legge che una serie di fatti avevano portato alla “quasi certezza” che Mirko fosse un cetnico «infiltrato nel nostro movimento, quale elemento provocatore». (Osvaldo Fabian, Affinché resti memoria: autobiografia di un proletario carnico (1899-1974)102). Tale tesi non ha trovato alcun riscontro successivamente, come quella che vi fossero ufficiali Jugoslavi infiltrati fra i garibaldini. Purtroppo gli storici che si cimentano a scrivere di Resistenza italiana, non possono dimenticare quanto il clima ferocemente anticomunista, antislavo ed antisloveno del dopoguerra italiano possa aver inciso anche sulle narrazioni dei fatti, insieme alla paura che, se non ci si uniformava alla lettura codificata dalla politica dei fatti, si potesse andar a finir male. Lo stesso Romano Marchetti non mi ha permesso di pubblicare negli anni ’80 le sue memorie, per paura che potesse accadere qualcosa a membri della sua famiglia. Di questo cattolici, democristiani, ex fascisti, preti, vescovi ed altri dovrebbero chiedere perdono a Dio, come del fatto che non si sa se noi, italiani, grazie a loro, potremmo non riuscire mai a conoscere davvero bene la storia del nostro Paese, anche se ci sono alcuni che tentano di ricostruirla. Ed il mio grazie va pure a Marco De Paolis e Paolo Pezzino, recentemente ascoltati ad Udine, per segnalare solo due di questi. Infine non bisogna dimenticare che un gruppo numeroso di cetnici si era trovata, alla fine della guerra, in territorio regionale, come riportato nel testo di Patrich Martin Smith, Friuli ’44. Un ufficiale britannico fra i partigiani, Del Bianco ed., 1990, p.216. L’autore parla di 2 lettere che gli furono passate da Verdi. “Queste gli erano arrivate dai due leaders dei “cetnici”, presumibilmente in risposta ad una sua comunicazione in cui egli protestava per la loro intrusione in Italia.”. Secondo Smith: «Circa diecimila cetnici erano in quel tempo stanziati nel paese di Cormons, ad una ventina di chilometri a sud est di Udine». I due leaders, Vojoda Djuiic e Vojoda Jedjevic, rassicurarono Verdi, che avevano conosciuto durante l’occupazione italiana della Jugoslavia, circa il loro anticomunismo e dissero che il loro obiettivo era quello di combattere il bolscevismo. Più tardi i due capi dei cetnici avrebbero trovato rifugio a Roma. (Ibid.). I cetnici erano i partigiani del generale jugoslavo Mihailović. Dopo il crollo del regno di Jugoslavia, (1941), il generale e le sue truppe si unirono ai partigiani di Tito nella lotta contro i nazisti. Inizialmente appoggiato dagli alleati, Mihailović, fu in seguito dagli stessi abbandonato perché in sospetto di collaborazionismo. (Ivi, nota 4, p. 216). Il terrore verso lo sporco rosso slavo, comunista, proprio anche della propaganda fascista e nazista, era presente in molti e fu consolidato dalla ‘nuova Osoppo’ e dai gruppi anticomunisti che agirono nella penisola nel dopoguerra. (Cfr. nel merito Giacomo Pacini, Le altre Gladio, Einaudi ed.)

12- Sotto la dittatura fascista, come sotto ogni regime autoritario, non vi fu per alcuno diritto di voto né educazione politica se non fascista di cui era impregnata la vita di ogni cittadino. Per ovviare a questo limite, la Garibaldi creò la figura del commissario politico, mentre l’Osoppo quella del delegato politico, mutuandola forse dalla Garibaldi.

13- Laura Matelda Puppini, Intervista a Bruno Cacitti, op. cit..Il racconto di Bruno Cacitti mi ha fatto ricordare il bellissimo film interpretato da Alberto Sordi “Tutti a casa”, che ben sottolineava lo sconcerto dei soldati ed ufficiali italiani all’indomani dell’8 settembre 1943.

14- Bisogna ricordare che Bruno Cacitti aveva fatto parte dell’intendenza osovana, assieme a Mario Bonanni Italo, che secondo Romano Marchetti comandava il gruppo. Ma sempre la stessa fonte, narra che Cacitti non voleva ricoprire ruoli di comando, ritenendosi un soggetto più adatto all’azione.

15- Laura Matelda Puppini, Intervista a Bruno Cacitti, op. cit.

16– Relazione sul servizio prestato nelle file partigiane del Serg. magg., maniscalco Cacitti Bruno (n.b. Lena), op. cit.

17- Intervista raccolta da don Aldo Moretti e Gianni Nazzi, il 18 luglio 1968, in: Dossier proveniente dall’Archivio storico della Divisione “Osoppo, op. cit.

18- Romano Marchetti scrive che Valeriano Cosmo e Marcello Coradazzi furono uccisi il 24 o 25 luglio 1944, e che poi i tedeschi e i fascisti lasciarono insepolti i loro corpi per due giorni, a monito per gli altri che si fossero messi contro di loro. (Romano Marchetti, Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, p. 104).

19– Relazione sul servizio prestato, op. cit..

20– Ibid.

21– Intervista raccolta da don Aldo Moretti e Gianni Nazzi, op. cit..

22- Laura Matelda Puppini, Intervista a Bruno Cacitti, op. cit..

23- Patrich Martin Smith, Friuli ’44, op. cit., pp. 46-47. Il partigiano con nome di battaglia Piazza è Benedetto Plozner di Timau. (Cfr. Plozner Benedetto, in: Laura Matelda Puppini, 472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne che scrissero la storia della democrazia, operativi in Carnia o carnici, in: www.nonsolocarnia.info).

24– Ibid. L’’Osoppo’ fu fondata ufficialmente, con l’accordo tra cattolici e azionisti il 14 febbraio 1944 ad Udine, anche se prima ipotizzata, e praticamente tutte le fonti concordano nel ritenere che i gruppi partigiani non inquadrati fra i garibaldini passarono all’azione armata dopo la loro affiliazione all’Osoppo. I gruppi che originarono i primi battaglioni della Osoppo in Carnia furono: il gruppo Partigiani Val Degano, poi, dall’agosto 1944, btg. Monte Canin, comandato da Otto (Rinaldo Fabbro), alle dipendenze dirette del comando divisionale, con sede alla miniera di Cludinico di Ovaro; il nucleo di Caneva – Vinaio, che formò il btg. Carnia sito a Salvins di Vinaio; il gruppo cosiddetto di Lateis di Sauris, che dette origine al primo nucleo del btg. Carnia; il gruppo facente capo ad Albino Venier Walter, locato a Zuglio, operativo dal 21 aprile 1944 ed aggregatosi alla Osoppo il 15 giugno 1944, il gruppo facente capo ad Adalgiso Fior, Mion. (Per il gruppo comandato da Walter: cfr. Albino Venier, Dalla Carnia al fronte russo…e ritorno, Tolmezzo 1991, pp. 131- 132). Il gruppo di Mion, detto anche di Verzegnis, avente sede a Villa Santina, diede origine al btg. Val Tagliamento, comandato prima da Mion stesso, poi, quando questi venne destinato ad altro incarico, da Giovanni (detto Nino) Pizzo, Carnico, successivamente da altri. (Cfr. anche: Aldo Moretti, Le formazioni Osoppo, in Rassegna di storia contemporanea, ed. a cura I.F.S.M.L., n. 2 – 3, 1972, pp. 224 -232). Se don Aldo Moretti, nel testo sopraccitato, evidenzia per la Carnia e per il Friuli, una serie di gruppi spontanei sorti dopo l’8 settembre e presenti in montagna, pare però opportuno recepire la critica di Mario Lizzero, Andrea, al fatto che tali gruppi potessero esser definiti gruppi partigiani operativi già da allora, facendo coincidere l’inizio della resistenza armata non comunista con quella comunista. (Mario Lizzero, Considerazioni sui reparti partigiani e sui gruppi di resistenza passiva nel ’43 in Friuli, in: Storia Contemporanea in Friuli, ed. I.F.S.M.L., n. 10, 1979, 271- 279).

25- Intervista raccolta da don Aldo Moretti e Gianni Nazzi, op. cit..

26- Presumibilmente si tratta di Francesco (detto Franco) Frontali

27– Intervista raccolta da don Aldo Moretti e Gianni Nazzi, op. cit..

28- Laura Matelda Puppini, Intervista a Bruno Cacitti, op. cit.

29- Alcuni documenti informativi sono presenti in: Dossier proveniente dall’Archivio storico della Divisione “Osoppo, op. cit..

30- Laura Matelda Puppini, Intervista a Bruno Cacitti, op. cit..Clara Regina era la prima figlia di Bruno e Jole Pellizzari, e il padre usava chiamarla Reginute. Non bisogna dimenticare, però, che alcuni screzi ed alcune diffidenze fra Garibaldi ed Osoppo in Carnia avvennero dopo l’allontanamento di Barba Livio dal battaglione Carnia e dal suo comando. Infatti i garibaldini non capivano cosa stesse succedendo, come del resto alcuni osovani, e iniziarono a diffidare della Osoppo e dei suoi rappresentanti.

31– Ibid.

32- Per i buoni, utilizzati anche dalla Garibaldi, cfr. Cfr. Aldo Moretti, Claudio Dominissini, Una pagina di storia trasmessaci dai buoni usati nella Resistenza in Friuli, in: Storia contemporanea in Friuli, n.7, 1976, per il rimborso dei buoni cfr. Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Archivio di Stato di Udine– Danni di guerra. Partigiani. Ivi è riportata la documentazione relativa ai rimborsi a privati per danni subiti in seguito alle requisizioni effettuate dalle brigate partigiane (D.L. 19.04.1948 n. 517).

33- Giancarlo Chiussi, op.  cit. pp. 8, 13, 17.

34- Telefonata a Remo Cacitti in data 12 ottobre 2018.

35- Laura Matelda Puppini, Intervista a Bruno Cacitti, op. cit.

36- Cfr. Laura Matelda Puppini, Zone Libere, Repubbliche partigiane ed assetto istituzionale, in: nonsolocarnia.info, prima pubblicazione in: Patria Indipendente, numero speciale per il 70° Liberazione, Semi di Costituzione. La bella storia delle repubbliche partigiane, settembre 2014.

37- Laura Matelda Puppini, Intervista a Bruno Cacitti, op. cit.

38- Ibid.

39- Romano Marchetti, op. cit, p. 215 per il manifesto “Tito traditore”, p. 250 per l’accusa di essere “Sospetto di intelligenza con Tito. Pericoloso in zona di confine”, p. 251 per l’accusa di essere “in combutta con Tito”. Nel merito cfr. anche Laura Matelda Puppini, Sull’uso politico della storia, in www.nonsolocarnia.info.

40- Anche Gino Beltrame, Emilio, scriveva alla Federazione Provinciale del suo partito: «Nelle formazioni tutti si dichiarano comunisti ma non hanno nemmeno l’idea di ciò che veramente sia il comunismo.» (Giannino Angeli, I CLN, i partiti politici, le elezioni comunali e la formazione del governo della zona libera, in Storia Contemporanea in Friuli n. 15, p.60).

41- Laura Matelda Puppini, Intervista a Bruno Cacitti, op. cit.

L’immagine che accompagna l’articolo, in attesa di trovare una fotografia di Bruno Cacitti, rappresenta la copertina del vecchio quaderno ove si trova la trascrizione dell’ intervista. Laura Matelda Puppini

 

 

 

Il 20 ottobre 2018, a Forni di Sotto, Erminio Polo presenta il volumetto di Laura Matelda Puppini O Gorizia tu sei maledetta

$
0
0

Gli amici del gruppo della biblioteca civica di Forni di Sotto hanno organizzato, assieme al Comune ed all’Associazione Volontariato Fornese, la presentazione da parte dello studioso locale ed uomo di cultura dott. Erminio Polo, del mio: “O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò, per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra.”

Pertanto vi invito tutti, sabato 20 ottobre 2018 presso la Biblioteca comunale di Forni di Sotto “Nora Tani Vidoni”, alle ore 17 ad ascoltare Erminio, ed a discutere il contenuto del volume. Se non ci saranno problemi tecnici, e se ci sarà il tempo, proietterò anche delle immagini.

 

Ringrazio sentitamente Erminio Polo ed Ira Conti, la Biblioteca, l’Associazione volontariato fornese, ed il Comune di Forni di Sotto. Laura Matelda Puppini

Zac, zac, zac zac, taglia tu che taglio anch’io, il ssn ed il ssr sono quasi collassati? Come fermare la deriva?

$
0
0

Qualcuno pensa: ma perché la Puppini non scrive ora qualcosa sulla sanità? Mi sembra di aver già scritto molto, ma cercherò di riproporre alcune riflessioni e di entrare nel merito di quello che ha riportato la stampa locale.

Il primo problema è il taglio dei finanziamenti che rende pure meno attrattivo il sistema pubblico, farraginoso burocraticamente, con tempi di attesa infiniti (6 mesi ad Udine per una visita maxillo-facciale) il che significa che, senza priorità da parte del medico di base, per magari confermare o smentire una diagnosi uno deve attendere sei mesi, se vuole utilizzare il servizio sanitario pubblico. E questo è solo un esempio.  

Inoltre. zac, zac, zac, zac, taglia qui e taglia là, senza analisi delle ricadute, e con l’unico obiettivo di far cassa, il sistema socio sanitario anche in Fvg è quasi esploso, ha fatto quasi pum, ha fatto quasi crack, ed è invero difficile risolvere ora il problema di come farlo funzionare, almeno secondo me, mentre i paganti volgono al privato che però ha anche i suoi limiti e le sue pecche: per esempio non investe in costosissime sale operatorie e soluzioni chirurgiche, per le quali invita ad andare verso il pubblico. Non solo, pare che non fornisca neppure tutte le strumentazioni: anche un semplice catetere ad uno specialista. E specialisti del privato e del pubblico devono comunicare, mentre talvolta pare siano in conflitto di interessi.

Il problema dell’attrattività di un sistema azienda per il pagante.

Il problema dell’attrattività del ssn per i paganti, veniva già da me segnalato nei miei: “Sanità: sul linguaggio della politica che parla a se stessa e ed il problema dei tempi d’attesa per le prestazioni sanitarie, esistendo una norma statale”; “Sanità: fra diritti messi in gioco e responsabilità non sempre chiare”; “Senza paraocchi. Sulla personalistic- dirigistica riforma della sanità regionale”; Considerazioni sul bilancio consuntivo dell’Aas3 per il 2017; tutti pubblicati su: www.nonsolocarnia.info. Così come strutturati, i ssn e ssr, con particolare riferimento a quello della Regione Fvg perché vi abito, sono troppo poco snelli per uno che deve comunque pagare: solo per fare una analisi un lavoratore, anziano, e via dicendo dovrebbe recarsi dal medico di base, convincerlo della necessità di un esame di laboratorio, che può essere una banale rilevazione del colesterolo o dei trigliceridi, prendere la prescrizione se gli va bene, andare a fare l’esame magari pagando di più e ricevere la risposta due o tre giorni dopo, senza potersi mai, ora come ora, rivolgere al laboratorio per un chiarimento, per una domanda. Nulla di nulla, in un mondo in cui la fiducia assoluta non esiste più, e si ha sempre più bisogno di conferme e certezze. Quindi dovrebbe portare la risposta al medico di base, magari facendo attese di ore, sperando che quel giorno sia in servizio. Ma questi potrebbe dire di attendere per avere altro riscontro e via dicendo, in una trafila infinita e devastante. E magari il paziente è in infezione.

Pertanto un pagante preferisce avere un laboratorio anche se piccolo di riferimento, avere l’esito di alcune analisi banali il pomeriggio, e spedirle al proprio medico, che può anche individuare in uno specialista piuttosto che nel medico di base, vista la patologia principale, e risolvere il problema fisico o l’approccio allo stesso al più presto senza dover poi risolvere quello dello stress situazionale insieme a quello fisico. Inoltre il ‘corri qui e là’ implicano perdita di tempo, fatica fisica, stress, demotivazione verso il ssn e il ssr. Se questi ultimi permettessero il fare un emocromo od un esame urine senza ricetta medica e con risposta pronta, ci guadagnerebbero ed aumenterebbero attrattività per i paganti, che possono scegliere a chi rivolgersi.

Ma vi è un piccolo problema, in Fvg: che ormai Serracchiani e Telesca hanno puntato tutto sul grande laboratorio udinese, che, come una sanguisuga, ha succhiato tutti i piccoli laboratori circostanti, modificando comunicazione e tempi di risposta, da che so. In alcuni stati europei si è capito che utilizzare un servizio ‘piccolo, agile, fruibile’ è più efficace che servirsi di uno grande ed accentrato, bastava vedere l’organizzazione sanitaria in Normandia che si reggeva su di un trasporto taxi, collegato alla municipalità, che trasportava i pazienti da piccole località e fattorie verso il polo intermedio ospedaliero ed ambulatoriale e su piccoli punti di primo intervento e soccorso.  Ma noi siamo stati affascinati da Illy, e dal rincorrere soluzioni mai testate prima di essere applicate, e dal sogno, miseramente naufragato, del grande ospedale udinese, per un territorio vastissimo.  

Per il paziente un medico non vale l’altro.

Nel contorto sistema sanitario nazionale, il paziente dovrebbe fidarsi di ciò che dice il primo specialista laureato in medicina, bravissimo magari in altri casi, ma a lui sconosciuto, che si trova davanti, per poi scoprire, come accaduto a me e sulla mia pelle, che stava facendo una cappella madornale, firmata e siglata. Questi errori medici accadono però anche perché uno specialista non conosce la persona che si trova davanti; la comunicazione scritta del collega può essere incompleta, senza anamnesi e via dicendo; e lo specialista si trova a lavorare in una situazione in cui non gli viene neppure dato il tempo psicologico di passare da un caso all’altro. Inoltre uno specialista può fidarsi di quanto scritto da un collega e già errato e seguirne le orme, può non desiderare inimicarsi qualcuno scrivendo una diagnosi corretta, fino a giungere a non voler operare per non chiarire una diagnosi, il che è aberrante, e suona come una potenziale condanna a morte per il paziente stesso. (Cfr. “Chirurgo si rifiuta di operare un paziente che aveva denunciato un collega”. A riferire la vicenda è Amami, Associazione medici accusati ingiustamente, che commenta: “In questo clima da caccia alle streghe, alimentato da campagne pubblicitarie che incitano a citare i medici in giudizio, i colleghi iniziano a rifiutare interventi di pazienti ‘a rischio-denuncia’” in: http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=6937), mentre il paziente, nella trafila: raggiungere la sede della visita, che in Fvg contempla di andare dai monti al mare muovendosi magari su autostrade intasatissime di mezzi pesanti rigorosamente con targa straniera; adattarsi al nuovo ambiente; fare la fila per pagare anticipatamente capendo nuove dinamiche tra segreterie, uffici, spazi in cui recarsi e via dicendo, ha già esaurito le sue forze, e può presentarsi in una situazione di stanchezza e deconcentrazione alla visita, rispondere a caso o in alcuni casi permettere che risponda un parente per lui, il che è pessima abitudine; può non capire cosa il nuovo soggetto medico chiede, per mancata conoscenza dello stesso, ed analogo gap può accadere al medico; può essere timido nel parlare di alcuni problemi con una persona nuova, e si può facilmente generare un ‘casino’ comunicativo che pesa sulla visita stessa e sul referto. Bisogna dimenticare i fascicoli sanitari portatori, per i politici, della verità – penso fra me e me – perché non funziona così nella vita, perché ciò presupporrebbe che nessun medico scrivesse qualcosa di errato o non comprensibile nel merito di un paziente, e che tutti i pazienti fossero uguali fisicamente e psichicamente, insomma che si sia dei robot, ed il medico un meccanico che cura sulla base di una scheda tecnica.

Non da ultimo, il freddo distacco, fino quasi all’indifferenza del medico, che prevede il negare qualsiasi coinvolgimento emotivo nella cura, pesa sulla stessa, e porta il paziente ad utilizzare lo stesso schema comunicativo in risposta, unito ad atteggiamenti di difesa da uno che può vivere come un “pesce lesso”. Ma così non si può andare avanti. Bisogna ritornare al vecchio concetto di curare, che ha come accezione anche l’avere cura e per il soggetto ammalato il sentirsi curato.

Per questo è preferibile che un solo medico specialista, di cui il paziente ha fiducia, segua l’evolversi di una patologia nel tempo, dimenticando i difensivi protocolli regionali di diagnosi e cura tanto amati da Telesca e c.. Infatti il mettere in mano ad un medico la propria salute implica di per se stesso un rapporto personale ed un ‘lasciarsi andare’ alle sue cure, magari discutendone con lui, che non può essere di tutti gli specialisti rispetto a quella persona, o di un sistema, a causa di aspetti psicologi che incidono sui rapporti personali in ambito sociale. E se ora giornali e mass media si riempiono sempre più di psicologismo da gossip, parallelamente politici e sanitari dimenticano le basi e gli insegnamenti della psicologia sociale e gli assiomi della comunicazione come descritti dalla scuola di Palo Alto, ad iniziare da Gregory Bateson (Cfr. AA.VV., “Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio ed. , 1978), secondo i quali  non esiste interazione umana senza comunicazione.  

Già accade che i mezzi di informazione di massa ed i social network, non più i medici di fiducia e che conoscono i loro pazienti, “parlino” alle persone di patologie e di cure non sempre in modo informato, ma pure in modo controllato dal mercato ed a fini propagandistici, e con questa comunicazione “liquida” si rischia di non capire più nulla e di spendere di più. E questi problemi non si risolvono certo definanziando il sistema sanitario, ma migliorando le sue performances, sostenendo il sistema di emergenza/urgenza che non può avere call center accentrato e farraginoso, puntando a migliorare il rapporto comunicativo medico paziente che è carente, oltre che le condizioni di vita. Non si possono avere in sei mesi, come da gennaio e luglio 2018, 469 morti sul lavoro, non si possono avere ponti che crollano, persone che abitano sotto i ponti (cfr. coloro che vivevano nelle case sotto il viadotto Polcevera), cittadini che periscono, come accaduto in Veneto anni fa, per esondazioni da cattivo imbrigliamento delle acque o per inquinamento, e via dicendo.  

Inoltre meno sistema di sanità pubblica c’è, più la salute dei cittadini potrebbe andare in mano a erogatori di forme alternative di diagnosi e cure, che promettono, ma non si sa quanto ottengano, e mi riferisco ad erboristi, omeopatici, e via dicendo, senza voler togliere valore alla loro scienza, ma che ritengo talora travalichino il limite del consentito se non laureati in medicina. Mi ricordo un giorno che lessi, sconcertata, un avviso che diceva che un prodotto erboristico aiutava ad aumentare le igm, che più alte sarebbero state, meno infezioni si avrebbe avuto! E non è l’unica scemenza che ho letto od udito. (Cfr. anche Laura Matelda Puppini, Sanità, salute, sistema sanitario nazionale e regionale tra proclami politici, innovazioni discutibili e marketing, in www.nonsolocarnia.info).

La politica aziendale sanitaria non può conformarsi agli schemi di chi ‘vende gorgonzola’.

I politici quando vogliono guadagnare o semplicemente contenere le spese, hanno due vie, come ho già scritto: «diminuire i costi di produzione ed aumentare i prezzi». (Laura Matelda Puppini, riflessioni sul capitalismo viaggiando in Bulgaria e vivendo in italia, in: www.nonsolocarnia.info). La prima via pesa sul personale che lavora sempre più, in certi casi in una situazione da regime quasi schiavistico per tempi, orari, modalità, il secondo pesa sul consumatore, ma dato che la fascia dei poveri aumenta, è prevedibile che gli utenti, se si tratta di un servizio, tendano a utilizzarlo sempre meno oppure che esso, se organizzato in forma aziendale, non riesca a coprire le spese. Ma il concetto di ‘servizio pubblico’ in economia meriterebbe un articolo a parte, e ben sapevano i politici del dopoguerra che esso non poteva essere fonte di lucro.  Le aas non possono autofinanziarsi, altrimenti sono aziende pubbliche privatizzate di fatto e nella metodologia, e o esiste un ssn ed un ssr che dettano norme e regole e controllano, o siamo al ‘fai da te’ dei manager, come si trattasse appunto, non di reggere una azienda pubblica, ma una fabbrica di gorgonzola o salumi, che se non ce la fa delocalizza, accentra o chiude.  

Ora che cosa è accaduto e sta accadendo in sanità? Che si taglia il personale e si vorrebbe utilizzare quello presente in mansioni non di competenza; la sanità pubblica ricorre, in settori delicati come quello dell’emergenza urgenza, al privato non si sa con che competenza (crf., per esempio, I motociclisti privati che fanno servizio aziendale per il pronto soccorso nell’ass1 triestina), e che mancano medici che non per nulla hanno un lungo iter universitario, anche se sempre meno collegato al praticantato, e se erro correggetemi. Servono medici, e rischiamo che andando avanti così, la confusione sia completa, che nessuno faccia bene il suo lavoro o che alcuni pensino di poter far tutto, e si giunga al caos con aumento della mortalità, delle problematiche, del ricorso a vie legali e via dicendo, peggio che nella fabbrica di gorgonzola, con tutto il rispetto per la stessa.

La possibile cinesizzazione del ssn e ssr è sotto gli occhi di tutti, mentre pare che in Fvg uno dei pochi problemi per i dirigenti aziendali sia quello far scortare le guardie mediche dall’Ana, che poi magari presenterà il conto, senza invitare le dottoresse ad indossare almeno sempre il camice. Nel merito di questi problemi, vi invito pure a leggere il mio: “Perché no all’ ANA in sanità. Problemi e perplessità” ed in particolare: “Sanità: sui risparmi e sulle competenze. Verso la “cinesizzazione” del lavoro nel ssn”? ambedue in. www.nonsolocarnia.info. Infine la violenza è propria di questa società e non solo dell’ambiente medico e si vince con l’educazione, non scortando tutti, non adottando la politica degli sceriffi. E le visite mediche non contemplano terzi inclusi.

Inoltre se lo sfruttamento dei lavoratori e la precarizzazione del lavoro, ormai ben poco tutelato, sono da disapprovare completamente in una fabbrica di gorgonzola, non sono neppure pensabili in un sistema sanitario ove è in gioco la salute della popolazione. Inoltre se si aumentano i ticket sulle prestazioni, chi se ne va è il pagante, mentre il ssn e ssr non possono aver come obiettivo il ‘far cassa’, per loro stessa natura. Inoltre lo Stato italiano può tagliare ben altro che la sanità od i senatori, per esempio i vitalizi, i troppi burocrati e via dicendo; e non bisogna dimenticare che è riuscito a farci dilapidare il tesoretto accumulato dai nostri genitori, ha perduto miliardi in pessime politiche, mancati controlli, un atteggiamento da ‘tre scimmiette’, clientele varie e via dicendo.

Il ssr Fvg ha bisogno di medici, non di bloccare concorsi.

Purtroppo leggo due cose che mi turbano sulla stampa locale. La prima è una notizia boomerang, di cui nessuno ha calcolato le conseguenze sull’utenza e sull’intero sistema sanitario nazionale e regionale: lo stop alle assunzioni di medici da parte delle aziende socio sanitarie del Fvg con bilancio in rosso, praticamente tutte, perché Burlo ed Aviano sono casi a sé, per tipologia di utenza, con una storia a parte, e quindi non sono aziende sanitarie vere e proprie. In compenso avremo infermieri, perché il concorsone c’è già stato, e spero non vengano messi a fare i medici ope legis regionale, o che non siano la scusa per far passare quel sistema demenziale che voleva i reparti anche di urgenza in mano loro, con medici trottola. Perché altrimenti potrei davvero pensare che siamo caduti dalla padella nelle brace, o meglio che la distruzione del sistema sanitario regionale, iniziato quasi appena creato, e a cui colpi di macete sono stati inferti da Renzi, Lorenzin, Gutgeld, e qui da Serracchini e Telesca,  continui inesorabile verso la sua fine, data anche dalla perdita di utenti per alcuni settori, fino a passare alle assicurazioni private che costano almeno 1000 euro all’anno e che neppure io posso permettermi, tolto il fatto che potrebbero non rimborsare per i soliti eh mah … Chi ha buoni avvocati può tutto contro chi non se ne può pagare alcuno e comunque va incontro ad un procedimento non snello e farraginoso, in questo mondo che non ha giustizia sociale né più personale.

La sanità si regge sui medici, che sono già ridotti all’osso, con i migliori e i non migliori che se ne vanno dal sistema pubblico per mille motivi; figurarsi se si stressano a fare giorno e notte in corsia ed ad operare poi, perché mancano colleghi! E mi spiego meglio. Non sono io che dico che fare una operazione chirurgica è stressate per chi la esegue, è noto. Se poi la stessa persona deve visitare pazienti in ambulatorio, magari una quindicina o più, senza conteggiare la possibile carenza di colleghi, deve fare il giro in reparto, deve esser reperibile la notte e via dicendo, se schiatta è normale. Ma nessuno vuole una sanità dove i medici schiattino. Pertanto prego Fedriga e Riccardi di ripensare alle loro ultime trovate, leggibili su: Elena Del Giudice, Stop a tutte le assunzioni per le Aziende in perdita, in. Messaggero Veneto, 9 ottobre 2018, da cui si sa che è giunta una lettera alle Aas del Fvg che prevede lo stop alle assunzioni di nuovo personale, da quello oos ai medici. Ma per i medici e gli infermieri vi è già il blocco del turn over, che ha penalizzato la sanità pubblica. «Mancano complessivamente 14 mila medici negli ospedali italiani, di cui 4 mila anestesisti. E anche 60 mila infermieri. Sul banco degli imputati c’ è soprattutto il blocco del turn over ma anche disorganizzazione e riduzione dei finanziamenti alla sanità. D’ estate, poi, è il dramma» – si legge su: http://m.dagospia.com/negli-ospedali-italiani-mancano-14mila-medici-e-60mila-infermieri-con-le-ferie-estive-salta-il-178253. Detto questo, in Fvg il problema pare sottolineare anche un aspetto politico non di poco conto. Infatti quale controllo può esercitare la direzione salute sulla spesa nelle singole aas? Infatti se è vero che una sanità senza medici non regge, è altresì vero che una direzione regionale salute ha il diritto di sapere perché un direttore generale aziendale intende assumere personale e  per quali esigenze, ma in particolare il perché di alcune scelte economiche, cioè dovrebbe sapere anche perché una azienda intenda acquistare dei macchinari e per che cosa, e dovrebbe sapere pure se ci siano sufficienti garze, disinfettanti, carta igienica, bisturi efficaci ecc. ecc. cioè materiali di prima necessità in ogni ospedale. Rallentare i concorsi o toglierli è la via peggiore per sanare un bilancio in sanità, secondo me, e non si coprono certo così buchi da 10 milioni di euro.

Ma d’altro canto mi pare logico che la Regione che mette i soldi voglia verificare la necessità delle spese, ma non solo per il personale. La Regione non è una mamma che regala i soldi al figlio.

Comunque siamo ancora ad un discorso di verifica dell’esistente e di programmazione e valutazione che mancano nel concreto, e che nei cinque anni precedenti non abbiamo visto, mentre siamo stati riempiti di bla bla bla e rivoluzioni epocali che hanno portato ad un disastro annunciato. A ciò si aggiunga che, purtroppo si sa, in generale, che la sanità ha rapporti di diverso tipo con il marketing, è influenzabile da parti di potentati ed elettorati, è difficilmente gestibile, e che alla prova dei fatti ognuno si arroca nel suo orticello. (Cfr. Laura Matelda Puppini, Sanità e salute, op. cit.).  Inoltre se il sociale ti regala un macchinario che poi non ammortizzi, non indispensabile, e che ti costa per mantenerlo ed utilizzarlo, senza risultati apprezzabili, che fai? E se te lo chiede con insistenza, e quando giunge, magari dopo mesi, la situazione è cambiata?

Inoltre è noto che vi possono essere possibili pressioni ecc. ecc., che certo non guardano agli interessi dei cittadini, in una sanità in Italia da sempre fortemente politicizzata, ed ingerenze sull’esercizio della medicina ecc. del Vaticano che è Stato a sé, non secondo governo italiano.

L’importanza della territorialità dei servizi socio- sanitari, in un sistema a rete.  

Credo che nessuno neghi, almeno tra i pazienti, che il sistema sanitario nazionale e regionale debba essere per tutti, da tutti fruibile, da tutti facilmente raggiungibile.

Pertanto il riferimento territoriale è d’obbligo, mentre il sistema Serracchiani Telesca Marcolongo non ha fatto altro che rompere i legami tra territorio e strutture territoriali, buttando tutti nel mucchio, anche per amori non certo nascosti per Udine, cosicché ora, con l’ospedale sotto casa a Tolmezzo, magari devi, dal capoluogo carnico, andare per una visita ortopedica a Palmanova, e non riesci a camminare. Questo non solo fa pagare all’utenza il trasporto, perché quello pubblico è quasi inesistente, almeno da Tolmezzo verso San Daniele e Gemona del Friuli, ma anche fa perdere alla stessa tempo prezioso, porta le persone ad usufruire di un servizio in condizione di stress, implica che anziani in condizioni di salute non ottimali si gettino sulla strada al volante per avere la agognata visita, magari da parte del solito ignoto, dopo che hanno pagato per anni la sanità per la vecchiaia.

Inoltre io, se dovessi far quadrare i conti del Santa Maria della Misericordia, intanto farei causa a chi si è reso responsabile di alcuni problemi tecnici nel per me bruttissimo e anti funzionale nuovo ospedale, poi parlerei con il Veneto per unificare alcuni reparti super specialistici come quello dei trapianti di cuore. No da ultimo, chi abita a Tolmezzo deve avere una precedenza nelle visite a Tolmezzo o Gemona, come coloro che abitano ad Udine devono averla per le visite presso il Santa Maria della Misericordia o il polo ambulatoriale di via San Valentino, non dimenticando però che il Santa Maria è polo di riferimento provinciale. Ed invece che protocolli diagnostici, la Regione con i direttori aziendali ecc. ecc. studi dei protocolli operativi che ricolleghino territorio al rispettivo polo ambulatorial – ospedaliero, lasciando perdere i cap. Io vi giuro che non so come faccia a districarsi la popolazione di Moggio, con più medici ad orario per stesso servizio, e neppure come facciano i medici! Torniamo ai medici di base, come ai vecchi tempi, almeno ai medici condotti di paese, e si riveda a livello nazionale il contratto, prima di dire che faranno così e colà. Comunque uno non può avere 4 medici di base, e neppure un medico pazienti seguiti pure da 3 colleghi, perché non si capisce più nulla.

Verso la fusione in tre aziende sanitarie? No grazie.

Tre aziende sanitarie? La politica dai tempi di Renzo Tondo presidente della Regione Fvg ha parlato di unificare in un’unica aas la sanità regionale, ora invece si parla di tre aas, ma non si è mai capito cosa significasse ‘unificare’ nello specifico. Perché se si unifica il personale, esso dovrebbe, in provincia di Udine, girare come una trottola dai monti al mare, il che è deleterio ai fini del lavoro, perché in sanità come a scuola, e possibilmente in fabbrica ed in ufficio, i cambiamenti continui stressano il personale, già stressato, in sanità dai turni ecc. È pessima idea una sanità con personale che muta continuamente luogo di lavoro, che diventa un ‘ambulante’. Pensate ad un chirurgo che ora dovrebbe operare qui ora là, quando gli è indispensabile avere stesso strumentista, stesso locale, stessi macchinari a lui noti ecc. ecc.! Inoltre più si accorpa in un unico grande bilancio una somma di realtà che si sono comportate e si comporteranno come hanno sempre fatto, (non per cattiveria ma per principi psicologici relativi ai tempi di adattamento al mutamento), cioè in modo diversificato, più il bilancio diventerà caotico. E più i bilanci si ampliano, comprendendo tante realtà, più si complicano, più rischiano di diventare una torre di babele dove va a finire che chi parla e prosciuga è il più forte. In sintesi non vorremmo, con questo escamotage, che andasse a finire tutto, in provincia di Udine, con una palla al centro, e la morte degli ospedali periferici. (Cfr. nel merito: “Veneto. Presenti sul territorio 68 ospedali. Per gli standard ospedalieri 10 sarebbero a rischio chiusura. Cosa farà la Regione?” La Regione chiuderà tout court questi 10 ospedali o deciderà di mantenerli, svuotandoli comunque in parte e senza più investire in tecnologia e/o in personale? Nell’uno o nell’altro caso, la strada è ancora lunga, vi sarà comunque un malcontento generale che investirà (ed in parte già interessa) non solo medici e personale infermieristico, ma anche i comuni cittadini destinatari del servizio in questione, in: http://www.quotidianosanita.it/veneto/articolo.php?articolo_id=60758).

Cosa fare per ridurre le spese? Uscire dalla regionalizzazione totale della sanità; organizzare i servizi sul territorio ed in un’ottica territoriale, onde rendere gli stessi attrattivi per chi abita in zona e viciniore; studiare bene il problema degli spostamenti dell’utenza; privilegiare per le visite chi abita vicino all’ospedale di riferimento zonale; spedire al governo ed all’Aifa od ad un contesto pluriregionale il problema dei farmaci ad alto costo e per malattie rare che si potrebbero acquistare con una contrattazione sul prezzo, perché più si acquista meno teoricamente si dovrebbe pagare; studiare, con i vicini veneti, la possibilità di creare un unico polo per trapianti, ed accorpare le specialistiche il più possibile, evitare che ogni direttore generale faccia quel che vuole a livello di copertura di servizi. E si deve mantenere il più scorporato possibile, secondo me, come fa l’aas3, il bilancio della sanità da quello socio- sanitario. Insomma bisogna guardare a sei anni fa. Infine bisogna avere talvolta il coraggio di colpire non solo i cittadini ma anche chi non lavora bene all’interno della sanità ove il personale pare unificato in una specie di casta degli intoccabili, facendo pagare a tutti errori di un paio e togliendo fiducia ai servizi. E non crediate che sia pensiero mio personale.

Inoltre io prenderei soldi dal bilancio regionale da mille altre inutili spese, con variazioni di bilancio, e li investirei in sanità. Così farebbe la buona massaia. Ed invece che in piazze inutili, sceglierei di spendere una parte dei soldi per l’edilizia non popolare per finir di pagare il faraonico ospedale nuovo udinese e le manutenzioni necessarie negli altri. E credo pure che i politici debbano abituarsi a spendere meno e meglio i soldi che non escono direttamente dalle loro tasche, e qui per politici intendo anche i direttori generali delle aas, che dovrebbero calibrare bene, da tecnici, fra il necessario ed il superfluo. Perché questo è compito di un dirigente amministrativo e generale, credo: valutare e programmare su dati il più possibile certi. Non da ultimo, sì ad un sistema, peraltro già esistente, che compenetri pubblico e privato, ma andando a verificare cosa il privato di fatto offre, insomma la sua affidabilità.

Per quanto riguarda i laboratori analisi, potevano restare com’erano, e ora non si sa come fare, in verità; a Tolmezzo si deve potenziare la medicina interna che tutto assomma, e riaprirla a Gemona, e io non ho ancora capito cosa siano i presidi ospedalieri tanto voluti da Telesca e dalla vecchia giunta regionale. E servono medici ed infermieri, non un moltiplicarsi di direttori, dirigenti, amministrativi, ed una burocrazia più snella, perché una aas non è un ente per fare gare d’appalto per lavori di edilizia e via dicendo, che la regione può demandare a suoi altri tecnici già presenti, senza moltiplicare le figure, scindendo campi e compiti.  Infine si deve togliere la centrale unica, che non funziona da nessuna parte e riattivare il 118, che l’Europa non ha mai detto di cancellare, e potenziare i punti di emergenza urgenza. E bisogna ricordare che i sistemi sanitari nazionale e regionale hanno una loro funzione specifica, uno scopo, che nessuno può dimenticare, che non è la loro mera sopravvivenza o il quadrare i loro bilanci senza mantenere la qualitàe l’identità.

Queste sono solo alcune mie considerazioni e vorrei che il Presidente Fedriga ed il dott. Riccardi pensassero bene come riformare, non guardando troppo al Veneto, per non distruggere ancora. Scrivo questo come riflessione personale e senza voler offendere alcuno, se erro correggetemi, e scusatemi se l’articolo è come il solito un po’ lungo.

Laura Matelda Puppini  

L’ immagine che correda l’articolo è tratta sopo per questo uso, da: https://www.ansdipp.it/riforma-sanitaria-lombarda-e-lo-strano-caso-del-gestore-guida-conoscerlo-e-non-temerlo.

 

 

 


Tutti domenica al lago di Cavazzo o dei Tre Comuni, per parlare di acqua nostra.

$
0
0

Ricevo dall’instancabile Franceschino Barazzutti, e volentieri pubblico, pregandovi di accorrere numerosi e sperando nel bel tempo, l’invito a partecipare all’ incontro sull’acqua, sul lago, sulle nostre acque, che si terrà domenica prossima, 21 ottobre 2018, al lago di Cavazzo ,con inizio alle ore 10.00.

 

 

 

L’incontro è organizzato dal Gruppo Consiliare Regionale Patto per l’Autonomia, e vorrei che, sia che vi riteniate di destra, sia che vi riteniate di sinistra, o di centro, o di centrodestra, o di centrosinistra, partecipaste ed ascoltaste. Nel corso della manifestazione, da quanto mi scrive Barazzutti, “i Comitati Salvalago faranno il punto sullo stato della “vertenza lago” rilanciando la necessità della sua rinaturalizzazione e fruibilità, sull’assalto speculativo ai corsi d’acqua della Val del Lago con la costruzione delle centraline idroelettriche ed infine sul servizio idrico la cui gestione centralizzata, e lontana dalla gente, penalizza particolarmente i cittadini della montagna”. 

Laura Matelda Puppini

Alcuni problemi e criticità del ssn da: Cittadinanzattiva: “VI Osservatorio civico sul federalismo in sanità, 2017”.

$
0
0

Era un po’ di tempo che volevo visitare il sito di cittadinanzattiva, alla ricerca di qualche informazione per me e per voi, lettori. Così qualche giorno fa ho visionato quanto pubblicato ultimamente relativamente alla sanità, ed ho trovato alcune utili informazioni, su VI Osservatorio civico sul federalismo in sanità, 2017 cui riflettere.  Pertanto ve le propongo come oggetto di dibattito. (Cfr. VI Osservatorio civico sul federalismo in sanità 2017 (salute), in: https://sostieni.cittadinanzattiva.it/scarica-i-materiali/rapporti-annuali.html). 
Sul ‘Rapporto’ si possono leggere dati interessanti, che commenterò in nero corsivo in riferimento al Fvg. I titoletti in grassetto rosso sono miei o ripresi dal testo.

Finanziamento.

«Il finanziamento del SSN per gli anni 2018 e 2019 è pari rispettivamente a 113.396 MLD di euro e 114.396 MLD di euro. Per il 2018 la riduzione rispetto al finanziamento programmato con Legge di Bilancio 2017 e pari a 600 mln di euro, rispetto invece al finanziamento programmato con Legge di stabilità 2016 la riduzione e pari a circa 1,5 MLD di euro.
Queste riduzioni sono alla base della parziale attuazione dei nuovi LEA, che come sappiamo avevano come condizione, riportata nella relativa Intesa tra lo Stato e le Regioni, un livello di finanziamento del SSN per il 2018 pari a 115 MLD di euro.
Per quanto riguarda il 2019 la riduzione rispetto al finanziamento programmato con legge di Bilancio 2017 è pari a circa 600 MLN di euro, come effetto del mancato contributo alla finanza pubblica da parte delle Regioni a Statuto Speciale. (…)». (Cfr. VI Osservatorio civico sul federalismo, op. cit., pp. 6-7).

La Regione Fvg è a Statuto Speciale, per cui se non ha versato contributi allo Stato non si sa se riceverà finanziamenti. Ma siamo in grado di far da soli?

Sulla spesa sanitaria.

«Per quanto riguarda la spesa sanitaria pubblica la sua incidenza sul PIL passa dal 7,1% del 2010 al 6,5% del 2018, sino ad attestarsi al 6,3% del 2020. Un trend che ci preoccupa molto. Guardando alla spesa sanitaria pubblica pro capite, in termini reali, nel 2016, si è attestata a 1.734,5 euro con una variazione nel periodo 2010/2016 pari a -8,8%. (…). La spesa sanitaria pubblica regionale pro capite 2017 oscilla tra valori decisamente inferiori come quelli della Campania (1.770), della Calabria (1.808) e quelli più elevati di Emilia-Romagna (2.120), Liguria (2.124), Molise (2.142), PA Bolzano (2.430), PA Trento (2.329) solo per fare alcuni esempi.
Una difformità che certamente concorre, insieme ad altre cause, ad alimentare le disuguaglianze che sono presenti nel nostro Servizio Sanitario Pubblico.». (Ivi, p. 7 e p. 9).
Nel 2016 le Regioni a Statuto Ordinario che hanno allocato risorse aggiuntive dai bilanci regionali per la copertura degli extra Lea, sono: Liguria, Umbria, Marche e Basilicata. In generale nel periodo 2012/2016 questo tipo di risorse delle Regioni a Statuto Ordinario hanno subito una contrazione pari a – 96,65%. Le Regioni a Statuto speciale che hanno allocato questa tipologia di risorse sono Valle D’Aosta, PA Bolzano, PA Trento e Sardegna. Il totale delle risorse aggiuntive da bilancio regionale a copertura extra LEA (RSO e RSS) si è ridotto nel periodo 2012/2016 di -8,10% […]. (Ivi, p. 10).

Il Fvg, pur essendo regione a Statuto speciale, non ha allocato risorse aggiuntive in sanità.

Spesa Privata e Ticket.

«La spesa sanitaria media a carico delle famiglie si attesta a circa 114 euro mensili. Profonde le differenze da Regione a Regione: 128 euro in Umbria, 118 euro in Emilia Romagna, 127 euro in Veneto, 159 euro in Lombardia, contro i 64 euro della Campania e i 74 euro della Calabria. Questi dati sono l’evidenza che non vi è automatismo tra performance dei servizi sanitari regionali e livello di spesa sanitaria privata. La spesa sanitaria privata delle famiglie rappresenta il 4,5% della spesa sanitaria complessiva. In Italia nel 2016 la spesa sanitaria privata rappresentava il 25% della spesa sanitaria totale (Fig.8), meno della Spagna (29,4%), del Portogallo (31%) e della Grecia (41,7%). Inferiori all’Italia invece i valori della Francia (21,2%) e della Germania (15,4%). Nel 2008 il rapporto tra spesa sanitaria privata e spesa sanitaria totale dell’Italia era pari al 22,3%». (Ivi, pp. 11-12).

«Per quanto riguarda invece la spesa sanitaria privata versata al SSN attraverso ticket e intramoenia il valore complessivo è pari a circa 4 MLD di euro l’anno. Anche qui le differenze regionali sono molto evidenti e dimostrano ancora una volta che non vi è automatismo tra performance dei servizi sanitari regionali e livello di questa spesa privata: 45,8 euro pro capite in Calabria contro gli 81,9 euro pro capite dell’Emilia Romagna». (Ivi, p. 13).

Io credo che: se teniamo conto del fatto che la Regione Fvg ha copiato, con la giunta Serracchiani, il modello Emilia Romagna è prevedibile, penso, che la spesa in sanità privata sia alta anche qui, il che potrebbe essere indicatore del fallimento del ssn stesso.

 Verso il privato per le visite specialistiche ambulatoriali?

«Guardando specificatamente ai ticket sanitari (farmaci e prestazioni sanitarie), tra il 2016 e il 2017 si riscontra un livello di entrate per lo Stato pressoché uguale: 2,888 MLD nel 2016, 2,889 MLD nel 2017. Invece è costante la contrazione del gettito per lo Stato derivante in particolare dai ticket sulle prestazioni di specialistica ambulatoriale, sul pronto Soccorso e su altre prestazioni ad esclusione di quelle farmaceutiche. Il gettito annuo per lo Stato passa infatti da oltre 1,548 MLD di euro del 2012 a poco più di 1,336 MLD del 2017, cioe 212 milioni di euro in meno. Nel periodo 2012-2017 la compartecipazione alla spesa in valori assoluti e diminuita del 14% circa. Tra il 2016 e il 2017 il gettito si è ridotto dello 0,9%. In particolare è il ticket sulle prestazioni di specialistica ambulatoriale a subire la maggiore contrazione negli anni: solo nel 2017 sono entrate nelle casse dello Stato 14 milioni di euro in meno rispetto al 2016. (…). La legge di bilancio per il 2018 ha previsto lo stanziamento di 60 milioni per la parziale riduzione dei ticket sulla specialistica ambulatoriale (il fondo è stato istituito dall’art.1, comma 804 e 805, della legge 205/2017).». (Ivi, pp. 14-15).

Lea e dintorni.

«Nel corso degli anni 2006-2016 il disavanzo economico in sanità delle Regioni si e decisamente ridotto passando dai 6 MLD di euro del 2006 ai 976 MLN di euro del 2016. Siamo di fronte ad un evidente risanamento finanziario. (…). Dai dati provvisori del monitoraggio LEA 2016 del Ministero della Salute, contenuti nel Rapporto di Coordinamento di Finanza Pubblica 2018 della Corte dei Conti (i dati definitivi saranno pubblicati dal Ministero della Salute) sembra che la situazione, almeno sulla carta, stia migliorando […]. La proposta del Ministero della Salute di rivedere i criteri di riparto del Fondo Sanitario Nazionale tra le Regioni va nella giusta direzione ma non è sufficiente. È necessario rafforzare il sistema di monitoraggio dei LEA, a partire dalla sua capacità di fornire dati più attuali. Nel 2018 sono accessibili ai cittadini i dati provvisori del 2016. (…). Nel 2017 è stato predisposto il Nuovo Sistema Nazionale di Garanzia dei LEA attraverso lo schema di decreto interministeriale che è stato sottoposto alle valutazioni del Comitato LEA. Lo schema di decreto e stato infine approvato dal Comitato il 15 dicembre 2017. Per essere adottato il Decreto deve essere condiviso dal MEF e deve essere acquisita l’intesa in Conferenza Stato-Regioni». (Ivi, pp. 20-23).

Pure in questo caso non sono stati pubblicati i dati per i Fvg.

Differenze negli investimenti in sanità.

 «Anche rispetto agli investimenti in sanità (art. 20 L. 67/1988), sono molte le differenze tra le Regioni nella capacità di utilizzare i fondi allocati dallo Stato. A fronte di Regioni come ad esempio Veneto, Emilia Romagna, Toscana che hanno sottoscritto il 100% delle risorse destinate, ve ne sono altre che hanno percentuali di molto inferiori come Campania (31,1%), Molise (21,5%), Abruzzo (36,5%), Calabria (57,5%). Complessivamente le risorse residue per Accordi di programma da sottoscrivere sono pari a 4,102 MLD di euro». (Ivi, p. 29).

Tempi di attesa e trasporti.

«Il dato Istat pubblicato a fine ottobre 2017, in occasione del rapporto sulle condizioni di salute e il ricorso ai servizi sanitari in Italia e nell’Unione europea, riporta dati interessanti sulle motivazioni più frequenti che portano i cittadini a rinunciare o a rimandare le cure. Sembrerebbe che le liste d’attesa, i disagi causati dal trasporto e la crisi economica siano le maggiori cause di rinuncia alle cure per gli italiani. Sono più di 11 milioni i cittadini che addebitano a tempi di attesa troppo lunghi la loro rinuncia a una prestazione o il ritardo nell’effettuazione. Sono invece 3,6 milioni quelli che accusano la mancanza di trasporti adeguati verso il luogo di cura e 6,2 milioni quelli che dichiarano di aver rinunciato a una prestazione per motivi economici. (…). La carenza di mezzi di trasporto, anche se la percentuale di chi dichiara di aver effettuato in ritardo o non effettuato prestazioni sanitarie per questa ragione e tre volte inferiore a quella delle liste d’attesa (5%), rappresenta comunque un fenomeno da tenere sotto controllo. É il Centro a mostrare dati peggiori dai 15 anni in su, con il 7,3% di difficoltà (2,6% nel Nord Est), mentre per la fascia oltre 65 anni è il Sud, con 12,4%, ad avere più problemi (Nord Est 3,3%)». (Ivi, pp. 76-77).

«[…] dati evidenti che non possono essere trascurati […] invitano a considerare il ruolo, ormai sproporzionato, che sta assumendo l’intramoenia rispetto al canale pubblico nella capacità di rispondere con tempestività alle necessità di cura.  (…). Sbalordiscono i dati della Campania, che registra tempi d’accesso per una visita oculistica oltre i 100 giorni quando nel canale intramurario la stessa prestazione è erogata entro 5 giorni; oppure per una colonscopia nel Lazio si attendono 175 giorni, mentre in intramoenia diventano circa 6; in Lombardia si attendono 98 giorni per un ecodoppler venoso nel settore pubblico e 4 giorni in intramoenia; in Veneto si attendono 95 giorni per un ecocardiografia quando in intramoenia serve appena una settimana» (Ivi, p. 91). «[…] relativamente alla determinazione dei volumi di attività libero-professionale si confermano i valori piuttosto esigui, con sole 4 Regioni/Province autonome adempienti (Basilicata, Umbria, Valle d’Aosta, PA Trento)». (Ivi, p. 96).

La Regione Fvg dovrebbe valutare bene il problema dei trasporti come indicatore di rinuncia a visite e cure, ed anche le distanze tra residenza e luogo di visita e cura.

Tempi di ospedalizzazione.

 «È interessante innanzitutto analizzare il dato relativo ai giorni medi di degenza preoperatoria, considerato un indicatore di efficienza, nelle singole Regioni, per un ricovero per acuti in regime ordinario. Dal dato nazionale si deduce che in media si ricovera il paziente 1,7 giorni prima di un intervento; le medie di alcune regioni – Molise (2,37), Liguria (2,36), Campania (2,21) – si discostano notevolmente da questo dato […]. Prendendo ad esempio la Regione Liguria, e volendo incrociare i dati di degenza media e degenza media preoperatoria, vediamo che entrambi i valori sono nettamente oltre la media nazionale; si ricovera complessivamente per più giorni. Complice e forse l’età della popolazione, notoriamente elevata, che può condizionare la durata dei ricoveri per possibili complicanze legate all’età. […] nel Mezzogiorno si ricovera e si dimette prima rispetto ad altre regioni». (Ivi, pp. 86-87).

Assistenza territoriale.

 «Nel luglio 2017 il monitoraggio dei servizi territoriali sottolineava la difficoltà a descrivere in modo univoco un modello di offerta territoriale da parte delle Regioni, mentre il ‘Rapporto PIT Salute’, pur registrando per quest’area dell’assistenza qualche miglioramento rispetto all’anno precedente, confermava come in molte occasioni questa fosse ancora incapace di fornire alle persone le risposte attese o di cui avessero bisogno.
Le informazioni raccolte attraverso i contributi dei cittadini, dati istituzionali e parte della letteratura grigia, orientano verso un’interpretazione condivisa da molti: per i cittadini, ricorrere ai servizi sul territorio significa individuare in modo chiaro e univoco la struttura e i professionisti deputati a farsi carico dei bisogni di salute ma, per fare questo, e necessario il rilancio delle cure primarie». (Ivi, p. 110).

«Le fonti informative, disponibili per comprendere se si stia andando nella direzione dello sviluppo di due uniche forme aggregative sul territorio (AFT e UCCP), offrono un quadro in continuo mutamento; al momento della stesura di questo testo, sono diverse le Regioni che stanno procedendo alla riorganizzazione dei servizi territoriali e non e possibile affermare, in modo chiaro, quanto e se i nuovi assetti organizzativi abbiano davvero portato benefici pratici ai cittadini.
Nel sistema persistono punti deboli: l’assistenza primaria di base nel biennio 2015-2016 registra un calo di segnalazioni (30,5% contro il 36,9%), cosi come uno sfumato miglioramento si osserva per assistenza residenziale (-0,6%) e Salute mentale (-1,8%); riabilitazione, assistenza domiciliare e assistenza protesica integrativa peggiorano». (Ivi, p. 115).

Riconversione o è eliminazione dei piccoli ospedali?

[…] l’attenzione alla carenza di strutture sul territorio aiuta ad introdurre il tema della riconversione, poiché da troppi anni i cittadini vedono trascurato tale impegno, con la conseguenza di subire attese interminabili, di essere obbligati ad organizzarsi in modo autonomo, di dover spostarsi, in molti casi, con il proprio mezzo per la visita e/o l’assistenza del proprio famigliare. In Italia la costruzione di una rete di strutture intermedie avrebbe dovuto fruire di un impulso decisivo con l’emanazione del D.M. 70/15 ovvero il regolamento con la “Definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi sull’assistenza ospedaliera”. (…).

Il D.M. 70/15 prevedeva l’adozione di altri provvedimenti strettamente coordinati tra loro che avrebbero dovuto garantire il funzionale riequilibrio dei ruoli tra “ospedale e territorio”, oltre all’effettiva integrazione delle due reti, sanando la frattura esistente. Al punto 10 “Continuità ospedale-territorio” si invitavano le Regioni a procedere, contestualmente alla riorganizzazione della rete ospedaliera, al riassetto dell’assistenza primaria e all’organizzazione in rete delle strutture territoriali a garanzia di una risposta certa sul territorio e di un utilizzo appropriato dell’ospedale. Il regolamento fissava inoltre un punto di svolta rispetto ai precedenti riferimenti sul processo di chiusura e di riconversione dei piccoli ospedali, alla riduzione e razionalizzazione dei posti letto di ricovero, alla deospedalizzazione e potenziamento dell’assistenza sul territorio già contenuti nella Legge n°135/2012 – art. 15 comma 13 – Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica – Spending Review.

Nel 2017 non era ancora così raro leggere sulla stampa di settore frasi come “Al via la nuova impostazione della rete dell’assistenza territoriale…”, segno che in qualche Regione le indicazioni del DM 70/15 iniziavano ad essere recepite, senza dubbio, con un importante ritardo. Le ragioni del ritardo sono sinteticamente rintracciabili nell’assenza di delibere regionali ad hoc, nei vecchi Piani Sanitari Regionali (PSR) non ancora allineati alle indicazioni nazionali, nelle difficoltà economiche di alcune Regioni in piano di rientro e in qualche territorio, anche nelle resistenze di cittadini (organizzati in comitati o altre forme) che intravedevano nella chiusura dei “piccoli ospedali” più ragioni economiche che di reale intenzione a modificare l’offerta assistenziale». (Ivi, pp. 127-128).

In Fvg, come nel Molise, molti cittadini pensano ancora che la chiusura dei piccoli ospedali, che li priva di fatto di servizi reali, sia da addebitarsi, unicamente, al conternimento delle spese ed al far cassa.

Assistenza domiciliare.

 «Negli ultimi anni, vale la pena ricordare come l’intervento del privato sia divenuto sempre meno marginale nell’erogazione dell’assistenza domiciliare; le informazioni raccolte specificavano che soltanto il 45% tra gli 82 distretti monitorati erogava il Servizio di cure Domiciliari senza prevedere l’intervento del privato, mentre per un 51% era previsto un “sistema misto” (in parte ASL/Distretto e in parte altri). Il restante 4% era rappresentato da casi di erogazione delegati a strutture/enti extra aziendali e da mancate risposte ai quesiti posti.
Merita attenzione anche il 4,1% dei casi (+3% rispetto al 2015) sul tema della mancanza di figure professionali atte ad erogare la prestazione specifica di cui si avrebbe bisogno. Da un lato si tratta di cittadini che richiedono a domicilio personale qualificato per precise esigenze di cura, dall’altro non si esclude che tali segnalazioni nascondano la necessita di veder accolti nuovi e sempre più specifici bisogni di cura, impossibili da definire in assenza di una puntuale analisi dei bisogni». (Ivi, pp. 138-139).

Assistenza protesica, integrativa, e dispositivi medici.

 «L’assistenza protesica e integrativa riguarda cittadini che hanno bisogno di presidi, protesi, ausili, apparecchiature sanitarie per la cura o il controllo della propria condizione di salute. La richiesta e in capo ai servizi territoriali e a volte può essere complicata nelle sue procedure. Può capitare inoltre che il servizio pubblico non eroghi quanto richiesto o copra solo in parte le spese, con la conseguenza che il cittadino provveda di tasca propria. Tra le difficolta maggiormente segnalate rientrano lungaggini burocratiche, insufficienza dei materiali, difficoltà nella sostituzione di protesi usurate, complessità dei meccanismi di richiesta, di verifica, approvvigionamento e consegna (eventualmente anche installazione e test), senza che i cittadini possano opporvisi in maniera tempestiva e risolutiva.

Il peso delle varie problematiche interessa l’assistenza protesica (con il 53,8% nel 2016) e l’assistenza integrativa (nel 46,2% delle situazioni); nel primo caso si assiste a un calo delle segnalazioni rispetto al 2015, nel secondo, l’incremento registrato e di oltre 10 punti percentuali (+11,2%)». (Ivi, p.146).
«Nel 2016 le segnalazioni, per entrambe le tipologie di assistenza, riguardavano tre principali ordini di questioni: i tempi di attesa (46%), le forniture insufficienti e i costi da sostenere (39,7%), la scarsa qualità dei prodotti (14,3%). I dati del PIT Salute possono ulteriormente essere incrociati con le dettagliate informazioni del monitoraggio dei servizi che ha interessato i cittadini in cure domiciliari». (Ivi, p. 147).
«Le forniture insufficienti e i conseguenti costi che i cittadini devono sostenere riguardano una serie di casi specifici tra i quali la scarsa o nulla possibilità di richiedere ausili e protesi che siano all’avanguardia tecnologica nonostante le novità in campo scientifico ne giustificherebbero l’acquisto; l’assenza di contributi economici anche parziali, da parte della ASL, spesso perché quanto richiesto non è incluso nel nomenclatore». (Ivi, p. 149).

Salute mentale.

 «Si stima che nel nostro Paese, tra il 2015 e il 2017, siano 2,8 milioni coloro che hanno manifestato sintomi di depressione. I disturbi ansioso-depressivi si associano a condizioni di svantaggio sociale ed economico: rispetto ai coetanei più istruiti, raddoppiano negli adulti con basso livello di istruzione e triplicano (16,6% rispetto a 6,3%) tra gli anziani, fra i quali risultano però meno evidenti, i differenziali rispetto al reddito. (…). All’interno del tema sulle cure territoriali, la salute mentale e l’area più delicata da trattare, per la complessità del fenomeno in se e per il modo in cui chiama in causa i servizi sanitari che spesso intervengono alla comparsa del sintomo, ma in misura molto minore per realizzare attività di prevenzione dei disturbi mentali e/o di promozione della salute mentale. (…).

Nel 12% delle situazioni, dopo i ricoveri motivati dal trattamento sanitario obbligatorio (TSO), si segnalano pazienti “abbandonati” dai servizi territoriali e con buona probabilità che su di loro gravino le precedenti situazioni causa di ricovero coatto; altri casi riguardano l’applicazione impropria della misura del trattamento sanitario obbligatorio. Quando manca una rete di protezione socio-sanitaria, i cittadini segnalano l’insostenibile situazione in famiglia (21,7%); quest’ultima si fa carico della condizione di disagio del proprio familiare in completa “solitudine” e quindi nella più totale assenza di tutela. Non entusiasma nemmeno il dato (17,4%) di quando invece si accede al DSM/CSM la scarsa qualità delle cure erogate dalle strutture territoriali riguarda l’insieme dei servizi offerti, ivi compreso il rapporto umano con l’utenza, il tempo messo a disposizione dei pazienti, la frequenza delle visite di controllo e la qualità degli stimoli o delle proposte di terapia effettuate dai centri. Anche quest’area dell’assistenza presenta varie problematiche (10,9%), relative alla mancanza di personale medico e infermieristico, spesso aggravata dal numero di utenti sempre più elevato.

Molto contenuto, ma degno di particolare attenzione, e il dato sugli effetti della cura farmacologica (3,3%) in cui la terapia è percepita come pesante e non adatta alla propria condizione; diversi studi hanno mostrato che molti pazienti presentano un significativo miglioramento clinico o raggiungono un livello accettabile di benessere psicologico se la terapia farmacologica viene associata a sedute di psicoterapia o ad altri trattamenti psicosociali; sarebbe interessante conoscere quali e quanti CSM/DSM offrano sistematicamente una terapia indicata nella più recente letteratura e quanti si limitano, attraverso il farmaco, a sopprimere alcuni sintomi (come le allucinazioni) senza “lavorare” su quelli che continuano a impedire al soggetto, nonostante il farmaco, di ricominciare a partecipare alla vita normale quotidiana. Nel 3,3% rientrano infine anche casi in cui terapie alternative o complementari per aumentare il benessere del paziente, non sono contemplate e di conseguenza non vengono erogate poiché le ASL non hanno fondi o personale a disposizione».  (Ivi, pp. 150- 153).

Piano Nazionale delle cronicità: problematiche emergenti.

 «In base ai dati riportati nel Rapporto ISTAT del 2017, la popolazione residente in Italia al 1 gennaio 2018 è di 60.494.000 persone, raggiungendo un nuovo minimo storico nelle nascite, con un saldo negativo di 100 mila persone in meno sull’anno precedente.
Non si rilevano, invece, variazioni significative sulla speranza di vita alla nascita: 80,6 anni per gli uomini e 84,9 anni per le donne, ma siamo anche il secondo Paese più vecchio al mondo con un’età media superiore ai 45 anni. Nonostante ci siano segnali di crescita economica, la ripresa è debole e la produttività continua a diminuire. La disoccupazione diminuisce, ma rimane ancora molto elevata rispetto gli altri Paesi Europei. L’Italia, poi, e il Paese europeo in cui vivono più poveri. In particolare, cresce la quota di persone in povertà assoluta, quella che quindi non dispongono, o dispongono con grande difficolta o a intermittenza, delle primarie risorse per il sostentamento umano, come l’acqua, il cibo, il vestiario e l’abitazione, passando dal 7,9% del 2016 ad 8,3% del 2017.  (…). 

Aumenta la percentuale di chi assume farmaci (dal 40,7% del 2014 al 41% del 2015). La patologia cronica piu diffusa tra quelle prese in esame rimane sempre l’ipertensione (17,1%) seguita da artrosi/artrite (15,6%) e da malattie allergiche (10,1%). (…). La Regione con il maggior numero di persone affette da una o più patologie croniche è l’Umbria (43,6% e 25,3%), quella con il minor numero e il Trentino Alto Adige (32,6% e 14,3%) seguita dalla Campania (34% e 19,2%). C’e da notare però che, mentre il 57,9% di persone con patologia cronica in Trentino- Alto Adige e in buona salute, in Campania la percentuale crolla al 38,4%. La maglia nera, in questo caso, ce l’ha la Sardegna dove solo il 35,7% delle persone con patologia cronica dichiara di essere in buona salute.» (Ivi, pp. 157-159).

«Dopo anni di battaglie e di richieste alle Istituzioni il 2016 finalmente ha visto la luce il Piano nazionale della Cronicità (PNC) alla cui stesura ha partecipato attivamente il Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici di Cittadinanzattiva ed alcune delle Associazioni in esso presenti per la parte riguardante le singole classi di patologie.  (…). Dopo l’approvazione in Conferenza Stato Regioni, il 15 settembre 2016, il Piano nazionale delle Cronicità ha iniziato il suo lento e travagliato percorso di applicazione nelle singole regioni.
Ad oggi, a distanza di due anni, sono ancora cinque le regioni che lo hanno approvato: Emilia Romagna, Lazio, Marche, Puglia ed Umbria. (…) Il 24 gennaio 2108 dopo il decreto di nomina del Ministero della Salute si insedia la Cabina di Regia prevista dal Piano. Ne fanno parte, per il lato Istituzionale: il Ministero della Salute, l’Istituto superiore di sanita, Agenas, l’Istituto nazionale di statistica e la Conferenza delle Regioni. Per le società scientifiche partecipano Fism (Federazione delle Societa Medico-Scientifiche Italiane), Fnomceo (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri) e Fnopi (Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche-ex Ipasvi), dopo l’approvazione del Ddl Lorenzin.
Per le Associazioni per la tutela dei malati partecipa il Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici di Cittadinanzattiva. Il suo compito sarà quello di coordinare a livello centrale l’implementazione del Piano e monitorarne l’applicazione e l’efficacia». (Ivi, pp. 162, 164 e 183).

«Quella che per la quasi totalità degli intervistati (95,3%) rappresenta la prima priorità su cui intervenire è l’integrazione fra assistenza primaria e specialistica, che non è presente se non in alcune Regioni, soprattutto del Centro- Nord (figura n.15) o per alcune categorie di pazienti subito seguita, come diretta conseguenza, dalla continuità assistenziale nel passaggio dall’ospedale alle cure territoriali (65,1%). Non è più accettabile che si continui a parlare di multiprofessionalità, approccio di cure integrato, fascicolo elettronico condiviso, ecc. e poi il tramite fra lo specialista ed il medico di medicina generale sia sempre e solo il paziente, perché i professionisti non si parlano, e nemmeno i sistemi, (…) e una persona può ritenersi fortunata se non è costretta a ricorrere al Pronto Soccorso con attese interminabili per un posto letto che non c’è. (Ivi, p. 215). Altro aspetto ritenuto fondamentale […] per modificare veramente la gestione della cronicità è il coinvolgimento del paziente nel piano di cura (53,4%), […] non realizzato nella realtà». (Ivi, p. 216).

Problemi dei malati cronici e loro familiari.

«Ancora a risultare problematico è il rapporto umano con il personale sociosanitario, nella mancanza di ascolto (50%) e nella scarsa attenzione verso il dolore (42,5%), se non addirittura in fenomeni di aggressività da parte dello stesso personale (10%).». (Ivi, p. 227).

«Quando si parla di appropriatezza nell’uso delle terapie ed aderenza, sembra che questa sia sempre una “responsabilità” della persona, che utilizza male i servizi o le terapie, sprecando risorse e causando quindi un danno nei confronti delle finanze pubbliche. Non ci si ferma mai a ragionare sul fatto che l’inappropriatezza possa essere qualcosa che la persona con una patologia subisce. A generare, infatti, un accesso inappropriato alle cure sono proprio i comportamenti di chi ha in cura la persona, tramite la sottovalutazione dei sintomi ed il conseguente ritardo nelle cure, secondo il 75,7% delle Associazioni, o ancora, l’esecuzione di esami inutili perché non adatti alla diagnosi (33,3%) o perché ripetuti più volte (27,2%). Sempre la stessa percentuale di Associazioni ha poi riscontrato la presenza di ricoveri evitabili, perché le stesse prestazioni potevano essere erogate in altri ambiti». (Ivi, p. 232).

«Questa doppia visione dell’umanizzazione, rivolta non solo al paziente, ma anche al personale sanitario, e quanto mai condivisa dalle Associazioni che, per prima cosa, per rendere “più umane” le cure, chiedono maggiore ascolto da parte del personale sanitario, 80,5%, personale spesso costretto a turni massacranti, impegnato in attività burocratiche che non hanno niente a che fare con la pratica medica e alle volte controllato con strumenti come il minutaggio. Il secondo aspetto che rende le cure piu faticose sono le lunghe liste d’attesa (75,6%), seguito dal fatto che le famiglie si sentono abbandonate nella gestione della persona con disabilita (70,7%) e sopraffatte dalla burocrazia inutile e dannosa (68,2%). Renderebbe più semplice la vita di chi ha una patologia cronica, poi, avere più orientamento e informazione nell’accesso ai servizi (51,2%) e una maggiore attenzione verso la sofferenza, sia di tipo fisico che psicologico (48,7%). Sempre la stessa percentuale, poi, vorrebbe dei luoghi di cura più accessibili e il 43,9% desidera potersi rivolgere sempre allo stesso specialista, anziché ricominciare d’accapo ogni volta, spesso anche con orientamenti diversi del tipo: ma chi le ha prescritto questo esame o questa terapia?» (Ivi, p. 235).

Farmaci: accesso all’innovazione farmaceutica.

 «L’assistenza farmaceutica rappresenta ancora una delle maggiori criticità del Servizio sanitario nazionale (SSN). I cittadini si confrontano con costi elevati, indisponibilità dei farmaci sul territorio e in ospedale, tempi di accesso e di erogazione del medicinale spesso troppo lunghi, in particolare per le terapie innovative “ad alto costo”, a causa di limiti di budget a livello aziendale e regionale. Le difficoltà legate alla prescrizione ed erogazione di alcuni farmaci, come ad esempio quelli per il trattamento dell’epatite C o di patologie oncologiche (per lo piu si tratta di farmaci innovativi), possono determinare ostacoli all’accesso alle cure e alla piena e corretta adesione del paziente al percorso terapeutico, dal trattamento farmacologico ai corretti stili di vita e alle abitudini alimentari.

Quest’anno si è avvertita ancor di più la necessità di affrontare tali temi, sia per l’immissione in commercio di ulteriori nuovi farmaci, cui è stato attribuito il carattere dell’innovatività, sia per l’introduzione, con la recente Determina dell’AIFA n. 1535 del 2017, dei nuovi criteri di valutazione dell’innovatività». (Ivi, pp. 242-243). Rispetto al 2015 (5,8%) v’è stato un lieve calo delle segnalazioni. La prima voce di segnalazione è rappresentata dalle nuove terapie per l’epatite C, con un 44,4% che attesta il permanere di una difficolta nell’accesso a tali cure innovative. (…). La spesa per l’acquisto dei farmaci risulta ancora una delle tre maggiori difficoltà. Il dato, per quanto in diminuzione, rimane significativo, perché quasi una persona su cinque continua a segnalare il problema di costi e di sovraccarico economico, dovuto anche al più generale impoverimento della popolazione (18,3%).

Sono soprattutto i farmaci in classe A e H quelli per i quali si segnalano maggiori difficoltà nell accesso a causa dei costi da sostenere in compartecipazione, per la differenza di prezzo tra il farmaco “branded” e il generico, per i frequenti problemi legati alla carenza del medicinale nei canali di distribuzione e, non ultimo, per questioni di prescrivibilità.  (…). La Neurologia, con il 12,7%, continua ad essere un’area particolarmente critica: rientrano in questa voce i farmaci per la cura di patologie degenerative come l’Alzheimer o il Parkinson. Seguono, con valori rilevanti le aree di Oculistica (11%), Oncologia (8,9%), Cardiologia (7,1%); Urologia (4,9%) e, subito dopo, le altre aree specialistiche […]. (…).
L’indisponibilità dei farmaci e uno dei fattori che può ostacolare l’accesso alle terapie ed incidere anche sulla piena e/o corretta adesione al percorso di cura. […] principali fattori che possono determinare la non disponibilità: il 50% delle persone segnala l’assenza del medicinale in farmacia; il 26,7% riferisce ritardi nella erogazione dei medicinali ospedalieri. I cittadini si confrontano anche con un problema di irreperibilità di alcuni farmaci perché ritirati dal mercato (13%); o perché non vengono commercializzati in Italia (10%). A determinare la non disponibilità sono motivi burocratici o amministrativi e organizzativi a vario livello nazionale, regionale, aziendale». (Ivi, p. 244-248).

«Quando un farmaco non è, o non e ancora, distribuito in Italia (segnalazioni raddoppiate rispetto al 2015), le difficolta che incontra il cittadino riguardano l’avvio della procedura per l’importazione dall’estero e i tempi lunghi per il rilascio delle autorizzazioni all’immissione in commercio in Italia. La spesa per farmaci (18,3% delle segnalazioni) e uno dei principali ostacoli nell’accesso alle terapie e può indurre la persona a interrompere o a non intraprendere la cura, col rischio di compromettere la terapia. Ciò incide anche sulla sostenibilità economica. In questo ambito […] rientrano segnalazioni relative al costo dei farmaci non erogati dal Servizio sanitario nazionale in regime di rimborsabilità (54,2%), come nel caso di farmaci in fascia C, parafarmaci e integratori». (Ivi, p. 249).

«La compartecipazione del cittadino per ticket e per differenze di prezzo all’acquisto del farmaco “branded”, quando e disponibile un prodotto equivalente, rimane abbastanza invariata con 1.549 milioni di euro, corrispondente a circa 25,60 euro pro capite. Il Rapporto OsMed 2017 (luglio 2018) registra una diminuzione della spesa farmaceutica territoriale totale (pubblica e privata) che risulta di 21,7 miliardi (–1,4% rispetto al 2016) e della spesa territoriale pubblica (convenzionata e distribuzione per conto di farmaci di classe A) che ammonta a 12,9 miliardi, ovvero il 59,4% della spesa farmaceutica territoriale, con una riduzione del 6,5%. Tale decremento e dovuto principalmente alla diminuzione della spesa per i farmaci in distribuzione diretta (-13,7%); e stato inoltre registrato un decremento della spesa farmaceutica convenzionata netta (con un -1,7% rispetto al 2016)». (Ivi, pp. 255-256).

Dal Rapporto OsMed2017 è emerso anche un aumento della spesa per vaccini di 487 milioni di euro (+36% rispetto all’anno 2016), corrispondente al 2,2 % della spesa del SSN dovuto probabilmente all’entrata in vigore del “Decreto Vaccini” (L. 119/2017) che ha ampliato il numero di vaccinazioni obbligatorie, introdotto il rispetto degli obblighi vaccinali come requisito per l’ammissione all’asilo nido e alle scuole dell’infanzia.
Guardando alla spesa per classi terapeutiche, al primo posto risultano i farmaci antineoplastici e immunomodulatori (5.064 milioni di euro), seguiti da quelli dell’apparato cardiovascolare (3.548 milioni di euro); si consumano maggiormente i farmaci dell’apparato cardiovascolare (484,2 dosi ogni 1000 abitanti al giorno, di seguito DDD/1000 ab die), seguiti da quelli dell’apparato gastrointestinale e metabolismo (183 DDD/1000 ab die) e dai farmaci del sangue e degli organi emopoietici (125,4 DDD/1000 ab die)». (Ivi, pp. 256-257).

«Anche il ritardo con il quale e stato pubblicato il decreto 16 febbraio 2018 (G.U. 7/4/2018), che ha stabilito i criteri di riparto delle risorse stanziate per i farmaci innovativi e oncologici innovativi, potrebbe aver prodotto nelle Regioni un’incertezza nel corso del 2017 e aver influito sul non utilizzo di tutti i Fondi a loro disposizione». (Ivi, p. 271). «Le Regioni Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta e Sardegna e le Province autonome di Bolzano e Trento non aderiscono al Fondo per farmaci innovativi, la Sicilia solo in parte (50%)». (Ivi, p. 272).

Perché il Fvg non aderisce al Fondo per farmaci innovativi?

 ⊕

Analisi civica della Determina AIFA sui nuovi criteri di innovatività.

 «Nel 2017 sono stati definiti dall’Agenzia Italiana del Farmaco i nuovi criteri per la valutazione e il riconoscimento del carattere di innovatività di un farmaco. L’attribuzione dell’innovatività consente di accedere ai Fondi per l’approvvigionamento dei farmaci innovativi, istituiti con la Legge di Bilancio 2017». (Ivi, p. 280).

Un farmaco che ottiene il riconoscimento dell’innovatività, fino a un periodo massimo di 36 mesi, accede alle risorse stanziate nei Fondi; deve essere messo nell’immediata disponibilità delle persone e viene erogato al cittadino in regime di rimborsabilità, ovvero a carico del Servizio Sanitario Nazionale. La cosiddetta innovatività potenziale o condizionata, attribuita a un medicinale (18 mesi), esclude invece alle regioni di poter accedere ai Fondi, fermo restando che anche tali prodotti che devono essere messi nella immediata disponibilità delle persone, anche senza il formale inserimento nei prontuari terapeutici ospedalieri regionali. (…). L’Analisi civica della Determina AIFA sui Farmaci Innovativi, attraverso una riflessione critica del nuovo modello di riconoscimento di innovatività, ha proposto il coinvolgimento di tutti gli stakeholder, Istituzioni, AIFA, Aziende produttrici, Associazioni civiche e di pazienti, nel contribuire nel processo di valutazione di innovatività, attraverso una scelta responsabile soprattutto per la vita delle persone e dei loro bisogni (di cura, di miglioramento della qualità di vita etc.), ma anche per la sostenibilità economica del Servizio Sanitario Nazionale, attraverso l’utilizzo delle risorse stanziate nei Fondi.». (Ivi, pp. 280-281).

Farmaci innovativi: alcuni dati epidemiologici e il tema dei centri prescrittori.

«In Italia, si stima che siano oltre un milione le persone con infezione da HCV, tra queste circa 300.000 risulterebbero diagnosticate; altre stime rimandano a numeri che si aggirerebbero tra 250.000 e 600.000. Secondo una recente Indagine curata dall’Associazione EpaCOnlus, il numero delle persone in Italia con diagnosi nota di epatite C e in attesa di essere curate sarebbe piu basso […]. . Inoltre, sempre secondo le stime offerte da EpaC, sono ancora circa 200.000 i pazienti da indirizzare verso una cura definitiva. C’e poi da tenere in considerazione anche quel numero di persone che non è a conoscenza della infezione da HCV; pertanto il dato conosciuto potrebbe risultare del tutto sottostimato. L’Italia risulta il Paese europeo con il maggior numero di persone positive al virus dell’epatite C; circa il 2% della popolazione italiana è entrata in contatto con l’HCV e il 55% dei soggetti con HCV e infettata dal genotipo 1. La prevalenza dell’infezione da HCV risulta più elevata al Sud d’Italia e le isole con una maggiore concentrazione nella popolazione ultrasessantacinquenne: in Campania, in Puglia e in Calabria, per esempio, nella popolazione ultrasettantenne la prevalenza dell’HCV supera il 20%.

(…). Va riconosciuto l’impegno dell’Agenzia Italiana del Farmaco sul tema dell’accesso alle terapie, attraverso l’attuazione di un Piano triennale di eradicazione dell’epatite C che dovrebbe coinvolgere circa 240 mila pazienti con HCV (80 mila all’anno); l’ampliamento dei criteri di accesso alle terapie includendo anche chi ha una doppia infezione (ad esempio HIV e HCV) e l’eliminazione della gravita/urgenza della condizione». (Ivi, pp. 295-296).

«Rispetto alle terapie oncologiche, il recente Rapporto pubblicato dall’Associazione Italiana di Oncologia medica (AIOM), dall’Associazione Italiana Registri Tumori (AIRTUM) e della Fondazione AIOM – “I numeri del cancro in Italia 2017”, offrono alcuni dati epidemiologici dell’incidenza delle patologie oncologiche nel nostro Paese. I nuovi casi di tumore, stimati nel 2017, ammonterebbero a 369.000; si stimano 192.000 casi fra la popolazione maschile e 177.000 casi in quella femminile. Allo stesso tempo, oltre 3 milioni di persone (3.304.648) vivono dopo una diagnosi di tumore – il 24% in piu rispetto al 2010, di cui 1.517.713 (46%) uomini e 1.786.935 (54%) donne; circa 704.000 possono considerarsi guariti. Nell’area oncologica, la ricerca farmacologica ha prodotto risultati importanti negli ultimi anni. Circa 63 farmaci oncologici sono stati lanciati tra il 2013 e il 2017 per la cura di 24 tipi di tumori. Molte di queste terapie (75%) hanno ottenuto indicazioni multiple. Il tumore al polmone, la leucemia e i linfomi risultano essere le forme tumorali per le quali comincia a essere disponibile un maggior numero di nuove terapie, secondo quanto rilevato dal Global oncology trends 2018». (Ivi, p. 301).
«Tuttavia, sono ancora poco considerati tutti quegli aspetti che potrebbero invece migliorare e facilitare la vita delle persone malate, riducendo gli ostacoli o i disagi negli spostamenti (ad esempio, per raggiungere il centro prescrittore più vicino). (Ivi, p. 296).

Uno dei nodi più critici che costituiscono ostacolo all’accesso alle cure e la mancanza di identificazione dei centri prescrittori, abilitati alla prescrizione ed erogazione di un farmaco. Accade spesso, all’indomani della pubblicazione di una Determina da parte dell’AIFA della immissione in commercio di un farmaco, che non tutte le regioni definiscano in tempi congrui i centri di riferimento».  (Ivi, p. 298). Possono influire sull’accesso alle terapie il mancato inserimento o il tempo di inserimento dei farmaci nei prontuari regionali o aziendali/ospedalieri. Esiste in generale una eterogeneità nei tempi che variano da regione in regione. Il tempo di valutazione per l’inserimento in Prontuario regionale può dipendere da ragioni organizzative, come ad esempio la frequenza degli incontri/riunioni delle Commissioni regionali di valutazione e le richieste di inserimento. Dal IX Rapporto FAVO (Federazione delle Associazioni di Volontariato in Oncologia) e emerso che i tempi di inserimento si aggirano da un minimo di 31 giorni a un massimo di 293. L’iter che percorre un farmaco da quando l’azienda deposita il dossier di autorizzazione e valutazione presso EMA a quando diviene effettivamente disponibile al paziente necessita di un tempo medio di 806 giorni, ovvero 2,2 anni, passando a 1.074 giorni, circa 3 anni, nella Regione con tempistiche più lunghe. (…) Anche i dati raccolti dal monitoraggio civico delle strutture oncologiche italiane130, realizzato dal Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva, confermano che il tema dell’inserimento dei farmaci in prontuario e uno degli aspetti che incide nella prescrizione/erogazione delle terapie: nel 42% delle strutture ospedaliere occorrono in media 15 giorni. Ci sono poi strutture sanitarie che impiegano dai 3 ai 4 mesi (7%) e dai 4 ai 6 mesi (9%) per inserire farmaci salvavita. Inoltre, soltanto il 52% delle strutture prevede procedure per il sostegno dei costi dei farmaci non passati dal SSN.». (Ivi, pp. 303- 305).

«Stando ai dati dell’indagine, la mancanza di budget ha inciso sulla somministrazione dei trattamenti terapeutici per quasi il 20% degli intervistati, che hanno dichiarato di aver dovuto rimandare uno o più trattamenti terapeutici all’anno successivo (17%). Un ulteriore questionario rivolto ai chirurghi oncologi ha messo in evidenza che il 60,3% ha dichiarato di essersi trovato in difficoltà rispetto alle scelte da compiere in termini di impiego di tecnologie efficaci a causa del budget a disposizione. Tali difficoltà hanno riguardato in primo luogo l’attesa per l’intervento e le liste d’attesa (53,2%), in secondo luogo l’efficacia dell’atto terapeutico (42,6%) e la sua efficienza/tempestività (36,2%)». (ivi, p. 306).
«Si deve lavorare ancora molto sui servizi e sulla loro organizzazione, sulle liste d’attesa, in particolare per quegli esami necessari alla comprensione di quale terapia prescrivere; ed ancora, sui tempi di accesso alle terapie, rendendo disponibile il farmaco in tutte le regioni e ampliando il numero dei centri prescrittori, garantendo la capillarità sul territorio, l’agevole raggiungibilità (in termini di km, tempi, servizi e infrastrutture), in modo da facilitare la vita della persona malata e della famiglia». (ivi, p. 307).

«Un dato che merita attenzione e che nell’anno 2017, stando al Monitoraggio della spesa farmaceutica dell’AIFA gennaio/dicembre 2017, non sono stati utilizzati complessivamente quasi 450 milioni di euro dei Fondi per i farmaci innovativi non oncologici e oncologici e il Monitoraggio di spesa farmaceutica dei primi quattro mesi del 2018 (gennaio-aprile) evidenziano una spesa di 283 milioni in farmaci innovativi e 177 milioni in oncologici innovativi, con un trend in aumento per questi ultimi rispetto all’anno precedente, che farebbe presumere una proiezione in crescita, anche per i mesi successivi. Sul mancato pieno utilizzo delle risorse per terapie innovative attendiamo risposte chiare. Una delle domande che inevitabilmente ci si pone e se abbiano avuto accesso alle terapie tutti coloro che ne avevano bisogno. È importante che le istituzioni si interroghino: avremmo potuto garantire a qualche persona malata in più il diritto di accesso all’innovazione? Perché i fondi non spesi corrispondono a un paziente che non è stato ancora curato.
Le questioni che possono condizionare questo equilibrio sono diverse: il livello di finanziamento del SSN inadeguato rispetto ai bisogni e agli impegni assunti, i livelli programmati di spesa sanitaria pubblica, il costo delle innovazioni tecnologiche, la capacità di governo delle tecnologie, i grandi numeri della cronicità, le criticità organizzative dei servizi sanitari regionali e le profonde disuguaglianze presenti nel nostro Paese». (Ivi, p. 308).

 

Problemi dei malati di diabete.

 Per quanto riguarda i malati di diabete, «Le visite o gli esami di controllo, nella maggioranza dei casi (47,24%), deve prenotarli autonomamente, tramite cup aziendale o cup regionale (dove esiste) o altrimenti rivolgersi al privato per evitare di arrivare all’appuntamento per il rinnovo del piano terapeutico senza la documentazione necessaria. Deve, poi, ricordare tutte le visite da solo (47,3%) non essendoci un sistema di calendarizzazione degli appuntamenti. Chi fa uso di dispositivi innovativi per la gestione del diabete (40%) lo fa per lo più a proprie spese, essendo la prima voce di spesa privata per la cura della propria malattia (il 49,6%) acquista i sensori per la glicemia privatamente), con lo smacco, per di più, che lo stesso dispositivo risulta essere gratuito in altre Regioni italiane». (Ivi, p. 313). Le differenze regionali non finiscono qui. C’e chi paga un ticket sui farmaci (il 21,8%) e chi no; c’e chi ha una limitazione nella prescrizione di strisce o sensori (76,6% del campione) e chino. In tutto le persone coinvolte nell’indagine spendono in media 867 euro l’anno, ma fra questi c’e chi non spende neanche un euro e chi arriva a spendere oltre 3 mila euro l’anno.

Ciò che accomuna le persone con diabete e una burocrazia spesso asfissiante, per cui, come ci scrive un cittadino, il diabete diventa un” lavoro” usurante. Molti pazienti rinunciano a rinnovare la patente di guida a causa della frequenza del rinnovo, della lunghezza e complessità delle procedure, oltre che per i costi privati da sostenere. Tanti rinunciano a chiedere il riconoscimento di invalidità o handicap perché scoraggiati dal farlo, anche in modi piuttosto bruschi». (Ivi, p. 314). Inoltre possono incontrare difficoltà nell’ottenere ciò che serve per la cura (farmaci, dispositivi, ecc.) a causa della farraginosità della procedura e di orari, ad esempio delle farmacie ASL per il ritiro, non compatibili con il lavoro (forniture che spesso sono in ritardo o vengono perse). Ancora, difficolta per rinnovare il piano terapeutico o per ottenere il numero necessario di striscette o sensori necessari, attese infinite per le visite di controllo necessarie.

Per chi ha un bambino affetto da diabete ai disservizi già citati, si aggiungono difficolta specifiche, soprattutto in ambito scolastico, ma non solo. Il 15% dei piccoli pazienti e curato in un centro per adulti. Per il 62% dei genitori il servizio nella mensa scolastica non è adeguato, il 78% dichiara che il proprio figlio non ha partecipato, nell’ultimo anno, a corsi per la promozione dell’attività fisica, il 64% non ha ricevuto sostegno psicologico. Spesso si sconta, in ambito scolastico e in altri aspetti della vita del bambino come lo sport, una vera e propria forma di discriminazione, dovuta all’ignoranza su una patologia, invece, così diffusa. (Ivi, pp. 314-315).

Diabetici in Fvg.

In Fvg «Vengono curati 81.881 pazienti, di cui 78606 affetti da diabete di tipo due e 3275 affetti da diabete di tipo uno. Non ci sono informazione aggiornate sulla spesa sanitaria, nè sui fondi stanziati. Si sa che quasi la totalità dei pazienti segue un PDTA e che 298 sono i pazienti pediatrici, non si conosce, invece, la distribuzione dei pazienti nei diversi centri, di primo, secondo e terzo livello. Esiste una commissione regionale ed un tavolo tecnico che si riunisce una volta ogni mese o ogni due mesi.

Ancora, esiste un piano attuativo che viene continuamente monitorato, e lo stesso vale per il PDTA regionale. Esistono, ancora, tre PDTA aziendali e una rete assistenziale regionale. È presente un centro di terzo livello altamente specializzato, otto centri di secondo livello ed altrettanti di primo livello, ma entrambi non sono aperti il sabato e la domenica ed oltre le 17.  Tutti i centri sono predisposti per la gestione dell’innovazione e nuove tecnologie. I tempi di attesa per la prima visita seguono i codici di priorità. Viene registrato, inoltre, il coinvolgimento di 875 medici di medicina generale nella gestione integrata dei pazienti. Sono stati realizzati nove campi scuola per promuovere l’educazione terapeutica strutturata. Esiste un registro regionale dei pazienti. E previsto un tetto massimo per strisce e sensori, ma e possibile derogare al limite. La prescrizione e a cura dello specialista, in base ai criteri stabiliti dal decreto regionale, con distribuzione diretta. Non esiste un ticket sui farmaci.

Per quanto riguarda i bambini con diabete, esiste un PDTA specifico e interventi volti alla coniugazione del cibo con ambiente e territorio, agevolazioni fiscali e convenzioni per l’attività sportiva, oltre che percorsi multidisciplinari per il trattamento della ipoglicemia e la somministrazione di farmaci». (Ivi, pp. 319-320).

Conclusione del VI Osservatorio civico sul federalismo in sanità 2017.

«Rispetto alla spesa privata, i dati mostrano che permangono profonde differenze tra le Regioni sulla spesa sanitaria media a carico delle famiglie: 128 euro in Umbria, contro i 64 euro della Campania e i 74 euro della Calabria. Analogo quadro per la quota di ticket pro capite sostenuta dai cittadini: nel 2017 si passa dai 95 euro Valle d’Aosta e 61 euro del Veneto, ai 32,8 della Sardegna, 38,6 della Calabria e 43 euro Campania. La normativa che ha introdotto il superticket ha previsto la possibilità per le Regioni di ricorrere a misure alternative ai 10 euro sulla ricetta ma con effetto finanziario equivalente. Si sono avvalse di questa ultima possibilità 7 Regioni. Le recenti iniziative regionali volte ad eliminare o ridurre il peso del super ticket, se da una parte rappresentano una buona notizia per quelle Regioni, dall’altra riaccendono i riflettori sulle profonde disuguaglianze che caratterizzano il SSN e che rischiano di aumentare in assenza di un provvedimento nazionale di abrogazione di questa vera e propria tassa sulla salute de di utilizzo del fondo di 60 milioni, emanato per “conseguire una maggiore equità e agevolare l’accesso alle prestazioni sanitarie da parte di specifiche categorie di soggetti vulnerabili”. Agire su questo, rapidamente e secondo criteri razionali e concretamente attenti alle vulnerabilità sociali, economiche e sanitarie e fondamentale per scongiurare un Regionalismo differenziato nei diritti dei pazienti e nella loro effettiva esigibilità.

Anche sul fronte degli investimenti in sanita per ammodernare le strutture e i macchinari del SSN e renderli capaci di garantire innovazione, qualità e sicurezza, sono molte le differenze regionali nella capacità di utilizzare i fondi allocati dallo Stato. A fronte di Regioni come ad esempio Veneto, Emilia Romagna, Toscana che hanno sottoscritto il 100% delle risorse destinate, ve ne sono altre che hanno percentuali di molto inferiori come nel caso di Campania, Molise, Abruzzo, Calabria. Le risorse residue per Accordi di programma non ancora spesi sono pari a 4,102 MLD di euro. (…). Leggendo il Rapporto si puo cogliere un fenomeno generatore di disuguaglianze: la mancata traduzione di norme o atti di programmazione importanti in azioni concrete e cambiamenti tangibili della realtà, capaci di produrre quei risultati e quei cambiamenti (annunciati) utili per i cittadini in tutte le realtà del Paese. Si assiste ad un livello di capacità diversificato da parte delle Regioni nell’adeguamento e nell’implementazione dei contenuti e degli impegni previsti in provvedimenti nazionali o in accordi Stato-Regioni. (…).

Accanto all’immobilismo di alcune Regioni od alla mera adempienza formale (come nel caso della emanazione di una delibera di recepimento di questo o quel Piano, Accordo, etc.), vuota e senza gambe, assistiamo ad esempi virtuosi di altre regioni che, in assenza di un governo deciso e forte, avviano in autonomia ed in piena ottemperanza ai bisogni espressi dai cittadini, politiche efficaci, tempestive che diventano delle vere e proprie best practice da copiare, adattare, far proprie tanto al livello nazionale, quanto ai livelli regionali. (…).

Risulta necessario un esercizio diverso dei poteri dello Stato centrale e delle Regioni, nella tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, che abbia il suo baricentro nella capacita di chi meglio interpreta, tutela e garantisce quanto previsto nell’articolo 32 della nostra Costituzione. La strada intrapresa con il Regionalismo differenziato presenta, da questo punto di vista, un margine di incertezza in più, una partita aperta, di estrema attualità per gli impatti che può avere su equità, solidarietà e universalità del SSN e quindi sui cittadini». (Ivi, pp. 345-347).

Il testo del VI Osservatorio Civico sul federalismo in sanità 2017, è frutto di più autori. Il primo articolo:  “Quadro generale del Servizio Sanitario Nazionale (SSN)” è stato scritto da Tonino Aceti; secondo articolo: “Prevenzione: vaccinazioni e screening oncologici organizzati” è di Sabrina Nardi; il terzo, intitolato “Liste d’attesa e prestazioni sanitarie intramoenia”, è di Valeria Fava; il quarto, sull’“ Assistenza Territoriale”, non ha autore specificato, come il quinto intitolato: “ Il Piano nazionale delle cronicità”. Il sesto articolo “Farmaci: accesso all’innovazione farmaceutica” è di Alessia Squillace; il settimo: “Il diabete” è di Maria Teresa Bressi. LE “Conclusioni” non hanno autore.

Altri argomenti dalla presentazione dell’ “Osservatorio” citato.

Per alcuni argomenti trattati nell’ ‘Osservatorio’ non ho direttamente ripreso gli argomenti dal testo dello stesso, perché ho ritenuto sufficiente la sintesi presente in: “Presentazione del VI Osservatorio civico sul federalismo, in: https://www.cittadinanzattiva.it/comunicati/salute/11781-presentato-il-vi-osservatorio-civico-sul-federalismo-in-sanita.html), datata 18 ottobre 2018, come la pubblicazione del testo, presentato sempre alla stessa data. «Su tempi di attesa, gestione delle cronicità, accesso ai farmaci innovativi, coperture vaccinali e screening oncologici si registrano disuguaglianze sempre più nette fra le varie aree del Paese. E non sempre al Nord va meglio che al Sud» – si può leggere ivi.

Vaccini

 Nel 2017 sono stati spesi 487,6 milioni di euro (ben oltre i 100 milioni del fondo stanziato dalla Legge di Bilancio 2016). Si tratta del 2,2% della spesa del SSN, che ha visto un incremento del 36,6% tra il 2016 ed il 2017 (gli aumenti più rilevanti sono per l’acquisto di vaccini meningococcici e pneumococcici). Ad eccezione della Toscana, tutte le Regioni hanno presentato un incremento di spesa tra il 2016 ed il 2017. E se le regioni meridionali arrancano sull’adesione agli screening oncologici, sulle coperture vaccinali sono soprattutto quelle del Centro-Sud ad aver raggiunto la soglia del 95%.  Le Regioni che hanno raggiunto l’immunità di gregge, con una percentuale di adesione superiore al 95% per le vaccinazioni anti-polio, anti-difterica, anti-tetanica, anti-pertosse, anti-epatite B e anti haemofilus influenza B sono: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Piemonte, Sardegna, Umbria, Toscana. Per le vaccinazioni Morbillo, Parotite, Rosolia (MPR) solo il Lazio nel 2017 ha raggiunto la copertura superiore al 95%. Sono molto vicini al 95% Piemonte e Umbria. La copertura più bassa su MPR nel 2017, al di sotto del 90%, si registra nella PA Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Marche, Sicilia.

Sul fronte delle vaccinazioni antinfluenzali siamo ben lontani dal conseguimento dell’obiettivo del 75% previsto; la media italiana dell’ultima stagione è stata il 52,7%, circa una persona su due tra quelle che avrebbero potuto beneficiarne. Vaccinano oltre il 60% degli over 65 solo 3 regioni: Umbria, Calabria, Molise. Sfiora il 60% la Puglia.

Test di screening.

Nel 2016 sono stati invitati quasi 6 milioni di cittadini a eseguire il test di screening colorettale. Al Nord gli inviti raggiungono oltre il 95% della popolazione target, al Centro oltre il 90%, al Sud si arriva a poco più del 45%. Variazioni territoriali anche per la percentuale di donne che effettua lo screening cervicale: nel periodo 2015-2016 è più alta al Nord (50,9%, con incremento rispetto al biennio precedente), scende al Centro (37,8%, in diminuzione rispetto al biennio precedente), si riduce ulteriormente al Sud (28%, ma con incremento rispetto al biennio precedente).

Stando agli ultimi dati disponibili, sono 6 le Regioni che non raggiungono il punteggio ritenuto accettabile (9) sugli screening oncologici nel 2016: Calabria e Puglia (2), Campania e Sicilia (3), Sardegna (5), Lazio (7).  Nel 2016 l’80% delle donne di età 50-69 ha ricevuto l’invito ad eseguire l’esame mammografico gratuito (oltre 3.141.894 inviti) ed ha aderito il 56%. L’invito ha raggiunto più di 97 donne su 100 al Nord, poco meno di 93 su 100 al Centro e quasi 51 su 100 al Sud.

Farmaci equivalenti.

Si consumano più farmaci equivalenti nella Provincia Autonoma di Trento, in Lombardia e nella Provincia Autonoma di Bolzano (la spesa sul totale di quella farmaceutica è rispettivamente pari al 39,7%, 37,2% e 32,9%); al contrario la Calabria (15,8%), la Basilicata (16,6% ) e la Campania (17%) hanno mostrato le percentuali di spesa più basse nel 2017.La maggior spesa e consumo per i farmaci innovativi nell’anno 2017 si registra in Lombardia (285,8 milioni di euro), Campania (201,8 milioni di euro) e Lazio (141,3 milioni di euro). Spendono meno Molise con 6,8 milioni di euro, Basilicata con 15 milioni di euro e Umbria con 23,4 milioni di euro. Aggregando i dati, il Nord d’Italia risulta l’area che spende di più (937 milioni di euro), Centro (448 milioni di euro), Sud (841 milioni di euro).

Dai dati del Monitoraggio AIFA sulla spesa farmaceutica nazionale e regionale relativo al periodo gennaio-dicembre 2017, i Fondi per l’acquisto dei farmaci innovativi (oncologici e non oncologici) non sono stati interamente utilizzati. In particolare per i medicinali innovativi non oncologici non sono stati spesi nel 2017 circa 357 milioni, più della metà del Fondo stanziato di 500 milioni; per i farmaci innovativi oncologici, non sono stati spesi circa 91 milioni dei 500 stanziati.
Nel periodo gennaio-aprile 2018, la spesa per i farmaci innovativi non oncologici risulta in lieve diminuzione rispetto allo stesso periodo del 2017, passando da 302 milioni a 283 milioni di euro. In particolare, scende in Lombardia, Campania, Puglia e Piemonte. Cresce invece in Veneto e Emilia Romagna. Cresce invece la spesa per i farmaci innovativi oncologici che passa da 110 milioni di euro a 177 milioni.

Le parole di Tonino Aceti di Cittadinanzattiva sulle proposte di “autonomia differenziata” regionale.

«Si stanno liquidando di fatto i principi di solidarietà, equità e unitarietà del nostro Servizio Sanitario Nazionale. Le proposte di autonomia differenziata, attualmente in discussione, finiranno per differenziare ancora di più l’esigibilità dei diritti dei pazienti. Ad essere fortemente compresse saranno le funzioni del livello centrale, di indirizzo, coordinamento e controllo delle politiche sanitarie e dell’erogazione dei servizi. L’unica vera forma di controllo che continuerà ad essere nelle mani del livello centrale sarà quella sui conti delle Regioni».

(…). « Per questo esprimiamo tutta la nostra preoccupazione e chiediamo al Ministro della Salute l’immediata costituzione di un tavolo di confronto sulle proposte di autonomia differenziata, prima che il Consiglio dei Ministri le approvi, aperto alle Associazioni di cittadini-pazienti e alle organizzazioni rappresentative dei professionisti della salute. Il tavolo dovrebbe valutare la sostenibilità dal punto di vista dei cittadini della proposta, valutarne gli effetti rispetto ai principi fondanti del SSN e al diritto alla salute delle persone, definire i requisiti che le Regioni devono soddisfare per poter avanzare una proposta di autonomia, individuare i giusti contrappesi in termini di controllo e intervento da parte dello Stato centrale. Servono azioni per contrastare e non per aumentare le disuguaglianze in sanità. Chiediamo che sia approvata la nostra proposta di riforma costituzionale che intende ridurre le disuguaglianze in sanità restituendo centralità alla tutela del diritto alla salute nel rispetto del diritto dell’individuo,  la revisione dei criteri di riparto del Fondo Sanitario Nazionale, la riforma del sistema di monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza per garantire veramente un controllo sui servizi e che sia prevista la partecipazione delle Organizzazioni dei cittadini all’interno del Comitato LEA. Urgente è l’approvazione degli standard dell’assistenza sanitaria territoriale come annunciato dal Ministero della salute e l’attuazione uniforme in tutte le Regioni del Piano nazionale cronicità oltre che un piano straordinario sugli screening oncologici organizzati. E sulla prossima Legge di Bilancio servono maggiori risorse per il SSN, oltre al miliardo di aumento già previsto, al fine di garantire l’effettiva attuazione dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza e l’abrogazione del superticket. Tutti impegni assunti dal Governo». (Testi da: https://www.cittadinanzattiva.it/comunicati/salute/11781-presentato-il-vi-osservatorio-civico-sul-federalismo-in-sanita.html).

 

Si ringrazia Cittadinanzattiva per questo ‘Osservatorio’ di grande importanza, anche se le considerazioni ed i dati stanno all’interno della logica di mutamento dell’ intero sistema, voluto in particolare dal governo Renzi, sotto cui vi è stata una svolta epocale, come in Fvg sotto Serracchiani/Telesca ma incominciato prima. Ma questa ‘rivoluzione epocale’ lascia sguarnite le zone periferiche ed i piccoli paesi di una sanità decente, anzi rischia di toglierla del tutto, e la totale  ‘informatizzazione è impossibile per gli anziani, anche per limiti fisici, costi, problemi. Non da ultimo questo testo non parla dell ‘emergenza urgenza e della criticità creatasi con l’introduzione del 112. E rimando ai miei numerosi sul sistema sanitario nazionale e regionale in fvg, su www.nonsolocarnia.info, in particolare all’ultimo mio:

Zac, zac, zac zac, taglia tu che taglio anch’io, il ssn ed il ssr sono quasi collassati? Come fermare la deriva?

Sempre su www.nonsolocarnia.info invito a leggere pure:

Walter Zalukar. Ripensare la sanità regionale.

Comunicato del Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferiche.

Gianni Borghi su: “La nuova proposta per la salute in territorio montano”.

 Anziani ed informatizzazione.

L’immagine che correda l’articolo rappresenta la copertina dell ‘Osservatorio civico sul federalismo in sanità’ 2013, ed è tratta da: http://www.cittadinanzattiva.campania.it/osservatorio-civico-federalismo-in-sanita-rapporto-2013/.

Laura Matelda Puppini.

Monumento ad Ampezzo per i 70 anni della diga di Sauris. Ma perché?

$
0
0

Vi garantisco ch talvolta mi arrovello per capire alcune scelte carniche, ma non riesco a trovare per le stesse una motivazione logica. Per esempio: perché Ampezzo ha deciso di dedicare un monumento al settantesimo della diga per la centrale idroelettrica di Sauris? Ha portato al paese energia a basso costo? Ha migliorato le condizioni di vita degli abitanti del Comune? A me francamente non pare e non consta che gli ampezzani si siano visti cancellare la bolletta dell’elettricità, mentre ritengo che gli abitanti di La Maina non abbiano gioito per la diga, come quelli passati dalle case alle baracche in Val Venosta. «Oltre 60 persone vivevano a La Maina prima della diga» – ricorda nel sottotitolo di un articolo di Tanja Ariis il Messaggero Veneto. (Tanja Ariis, Sauris, ecco com’era il borgo sommerso dall’acqua 65 anni fa, in Messaggero Veneto, 11 marzo 2013).

«Una sessantina di persone […] viveva lì, a cui in estate si aggiungevano le famiglie che avevano stavoli in quella località. Si trattava di una comunità abbastanza vivace. C’erano attività economiche di sfruttamento boschivo e le imprese Nigris e De Antoni lavoravano nei boschi sulle rive del Lumiei e nell’area. C’erano teleferiche, una segheria e due mulini. Già negli anni ’20 gli abitanti di Sauris avevano pensato di costruire una piccola centrale idroelettrica e nel ’23 fu costituita una società idroelettrica saurana, per cui qui gli abitanti avevano già la luce. C’era poi una locanda che era un bell’edificio in pietra: era il primo punto di sosta e ristoro che la gente trovava arrivando a Sauris, da lì arrivavano le notizie più fresche. D’estate ci passavano i pastori con le pecore da portare in malga, di lì passavano boscaioli, commercianti e ambulanti. (…). Prima si chiamava “la Stua” (c’era una chiusa per la fluitazione del legname lungo il Lumiei fino ad Ampezzo), poi prese il nome dalla chiesetta costruita nel 1830 da due sacerdoti del paese. Lo spostamento degli abitanti dalla vecchia borgata fu conseguente al progetto di costruzione della diga fatto dalla Sade i cui lavori iniziarono nel 1941». Chi viveva lì dovette spostarsi più su, costruendo nuove abitazioni. «Ci sono – dice Lucia Protto – alcune foto impressionanti dell’inizio dell’invaso: l’acqua comincia a salire e si vedono ancora i vecchi edifici e sopra si vedono gli edifici nuovi. Dal racconto delle persone emerge il dramma di dover lasciare tutto e veder salire l’acqua» (Ivi) e «una lapide ricorda i 20 operai morti durante i lavori della diga». (Ivi).
Non solo: se si legge il libretto di Gino Piva, ‘Su per Carnia’ si viene a sapere che in località la Maina vi era la confluenza del torrentello Poch con il Lumiei, ed era, allora, prima dei lavori della diga, uno dei più bei riposi «che la vita può concedere». (Gino Piva, Su per Carnia, Aquileia ed. Udine, 1932, p. 83).

In sintesi una parte dell’economia saurana dovette sparire per le concessioni alla Sade, creata e guidata dal veneto Giuseppe Volpi conte di Misurata, pure Ministro dell’Industria sotto il fascismo, e sostenitore della costruzione del petrolchimico di Marghera, che aveva bisogno di energia. E dovremmo dedicare alla diga, simbolo di quella operazione economico finanziaria un monumento?

Inoltre quella diga e le centrali connesse, come quella di Somplago, non condizionarono solo la vita dei saurani, ma anche quella dei carnici in generale. Come infatti non dar ragione al signor Bonolis, quando scriveva al Messaggero Veneto che «In Friuli hanno cominciato le grandi compagnie produttrici di energia idroelettrica (leggi S.a.d.e.) a mettere le mani sull’acqua pubblica, e i risultati negativi non si sono fatti attendere […]. (…). . Non basta: adesso (da alcuni anni) si parla di energia “eco sostenibile”, di nuovo energia idraulica prodotta da piccole centraline, il cui progetti, incentivati con il contributo di “certificati verdi” […] stanno provvedendo a dissecare i pochi residui torrenti rimasti in Carnia […]»? (Giancarlo Bonoris, Torna l’allarme siccità, ma non è un’emergenza che nasce oggi, in: Messaggero Veneto 5 luglio 2017).

Analisi corretta, penso tra me e me, mentre mi ritorna alla mente il “Comunicato del Comitato Acque delle Alpi sulla perdita di corsi d’acqua per speculazione a fini incentivi idroelettrici”, da me postato su www.nonsolocarnia.info il 22 luglio 2016, che così inizia:«La speculazione creata dagli incentivi alle rinnovabili si sta bevendo gli ultimi fiumi e torrenti liberi delle Alpi e degli Appennini; anche gli ultimi, rari corsi d’acqua ancora integri stanno scomparendo inghiottiti dalle condotte di nuovi impianti idroelettrici» (Comunicato del Comitato Acque delle Alpi sulla perdita di corsi d’acqua per speculazione a fini incentivi idroelettrici”, da me postato su www.nonsolocarnia.info il 22 luglio 2016).

Scriveva nel lontano, 1981, quando si ipotizzava la costuzione di una ulteriore centrale idroelettrica ad Amaro, il geologo Lucio Zanier, il suo “Fatti e misfatti S.A.D.E. -E.N.E.L in Carnia e forse una proposta di miglioramenti” Ribis ed.. Sullo stesso si può leggere la prefazione di Marco Marra, che così sostiene: «[…] le acque prelevate dal loro sito naturale, sono state portate altrove, attraverso gallerie e condotte, per soddisfare le richieste crescenti di energia di apparati industriali in espansione. (…). Ma con le acque si allontanarono dai loro siti anche gli uomini e, mentre altrove si affermava un certo benessere (che sarebbe stato pagato però duramente nei decenni seguenti con una catena di risvolti negativi) in Carnia, come in tante zone di montagna, si delineava lo spettro dello spopolamento e il degrado irreversibile del territorio». (Lucio Zanier, Fatti e misfatti S.A.D.E. -E.N.E.L in Carnia, op. cit, p. 9).

Relativamente ai danni derivati dagli impianti idroelettrici S.A.D.E. poi E.N.E.L alla Valle del Tagliamento, di cui fa parte Ampezzo, ed alla Val Degano riprendo sempre da Lucio Zanier. « […] si intende portare a conoscenza ciò che è successo e ciò che sta succedendo nella Valle del fiume Tagliamento dopo che sono state attuate, da parte della SADE, le derivazioni idroelettriche a servizio degli invasi di SAURIS e dell’AMBIESTA. (…). Nella Val Tagliamento e Val Degano si verificarono danni a diverse attività antropiche che si possono sintetizzare come segue: danni all’agricoltura ed ai boschi, al turismo ed all’artigianato […]» (Ivi, p. 22). In particolare Zanier sottolinea che i danni all’agricoltura ed ai boschi e la sparizione di una moltitudine di sorgenti anche in zona Invillino Cavazzo Carnico è da attribuirsi all’ abbassamento della falda idrica a causa del prelievo dell’acqua dal Tagliamento e dai suoi affluenti. (Ivi, pp. 20-30). I terreni risultano inariditi a valle dell’invaso, i greti sono in secca, l’aria ed il suolo, con la captazione forzata delle acque, sono meno umidi, mentre l’acqua non fa più da volano termico, il che incide su vari settori economici, compreso il turismo, mentre voragini si erano allora aperte nei greti del Tagliamento e del torrente Lumiei.  (Ivi, pp. 31-35).  La pesca anche sportiva ha risentito della situazione mentre è sparita pure la sorgente dell’acqua Pudia, vanto di Arta. (Ivi, p. 37). Pesci ed uccelli sono limitati dalla situazione, mentre le attività di ripopolamento ittico, come quella creata ad Enemonzo, non possono più andare avanti. Ed in Carnia, ad un turismo naturalistico, collegato alla ricchezza dell’ambiente naturale, si è sostituito un turismo di massa e consumistico, mentre anche il lago naturale di Cavazzo è stato alterato dalle acque fredde provenienti dalla galleria del lago di Verzegnis, che serva la centrale di Somplago. (Ivi, pp. 38-39). Non da ultimo non si possono dimenticare pesci morti e fanghi causati dai lavori di pulizia del lago di Sauris nel 2013.

E la comunità di Ampezzo vuole erigere un monumento alla diga ed alla centrale, che hanno desertificato la Carnia, tanto che anche anni fa c’era chi parlava di ‘furto’ delle acque?

Ora poi, come non bastasse la captazione dei fiumi, i comuni concedono captazioni anche dei rii, per centraline che producono quasi nulla ed impattano molto sull’ambiente. (Cfr. Dario Tosoni, geologo. La situazione dell’idroelettrico nel Friuli Venezia Giulia, in: www.nonsolocarnia.info).

Mi ricordo il volto del saurano Emidio Plozzer, mio nonno, quando sentì o lesse del disastro del Vajont. Avevano anche lì promesso il progresso, ma poi … (Cfr. Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, Cierre ed).

Tina Merlin, donna da ricordare per il suo coraggio e le sue inchieste, sottolineava come: «Ovunque arriva, la Sade provoca problemi enormi. A Vallesella (Domegge) dove è in costruzione la diga di Centro Cadore, più di cento case rimangono lesionate, e la Sade si rifiuta di pagare i danni. In valle di Zoldo (diga di Pontesei) cade una grande frana. Sul Cismon (bacino del Brenta), dove si costruisce un altro lago artificiale ad Arsié, intere borgate vengono sommerse e gli abitanti fatti sloggiare. Ovunque i contadini vengono espropriati delle poche terre coltivabili nei fondovalle, e costretti ad emigrare». (http://temi.repubblica.it/corrierealpi-diga-del-vajont-1963-2013-il-cinquantenario/tina-merlin-partigiana-comunista-giornalista/).
E se fosse stato per qualcuno, si sarebbe dovuta costruire anche la centrale di Amaro, per fortuna da altri osteggiata. (Cfr. Nort, e Lucio Zanier, op. cit.).

Insomma quel progetto idroelettrico realizzato dalla S.A.D.E. del veneto Giuseppe Volpi conte di Misurata, di cui il lago artificiale di Sauris e la diga costruita per crearlo fanno parte, non ha certo portato progresso in Carnia, ma invece l’ha depauperata, da che si sa. E se erro correggetemi. Inoltre si era costituito in Friuli l’Ente autonomo Forze Idrauliche in Friuli , di cui faceva parte anche il gruppo delle Cooperative Carniche, che cercò invano di utilizzare l’acqua nostra per noi, ipotizzando un impianto idroelettrico realizzato in proprio, che sfruttasse il Tagliamento, contro gli interessi di ricchi e potenti. Basta leggere il coraggioso intervento di Vittorio Cella al IV congresso forestale italiano, nel 1921, per capire molte cose. Ed allora Vittorio Cella poté prender la parola solo perché lo richiese insistentemente Michele Gortani, che cercò di mediare, ma quando si tratta di forti interessi economici, mediare è davvero difficile. (Cfr. Laura Matelda Puppini, Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le Cooperative Carniche (1906- 1938), Gli Ultimi, 1988, pp. 175-191, in: www.nonsolocarnia.info).

Ed allora perché un monumento ai 70 anni dalla costruzione della diga?

Perché siamo masochisti?  Non lo credo proprio.

Per copiare, nei festeggiamenti, l’Università di Udine, che si è presa una vecchia turbina di a2a, nuovo padrone della centrale di Somplago e di Ampezzo, con grande pompa? (“All’Università di Udine turbina centenaria donata da a2a. Dal 1916 al 2014 in funzione nella centrale idroelettrica di Campagnola, a Gemona del Friuli”, in:https://qui.uniud.it/notizieEventi/ateneo/all2019universita-di-udine-turbina-centenaria-donata-da-a2a). Per fortuna che hanno cambiato la turbina, penso tra me e me. E secondo Dario Tosoni, che ho ascoltato a Tolmezzo il 6 dicembre 2017, di dovrebbe aprire un discorso anche sulla vetustà delle turbine e loro rendimento, ma questa è altra storia.

Per ricordare un impianto che «utilizza parte delle acque dell’Alto Tagliamento ed affluenti, da quota 980 mslm con un salto di 480 m., inaugurato il 30 marzo 1948, ed intitolato a Giuseppe Volpi? (https://www.a2a.eu/it/gruppo/idroelettrici/impianto-ampezzo). Ma a2a mica è carnica, è lombarda, ed i suoi guadagni mica ricadono sul nostro territorio!

Perché ha dato lavoro ai nostri? A quattro per un po’ di tempo, a fronte dei danni ambientali descritti da Zanier ed altri. Poi, per essere precisi, chi ha dato lavoro sono state le imprese, che dovevano costruire la diga, per esempio mi pare la Rizzani, ed ai più per breve periodo, e molti lavori sono stati fatti dai prigionieri di guerra neozelandesi. (Cfr su www.nonsolocarnia.info, il mio: Terremoti del 1976, ricostruzione museo Gortani e campi di prigionieri militari alleati a Sauris ed Ampezzo, uniti in un’unica storia, )

Per vendere un po’ di polenta e frico, nel segno del nuovo turismo? Per quello basta una sagra.

Il Messaggero Veneto di ieri, intitola poi un pezzo di Gino Grillo: “Monumento all’energia per festeggiare i 70 anni della diga del Lumiei”, e qui mi perdo io, perché l’energia può esser anche umana, e quindi il tutto diventa ancor più oscuro. Utilizzavano la loro forza anche i neozelandesi, che lavoravano di ‘pala e piccone’, dimenticati finché loro stessi, pur davanti alla scarsa riconoscenza locale, si fecero vivi regalando un’ingente somma nel post terremoto, utilizzata per il MuseoCarnico. (Cfr. il mio “Terremoti del 1976, op. cit.).

Insomma si può sapere che sta succedendo in Carnia?

Scrivo quanto solo per cercar di capire, senza voler offendere alcuno, e mi piacerebbe avere una risposta e sentire la vostra opinione.

___________________________

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta solo per questo uso, da: https://it.wikipedia.org/wiki/Diga_di_Sauris

Laura Matelda Puppini nipote di Emidio Plozzer, saurano.

 

 

Marco Lepre. Programma manifestazioni per i vent’anni di Campi Legambiente in Carnia: 27 e 28 ottobre 2018.

Sentieri e percorsi di vita materiale, civile, partigiana. In occasione dell’inaugurazione del sentiero Feltrone – Astona, ed i vent’ anni di campi Legambiente/Carnia.

$
0
0

Telefono a Marco Lepre per altro motivo, ed egli mi chiede di parlare di percorsi partigiani in occasione dei 20 anni di Campi Legambiente in Carnia, dato che hanno riaperto un tratto di un sentiero che porta da Feltrone ad Astona. Accetto senza problemi, anzi lo ringrazio per l’occasione datami,  ed egli dice di essere favorevole alla mia proposta di dedicarlo all’Ors di Pani. Si sarebbe potuto intitolarlo anche a Vitale Azoto di Enemonzo, il comandante Nitro, ma qui siamo ancora alle ‘leggende metropolitane’ sui partigiani, che li descrivono, più o meno, come l” uomo nero collettivo’, e pare che solo nominare un partigiano possa creare un casus belli, invero non si sa perchè, dato che i combattenti per la Liberazione lottarono per cacciare il nazista invasore e la dittatura fascista, soffrendo non poco. Così ho preparato per l’incontro e per voi queste righe. 

Cartina della zona dove si trova il sentiero ripristinato da Legambiente. Feltrone Duredia ed Astona sono sottolineate in viola. Da Carta Tabacco 013.

«Percorsi di vita …

Sentieri, percorsi per spostarsi da una località all’altra: un tempo lontano tutti conoscevano quelli del proprio comune e dei comuni limitrofi, e li praticavano, come quelli ‘scorciatoia’, per non rendere troppo lungo il tragitto. Così Giovanni Marzona, partigiano osovano, per raggiungere, da Invillino, la località Salvins, oltre Vinaio di Lauco, dove si trovava il comando del suo battaglione, il Carnia, non faceva, come del resto altri, grandi giri ma andava diritto ai casolari Pilùc, raggiungendo quindi Cuelcovòn e lasciando a sinistra Lauco, per portarsi, poi, sotto Vinaio ed infine a Salvins. (Giovanni Marzona. Io giovanissimo partigiano osovano del btg. Carnia. Intervista di L.M. Puppini, in: www.nonsolocarnia.info).

I sentieri erano tragitti di tutti e per tutti, un tempo, ed in tal senso sarebbe improprio parlare di percorsi solo ed unicamente partigiani, perché i giovani carnici che aderirono alla resistenza al tedesco invasore ed occupante, che erano centinaia, (Laura Matelda Puppini, 472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne che scrissero la storia della democrazia, operativi in Carnia o carnici, in: www.nonsolocarnia.info) si muovevano tra boschi e cime come avevano appreso dai loro vecchi, da padri e madri: un tempo certe vie erano da tutti praticate: vuoi per portare a casa un animale ucciso, vuoi per una raccolta di erbe o mirtilli, vuoi per recuperare una sufficiente scorta di legna per riscaldarsi l’inverno.

Mina di Ludaria di Rigolato. Foto di Alido Candido.

E mi sovviene quanto ho scritto relativamente a Mina, mia cognata: «Mina ha un gerlo con cui affronta la salita […], Mina non torna mai dalla montagna a mani vuote: mirtilli, lamponi, legnetti, radici di rabarbaro, semi di comino, funghi, sono il suo raccolto. Non è per lei importante quanti chilometri fa, quanto sale, ma quanto realizza. Mina non si pone il problema del piacere di andare in montagna: la montagna è la sua vita, è fonte di cibo e legno, è l’ambiente che conosce sotto forma di salite, discese, rocce, boschi, sorgenti, radure, cime, […]. Mina non ha scelto la montagna, è nata in montagna […]. Mina calcola i tempi, orientandosi anche con il sole, […]; Mina sa apprezzare un bel tramonto, il colore dei fiori, l’odore del bosco, il rumore di un ruscello, il canto degli uccelli, il battere del picchio e teme le vipere, le zecche, la notte, i temporali improvvisi, quelle nubi nere che compaiono nel cielo, il rombo di un sasso che si stacca». (Laura Matelda Puppini, Cortomontagna. La montagna di Mina, la montagna di Lucas, in: www.nonsolocarnia.info).

È in questo modo che i giovani partigiani (ed anche le giovani partigiane, naturalmente), conobbero la montagna ed i suoi tracciati, andando, bambini e ragazzetti, a far fieno con le madri, le zie, le cugine, andando a caccia, partecipando alla raccolta dei frutti che la natura donava e della legna, il cui taglio era rigorosamente normato. Ma da partigiani dovevano muoversi, in particolare prima e dopo la Zona Libera di Carnia e dello Spilimberghese, attenti ad ogni segno lasciato, anche un getto di urina o feci sul terreno. Come i cani da caccia sanno evidenziare tracce di questo tipo per gli animali, così i cani dei tedeschi le riuscivano a trovare per i partigiani, marcando un segnale preciso della loro presenza. Conoscevano le loro montagne i partigiani carnici, ne conoscevano spesso gli anfratti, i percorsi, le potenzialità, i limiti.

Percorsi partigiani.

Anche se è improprio parlare di ‘percorsi’ solo partigiani, è però vero che lo furono principalmente quelli che portavano alle basi partigiane, sia osovane che garibaldine, ai rifugi, ai nascondigli, anche se bisogna differenziare i tempi della Zona Libera di Carnia e dello Spilimberghese dal poi. Fu sicuramente base e rifugio partigiano Malga Avedrugno, di proprietà, allora, di Umberto de Antoni, data alle fiamme nel marzo 1945; fu luogo di incontri partigiani e rifugio il Monastero Bonanni di Raveo, fu luogo di transito e soccorso ai partigiani, grazie al suo custode GioBatta Bernardis, la stazione d’angolo della teleferica S.A.D.E., che serviva per la costruzione della diga di Ampezzo. Ed il Pura fu luogo di passaggio e transito, come l’altopiano di Lauco strategicamente posto, che apriva la via anche allo spostamento nell’ovarese. E luoghi partigiani furono Trist Cjamp e Cjas. E furono basi partigiane Muina e Mione, con le rispettive vie d’accesso, nel lungo inverno ’44-45. L’ampezzano, poi, era costellato da rifugi invernali, tra cui ricordiamo la cosiddetta ‘grotta’ Zagolin, il rifugio di Nauleni, ma ce ne sono altri, mentre praticatissima fu, in particolare durate l’estate 1944, la via che portava al passo di ‘Mont di Rest’ e quindi a Sequals, Tramonti ed alla val Tramontina. Ma in alcuni casi i partigiani non percorrevano sentieri, ma si arrampicavano nel fitto bosco, per far perdere le tracce, e potevano mutare percorso all’ ultimo momento, o potevano muoversi, come fece Mario Candotti, ufficiale del R.E. I., per mettere in salvo i vertici della Garibaldi Carnia e Mario Lizzero, Andrea, muniti di carte militari, binocolo, bussola, ed accompagnati a tratti da partigiani del luogo. Egli guidò il gruppo comando ed altri da Frassaneit, in val Tramontina al monte Pura in più giorni, seguendo questo percorso che vi indico, e fermandosi in basi partigiane.

Prima giornata. Frasseneit- Malga Giavons – Passo di Frascola (1520) –  Casera Chiamps. (sic. Ma ora Chiampis)  –
Seconda giornata: malga Chiampis –  Malga Tamaruz  – casera Mugnol, dove si trovava anche la missione americana. –
Terza giornata. Casera Mugnol – forcella Mugnol (1392 m) – Malga (ora casera) Venchiareit (dove c’era un ospedaletto partigiano e si trovava Vera Fazutti) – malga Agâr.   
Quarta giornata. Malga Agâr -valletta rio Bus (affluente del rio Negro in territorio di Ampezzo). Ma vedendo segni di passaggio di nemici, Candotti decide di seguire il corso del rio Vojani. Da qui guida i suoi a malga Chiavalut (1572 m) e colle Chiavreas. Verso sera, al calar del sole, i partigiani passano il greto  del Tagliamento e boschi, per portarsi in località Sant’ Antonio, quindi al torrente Auza ed alla baita di Cuel dai Giai.
Quinta giornata.  Baita a Cuel dai Giai – fienili di Navroni (anche Navrone) – Brutto Passo (1935 m) (4) – sella di Montovo – discesa Salaria – malga (ora casera) Tintìna. Poi l’ultima tappa da malga Tintìna al Pura, alla stazione d’angolo della teleferica Sade Ampezzo – La Maina. (Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa naia guerra resistenza, ed. I.F.S.M.L. ed A.N.A., Pn., 1986, pp. 220- 238).

Località Nauleni. Al centro Mario Candotti, prima dell’8/9/1943 ufficiale del R. E.I (campagne di Grecia e Russia), poi comandante della divisione Garibaldi Carnia.

Come si vede i percorsi potevano essere relativamente brevi, come nel caso del sentiero Feltrone – Astona, o lunghissimi. Interessante è una considerazione di Mario Candotti, nel descrivere questo lunga marcia, come egli la definisce, tra salite erte e discese, neve e freddo: quando giunge alla sella di Montovo, si sente a casa e scrive: «Ora non ho più paura di sbagliare sentiero, né difficoltà a trovare la giusta direzione di marcia. Sono in zona conosciuta alla perfezione: già da bambino con mio padre e mio fratello Dante passavo per questi sentieri o mi inoltravo per questi boschi, per cui ogni albero, ogni spuntone di roccia, ogni cima mi sono familiari …». (Ivi, pp. 236-237).

Per quanto riguarda la zona ove si trova il percorso riaperto da Legambiente, Romano Marchetti, la cui famiglia materna era originaria di Maiaso, ricorda, fra i percorsi partigiani, i sentieri per portarsi al Navarza ed in Pani, a Losa, Forchia ed al Pieltinis nell’ampezzano saurano; a Casera Sciarsò, alla mont Freida, a Nolia, Valdie, Saustri, Astona. Tragitto partigiano era anche la via che passava per Raveo, Muina, Agrons, Ovasta, per raggiungere Pradumbli, e quella che portava a passo Coladôr, e in zona Lieur, per poi raggiungere Forni di Sotto ed infine Sauris. (Marchetti Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013).

Partigiani carnici. Dal volume di Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa.

Giovanni Marzona, invece, ricorda le basi partigiane del battaglione osovano Carnia: Allignidis e Cuelcovon in zona Lauco, ed il sentiero che porta da Cesclans a Villa di Verzegnis passando per Doebis. (Giovanni Marzona, op. cit.). Ma basta leggere gli articoli di Mario Candotti sulla Resistenza carnica in Storia Contemporanea in Friuli per farsi una idea precisa delle basi e dei tragitti partigiani. Mario Candotti ricorda come basi invernali: Mione, Palaribosa, Monfredda, La Salina, Forni di Sopra, Pezzuella, Lavreit, Tolvis, Rio Vaglina,  Cuesta Vinadia, Casera Malins, Feltrone. (Mario Candotti, La lotta partigiana in Carnia nell’inverno 1944-45, in. Storia Contemporanea in Friuli, ed. I.F.S.M.L., n. 11, 1980., pp. 67-69).

Anche il sentiero ripristinato da Legambiente fu sicuramente percorso da partigiani che si portavano da Feltrone, ove spesso si rifocillavano da Ida e Gioconda (Durigon per Marchetti, Danelon per Marco Lepre), e base partigiana nel lungo inverno 1944-45 (Ivi, p. 68), ad Astona, il cui casolare fu bruciato perché i cosacchi pensavano fosse ricettacolo di partigiani o punto di appoggio.

L’Ors di Pani.

Dedichiamo questo sentiero ad Antonio Zanella, detto l’Ors di Pani, nato ad Amaro il 10 gennaio 1887, figlio di Tomaso, malgaro e contrabbandiere, detto l’Ors dell’Amariana, approdato in Pani, alla ricerca di terre da sfruttare, che poi lasciò al figlio, che prese per l’appunto, il nome di ‘Ors di Pani’.

L’Ors di Pani. Immagine datami da Romano Marchetti.

Così Danielle Maion descrive l’Ors: «Antonio parlava poco e aveva un aspetto singolare: lunga barba incolta e rossiccia, capelli lunghi e disordinati, sopracciglia molto folte, fisico imponente e viso scarno, indumenti grezzi.».  (Danielle Maion, Il Patriarca di Pani, in In Carnia, n. 1 marzo 2014). Uomo in alcuni casi poco disposto verso gli altri, in particolare verso i familiari, era invece in altri casi davvero generoso, (Ivi), e di lui così ci parla il comandante partigiano, docente e uomo di cultura Ciro Nigris:

«L’Ors è stato veramente uno dei personaggi più significativi della Resistenza. Aveva sempre, per tutti, qualcosa. E ci diceva: “Vi do mucche ma non pecore. Perché quando arrivano i Cosacchi mi portano via le mucche, ma con le pecore vado io, in montagna. E nessuno può prendermi, sulle mie montagne”. Avrà avuto un centinaio di pecore.
Era un uomo molto ricco, l’Ors. Era un uomo che faceva rendere questa sua azienda, che era veramente un’azienda modello, anche se con mezzi che ora definiremmo primitivi. Ma l’aveva fatta in modo che rendesse moltissimo. I suoi formaggi finivano tutti da Umberto De Antoni, che li apprezzava al punto tale da quasi monopolizzarne l’acquisto, e fu, per noi, veramente un padre.
Lui ci alimentava. Ha dato anche al mio reparto una mucca, l’abbiamo uccisa, e poi l’abbiamo fatta a pezzi. E ci ha dato il suo formaggio ed anche il suo sidro. Ma tutte le formazioni sono passate di lì. Pani era al centro.  Da lì ci si muoveva in ogni direzione. Tutti si fermavano lì, anche i cosacchi, che gli hanno fatto fare una vita mica da ridere! Ha rischiato veramente la fucilazione. Poi si arrendeva e, per salvarsi, diceva: “I partigiani mi portano via tutto”. 

Era così … l’Ors di Pani. Uomo da ricordare nella Resistenza. Figura singolarissima, storica. E uno pensa, magari, che l’Ors fosse un omone, ma invece no. Non era più grande di me. Aveva una divisa sporca, ed era sempre in maniche di camicia. E non si metteva su la polenta, lì, se non c’era lui, per la famiglia. Era uno ferrigno! Generoso con noi, […] addirittura commovente e dagli occhi affettuosi. “Biaz fruz. (Poveri ragazzi)”. Così ci diceva: “Biaz fruz!”. Ed era molto, molto attento ai nostri bisogni. Era veramente un uomo singolare.
Era un polo di passaggio obbligato: di lì si doveva passare. E lui aveva sempre qualcosa da dare da mangiare. Dava le cose essenziali, e le dava come risultato di una disposizione all’affetto, sempre avuta anche prima della Resistenza. Io so che questa predisposizione l’aveva avuta già prima, con altre formazioni non partigiane ancora.  Bella figura, morta tragicamente, però». (http://www.nonsolocarnia.info/ciro-nigris-il-comandante-carnico-garibaldinomarco-io-ufficiale-del-r-e-i-passato-alla-resistenza/).

L’Ors di Pani e la figlia Maria furono uccisi il 6 marzo 1955 da Romano Lorenzini, per vendicare un affronto, a suo dire, subìto, perché accusato della rottura di un sottopancia di un mulo e di aver recapitato una lettera. La figlia seguì la stessa sorte del padre perché si era unita al genitore nei rimbrotti al giovane. Questo risulta dagli atti processuali. (Cfr. Danielle Maion, op. cit.).

Anche Romano Marchetti ricorda l’Ors, la cui casa/casera era ricettacolo per i partigiani.

L’Ors di Pani da: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Ors_di_Pani.jpg#/media/File:Ors_di_Pani.jpg

«Nel fitto nevicare della sera ottobrina, sbuca una forma che scende dal dosso, che si fa poi figura. Un mulo porta un uomo che vi ciondola sopra. È Pierino Bidoli, osovano, quasi distrutto da una grave sinusite. Trova ricetto e conforto nella camera di Toni, “l’Ors di Pani”, nella cui cucina, intorno al fuoco che esce dal buco dell’acciottolato, c’è una massa di partigiani bagnati, stanchi ed affamati e, negli occhi, l’ombra del futuro.

Uno di questi, un tolmezzino molto alto, ha una larga benda chiara sulla fronte, sino alla radice del naso. (…). Una capace ‘cjalderie’ nera, morsa dal fuoco che vi si arrabbia tutt’attorno, affascina quegli occhi, facendo dimenticare che, nelle vali tutt’attorno, si sono ormai insediate le truppe cosacche.
Toni si arrabatta ad armeggiare con il mestolo, mentre il fiume di fumo, sotto il quale stanno curvi gli uomini, esce dalla porta vuota dello specchio superiore.
Toni ora si alza; c’è un gran rimescolio di gente intorno al fuoco perché la “mussa” deve portare lungi dal fuoco, girando sul perno, il pentolone con la polenta.
Nelle mani di ciascuno ora cade la mestolata che l’ospite, come stesse officiando, distribuisce con scrupolo di giustizia, dopo averli contati.
Si siede fra i due comandanti: Tredici e da Monte; consegna loro la razione e fa scomparire, fra baffi e barba rossi, divaricati al massimo, un grosso boccone di polenta.
Quindi viene il turno dei cani: due grossi lupi feroci, che egli ha rabbonito verso gli estranei. La femmina è quella che sfibrava il palo cui era legata per la rabbia di non poter mordere polpacci e sedere, ai due “dispersi” che, un anno prima, aspettavano, alla porta dello stavolo, con la ciotola in mano, il caldo latte.
La mezza porta si apre: velocissimo, con una camicetta bianca sopra il culetto nudo, schizza fra le gambe dei presenti un coso un po’ più grosso di un gatto, un bimbetto, che ha di un gatto le movenze.
Espropria il boccone di cibo dalle fauci della lupa che ringhia nell’attonito silenzio generale, e poi riguadagna la porta e la neve.
Toni da di gomito a Da Monte ed ha gli occhi ridenti ed orgogliosi: “Astu iodut il fî da l’omp?” È l’ultimo suo nipote. (Romano Marchetti, Intermezzo sull’ Ors, inedito).

Pani anni ’80. Foto di Laura Matelda Puppini

Romano Marchetti l’ufficiale osovano Cino Da Monte, gli ha dedicato all’Ors un libretto stampato in copie limitate, che riporta, pure, la descrizione delle immagini che gli affollano la mente mentre lo vede composto nella bara: «Giù il cappello! È morto L’Ors di Pani. Partigiani… venite…portiamo in trionfo Toni Zanella; in trionfo portiamolo in cimitero…[…]». […]». (Romano Marchetti, l’Ors di Pani, Editrice la Lontra, 30 copie numerate, gennaio 1993).

E così ricorda Toni, l’Ors: «Egli mastica tabacco: è un passatempo che ogni tanto egli si concede, ma è un lusso; […]. Guarda tutti lungo l’intero orizzonte delle ciglia, con il capo abbassato al suo solito modo; il sorriso può anche essere nella barba e negli angoli degli occhi; l’ira può anche essere negli occhi e nella bocca sepolta. (…). La sua voce rimbomba nel cavo del portico riempito di luna e larve (…); dietro gli abeti compatti svettano, più neri.”.
«Tu pesavi il formaggio che Anna ti porgeva […]. Tu pesavi la misura, la giusta misura nel freddo vestibolo della casera mentre fuori il caldo sole di settembre illuminava con gli ultimi raggi, […]  la meravigliosa valle del Tagliamento. Tagliavi e pesavi sul grande tavolo, amministrando con il sudore rappreso la tua giustizia (…).
Così ora soltanto è possibile capire perché tu non chiedessi il prezzo che tutti gli altri pretendevano. Capisco perché tu non volessi mai regalare; perché tu vendessi al prezzo infamante di ammasso, tu non facevi commercio, vecchio mio Orso, […]». (Ivi). 
Infatti l’Ors, secondo Romano Marchetti, sottoponeva chi andava da lui per avere un formaggio, dichiarandosi povero, ad un vero e proprio terzo grado, e se riteneva che lo fosse realmente, glielo vendeva per ‘un bianco ed un nero’. (Ivi).

Ed intorno al corpo dell’Ors a Marchetti par di vedere le figure di partigiani, garibaldini ed osovani, vivi e morti, con cui avevano condiviso lotta e paura. (Ivi). E mormora tra sè e sè: «Caro Ors, eroe, se così si può dire, proprio della resistenza, simbolo di libertà sconfinata, anche se un poco scettica ed un po’ spregiudicata». (Nota inedita di Romano Marchetti. Sull’ Ors di Pani esiste anche una tesi di laurea di Ialria Toscano, L’ Ors di Pani tra mito e realtà, relatore Giampaolo Gri, a.a. 2009-2010).

 

Località Valdie. Foto di Laura Matelda Puppini 2015.

La battaglia di Pani di Raveo.

La zona dell’Alto Tagliamento, in cui è posto il sentiero che oggi viene intitolato dopo esser stato efficacemente riaperto da Legambiente, che ringraziamo per questo gratuito lavoro, che rende lustro alla nostra terra, fu centro di lotta partigiana e di rifugio dei combattenti in particolare Pani, ove avvenne la nota battaglia che permise ai partigiani carnici di aprirsi una via di ritirata.

Infatti i territori della Carnia furono, per il movimento di Liberazione, sede di basi, percorsi, azioni flessibili, di campi di addestramento come quelli di Cuel Budin, Cuel Taront, Cuel di Nuvolae, e di due o tre vere battaglie, condotte con il metodo della guerriglia, come quella di Pani, di Mont di Rest, di Verzegnis, spesso ad opera del battaglione Friuli/Carnia, comandato dall’ex ufficiale dell’esercito Jugoslavo, Mirko. Questi era stato catturato nel corso dell’invasione nazifascista al regno del re Pietro, ed era finito in campo di concentramento a Padova, per poi esser liberato dopo il 25 luglio. Con ‘Diego’ Italo Mestre, aveva risalito pianure e colline ed era giunto in Carnia, per unirsi alla resistenza. Mirko però era gravemente malato di tisi, e così al suo posto poteva comandare Azoto Vitale, nome di battaglia Nitro, di Enemonzo, che poi ne prese il posto. Commissario politico di detto battaglione era Tranquillo De Caneva, di Trava, sergente maggiore in Abissinia e reduce di Russia, poi noto sindacalista e politico.

Non posso dilungarmi su detta battaglia, che durò dal 17 al 20 novembre 1944, quando la neve era già alta, dico solo che, in ritirata dall’avanzata cosacca, i partigiani sia garibaldini che osovani, si erano radunati in zona Pani- Valdie e nei dintorni della casera dell’Ors, che rischiava di diventare un ‘cul de sac’. Informati dal Servizio informazioni, diretto da Vincenzo Grossi, che i cosacchi volevano liberare Pani dai partigiani, i garibaldini del btg. Friuli si preparano a combattere, anche per aprirsi una via di ritirata verso Mont di Rest, mentre gli osovani scelsero di non combattere, perché troppo rischioso ed anche perché aderivano al proclama Alexander. Il primo attacco partigiano, prevenendo il nemico, venne portato, il 17 novembre, al nucleo cosacco di Raveo, di notte, giungendo da Valdie- stavoli di Laurisce. Fuggono i cosacchi, colpiti dagli sten e dai mitra, e si attestano ad Esemon di Sopra e Villa Santina. Il 18 passa calmo, mentre i partigiani si collocano su 5 postazioni: la 1 a Cuel di Cur; la 2 sotto Ruvis Blances alla testata di costa di Muina; la 3 vicino al casolare di Cul di Pani; ei pressi del Rio Fieris; la 4 allo stavolo Cervias, la 5 alla Forca di Pani.

Le 5 postazioni (in verde) da cui il battaglione Friuli/Carnia dette la battaglia finale in Pani. (Da Tranquillo De Caneva, op. cit. poi, cartina n. 5).

Dal 19, giorno in cui i cosacchi attaccarono a loro volta, al 20 novembre, la battaglia seguì diverse fasi, leggibili sul testo di Tranquillo De Caneva “La battaglia di Pani di Raveo”, in: Il Movimento di Liberazione in Friuli, anno 1 n.1, pp. 23-44.

Nel corso dell’azione militare, i cosacchi bruciarono, come ho già ricordato, il grosso casolare in Astona, ma non toccarono, dopo la battaglia, né il casolare Fabris, in Pani, dove stava il comando brigata garibaldino, proprietà dell’Ors, né altre casere abitate, sottoponendo però la popolazione della zona a prepotenze, angherie, furti di bestiame e formaggi.
Il battaglione Friuli aveva, con la battaglia di Pani, aperto una via di fuga, lungo la quale continuò a combattere mentre si ritirava verso Rest, mentre il nemico attaccava ora da una parte ora dall’altra. (Tranquillo De Caneva “La battaglia di Pani, op. cit.).

Poi il dopoguerra.

Poi il dopoguerra ed una nuova economia che si affaccia, meno legata al territorio ed alle sue potenzialità.

Ora alcuni sentieri sono poco visibili, nascosti dal tempo e dalla vegetazione e possono esser stati modificati, risucchiati o interrotti da nuove vie di comunicazione, da dighe, o da manufatti. Anche il sentiero di cui parliamo oggi, da che mi narrava Marco Lepre, era ormai percorribile solo per una parte, e quindi egli ed altri dovettero cercare l’ultimo tratto, presente anche sulla mappa della Tabacco, battendo sul terreno innevato per reperirne la traccia. 
E con sentieri e luoghi, capanni dei cacciatori, casere e ‘stavoli’ abbandonati, rischiano di sparire toponimi e tracce di storia.

Ora ci stiamo dimenticando sempre più della montagna di Mina, e la viviamo solo come palestra di agonismo alpinistico. E stiamo perdendo non solo toponimi ma anche il nome dato ai terreni intorno alle malghe basse ed alte, in base al loro uso, il nome di foglie e fiori che stanno sparendo, stiamo perdendo il concetto di cura del territorio sostituito dal suo mero utilizzo contingente, stiamo perdendo sorgenti e fiumi, rii e ruscelli, non solo nel nome. Dobbiamo salvare la nostra storia che è anche storia di nomi, di luoghi e del loro utilizzo, per conoscere e per far conoscere, e dobbiamo salvare il nostro ambiente, già così compromesso.

Fiori nei prati tra Ligosullo e Valdaier. Foto di Laura Matelda Puppini 2017. 

Ma purtroppo pare che siamo ancora all’ interno di una logica che ha caratterizzato gli anni cinquanta- settanta, ove il territorio doveva essere in funzione dei foresti, che avrebbero dovuto portare benessere e progresso. Si è visto, poi, che non è stato così. Ma si persevera, accettando che i nostri monti, sentieri, territori, siano violati da moto rombanti, con o senza targa, e da auto da rally, ben poco curandosi non solo dei danni ambientali e paesaggistici, ma pure dei possibili danni alla salute della popolazione locale.

Grazie a chi ha voluto riaprire questo sentiero perché sia goduto a piedi, non certo dai nuovi vandali in moto o senza moto, e grazie a chi ha lavorato proficuamente con la motosega, grazie perché si spera che da qui si possa continuare la conoscenza e la riscoperta della nostra storia e del nostro territorio».

Due parole sull’incontro per ricordare i vent’anni di campi Legambiente in Carnia.

Oggi, 27 ottobre 2018, si è tenuto, al mattino, nella sala dell’Uti della Carnia, ex Comunità Montana, l’incontro per fare il punto sui vent’ anni di campi di Legambiente in Carnia, su cui metterò due righe non appena Marco Lepre me le fornirà. Quello che mi ha stupito è la quasi totale assenza di politici, (se non erro erano presenti due sindaci e Lino Not) non uno in rappresentanza del Comune di Tolmezzo, non uno per l’Uti, eppure Marco ed altri si sono sempre fatti in quattro, da volontari, per far conoscere in Italia, attraverso i Campi di Legambiente, il nostro territorio carnico (ed infatti stamane, fra i non molti presenti, vi erano anche un giovane venuto da Torino ed una signora del Salento), e si sono prodigati a pulire discariche ed a raccogliere in sacchi le immondizie ( ma francamente mi verrebbe in mente il termine’ le merde’), che una banda di locali e non, (accomunati nel motto “ma chi se ne frega, io sono io, e faccio quello che voglio” che li unisce pure a certi motociclisti) continuano a spandere sul nostro territorio. Questo è il grazie anche dei politici, penso fra me e me. Non abbiamo potuto poi neppure proiettare le immagini che avevamo preparato, perchè l’ufficio preposto non ha fatto presente a Marco Lepre che doveva chiedere i mezzi tecnici per farlo, non c’era giornalista alcuno, che io sappia, e via dicendo. E scusatemi questo sfogo personale, ma io credo che si dovrebbe apprezzare chi lavora per il territorio, lo sponsorizza, e lo pulisce, gratis. Ed ancora un pensiero: se fosse stato un incontro di chei dal balon, sarebbe finito così? Non da ultimo, Marco Lepre ricordava oggi che il 75% delle spese o più, per i campi deriva dalle quote associative dei partecipanti all’iniziativa, e che centinaia di giovani hanno partecipato ai campi, in vent’ anni. Senza offesa per alcuno.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo, è stata scattata nel corso dell’ incontro da Alido Candido e ritrae Marco Lepre, presidente di Legambiente Carnia, con a fianco Sandro Cargnelutti, presidente Legambiente Fvg, mentre sta parlando Giulio Magrini. C’ero anch’io, ma in questa immagine non compaio. Laura Matelda Puppini 

Considerazioni sull’alluvione in Carnia e su alcuni problemi non solo carnici, mentre fuori ha ripreso a piovere.

$
0
0

Piove ancora su questa Carnia martoriata da un vero e proprio alluvione, che mi porta a fare qualche amara considerazione sulla scarsa cura del territorio e sulla politica dell’idroelettrico.

Domenica 21 ottobre ero con altri al lago di Cavazzo Carnico, alla manifestazione indetta da Patto per l’Autonomia e dai Comitati Salvalago, per ascoltare e gridare un no deciso allo sfruttamento indiscriminato del territorio montano e delle sue acque, tra centrali e centraline, ed un sì altrettanto deciso per la rinaturalizzazione del lago di Cavazzo, per la creazione di una una agenzia regionale per l’energia, e per la manutenzione delle zone montane. Eravamo quattro donne a portare lo striscione ““Per la tutela dei territori di montagna” che apriva il corteo, tre carniche ed una referente per il bellunese.

La giornata era soleggiata ma spirava un vento deciso, poi attenuatosi, e le voci sugli effetti della siccità persistente si rincorrevano …. «Pare che non abbiano neppure acqua sufficiente per far funzionare tre turbine a Somplago… forse neppure per farne funzionare due…»; «Pare che vogliano portare il gas fino alla centrale …», tanto il metanodotto passa già per il comune di Cavazzo Carnico. «Il clima è cambiato», era sulla bocca di tutti, oratori e non, come il dovere di opporsi alla richiesta di sfruttare ogni minimo corso d’acqua, ruscello o sorgente, per produrre davvero poca energia, ma con un impatto certo sull’ambiente. Ma il problema dello sfruttamento indiscriminato di ogni rio, con la scusa che l’acqua come fonte di energia è considerata ‘rinnovabile’, unisce la Carnia al bellunese e non solo.

Ж

Un torrente, il Talagona, «scorre spumeggiante sul fondo di una valle intatta. – si legge su di un articolo in www.peraltrestrade.it – Tutt’attorno cime di dolomia principale si ergono ardite dal bianco dei ghiaioni e dal verde delle abetaie. Su questo angolo di paradiso incombe un progetto di sfruttamento idroelettrico – uno dei 2000 presentati negli ultimi anni in Italia – che andrà a intubare gran parte dell’acqua del torrente per metà della sua lunghezza per produrre una quantità insignificante di energia incentivata come “rinnovabile”». (“Talagona l’ultima valle” e “Le gocce d’oro della Val Talagona”,in https://www.peraltrestrade.it/).

Ed al problema delle centraline montane anche il quotidiano La Stampa dedica un articolo interessante, intitolato: “L’inutile ‘mini’ idroelettrico: poca energia, e valli devastate” che centra bene l’argomento. «Non è che nel Bellunese siamo più sfortunati di altri» avverte Lucia Ruffato, […]. “La propagazione del mini idroelettrico affligge tutto l’arco alpino”. Nonché l’Appennino centrale, Puglia, Sicilia e Sardegna, portando ovunque cantieri, strade e opere di presa anche in luoghi di grande valore naturalistico. “Per un territorio votato al turismo, che fa della natura la sua ricchezza, opere impattanti come le centraline sono un danno incalcolabile” commenta Camillo De Pellegrin, sindaco di Val di Zoldo. (…). Non bisogna lasciarsi ingannare dal prefisso “mini”. Mediamente le condutture si snodano per un paio di chilometri e il loro diametro può raggiungere 1,20 metri. L’attuale iter di concessione non prevede inoltre una valutazione cumulativa dell’impatto di più centraline poste sul medesimo torrente, “così accade che l’acqua che alimenta un impianto faccia ritorno in alveo e sia immediatamente prelevata dall’impianto successivo. E la Valle rimane senz’acqua” prosegue Ruffato. Secondo i dati di Gestore Servizi Energetici, al 2015 erano 2.536 gli impianti mini-idroelettrici presenti nel nostro paese. E altri 2mila progetti erano in fase di istruttoria: qualora le richieste andassero tutte a buon fine, sarebbero oltre 3mila i chilometri di corsi d’acqua costretti nelle condutture.  

 Uno sproposito, la cui utilità è apertamente contestata dal rapporto di Legambiente “L’idroelettrico: impatti e nuove sfide al tempo dei cambiamenti climatici”, impietoso nel valutare il contributo del mini idroelettrico: come numerosità, gli impianti da 1MW sono il 69% del totale ma nel loro insieme rappresentano appena il 4% della potenza idroelettrica installata, per una produzione totale che nel 2014 copriva appena il 5% del comparto idroelettrico e superava di poco il 2 per mille del fabbisogno complessivo nazionale. A fare la parte del leone sono i 303 grandi impianti di potenza superiore ai 10MW, che da soli costituiscono l’82% della potenza idroelettrica installata e il 76,3% della produzione idroelettrica. Un parco dighe purtroppo logoro che consiste per oltre la metà in impianti in esercizio prima degli anni ‘60, bisognosi di manutenzione e ammodernamento. Questa corsa all’oro blu, iniziata nel 1999 grazie all’introduzione dei cosiddetti certificati verdi, ha preso ulteriore slancio dieci anni più tardi con il recepimento della direttiva europea in tema di energia da parte del governo, che ha lautamente incentivato la produzione delle rinnovabili. (…). Non da ultimo: ««Le centraline cambiano rapidamente proprietario. (…). “Siamo spettatori di ciò che accade nel nostro territorio: questi impianti sono classificati come opere di pubblica utilità […]. Una pubblica utilità non giustificata dalla trascurabile produzione energetica ma che impoverisce la cittadinanza, tramite l’esproprio dei terreni, l’alterazione del paesaggio e la sottrazione di acqua». (Davide Michielin, L’inutile “mini” idroelettrico: poca energia, e valli devastate, in: La Stampa, 23 ottobre 2017). 

Ж

Ma sentite cosa succede invece in Carnia a differenza che nel bellunese. Qui è l’antica Secab (Società Elettrica Cooperativa Alto But), sorta per portare benessere alla popolazione, che si oppone alle leggi di minima tutela dei fiumi, ed invoca di togliere il minimo deflusso vitale, cioè vuole il deserto. Infatti così si legge sul Messaggero Veneto: «Paluzza. La Secab dichiara guerra al minimo deflusso vitale imposto dal piano regionale di tutela delle acque ai gestori delle centraline idroelettriche e al deflusso ecologico stabilito dall’autorità di bacino in Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino, e in una parte della Lombardia». (Giacomina Pellizzari, guerra alle norme: impossibile rilasciare più acqua nei fiumi, in Messaggero Veneto, 27 maggio 2018). Per questo Secab, dal 2016 presieduta dall’architetto Andrea Boz, e nel cui direttivo non compare più Luigi Cortolezzis, ha già presentato ricorso al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche di Venezia contro la richiesta di minimo deflusso vitale per torrenti e rii, e sta valutando di contestare legalmente il piano regionale di tutela. (Ivi). E bravi i nostri, penso tra me e me. Vorrebbero togliere ogni garanzia per i fiumi, per un possibile rischio di impresa! E se ho capito male mi scuso subito e per cortesia correggetemi. Ma ora Secab ha puntato maggiormente «sull’acquisizione di commesse esterne», chiudendo in attivo « a prescindere dall’incidenza, ormai marginale, dei cosiddetti Certificati Verdi» (Maurizia Plos, Intervista al Presidente della Secab, in: http://treppocarnico.org/notizie-dalla-secab/). Inoltre dalla stessa fonte si viene a sapere di un progetto dell’attuale Secab che intende portare avanti il rifacimento globale dell’impianto di Enfretors, anche per la sua «importanza e strategicità […] correlata […] al collegamento in serie con gli altri due impianti più a valle, ovvero quelli di Museis e Noiariis», e poi in successione,  procedere con i progetti minori «che interessano le centrali del Fontanone (rifacimento globale), di Noiiaris (implementazione) e del Coll’Alto (nuova realizzazione)». (Ivi).

Ж

Ed in Carnia vi è ancora chi sogna un progresso basato sullo sfruttamento delle acque locali. E così mi trovo a leggere, stupita, le dichiarazioni del Sindaco di Paularo, Daniele Di Gleria, che, dopo che la valle di Incaroio ha ancora le acque del Chiarsò solo per la tenace opposizione alla costruzione della centrale di Amaro, pare voglia permettere l’edificazione di centraline su ogni rio del suo comune, senza analisi alcuna dell’impatto ambientale territoriale di tali opere. Il sindaco Di Gleria, a differenza dei suoi colleghi bellunesi, «durante una riunione con la gente della frazione di Dierico assieme ai responsabili della ditta Tarussio interessata al progetto idroelettrico, ha illustrato i benefici della nuova centralina. “Porterà economia, con assunzione di manodopera per la sua costruzione e con produzione di energia elettrica con benefici a favore delle popolazione locale”» (Gino Grillo, Il sindaco Di Gleria difende la centralina: «Porterà lavoro», in: Messaggero Veneto, 27 settembre 2018). Scusatemi, ma mi sono cadute le braccia. Sono le solite parole con cui in Carnia hanno fatto passare di tutto, anche il villaggio turistico sullo Zoncolan, per fortuna mai realizzato, per portare l’acqua al quale, pure per realizzare laghetti, si sarebbe dovuto, se ho ben capito, pomparla. Ed il mito dal “svilup” è stato, in questa mia terra, la molla per mille alchimie, per non dire fesserie. Infatti si vede come è andata a finire la Carnia, già prima dell’alluvione.

Inoltre Di Gleria «immagina», un panorama locale nel quale le tre centraline in funzione sul territorio comunale, assieme a quella di proprietà dell’Uti della Carnia, saranno messe in rete da una società costituita all’uopo, con gli obiettivi di produrre energia elettrica per la popolazione e le aziende locali, ma pure di «vendere il surplus all’ente nazionale dell’energia». (Ivi). Insomma «siamo ancora alla politica del ‘becjut’, al volere fare imprenditoria ad ogni costo, e persistiamo a sostenere di fatto la svendita di beni comuni e necessari per la vita come acqua e territorio, facendo una politica pericolossima, senza valutazione alcuna delle ricadute e dei reali guadagni» – penso fra me e me, sconsolata, mentre mi domando chi rimarrà a vivere in Carnia, a Paularo come a Paluzza, fra 20 anni e quindi potrà pagare meno l’energia elettrica per un congruo periodo. Che la Carnia sia al ‘De Profundis’ per abitanti, servizi, strade, ponti, è sotto gli occhi di tutti. (Cfr. pure  il mio: Provocazioni e divagazioni sul futuro della Carnia, in: www.nonsolocarnia.info, a cui rimando per tutta una serie di considerazioni già fatte).

Ж

Poi però, in attesa di sapere il finale della vertenza legale di Secab, che se favorevole alla stessa indicherebbe che il potere su persone, spazi e vite è in mano ormai anche qui come in America Latina a singole società private, leggo un altro articolo: “Business dell’acqua: Stop alle centraline una società pubblica gestisca l’energia”, sempre a firma di Giacomina Pellizzari, in cui vengono segnalate alcune perplessità sulla captazione di rii e sorgenti: infatti il rio Zolfo corre  concretamente il rischio di restare all’asciutto sotto il peso di una centralina, «l’ennesima in una regione dove si contano almeno 475 impianti idroelettrici». (Messaggero Veneto, 29 luglio 2018). Ormai siamo al “Business dell ‘acqua” bene non prodotto da una azienda, ma dono di Dio, indispensabile per la vita, all’uomo.
Dallo stesso articolo si viene a sapere, poi, che vi sono, in Regione, 226 impianti con potenza nominale superiore ai 220 Kw, che pare non rilascino neppure il minimo di acqua per il deflusso vitale se, come scrive la Pellizzari: «a seguito dell’applicazione del Piano tutela delle acque, rischiano di dover affrontare un calo del 30 per cento della produzione di energia». (Ivi), e forse fra questi vi sono anche quelli di Secab. Nel frattempo il povero sindaco di Forni di Sotto, l’architetto Marco Lenna, si è visto recapitare da Edipower spa una citazione in giudizio solo perché voleva derivare un torrentello locale per dare acqua potabile ad alcune case del paese. (Cfr. Acqua diritto o profitto? Il caso del rio Chiaradia a Forni di Sotto e del rio Fuina in Val Pesarina, in: www.nonsolocarnia.info).

Così va il mondo, penso fra me e me, mentre leggo pure che gli incentivi per le rinnovabili, applicati al puro idroelettrico, fanno tanto comodo alle società private da far entrare in campo, con tutto il suo potere, Assoidroelettrica, che parla, in vista della possibile approvazione da parte del governo del ”Decreto Rinnovabili”, di : “Allarme idroelettrico”, come se lo Stato dovesse fare l’interesse di un singola associazione privata, continuando a finanziare, con i pochi soldi rimasti, il già finanziato, e non aprendo maggiormente ad altre fonti come il solare. E di pannelli solari è piena la Germania.  (https://www.repubblica.it/economia/rapporti/energitalia/sostenibilita/2018/10/16/news/assoidroelettrica_chiede_modifiche_al_decreto_rinnovabili-209116642/?ref=search).

Ж

Ma ritorniamo al 21 ottobre 2018, al prima ed al poi. Mi ricordo che si parlava di siccità già nell’agosto di quest’anno e che alla fine di quel mese, discutevo, a Varna, in Bulgaria, con un portiere d’albergo, del caldo torrido e delle stagioni di mezzo che stavano sparendo, qui come là. Infatti non possiamo progettare a livello ambientale dimenticando i mutamenti climatici a cui ho già accennato, che non potranno che aumentare se nessuno pensa a fermarli subito con una seria politica mondiale, mentre invece si legge che Trump ha riscelto il carbone. (Alfredo De Girolamo, Trump ritorna al carbone, ma così isola gli Stati Uniti, in Messaggero Veneto, 18 ottobre 2018). «Nemmeno gli uragani che stanno imperversando con danni ingenti in diversi Stati e le vicine elezioni di Midterm fermeranno il tycoon americano». (Ivi). Dall’articolo si evince che detta scelta è dettata dai costi minori, mentre le scelte di Obama hanno un prezzo. Ma anche quelle di Trump ed altri hanno un prezzo per la popolazione globale. Ma cosa vuoi che sia …  E da quello che ho letto si evince che i periodi di caldo e siccità aumenteranno, non solo per le minori precipitazioni continuative, ma per evaporazione dell’acqua stessa data dall’aumento delle temperature, e che ci saranno piogge ma esse non saranno diluite nel tempo ma concentrate, provocando a uomini e terra uno shock, mentre i ghiacci continueranno a sciogliersi, e le renne, tanto per fare un esempio sulle ripercussioni della nuova situazione sul mondo animale, non sapranno più come trovare da mangiare in inverno.

Ma tranquilli, l’energia prodotta dal carbone costa meno, produrre in qualsiasi modo energia idroelettrica porta guadagni immediati, anche se favorisce la desertificazione, e via dicendo. Il denaro non il buon senso domina il mondo.

Ж

Mi ricordo che venerdì 26 ottobre 2018 sono andata ad un funerale a Rigolato, paese di mio marito, e ho guardato il Degano fra Villa Santina ed Ovaro, nei paraggi di quest’ultimo paese, che a me pareva proprio in secca totale, senza un filo d’acqua. Così l’ho fatto notare a mio marito, perché mi pareva proprio inusuale. Non lo avevo mai visto così. Ma di quel viaggio a Rigolato e del percorso a piedi dalla chiesa parrocchiale al cimitero e ritorno, ricordo anche un altro aspetto: il numero notevole di tir che ho visto transitare per il paese e per la 355 della Val Degano, cosa che un tempo non accadeva. C’era venerdì qualche camion D’ Agaro ma c’erano anche bestioni enormi con targa straniera ed altri che non pare contenessero Goccia di Carnia. Ma forse andavano verso la Cartiera di Ovaro, o che ne so. I problemi di detta statale, comunque, erano stati già messi in luce da Franco D’ Orlando, nella sua “Lettera aperta sulla viabilità in Carnia” (Cfr. Lettera aperta di Franco D’Orlando sulla viabilità in Carnia, in: www.nonsolocarnia.info, da me pubblicata il 7 dicembre 2017).

Ma anche in questo caso il problema non è solo nostro. Paola Dall’Anese scrive che, nel mese di ottobre, si è sperimento, sulle statali 51, 51 bis di Alemagna e 52 Carnica, il divieto di transito ai mezzi pesanti superiori alle 7,5 tonnellate. (Paola Dall’Anese, Alemagna, stop ai camion. Provvedimento sperimentale per il mese di ottobre, in: https://www.peraltrestrade.it/).  «Infatti, – si legge sempre su detto articolo- il passaggio dei mezzi pesanti sta creando non pochi disagi, oltre a danni agli edifici pubblici e privati. I muri dei palazzi sono strisciati dai camion che passano a filo degli edifici, visto che la strada è stretta. Inoltre, più volte i mezzi salgono anche sui marciapiedi». (Ivi). Per la verità il Sindaco di Comelico Superiore, avrebbe voluto «che il divieto fosse più incisivo, visto che non saranno interessati dal provvedimento i mezzi che partono o arrivano a Belluno ma anche nelle province di Treviso, Vicenza, Trento, Bolzano, Udine e Pordenone». (Ivi). Paola Dall’ Anese ci informa poi che «La situazione è pesante in Cadore e Comelico: sono centinaia i camion pesanti che passano anche a velocità non proprio ridotta nei centri abitati. Per questo i primi cittadini auspicano che ci siano dei controlli per verificare il rispetto del divieto» (Ivi). Ma mentre i sindaci del bellunese sono in costante contatto con i sindaci della Pusteria, (Ivi),  non sembra siano in contatto con i sindaci della Carnia, i quali forse non li cercano o che ne so, e così mezzi pesantissimi passavano prima dell’alluvione sulle fragili strade carniche, e questo l’ho visto di persona venerdì 26 ottobre 2018.

Inoltre in Carnia, a livello di manutenzione e tutela del territorio, mancano molte cose, la prima delle quali è una reale pianificazione territoriale globale che contempli norme precise, senza deroga alcuna, sui transiti sui sentieri, sul taglio e pulizia dei boschi e degli alvei dei fiumi, e via dicendo. E mancano i controlli. Non per nulla i nostri vecchi, sempre troppo dimenticati, avevano creato un Ente di Economia Montana (L’Ente di Economia Montana, in Laura M Puppini, Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le cooperative carniche, 1906-1938, Gli Ultimi, 1988, pp. 192- 196 in: www.nonsolocarnia.info) che avrebbe dovuto gestire, insieme alle amministrazioni locali, la sistemazione forestale ed agricolo pastorale della montagna friulana. Ma l’Ente, dopo la sua creazione fu distrutto e smantellato dal fascismo. 

Ж

E giungiamo al 27 ottobre 2018. C’ è in programma l’incontro per i vent’ anni dl Legambiente. Al mattino non piove ancora a Tolmezzo, poi inizia il disastro. Prima si sa di Ovaro, poi man mano a paese si aggiunge paese, a strada franata strada franata, a ponte che ha ceduto ponte che ha ceduto …. E pare un miracolo sentire che è stata ripristinata in alcuni paesi l’energia elettrica dopo giorni di freddo, buio, telefoni spenti e frigoriferi sbrinati. Accorrono, come tante altre volte, volontari e Protezione civile assieme ai Vigili del fuoco ed alle forze dell’ordine, ma i danni si conteranno poi, (e già si ritiene che saranno nell’ordine di centinaia di milioni), come i disagi più duraturi ed il costo economico del disastro, pur avendo la Regione subito stanziato 10 milioni di euro per l’emergenza Fvg, e lo Stato quaranta.

Che fare? Sicuramente non si deve giungere ad emergenze già annunciate. Ci sono operai che non sanno dove lavorare? Li si metta a pulire gli alvei dei fiumi, a tenere aperte le vie di scolo dei ruscelli montani, come proponevo a Cristiano Shauli, dopo un incontro a Lauco in cui egli aveva parlato di problemi del lavoro il I° maggio, ed in particolare si eviti che vi siano in ogni dove chiuse e condotte forzate per produrre energia idroelettrica, anche perché così fiumi ruscelli e torrentelli non hanno più un regime naturale, un corso naturale, e la potenza dell’ acqua, come la sua presenza o meno,  possono ora anche dipendere dagli sbarramenti aperti  chiusi o semiaperti, che, essendo di privati, non possono esser toccati da pubblica mano. Ed anche il Messaggero Veneto di oggi, primo novembre 2018, mostra una fotografia con le chiuse abbassate e piene di detriti a Piani di Luzza, mentre vi è chi dice che anche la chiusa all’altezza della Cartiera di Ovaro sia stata aperta troppo tardi. «[…] tra l’allerta arancione e l’allerta rossa c’era tutto il tempo per alzare le chiuse che ora si intravedono coperte di tronchi e rami […]» sostiene uno sfollato, mentre il sindaco Mara Beorchia assicura che verranno fatte tutte le valutazioni del caso. (Giacomina Pellizzari, L’acqua è salita subito, abbiamo avuto paura, in Messaggero Veneto, 1 novembre 2018) Ma Gabriele Cattarinussi non è l’unico ad aver detto che alcune chiuse non sono state aperte, o non sono state aperte in tempo. E per quanto riguarda il Messaggero Veneto di oggi, festa dei Santi, vi invito a leggere il pezzo di Andrea Valcic, intitolato: “Sfalciare, pulire, preservare. Meno ciance per la montagna”. Ma ci si ricorderà poi di progettare in tal senso, finita l’emergenza?

Ж

Ho scritto questo pezzo per dire che i problemi che hanno inciso su questa situazione carnica sono tanti e si sommano, ed il primo è quello della manutenzione, ma non si sa da parte di chi, se è tutto in via di sgombero e privatizzazione, senza una visione d’insieme. Perché tutti questi disastri non sono stati causati solo dalla storica montana dei Santi, perché nulla è come prima.

Senza offesa per alcuno, men che meno per Secab, ma solo per porre all’ attenzione dei lettori alcune mie riflessioni, anche contestabili, e per pensare seriamente alla nostra terra, che davvero amo e non vorrei vedere ferita, perchè ciò che faremo oggi condizionerà per sempre il futuro.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: https://it.geosnews.com/p/it/friuli-venezia-giulia/maltempo-gravissimi-i-danni-carnia-spezzata-in-due-c–il-sole-ma-domani-torna-la-pioggia_21910810, che a sua volta l’ha ripresa da http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2018/10/31/news/maltempo-gravissimi-i-danni-carnia-spezzata-in-due-domani-torna-la-pioggia-1.17411882, e raprresenta il crollo del ponta a Comeglians. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

Paolo Pezzino. Il duplice volto dell’Italia nel secondo dopoguerra, e quella difficile giustizia per i crimini nazisti, quasi negata.

$
0
0

Questo intervento è stato tenuto dal prof. Paolo Pezzino ad Udine il 4 ottobre 2018, per la presentazione del libro da lui scritto insieme a Marco De Paolis, intitolato: “La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013”, Viella ed., organizzata dall’A.P.O. e dall’ Ifsml.

Introduzione. Bisogna incominciare a ragionare al di fuori di parametri ideologici.

«Buonasera a tutti. Grazie dell’opportunità che ci è stata data di presentare questo volume qui ad Udine. È una presentazione alla quale io personalmente ci tenevo particolarmente perché, come ha ricordato l’amico Roberto Volpetti, è ormai qualche anno che frequento questa città, avendo cominciato a collaborare con l’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli dal 2010, mi pare, e poi facendo parte del Premio “Friuli Storia”.
E mi fa particolarmente piacere, poi, essere qui nella veste di autore e di presidente (sono stato eletto a giugno) dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, rete dei 64 Istituti Storici della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Sono dunque qui sia come studioso e storico che ha collaborato con gli Istituti della Resistenza, per esempio per la stesura dell’Atlante delle Stragi Nazifasciste (che è stato un progetto di rete che ha coinvolto circa 115 ricercatori), sia di amico e collaboratore dell’Associazione Partigiani Osoppo- Friuli.

Questo dimostra che quando si comincia a ragionare al di fuori di parametri ideologici, e si comincia a ragionare cercando la verità o le verità, (fermo restando che poi le interpretazioni possono dissentire e possono non essere concordanti), si giunge alla constatazione che esiste una verità storica, che è quella che i documenti ci consentono di affermare.
E anche la presentazione di oggi vede l’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione e l’Associazione Partigiani Osoppo-Friuli collaborare, cosa che spero continui. È passato il tempo delle contrapposizioni ideologiche, ed è arrivato il tempo della riflessione storica e di una memoria che tenga conto della complessità della storia, in particolare della complessità di quella di questi territori di confine, sulla quale non mi devo soffermare io, perché voi la conoscete molto meglio di me.

Ci tenevo molto a questa premessa, perché è anche la ragione per cui ho insistito per fare questa presentazione, che avrebbe dovuto tenersi prima dell’estate, ma poi, per motivi familiari, era allora saltata.

La difficile giustizia.

Il libro che presentiamo qui è il primo di una collana che è stata ed è finanziata dalla Regione Toscana non a caso, perché la Regione Toscana è, assieme all’ Emilia, quella che ha avuto il maggior numero di morti civili in stragi naziste e fasciste, ed è quella che ha visto, probabilmente, il maggior numero di processi celebrati in merito ad episodi avvenuti sul suo territorio.

Questo è il primo volume di una serie pensata per presentare, valorizzare, ed anche diffondere i processi che Marco De Paolis ha portato avanti dal 2000 in poi prima come Procuratore capo presso il tribunale militare di La Spezia, poi, per un breve periodo, come Sostituto a Verona, ed infine come Procuratore capo presso il Tribunale militare di Roma. Sono processi in cui si trattano crimini molto gravi commessi nel nostro paese dal ’43 al ’45, che si sono celebrati però a partire dall’inizio di questo secolo, cioè con un ritardo che effettivamente è insolito. Ed è proprio detto ritardo che ci ha spinto ad intitolare questo primo volume, che è il volume generale e che affronta la tematica generale (gli altri nove volumi poi, sono relativi a singoli episodi ed è uscito il secondo relativo a Sant’Anna di Stazzema e il terzo relativo a Cefalonia che sarà l’unico volume dedicato ad un eccidio di italiani fuori dall’Italia) “La difficile giustizia”. Io sarei stato forse per un titolo ancora più forte: “L’impossibile” o “La negata” giustizia, però poi, riflettendoci, ci è sembrato che, comunque, quello che ha fatto Marco De Paolis è un gesto di giustizia, è un atto di giustizia. Perché celebrare i processi a distanza di tutto questo tempo, ha rappresentato, comunque, un risveglio del senso di diritto dello stato italiano nei confronti di vittime di crimini orribili, (che noi oggi definiremmo crimini contro l’umanità), che questa giustizia non avevano avuto. Certo una giustizia così ritardata è in parte una giustizia negata.

Ma avendo avuto modo anche di toccare con mano il vero e proprio affetto che le comunità colpite dalle stragi hanno nei confronti di Marco De Paolis per i processi che Marco ha istruito su quegli episodi, mi sono reso conto che per i parenti delle vittime o per i sopravvissuti, e ce ne sono ancora, questi processi hanno avuto un’importanza fondamentale. Hanno avuto l’importanza di accertare definitivamente, seppure a distanza di tutto questo tempo, quello che era avvenuto, il grave crimine che era stato commesso, e che lo stato italiano, fino a poco tempo fa, aveva negato. Perché, appunto, negare di fare le indagini, non portare avanti le indagini, insabbiare addirittura la documentazione che avrebbe consentito di portare avanti questi processi ben prima, come è stato fatto, è stata una negazione di giustizia.

E quindi io credo che, effettivamente, sia stato doveroso, non solo da un punto di vista morale, ma anche da un punto di vista giudiziario, (perché come Marco De Paolis ricorda sempre, l’azione penale è obbligatoria secondo la Costituzione), per il Magistrato militare, indagare su quegli episodi, quando è stato possibile, quando questa documentazione è venuta fuori, e cercare di trovare pure i responsabili ancora in vita di crimini che non cadono mai in prescrizione.

E casomai c’è da chiedersi se tutti i magistrati militari abbiano sentito lo stesso obbligo giuridico che il Procuratore De Paolis ed altri suoi colleghi hanno provato.

I volumi sono concepiti tutti con una parte storica ed una parte giuridica non a caso, perché, essendo episodi tutti avvenuti dal 1943 al 1945, la parte storica è indubbiamente importante. E poi c’è un’appendice documentaria relativa soprattutto all’aspetto giuridico e processuale.

Il primo volume ci è sembrato necessario per inquadrare il tema generale, perché noi ovviamente abbiamo come riferimento l’Italia. Ed in Italia un intero archivio, in cui erano stati depositati gli atti di circa settecento indagini compiute da carabinieri, polizia, dalla stessa magistratura, era sparito alla vista ed alla conoscenza. Quando detto archivio fu ritrovato, si parlò impropriamente di un “armadio della vergogna”, ma in realtà l’archivio non era finito in un armadio ma era in un mezzanino a Palazzo Cesi a Roma, ma il risultato, comunque, era sempre lo stesso. Si trattava di fascicoli che, nel 1960, erano stati illegittimamente archiviati dall’allora procuratore generale preso il tribunale supremo militare, Santacroce, con la dicitura: “Archiviazione provvisoria”, che è una figura giuridica inesistente nel codice di procedura penale.

Noi siamo convinti che in Italia vi sia stata una vicenda storica particolare, ma all’inizio del mio saggio, io ho voluto inquadrare il tema della punizione dei crimini di guerra all’interno del tema più generale della giustizia di transizione, cioè di quella giustizia che punisce coloro che si sono resi colpevoli di crimini, nella transizione da dittature a democrazie, transizione che spesso avviene a seguito di eventi traumatici, come appunto una guerra persa.  Ed è questo, esattamente, il caso della Germania e il caso dell’Italia.

Il caso Italia a fine guerra.

Ricordiamoci che l’Italia, con l’armistizio, aveva firmato una resa incondizionata, anche se poi sia la dichiarazione di cobelligeranza del governo Badoglio nei confronti della Germania, sia la partecipazione dei patrioti partigiani italiani alle operazioni militari per la liberazione del paese dalle truppe tedesche, avevano fatto acquisire all’Italia un qualche credito morale nei confronti degli Alleati. E questo credito era stato rafforzato dalle decine di migliaia di morti che la guerra di liberazione ci era costata, non solo in termini di partigiani combattenti, ma di civili inermi uccisi per rappresaglia o per puro terrorismo, per fare terra bruciata attorno ai partigiani. Queste uccisioni, queste stragi, erano state commesse dalle truppe tedesche, spesso con la collaborazione degli alleati della Repubblica Sociale Italiana, aspetto che non bisogna mai dimenticare, perché non furono solo i tedeschi a compiere questi atti.

Così anche se questi crediti c’erano, è indubbio che poi, nel dopoguerra, gli Alleati consideravano l’Italia un paese sconfitto. E la consideravano non solo questo, ma anche un paese che aveva una responsabilità particolare in quello che era successo, sia per l’affinità ideologica tra il nazismo ed il fascismo, (anzi il fascismo era stato il primo ad elaborare questa nuova classe politica, questa nuova famiglia politica che noi chiamiamo con il nome di “fascismi”), sia per la collaborazione militare che i due paesi avevano avuto dal momento in cui l’Italia era entrata in guerra fino al momento dell‘armistizio.
E quindi se da un lato l’Italia era sì, dopo l’8 settembre, un paese occupato, e un paese che, come ho detto, scontava una occupazione durissima da parte dell’esercito tedesco, nello stesso tempo era un paese che veniva considerato, dagli Alleati, un paese responsabile della guerra, aggressore di altri paesi nel contesto europeo, che negli altri paesi aveva portato avanti una guerra con modalità non sempre corrispondenti a quello che il diritto internazionale prevedeva. Pertanto essa avrebbe dovuto essere chiamata a rispondere dei crimini commessi nei loro confronti prima dell’8 settembre 1943, di cui veniva accusata da altri paesi.

Questa duplice posizione dell’Italia, paese al tempo stesso vittima e responsabile del conflitto, segna chiaramente le incertezze ed i dubbi degli Alleati. Perché gli Alleati avevano incoraggiato molto la resistenza italiana, finché questa era considerata utile per la collaborazione militare nella campagna d’Italia. E qui ricordo i vari proclami del generale Alexander, soprattutto, nell’estate del ’44, con l’invito ai patrioti italiani a combattere ed insorgere, nel momento in cui, dopo la liberazione di Roma e la disfatta tedesca, sembrava possibile un’accelerazione nella fine della guerra in Italia. E quindi in particolare gli Inglesi sentivano in qualche misura l’obbligo di fare giustizia per le vittime che questa partecipazione degli italiani, come partigiani e patrioti alla guerra, sotto forma di guerra di Liberazione, aveva provocato.

Ma, dall’altro lato, l’Italia era sotto inchiesta in un organismo che era stato creato nel ’43: lo “United Nations Word Crime Commission, la Commissione Crimini di Guerra delle Nazioni Unite (Nazioni Unite qui si intende contro la Germania), che aveva il compito di stilare le liste di criminali di guerra da poter poi consegnare, dopo la fine del conflitto mondiale, a quei paesi dove quei crimini erano stati commessi, perché detti criminali venissero ricercati, individuati ed estradati in questi paesi, che avrebbero dovuto processarli.
Nei verbali dei lavori di questa Commissione, che io ho esaminato e dai quali prende spunto il mio saggio, l’Italia è ben presente con migliaia di suoi uomini, accusati soprattutto dalla Grecia, dalla Jugoslavia, dall’Etiopia, anche se relativamente a quest’ ultimo caso si aprì un contenzioso, perché in realtà i crimini commessi in Etiopia erano precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale, mentre la Commissione doveva analizzare solo i crimini commessi nel corso del secondo conflitto mondiale.

Poi, alla fine dei lavori, la Commissione comunque consentì all’Etiopia di presentare la documentazione relativa ai crimini commessi dagli italiani, e molti paesi, soprattutto Jugoslavia e Grecia, ma anche, per esempio, la Francia, chiesero all’Italia la consegna di membri dell’esercito e di membri della milizia che venivano accusati di crimini simili a quelli che i tedeschi avevano commesso in Italia contro i civili italiani.

Nel contesto di questa duplice veste di paese corresponsabile del conflitto e sconfitto e di paese occupato, si svolge la vicenda del governo italiano, il quale, se da un lato non viene autorizzato a processare direttamente i tedeschi responsabili di crimini, (questo almeno fino alla fine del ’46), dall’altro viene autorizzato a raccogliere documentazione da girare agli Alleati, perché possano essere gli Alleati ad indagare ed eventualmente a portare avanti i processi necessari. E proprio per questo viene decisa la creazione di una particolare Commissione presso la Procura Generale del Tribunale Militare Supremo, cioè presso quello stesso ufficio che poi, nel sessanta, archivierà tutta quella documentazione.
Questi documenti, che ovviamente il governo italiano raccoglieva tra le strutture periferiche dello Stato, in particolare dall’Arma dei Carabinieri che aveva registrato tutto quello che era successo nel corso dell’occupazione tedesca, venivano man mano concentrati presso detta Procura Generale, per essere poi messi a disposizione delle autorità alleate. Nacque così, in questo modo, quell’archivio che poi noi ritroveremo spostato, nel 1960, a Palazzo Cesi.
Quindi l’archivio nasce non con la volontà di nascondere, ma con la volontà di favorire le indagini degli Alleati.

Gli Alleati, nello specifico gli Inglesi, iniziano a processare i nazisti per i crimini commessi ma poi …

È anche vero, però, che gli stessi Alleati avevano cambiato più volte opinione su di noi, e non sapevano bene cosa fare degli italiani. Dico Alleati: ma in realtà il vero protagonista della politica giudiziaria in Italia fu la Gran Bretagna, che in un primo momento aveva deciso di celebrare un processo a tutti i generali che avevano operato in Italia, a partire dal maresciallo Kesselring, e giù giù, fino al grado di generale. Questo perché gli Alleati, nelle loro indagini, avevano scoperto che le violenze contro i civili non rappresentavano degli eccessi di reazione delle singole unità militari, ma erano violenze che, a partire perlomeno dalla primavera del 1944, erano state programmate ed in qualche misura autorizzate dal Comando Supremo della Wehrmacht, dal Feldmaresciallo Kesselring. Ed avevano trovato tutta una serie di misure che furono, poi, esattamente quelle applicate: raccolta di ostaggi, incendi di paesi, requisizioni. Ovviamente esse non parlavano esplicitamente di uccisioni di donne e bambini, però contenevano delle frasi che spingevano agli eccessi. Per esempio in quello che è considerato l’ordine principale del Feldmaresciallo Kesselring, datato 30 giugno 1944, c’è una clausola che dice: «Coprirò tutti quei comandanti che, nell’applicazione di queste misure, eccedano la moderazione che è propria dell’esercito tedesco».

Ora a parte che a noi oggi può far sorridere l’accenno alla moderazione dell’esercito tedesco, ma Kesselring poi la rivendicherà una volta liberato, e scriverà un libro nel quale rivendicherà di aver condotto la campagna con un’attenzione, una umanità nei confronti della popolazione che non era facile trovare nelle guerre, e concluderà dicendo che gli italiani avrebbero dovuto ringraziarlo, fargli un monumento; al che gli rispose Calamandrei con la famosa lapide, che conoscete tutti: «Lo avrai, camerata Kesselring, il monumento che pretendi da noi italiani, ma con che pietra si costruirà, a deciderlo tocca a noi… ecc. ecc.».

Gli Alleati si erano resi conto che in Italia si era svolta una campagna bellica organizzata dai massimi comandi tedeschi ed avevano, fino all’ estate del ’46, preventivato un grande processo a tutti i generali tedeschi che avevano operato in Italia, che era previsto così imponente per il numero degli imputati, per i difensori, per tutto l’apparato di traduzione, che aspettavano per iniziarlo solo che si concludesse il processo di Norimberga, per poter portare in Italia il sistema per la traduzione simultanea.
Per quanto riguarda, poi, i reati commessi dagli ufficiali con il grado da colonnello ingiù, gli Alleati erano propensi a concedere agli italiani, una volta che gli italiani avessero firmato il trattato di pace e quindi avessero raggiunto di nuovo una piena sovranità territoriale, la possibilità di poter processare gli ufficiali tedeschi per gli stessi episodi. Quindi ci doveva essere un grande processo rivolto ai generali, e vari processi che gli italiani avrebbero potuto portare avanti nei confronti dei responsabili sul campo di quegli episodi.

Ma poi nel ’47 la guerra fredda blocca tutto… Non si può più processare tedeschi. 

Ma la situazione cambiò ben presto. Gli Alleati fecero alcuni processi importanti, in particolare una Corte Militare Britannica processò effettivamente il Feldmaresciallo Kesselring, a Venezia, nel maggio del ’47, ed egli fu condannato a morte. Ma il processo a Kesselring rappresentò anche il momento di svolta. Già si era messa in disparte la volontà di fare un processo a tutti i generali: ma anche Kesselring, condannato a morte, venne immediatamente graziato per una presa di posizione molto forte di ambienti politici e militari britannici.

A favore di Kesselring intervenne Churchill, che però non era più primo ministro perché aveva perso le elezioni, ma che comunque era ancora una persona che contava. Egli scrisse una serie di telegrammi alle autorità inglesi implorandole di non portare avanti l’esecuzione di Kesselring, ed intervenne a suo favore anche  Alexander, che era stato il principale competitore militare di Kesselring nella campagna d’Italia, e che, nel giugno del ’44, quando Kesselring aveva emanato le sue misure terroristiche per combattere i partigiani, lo aveva ammonito che avrebbe pagato pesantemente la responsabilità dei suoi atti.
Ebbene: nel maggio del ’47 Alexander, che è governatore in Canada, scrive alle autorità britanniche che Kesselring era stato un competitore duro ma leale, aveva combattuto in maniera dura ma leale, e che, quindi, si augurava che non venisse condannato.
Così Kesselring fu graziato e condannato all’ergastolo, ed a metà degli anni cinquanta fu liberato.

Ma cos’era successo per giungere a tanto? Era successo che, nel frattempo, era scoppiata la ‘guerra fredda’, e quella parte della Germania occupata da Stati Uniti, Francia e Regno Unito, rappresentava una pedina importantissima nello scacchiere internazionale, era, diciamo, la terra di confine con il mondo dell’est, con il mondo al di là della Cortina di Ferro, che Churchill aveva denunciato esser calata in Europa. E non era più il caso, a quel punto, di ricordare il recentissimo passato della Germania di potenza totalitaria, che aveva elaborato un progetto di occupazione e di controllo di tutto lo spazio europeo su basi razziali, e che aveva provocato la tragedia della seconda guerra mondiale, nel corso della quale aveva condotto le operazioni belliche con una brutalità che non si era mai stata vista prima nelle guerre moderne. Ma a quel punto il passato andava messo subito in disparte, ed i tedeschi diventavano alleati fondamentali.

E c’è anche da dire che l’opinione pubblica tedesca reagiva molto male ai processi nei confronti dei presunti, per loro, criminali di guerra, perché era stato elaborato in Germania un quadro storico per cui la colpa di quello che era avvenuto era solo di Hitler, di qualche gerarca nazista, e di alcuni corpi speciali come le ‘SS’, mentre il mito della Wehrmacht, l’Esercito tedesco, che aveva combattuto in maniera patriottica, onorevole, era talmente forte in Germania, che spingeva i tedeschi ad autoassolversi nella maggior parte dei casi. Del resto bisogna tener presenti i milioni di morti che i tedeschi avevano avuto nel corso del secondo conflitto mondiale, per cui era importante, per il popolo tedesco, potersi raccontare che questi non erano morti per difendere o portare avanti un progetto criminale, ma che erano morti in difesa della propria Patria. Pertanto questi processi erano visti malissimo dai tedeschi.

 Quindi con il ’47, i processi cessarono, ed i generali che erano stati condannati, fra cui il generale Max Simon, il comandante della XVI Divisione Panzergrenadier, quella che si era resa responsabile, tra l’altro anche degli eccidi di Sant’Anna di Stazzema e di Montesole, che era stato condannato a Padova contemporaneamente a Kesselring, vennero graziati e poi liberati dopo qualche anno, ponendo fine alla stagione della punizione. Perché si trattava allora di ricompattare il mondo occidentale nella nuova guerra, la ‘guerra fredda’.

Gli Italiani avrebbero potuto, però, istituire i processi ai tedeschi per le stragi italiche, ma …

E gli italiani? Gli italiani avrebbero potuto, a quel punto, portare avanti autonomamente i processi nei confronti degli ufficiali dal grado di colonnello ingiù, e avevano raccolto per questo motivo l’abbondante documentazione che era stata poi concentrata nell’Ufficio del Procuratore Generale presso il Tribunale Supremo. Ma non lo fecero. E non lo fecero, fondamentalmente, per due motivi: il primo motivo fu che il governo italiano si sentì in dovere, (anche se in realtà si trattava di un governo che non aveva più nessun rapporto con il governo dell’epoca fascista, cioè con quello responsabile della guerra), di difendere fino in fondo l’onorabilità della Forze Armate Italiane, che avevano operato nei vari contesti europei, in particolare in Jugoslavia ed in Grecia. E quindi rifiutarono in continuazione di consegnare a questi governi, in particolare alla Jugoslavia, (perché la Grecia smise ben presto di domandarli), i nominativi richiesti degli uomini, degli ufficiali ma anche del personale civile relativi a persone accusate di aver commesso crimini sul suo territorio. I governi italiani opposero un netto rifiuto, ed ad un certo punto elaborarono anche una strategia, per cui dissero: «Indagheremo noi su questi crimini presunti, e se ci sono stati effettivamente, faremo noi il processo ai responsabili».
Fu anche costituita una apposita commissione, la quale, poi, trovò che in una ventina di casi, secondo lei, effettivamente c’erano dei materiali, delle prove per poter portare avanti i processi, ma nessuno fu mai processato.

Quindi questo tema divenne meno importante, anche perché dopo la rottura tra Tito e Stalin, Tito smise di continuare a chiedere la consegna degli italiani considerati responsabili di crimini in territorio jugoslavo, e quindi il discorso decadde.
Ma nel momento in cui gli italiani si rifiutavano di consegnare propri uomini alla Jugoslavia ed alla Grecia, non potevano insistere per la consegna degli ufficiali tedeschi all’Italia perché venissero processati in Italia per i crimini che avevano commesso in Italia. Molti di questi uomini erano ancora prigionieri degli Alleati, e quindi si sarebbe potuto ottenerli da loro, tanto più che, ripeto, era stato concesso all’Italia il diritto di processarli, ma l’Italia, praticamente, non li richiese mai.

Così, dal momento in cui l’Italia avrebbe potuto portare avanti detti procedimenti giudiziari, (diciamo pressappoco dalla metà del 1947 al momento in cui tutta la documentazione che era stata raccolta fu archiviata illegalmente in Palazzo Cesi), i processi che furono portati avanti furono pochissimi, qualche decina, e per di più alcuni non giunsero neppure a dibattimento. Quelli più noti che tutti conosciamo sono quelli a Kappler ed altre SS per le Fosse Ardeatine, ed a Walter Reder per una serie di eccidi, compreso quello di Marzabotto.

Tra l’altro questi processi che furono condotti dalla Magistratura Militare Italiana, dimostrarono pure la presenza di una cultura giuridica dell’epoca molto diversa da quella di oggi, ma ne parlerà più diffusamente Marco.

Sul processo a Kappler e c. e sulla possibile liceità di una rappresaglia secondo alcuni.

Prendiamo come esempio il processo a Kappler.  Kappler venne accusato della rappresaglia delle Fosse Ardeatine insieme a 5 o 6 ufficiali e sottoufficiali: ma non mi ricordo il numero esatto. Fra questi c’era, originariamente, anche Pribke, che però non era reperibile e quindi fu stralciato. Ebbene: Kappler fu condannato non per la rappresaglia in sé, perché, pur riconoscendo il tribunale che la rappresaglia (secondo alcune interpretazioni il diritto internazionale consentiva, comunque, di compiere rappresaglie) ma perché aveva ecceduto i limiti di moderazione imposti. Infatti la maggior parte delle interpretazioni del diritto internazionale non prevedeva che la rappresaglia comportasse l’uccisione fisica di persone.

Ma se per alcune correnti interpretative del diritto internazionale, questo era previsto, la rappresaglia doveva comunque avere alcune caratteristiche: per esempio poteva avvenire solo dopo aver ricercato i responsabili degli atti commessi e non averli reperiti, e ci doveva essere, soprattutto una proporzionalità tra rappresaglia e atto che si voleva punire con la stessa. Ma il tribunale militare di Roma ritenne che questa proporzionalità non c’era stata nel caso delle fosse Ardeatine, ma ritenne pure che, dato che Kappler era un SS (e ricordo che a Norimberga le SS erano state dichiarate un corpo criminale, e quindi la sola appartenenza alle SS doveva rappresentare un crimine) questo rappresentava una attenuante. Infatti il ragionamento che detto tribunale fece, fu che, essendo le SS state addestrate nel mito dell’obbedienza assoluta, Kappler, soggettivamente, non era in grado di rendersi conto che quello che gli veniva chiesto era un ordine chiaramente illegittimo e criminale.

Kappler quindi fu condannato per avere, di sua iniziativa, essendo nel frattempo morto durante la notte un altro tedesco, colpito nell’azione di guerra di via Rasella, aumentato di dieci il numero delle persone da uccidere alle fosse Ardeatine, cosa che, egli disse in tribunale, non gli era stata ordinata, e quindi fu una sua iniziativa individuale. E poi fu condannato per aver sbagliato i conti, perché, comunque, risultarono presenti cinque persone in più rispetto al rapporto 1 a 10, e Kappler fece uccidere anche loro.

Ciò dimostra che allora l’obbedienza veniva ancora considerata una virtù, e così tutti gli altri indagati, che erano sottoposti a Kappler, furono assolti per aver obbedito ad un ordine dato da chi li comandava. Paradossalmente se Pribke fosse stato anche lui catturato e processato allora, non avrebbe potuto, poi, essere processato nel 1994, quando fu ritrovato.

Quindi i processi furono pochi e furono condotti con un diritto che, a quei tempi, non era molto attento al tema della sicurezza dei civili e dei crimini su civili. Ed un motivo per cui gli italiani non fecero questi processi non fu solo quello di difendere i propri soldati ma perché l’Italia, poi, trovandosi all’interno del blocco occidentale, cominciò anch’essa a difendere la Germania, tant’ è che, quando, nel 1956, un magistrato chiese alle autorità italiane l’aiuto per una rogatoria relativa all’eccidio di Cefalonia, i due ministri competenti, e cioè il Ministro degli Esteri, Martino, ed il Ministro della Difesa, Taviani, si trovarono d’accordo nel dire di non procedere, perché era passato tanto tempo e quei processi non avevano più alcun senso: e lo dissero a 13 anni da quei fatti. E c’è tutto lo scambio di corrispondenza a dimostrarlo. Così bloccarono la richiesta della Magistratura e la rogatoria non andò avanti.

Nel 1960, tutto l’enorme materiale composto da 695 fascicoli con delle prove importanti, più altri 1400 in cui c’era soltanto l’indicazione del fatto, non su chi potesse averlo compiuto, furono archiviati illegalmente in palazzo Cesi e sembrava che il tema della punizione dei crimini di guerra fosse ormai diventato obsoleto nella generale dimenticanza ed oblio di quello che era successo in Europa nel corso della seconda guerra mondiale. Del resto eravamo in pieno miracolo economico, non solo in Italia ma anche in Germania, la gente aveva veramente voglia di voltare definitivamente pagina, rispetto a quello che era successo, e questo avvenne non solo per i crimini ma anche, per esempio, per le leggi razziali, di cui abbiamo appena ricordato l’ottantesimo dell’emanazione. Anch’esse furono assolutamente messe nel dimenticatoio e sembrava che questi documenti potessero avere un’importanza solo per un futuro studioso di storia che, dopo qualche decennio, fosse giunto a metterci le mani sopra.

Ma qui io finisco perché la seconda parte della storia è quella che invece vi racconterà Marco De Paolis».

Paolo Pezzino.

____________________

Paolo Pezzino è stato docente di storia contemporanea all’Università di Pisa, è uno dei soci fondatori della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea nonché attuale presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, ex Insmli.  Registrazione e trascrizione dell’incontro di Laura Matelda Puppini. A questo intervento seguirà la trascrizione di quello di Marco De Paolis, fatto per la stessa occasione. 

Vi invito ad acquistare e leggere sull’ argomento sia il volume presentato, intitolato: “La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013”, Viella ed., sia i due volumi successivi della collana e cioè: Marco De Paolis, Paolo Pezzino, Sant’Anna di Stazzema. Il processo, la storia, i documenti, Viella ed., e Marco De Paolis, Isabella Insolvibile, Cefalonia il processo, la storia, i documenti, Viella ed.. Laura Matelda Puppini

 

 


Sandro Cargnelutti, Legambiente. Muta il clima: sì ad un piano regionale di prevenzione ed adattamento ai mutamenti climatici sovraordinato.

$
0
0

Gli eventi alluvionali che hanno causato ingenti danni e sofferenze su parti del territorio regionale devono stimolare alcune riflessioni di carattere strategico per evitare che il ritorno alla normalità ripristini scelte e azioni dettate soprattutto da convenienze contingenti, settoriali e di breve respiro.
Conosciamo già molte cose per iniziare ad agire in tal senso.

La scienza e, per la nostra regione, l’analisi coordinata da ARPA, ci dicono che i cambiamenti climatici sono in atto, che la zona mediterranea è una delle aree sottoposta a maggior riscaldamento del pianeta, che l’aumento delle temperature nel nord est è maggiore che nel resto delle Alpi (+2° a Belluno rispetto alle temperature preindustriali), che la nostra regione, è un territorio vulnerabile.
Sappiamo inoltre che l’aumento di energia nell’atmosfera non fa solo salire le temperature ma impatta sul ciclo idrologico, sulla biodiversità, sulle attività economiche (agricoltura, turismo in primis) e sulla qualità della vita di persone e comunità; porta il mondo in “casa” con i migranti ambientali.  Aumenta inoltre l’imprevedibilità delle risposte dei sistemi ambientali e l’incertezza sul futuro.

Ma una cosa la scienza non riesce a prevedere esattamente: il momento in cui questi processi diverranno irreversibili e procederanno automaticamente verso una “terra calda” ormai insensibili alle nostre azioni. Per ridurre la probabilità che ciò si realizzi, corre l’obbligo, per gli Stati, quanto meno di rispettare gli accordi di Parigi. La conferenza delle Parti prevista a dicembre a Katowice, culla del carbone polacco, è un passaggio simbolico e cruciale in tal senso. Significa immaginare un mondo che a metà secolo smette del tutto di usare combustibili fossili per produrre energia, risparmia risorse, riducendo le drammatiche disuguaglianze presenti. Sfida altissima, che nessuno, singolarmente può risolvere, considerando l’aumento della popolazione, il progressivo degrado degli ecosistemi e il sovranismo che riduce forme cooperative solidali.

Una proposta concreta: sarebbe opportuno che il piano di prevenzione (es. ridurre le emissioni climalteranti) e adattamento (fenomeni alluvionali,  siccità, dissesti …) ai cambiamenti climatici che la Regione deve redigere, diventasse un piano sovraordinato a qualsiasi piano regionale, sia di governo del territorio, sia dei piani settoriali e dovrebbe coinvolgere tutti i livelli amministrativi. E’ la nuova metrica per affrontare il futuro.
Queste priorità non costituiscono nuovi vincoli, ma anzi dovrebbero favorire l’innovazione nei processi produttivi, nella governance, nelle attività di formazione e ricerca, nella creazione di lavoro utile a rendere la nostra regione meno vulnerabile e più sostenibile. In poche parole resiliente.

Uno dei capisaldi sarà la difesa attiva del suolo. La riduzione quantitativa legata alla cementificazione, la perdita di qualità di terreni agricoli privi di sostanza organica, la scarsa manutenzione,  costituiscono un importante presupposto, ad esempio, per un rapido deflusso delle acque. Una proposta di legge, che incrocia questo tema, da poco presentata in Regione (Recupero competitività) non va in questa direzione.
Questo è quello che può e dovrebbero fare le Istituzioni di concerto con tutti i portatori di interesse, considerando anche che molti cittadini hanno già modificando il loro stile di vita non per un obbligo morale ma per vivere una vita più sana e felice.

Sandro Cargnelutti- Legambiente – Fvg.

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: https://www.legambientefvg.it/cms/temi/educazione-ambientale/1669-un-escursione-alla-scoperta-del-clima-che-cambia-in-friuli-venezia-giulia.html

Gianpaolo Carbonetto. Le friabilità di un Paese.

$
0
0

«Davanti ai disastri provocati dall’acqua e dal vento in Carnia, nel Bellunese e in altre parti d’Italia bisognerebbe riuscire a superare in fretta le prime, pur forti e stravolgenti, emozioni per cominciare a pensare immediatamente al futuro. Non può essere sufficiente per tutti noi, infatti, piangere per le vittime, o lamentarsi per i danni catastrofici da riparare e per le stagioni turistiche almeno in parte inevitabilmente compromesse. Né può bastare, per i politici, pensare di aver esaurito il proprio compito stanziando, pur faticosamente, qualche centinaio di milioni per ricostruire ciò che è andato perduto e per aiutare chi i danni li ha subiti in prima persona.

Ci sono, infatti, almeno due cose di ancor più grande importanza che tutti, sia i politici, sia coloro che ne determinano l’elezione, dovrebbero tener ben presente.

La prima consiste nel rendersi conto che la locuzione “mutamento climatico”, apparentemente legata soltanto a piccoli cambiamenti di abitudini meteorologiche, nasconde, invece, quella che è la maggiore e più terribile minaccia alla vera e propria sopravvivenza, se non del pianeta, almeno della nostra specie e della civiltà a essa legata. Non soltanto i disastri di questi giorni stanno cessando di essere eccezionali, per diventare una regola con episodi sempre più ravvicinati nel tempo, ma il progressivo innalzarsi della temperatura sta già spostando le necessità umane, animali e vegetali in maniera stravolgente e il cambiamento accelererà sempre di più. Sapere che tutto questo dipende quasi unicamente dall’incredibile aumento di emissioni nell’atmosfera di gas capaci di aumentare l’effetto serra dovrebbe farci capire che la strada sulla quale oggi stiamo camminando porta alla morte. Ma evidentemente sono tanti – e non sto parlando soltanto di Trump – a pensare soprattutto alla propria attuale comodità più che alla sopravvivenza di figli, nipoti e discendenti.

Ma se questa constatazione può darci qualche alibi di impotenza in quanto riguarda l’azione politica e sociale dell’intero pianeta, una seconda evidenza ci coinvolge molto più direttamente perché riguarda proprio i territori in cui viviamo e la loro amministrazione. Poche settimane fa, alla presentazione del libro “Sisma. Dal Friuli 1976 all’Italia di oggi”, geologi, ingegneri, tecnici e amministratori hanno convenuto che se il “modello Friuli” non è stato applicato anche in altre zone colpite dai terremoti, questo dipende in parte dal fatto che oggi non potrebbe più essere applicato nemmeno in Friuli. Nuove leggi, dilagare della burocrazia e ancora più aumentata attenzione a ciò che può procurare voti rispetto a quello che davvero potrebbe fare il bene della società hanno composto una miscela assolutamente esplosiva che dovrebbe essere disinnescata e che, invece, addirittura sta progressivamente aumentando la sua pericolosità.

Oggi tutti deprechiamo sdegnati che in Sicilia si sia lasciata in piedi una villetta nel greto di un corso d’acqua che, gonfiatosi, ha distrutto nove vite, ma vi invito a dare un’occhiata alle aree golenali dei corsi d’acqua nella nostra regione e a contare quanti edifici, abitativi, produttivi, o addirittura pubblici, vi sono stati costruiti. Senza contare le coltivazioni concesse su aree demaniali. E intanto la politica trucca la realtà con parole che hanno l’unico scopo di distogliere l’attenzione, di illudere che si sia fatto tutto, mentre – per bene che vada – si è appena cominciato a fare qualcosa.

Un esempio che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi è quello della “Protezione civile”, organizzazione più che benemerita, oltre che necessaria, ma che porta, però, un nome sicuramente sbagliato. “Protezione”, infatti, deriva da proteggere, dal latino pro (davanti, cioè prima) e tegere (coprire). Quindi proteggere vuol dire fare scudo, intervenire in anticipo e non a frittata già fatta, quando si tratta di raccogliere morti e feriti, di recuperare quel poco che non è stato distrutto, di fare i pesanti conti dei danni, di rattoppare alla bell’e meglio comunità che portano ferite tanto gravi da non riprendersi più, se non trasformandosi profondamente; e non sempre in meglio. In realtà la Protezione civile che conosciamo dovrebbe chiamarsi, più puntualmente, “Soccorso civile” e dovrebbe continuare a essere pronta a intervenire sui disastri perché mai l’uomo riuscirà a innalzarsi completamente sopra la natura e a evitarli del tutto. Ma accanto ci dovrebbe essere una vera e propria “Protezione civile” intesa non solo come organizzazione, ma anche e soprattutto come sincera filosofia politica che possa essere messa in condizioni di lavorare per la prevenzione. Una “Protezione civile” capace di conoscere, studiare, progettare, intervenire e di pretendere, con buone probabilità di successo, di avere i fondi, per adempiere ai propri compiti. E, insieme, solidalmente, dovrebbe muoversi una società conscia dei pericoli a cui va incontro, ben consapevole che mettere in sicurezza un versante è meno appariscente che costruire un nuovo ponte, ma che privilegia davvero la sicurezza, anche se fa ritardare la comodità.

Ed è difficile non pensare che i disastri provocati dalla natura, o dall’uomo, si avvicinano molto anche ai disastri sociali nei quali la natura c’entra davvero ben poco. Perché l’Italia è un Paese molto friabile fisicamente, ma anche socialmente. E se intervieni sempre in emergenza non puoi che stravolgere, mentre servirebbe gradualità e progettualità per innovare davvero, cioè cambiando, pur nel rispetto di ciò che di esistente merita di essere conservato, sia a livello materiale, sia a livello sociale; ma con la determinazione a non lasciarsi irretire da abitudini di apparenza e non di sostanza; di futile comodità e non di concreta sicurezza.

Gianpaolo Carbonetto».

Prima pubblicazione dell’articolo su: http://carbonetto-udine.blogautore.repubblica.it/2018/11/05/le-friabilita-di-un-paese/. “Eppure …”. Il testo è qui riportato per gentile concessione dell’autore, che sentitamente ringrazio. Gianpaolo Carbonetto, giornalista, è una storica firma del Messaggero Veneto, ed è stato caporedattore del settore cultura e spettacoli del noto quotidiano locale. L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: https://video.gelocal.it/messaggeroveneto/locale/maltempo-crolla-la-strada-vicino-al-ponte-di-san-martino-di-ovaro/103863/104899. Laura Matelda Puppini

Discorsi vecchi per l’alluvione nuovo, ed alcune considerazioni sugli interventi in Carnia e bellunese.

$
0
0

Leggo ancora dei disastri carnici e bellunesi, e mi paiono interessanti alcune osservazioni di Riccardo Riccardi, laureato in architettura, che parlava, il 4 novembre 2018, di «mettere in sicurezza la Carnia», in particolare per quanto riguarda frane e corsi d’acqua e di contenimento idraulico ed idrogeologico. Almeno Riccardi tratta il problema in termini generali, mentre altri pensano ora alle piste da sci ora al turismo, ora a problemi locali, che sono importanti, ma non possono essere, presi singolarmente, in pole position dopo un disastro di queste dimensioni. Ma voglio presentarvi alcune considerazioni e riflessioni che potrebbero essere anche attualizzate, del senatore friulano comunista Giacomo Pellegrini (e non accusatemi per cortesia per questo di essere così o colà, ma invece leggetele per rendervi conto della loro portata) nel merito dei problemi sorti dopo l’ennesima alluvione del Polesine, quella del 1956. Egli le aveva presentate nel 1958 e son pubblicate in: “Relazione del compagno sen. Giacomo Pellegrini, in: Giacomo Pellegrini, G. Carlo Pajetta, Per la rinascita ed il progresso della valle padana. Discorsi pronunciati all’ Assemblea dei Comunisti della Valle padana, Rovigo, 8-9 febbraio \1958, leggibile utilizzando il link presente in: http://www.storiastoriepn.it/alcuni-scritti-di-giacomo-pellegrini/.  
Da questo testo si possono ricavare delle considerazioni che possono far riflettere anche sul post alluvione della montagna carnica e del bellunese oggi.

 L’importanza dell’analisi prima dell’azione.

Bisogna «definire e chiarire i problemi che qui si pongono, precisare ed indicare a noi, ai lavoratori ed alle popolazioni, le soluzioni e l’azione necessaria per conseguirle». – scriveva Pellegrini un paio di anni dopo l’ennesima alluvione del Polesine.  (Ivi, p. 5). E continuava dicendo che non si doveva temere di denunciare le precise responsabilità nell’accaduto, e di richiedere un profondo mutamento dell’indirizzo politico/economico del paese.

Le cause di alcuni disastri non sono solo naturali, ed un danno in montagna si riversa anche sulla pianura.  

Le drammatiche alluvioni dei […] fiumi, il Po, il Reno, il Mincio, i fiumi del Piemonte e della Lombardia, le minacce del’ Adige di questi anni, – proseguiva- sono là ad indicarci la fragilità delle strutture elementari in cui deve svolgersi la vita delle popolazioni di questa terra».  (Ivi, p. 7).
Così anche l’attuale alluvione, che ha distrutto la montagna veneta e friulana, ha messo in risalto la fragilità di un territorio e dei luoghi di vita e lavoro delle popolazioni anche a causa dell’uomo.

Ed anche allora si notavano zone di disgregazione, miseria, degrado, in particolare nella parte montana della Val Padana, che soffriva in modo particolare per lo spopolamento, la disoccupazione, l’emigrazione. Inoltre non si poteva analizzare il problema di come intervenire per evitare situazioni di quel genere non tenendo conto dall’ «immiserimento continuo e progressivo» della popolazione, e del ceto medio (Ivi, p. 6). In sintesi per Pellegrini la messa in sicurezza delle zone alluvionate non poteva esulare da una analisi delle zone socio – economiche per chiarire la natura dei problemi e la loro correlazione. Ed a suo avviso «calamità ed incuria governativa» (Ivi, p. 7) potevano esser viste come cause del disastro. Ma cosa potremmo dire ora della Carnia, se per “governativa” si intende di chi ha governato anche a livello locale? Nel 1958 non esistevano le Regioni, ma ora …
Non da ultimo allora in Polesine erano mancate, come in Carnia e Cadore ora, le «necessarie opere di difesa» (Ivi, p. 7) di manufatti ed abitazioni, (Ivi, p. 7) che, in alcuni casi fra l’altro, erano state costruite in zone non adatte.

«Molto si è detto e molto si è scritto nel corso di questi anni – proseguiva Pellegrini – sulle cause che hanno determinato il succedersi di alluvioni e mareggiate così disastrose: dal modificarsi dei fattori metereologici al bradisismo, dall’accumularsi delle conseguenze del depauperamento dell’economia montana al disordine economico accentuatosi in una società […] in cui predominano sempre più l’interesse del monopolio e della grande proprietà […]. (…). Ora senza togliere nulla della grande importanza che hanno le ricerche scientifiche e le indicazioni della tecnica, quello che credo, alla luce delle esperienze di questi anni, […] è che le alluvioni e le rotte dei fiumi sono il punto di arrivo di una politica che, lungi dal promuovere il progresso economico e sociale, non è nemmeno riuscita ad assicurare almeno la conservazione delle realizzazioni passate ed ad impedire che una piena dei fiumi travolga secoli di lavoro».  (Ivi, p. 11). Più chiaro di così, penso tra me e me …

I disastri non devono ripetersi. E per intervenire i soldi ci possono essere ma poi …

Pellegrini sottolineava poi che, nel 1951 al Convegno Nazionale di Mantova, si era precisato come la difesa idraulica fosse di assoluta priorità. Consolidare le difese idrauliche e perfezionarle era sicuramente il primo obiettivo. (Ivi, p. 12). E non erano mancate allora le proposte di tecnici e scienziati per raggiungere detto risultato. Ma poi …  «A sei anni di distanza è nelle cose la dimostrazione che le richieste del Convegno di Mantova hanno fatto la fine di tanti progetti morti nel cassetto oppure ridotti di misura e di efficienza, dilazionati e frammentariamente eseguiti» tanto da perdere la loro efficacia.  (Ivi, p. 9). Eppure i soldi non rano mancati, e si parlava di 120 miliardi di lire autorizzati dal Ministro Togni per mettere in sicurezza i fiumi italiani, di cui però ne erano stati spesi, in sei anni, solo 11. (Ivi, pp. 11-12). Dopo l’alluvione del 1951, era stato lanciato un prestito per il Polesine che aveva fruttato 147 miliardi dei quali ne erano stati spesi sicuramente 40 e per il resto «silenzio assoluto». (Ibid.). Ed era stata nominata pure una commissione speciale di tecnici, di cui non si era però saputo più nulla. E già allora si chiedeva che il Parlamento, non esistendo ancora le Regioni, svolgesse una azione di controllo sugli investimenti (Ivi, p. 28).

Per evitare i disastri bisogna aver cura della montagna. La montagna come problema nazionale.

«La popolazione in montagna vive in condizioni di estrema difficoltà, – sottolineava allora Pellegrini, citando anche un documento della Comunità Carnica – sia per quanto concerne l’organizzazione della vita sociale, sia per le condizioni tristissime della sua vita, anche di quelle estremamente elementari». (Ivi, p. 13). Da qui il fenomeno emigratorio, particolarmente accentuato in Carnia e Canal de Ferro, che andava privando di persone vigorose ed intelligenti i territori, creando «una selezione alla rovescia». (Ivi, p. 14). E già allora la Comunità Carnica segnalava come si venisse delineando un quadro sociale di vasta portata e patologico. (Ibid.). Inoltre per far in modo che i disastri non si ripetessero anche in pianura, bisognava effettuare tutta una serie di opere, non solo il rimboschimento delle montagne. E risultava già allora necessario «legare i montanari ad un’attività di difesa del suolo» (Ivi, p. 13) attraverso il miglioramento dei pascoli, l’intensificazione dell’agricoltura ed il perfezionamento dell’ordinamento produttivo agrario, ed era giunto il momento, improcrastinabile, di porre «da un punto di vista dell’interesse nazionale, il problema della montagna». (Ibid.). Ma invece «prati e pascoli vengono progressivamente abbandonati e la zootecnia praticamente declina». (Ivi, p. 15). Cosa è mutato da allora? – mi chiedo io. Mi pare che in sessant’ anni la montagna abbia perduto ancora in risorse, servizi, popolazione, possibilità.

Pellegrini, poi, si chiedeva cosa avessero fatto i governi democristiani, nel concreto, per affrontare e portare a soluzione il problema montagna. E denunciava come il Governo e le leggi esistenti non fossero riusciti, sino ad allora, neppure a far versare dal monopolio idroelettrico, ai comuni dei bacini imbriferi, il dovuto, ma solo 6 dei 27 miliardi di cui era debitore. «Per la montagna, nel quadro di una rinascita della Valle Padana- scriveva Pellegrini – si impone una politica di riforma agraria, di interventi statali, di sviluppo dell’artigianato, del turismo e soprattutto di uno sviluppo industriale reso possibile da un piano organico di sistemazione ed utilizzazione delle acque: acque che rappresentano la principale fonte di lavoro e di reddito per le popolazioni della montagna, fonte di reddito che deve essere sottratta ai monopoli idroelettrici. Questo, dando una prospettiva di vita economico sociale migliore e di più alto livello di vita civile ai montanari, li saprà legare a quell’attiva difesa del suolo che resta indubbiamente una delle principali condizioni per la regolazione di tutti i fiumi». (Ivi, p. 16). Ed allora Pellegrini diceva che non poteva non destare preoccupazione il fatto che Edison, Montecatini e Sade avessero posto l’occhio anche sul Po «per sottoporlo al loro sfruttamento». E le forze che avevano a cuore la valle e lo sviluppo dell’economia generale avrebbero dovuto, a suo avviso, intervenire per impedire che si ripetesse nella Bassa Padana «la triste esperienza dello sfruttamento monopolistico delle acque e delle valli montane […]». (Ivi, p. 21).

Questo sosteneva Giacomo Pellegrini nel lontano 1958. Da allora sono passati 60 anni, e quello che si comprende è che alla salvaguardia del territorio in montagna si è pensato ben poco e si sono iniziati invece a vedere i danni all’ambiente creati dalle grandi centrali: basta leggere quanto denunciato da Lucio Zanier nel suo. “Lucio Zanier; Fatti e misfatti S.A.D.E. – E.N.E.L. in Carnia e forse una proposta di miglioramenti, Ribis, 1981, lasciando perdere la tragedia del Vajont. E non sappiamo ancora bene cosa accadrà con le ‘mille’ centraline, e forse quando lo sapremo e vedremo avremo già raggiunto il punto di non ritorno. Perché la terra ha un limite come lo hanno le sue risorse e non funziona a compartimenti stagni.

Bonifica, trasformazione fondiaria, gestione del territorio e conflitti di competenze.

Pellegrini faceva notare come uno degli aspetti negativi, emersi dopo le alluvioni del Polesine, fosse stato il regime consortile, che aveva portato a ritardi nei lavori, con conseguente allagamento di un intero comune, evitabile se si fosse intervenuti in tempo (Ivi, p. 16). Inoltre vi era stato un conflitto di competenze fra Genio Civile, Consorzi di Bonifica ed Ente di Riforma, dietro il quale, per Pellegrini, stavano interessi privati, (Ibid.). Pellegrini pertanto faceva propria la proposta di demanializzazione degli argini, il che avrebbe comportato di non dover erogare contributi specifici a più enti e consorzi, ed il poter proporre una politica favorevole agli interessi comuni e di collegamento diretto con la bonifica anche montana. Ma allora il numero dei consorzi di bonifica in Val Padana era altissimo: infatti all’epoca ce n’erano oltre 200, tutti controllati da grossi proprietari terrieri, senza contare quelli montani. Ed essi ‘dominavano’ sul territorio. Questi consorzi avevano ricevuto dallo Stato centinaia di miliardi per la realizzazione di opere pubbliche e di miglioramento fondiario. L’impiego di detto denaro, a opere di bonifica eseguite, avrebbe dovuto assicurare lavoro stabile a 150.000 persone oltre quelle già occupate, ma i soldi erano stati  spesi senza riscontro alcuno in tal senso: anzi nelle zone di cascina vi era stata una diminuzione del 20% fra gli occupati, ed un declassamento dei braccianti occasionali.  Né erano migliorate le condizioni di vita delle popolazioni mezzadrili e contadine. E soldi statali erano stati dati anche a privati. (Ivi, p. 17). Infine allora non si sapeva se i cinque sbarramenti previsti per il Po sarebbero stati costruiti seguendo un piano organico di regolamentazione delle acque del fiume o no. (Ivi, p. 21).

Pertanto chi deve fare che cosa è importante ora come allora, ma pure come farlo, in una visione di insieme, e se un Ente ha già ricevuto e non correttamente speso, non può richiedere per primo. Non da ultimo il mito dell’aumento dei lavoratori era già fallito allora in Val Padana. Inoltre come diceva allora Pellegrini, si deve cercare di utilizzare tutte le tecniche, la scienza possibile ed i “mezzi più perfezionati” ed adeguati per la sistemazione idraulica dei fiumi, che non è lavoro, secondo me, da far da soli, o sotto le indicazioni della Protezione Civile.
Ed ora passo ad alcune ulteriori considerazioni sulla Carnia e sul bellunese devastati nel 2018, 60 anni dopo le considerazioni di Pellegrini.

Ed ora in Carnia …

Riparare e ricostruire quanto rovinato non è mettere si sicurezza, non è procedere verso una sistemazione idraulica nazionale, specificava Pellegrini, e l’interesse pubblico è diverso da quello privato. (Ivi, pp. 16-17). E fin qui credo che non si possano fare obiezioni. Inoltre le opere di bonifica e sistemazione montana sono essenziali anche per la pianura. E credo che questo non debba insegnarcelo Pellegrini.

Cosa ci dice un ingegnere idraulico. “Sistemazioni idraulico-forestali dei corsi d’acqua a carattere torrentizio”.

Mentre leggo gli articoli del Messaggero Veneto sui disastri alla montagna carnica e bellunese che si può vedere come un unicum perché non vi è confine naturale tra l’una e l’altra, e presentano le stesse forme di sfruttamento e di problematiche, (Cfr. il mio Considerazioni sull’alluvione in Carnia e su alcuni problemi non solo carnici, mentre fuori ha ripreso a piovere, in: www.nonsolocarnia.info), mi chiedo se si è pensato ad un progetto di sistemazione Idraulica e forestale comune con il dirimpettaio veneto, o se siamo ancora a “fasin di besoi”. Inoltre io se fossi un ingegnere idraulico mi offenderei dal sapere che nessuno ha chiamato qualcuno della categoria per fare un due sopralluoghi ed ipotizzare opere serie per almeno non rifare ogni montana le strade ed i ponti. Perché quello che è accaduto a strade e ponti era prevedibile, soprattutto alla luce dell’interessante lavoro del docente universitario prof. Ing. Antonino Cancelliere, del Dipartimento di Ingegneria civile ed ambientale dell’Università di Catania, intitolato: “Sistemazioni idraulico-forestali dei corsi d’acqua a carattere torrentizio”, corredato da numerosi esempi e tavole, che vi consiglio vivamente di visionare.
Per la verità non è che la facoltà di ingegneria dell’Università di Udine non abbia analogo corso per la specialistica, e forse lo ha anche l’Università di Trieste, ma non si possono leggere on line i materiali. E dato che i fiumi carnici si stanno comportando come i torrenti, ed hanno fatto danni analoghi a quelli che fanno i torrenti negli esempi portati dal prof. Cancelliere, vale davvero la pena di prendere in considerazione quanto scrive.

Egli in premessa precisa che «Con il termine sistemazioni idrauliche si intendono tutte le attività e gli interventi nei corsi d’acqua volte a modificare il regime di moto dell’acqua al fine di: ridurre i fenomeni di erosione in alveo e nei versanti; ridurre la probabilità del verificarsi di esondazioni; modificare il regime del trasporto solido; imporre condizioni di “equilibrio”». (Antonino Cancelliere, op. cit.). Quindi egli continua, sinteticamente, distinguendo la sistemazione del tratto montano dei torrenti da quello del tratto medio-vallivo. Nel caso dei tratti montani, «gli interventi sono prevalentemente orientati a ridurre i fenomeni di erosione, e più in generale, a ridurre gli effetti nocivi legati al trasporto di sedimenti». (Ivi). Nel secondo caso, gli interventi sono prevalentemente mirati a «ridurre il rischio di esondazione, attraverso la realizzazione di manufatti come ad es. arginature, casse di espansione, risagomatura degli alvei, etc.» (Ivi).
Ma anche il Degano è esondato, indipendentemente dal fatto che la chiusa all’altezza della cartiera fosse stata aperta troppo tardi, che è altro problema, ad Ovaro, dove vi è un pianoro. E forse se si fosse intervenuti prima sulla regolazione delle acque del fiume non solo a fini economici ma anche di tutela del territorio .. …

Inoltre non è questione solo di sghiaiare … La sesta diapositiva del professor Cancelliere mostra un danno da erosione di sponda a strade che pare proprio quelli visti concretamente nel territorio montano qualche giorno fa ed ancora presenti, e quindi tecnicamente prevedibili, se non si guarda solo al becjut.
Dove il letto è stretto e pendente, come nei tratti montani da noi, l’agire dell’ingegnere idraulico  deve avere come finalità, sempre secondo il prof. Cancelliere, (1) la stabilità dei versanti, attraverso interventi volti a ridurre i fenomeni erosivi sul bacino, specie quelli localizzati, attraverso terrazzamenti, seminagione di essenze adeguate, opere di drenaggio; (2) la stabilità delle sponde, intervenendo con muri di sponda, scogliere longitudinali, protezione in pietrame, gabbionate, etc. e briglie; (3) la stabilità dell’asta tramite Interventi atti a modificare i fenomeni di erosione e trasporto solido, briglie e soglie di fondo. (Ivi).

Sui torrenti che trasportano molto materiale a valle, bisogna intervenire riducendo l’erosione nei versanti e costruendo briglie di trattenuta del materiale oltre che piazze di deposito a valle. (Ivi). Si può anche però ridurre la forza erosiva dell’acqua attraverso una correzione della pendenza, con soglie e briglie. Ma la tipologia di intervento dipende anche da quella del trasporto, cioè se vi è principalmente trasporto di materiale sul fondo e in sospensione da parte di una corrente idrica o impasto fluido di detriti in cui l’acqua ha il ruolo di fluidificante. (Ivi). Ed il prof. Cancelliere ci dà pure una serie di esempi e di calcoli, che chi è ingegnere può prendere in seria considerazione.

Ma siamo proprio sicuri che sia tutta colpa degli ambientalisti?

Un’ultima parola sull’ipotesi che è tutta colpa degli ambientalisti che non vogliono far tagliare gli alberi. Non solo non risulta che gli ambientalisti abbiano retto la Regione Fvg, così da imporre i loro ipotetici desiderata, peraltro mai sentiti, ma attualmente il regime del taglio negli alvei in Fvg è regolamentato dalla «Legge regionale 29 aprile 2015, n. 11. Disciplina organica in materia di difesa del suolo e di utilizzazione delle acque», pubblicata sul Bollettino Ufficiale Regione Friuli Venezia Giulia 6 maggio 2015 – 2° supplemento ordinario n. 19 del 6 maggio 2015.  Dopo la sua uscita, si poteva leggere sul Messaggero Veneto del 1° luglio 2015 un articolo così intitolato: «Tutti potranno tagliare alberi dagli alvei dei fiumi. Le novità della legge regionale, che fissa i quantitativi e prevede anche autorizzazioni».

E per finire …

Ed a cattolici e cristiani dico che la cura del creato non è che la cura dell’ambiente, per cui tutti dovremmo essere ambientalisti, come specificavo ad un incontro sulla ‘Laudato si’’ al Centro Balducci di Zugliano.
E se nessuno bada al territorio montano ed alla sua gestione in modo rispettoso con azioni sinergiche e con sistemi ora scientifici, si può prevedere come andrà a finire, anzi lo si è già visto. Infine non si deve solo essere presi dalla smania di fare ed aggiustare alla buona per via del turismo che è certamente importante, perché si rischia grosso ed il futuro di ambiente economia e vita in montagna. Pertanto per prima cosa vi prego, politici, rivolgetevi a qualche ingegnere del ramo, e fatevi consigliare, e fate progettare in modo serio e duraturo, senza fretta, senza pensare alle elezioni, senza più piangere, ma affrontando la realtà, che da come la descrivono i giornali, è durissima. E se frana qui frana anche là, ed il problema della diffusione del bostrico è reale, mentre si pensa mi pare troppo intensamente a come innevare artificialmente piste.  «Ci vorranno quattro o cinque anni per ripulire i boschi dal disastro – diceva Favero riferendosi alla zona delle Dolomiti – (…). È un colpo mortale per l’ecosistema, perché con l’azzeramento di interi boschi si azzera anche la biodiversità e si cambia perfino il clima locale». (Albina Salmaso, Dolomiti massacrate. Qui è l’Apocalisse. Anni per ripartire, in Messaggero Veneto 4 novembre 2018). Ma nello stesso articolo si parla anche di danni provocati dalla diga di Auronzo. E pure a Sauris vi sono state frane sul lago, mentre sulla Cimoliana la ‘briglia’ era a rischio. (F.FI. Messaggero Veneto 4 novembre 2018).   Il 3 novembre 2018 alla tv parlavano di 100 anni per far ricrescere il bosco, di piante che restando lì naturalmente sarebbero marcite grazie anche a batteri naturali che potrebbero intaccare piante sane e di altre bazzecole, come la possibilità che la neve accumulandosi nelle zone disboscate dall’alluvione possa creare slavine che potrebbero trascinare altri alberi a valle. Inoltre magari lasciamo perdere le piantagioni di peccio perché da anni si sa che non sono una buona idea se non si vuole avere piante a terra col vento.

Grazie a chi è intervenuto e sta intervenendo nell’emergenza, ma poi prima di far qualcosa, per cortesia studiate bene il problema e vedete di normare per legge il territorio ed i fiumi, che il privato lo voglia a meno. Ne va della nostra montagna, e non è uno scherzo, e ciò che è accaduto è accaduto, e non si può chiudere gli occhi pensando che con la pioggia ed il vento sia finito tutto per gli anni a venire.

Senza voler offendere alcuno, ma solo per esternare un mio pensiero anche discutibile, e se ho capito male qualcosa, correggetemi e commentate, se lo desiderate.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: https://www.udinetoday.it/cronaca/maltempo-udine-friuli-30-ottobre-2018.htm.

Franceschino Barazzutti. Perché no alla centralina sul rio Pecol, in comune di Paularo.

$
0
0

«Non conosco il sindaco di Paularo Daniele Di Gleria, ma ho letto le sue dichiarazioni a favore della costruzione di una centralina idroelettrica sul rio Pecol nei pressi di Dierico.

Afferma il sindaco che la costruzione della centralina “non comporta alcun impatto ambientale” e che “porterà economia con assunzione di manodopera per la sua costruzione e con produzione di energia elettrica a favore della popolazione locale”.  Al contrario è scientificamente acquisito che ogni derivazione su un corso d’acqua lo compromette in modo più o meno profondamente, ma lo compromette. Gli esempi in Carnia, purtroppo, abbondano. Abbondano i corsi d’acqua snaturati dalle derivazioni grandi, medie e … mini. Ma dove vive il sindaco Di Gleria se non se ne è accorto
Se poi, il sindaco pensa che la costruzione della centralina dia un contributo all’occupazione mi pare non abbia il senso delle proporzioni e che si accontenti di ben poco.

Le derivazioni idroelettriche sono un fattore del dissesto idrogeologico della nostra montagna: purtroppo attuale in questi giorni! Dall’energia prodotta, che per legge il produttore deve consegnare ai convogliatori Enel o Terna e non già alle utenze locali, come vuol far credere il sindaco, il vantaggio lo trarranno unicamente le tasche del concessionario e non la popolazione locale che, come se non bastasse, paga in bolletta la maggiorazione dell’incentivo all’energia rinnavabile qual’è l’idroelettrica e che il governo gira al privato produttore: un buon business!

Il sindaco Di Gleria immagina (il verbo è appropriato!)  di costituire una società in cui confluiscano le centraline in funzione nel territorio comunale “con l’obiettivo di produrre energia elettrica per la popolazione e le aziende locali e … per avere energia a prezzi più bassi”.
Orbene, il sindaco Di Gleria o non sa di che cosa parla o – astutamente – spinge in un futuribile molto avanti la “immaginazione” per coprire la presente realtà della difesa degli interessi dei proponenti privati della centralina. Compito di un sindaco dovrebbe essere quello di tutelare l’ambiente, il “bene comune acqua” che sarà sempre più strategico, e non un interesse privato.
Nel caso in esame tirare in ballo – come fa il sindaco – l’esperienza Secab è fuorviante, poiché quest’ultima è una cooperativa fondata nel 1911 che, come tale, è destinataria di una particolare legislazione che, addirittura, la esentò decenni fa dalla nazionalizzazione, mentre in Val d’Incaroio i concessionari, tranne l’ex Comunità Montana, sono soggetti privati e gli utenti dell’elettricità non sono soci di una cooperativa come nel caso della Secab.

Detto questo, il caso della proposta costruzione della centralina sul rio Pecol, come purtroppo di altre nella montagna friulana, deve offrire l’occasione per un serio dibattito tra amministratori comunali e, principalmente, tra e con la gente nei vari paesi per costruire un movimento popolare che imponga un modello energetico funzionale a chi vive e lavora in montagna. Le conseguenze del recente maltempo hanno messo a nudo una contraddizione inaccettabile: la nostra montagna è una grande produttrice di energia idroelettrica, ma resta spesso…. al buio!

Il superamento di questa contraddizione, che inchioda la montagna nel ruolo coloniale di fornitrice di energia senza esserne fruitrice, richiede una serie di provvedimenti: l’abolizione dell’obbligo del conferimento di tutta l’energia prodotta ai convogliatori Enel e Terna, la fornitura da parte dei concessionari di una quantità di energia alle locali comunità anche a titolo gratuito dal momento che utilizzano il bene comune acqua, la costituzione della Società Energetica Regionale a capitale pubblico come prevista dalla Proposta di Legge n. 193 della scorsa legislatura. Per farla breve, il sindaco Di Gleria conservi integro il rio Pecol e si informi sul modello energetico del Trentino, dell’Alto Adige, della Val d’Aosta, regioni autonome come la nostra. Lo facciano anche gli altri sindaci della montagna: vi troveranno soluzioni adeguate alla tutela dell’ambiente, della popolazione che vive in montagna, del preminente interesse pubblico su quello privato e non viceversa. Trovino il coraggio almeno di copiarle.

Franceschino Barazzutti, già sindaco di Cavazzo Carnico- già presidente del Consorzio BIM del Tagliamento»

Testo giuntomi, con preghiera di pubblicazione, da Franceschino Barazzutti e riportato, il 7 novembre 2018, anche  da FriuliSera (https://friulisera.it/una-centralina-idroelettrica-sul-rio-pecol-allarme-di-franceschino-barazzutti-che-posta-una-lettera-al-sindaco-di-paularo/). L’immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso, sempre da: https://friulisera.it/una-centralina-idroelettrica-sul-rio-pecol-allarme-di-franceschino-barazzutti-che-posta-una-lettera-al-sindaco-di-paularo/, e mostra il rio Pecol. Laura Matelda Puppini

 

 

 

Mario Di Gallo. Sulle sistemazioni idraulico forestali.

$
0
0
Ho chiesto a Mario Di Gallo, dottore forestale, di poter mettere come articolo un suo commento al mio “Discorsi vecchi per l’alluvione nuovo, ed alcune considerazioni sugli interventi in Carnia e bellunese”, perchè mi pare egli faccia un discorso davvero interessante. Il dott. Di Gallo prende spunto dal testo da me citato, intitolato: “Sistemazioni idraulico-forestali dei corsi d’acqua a carattere torrentizio”, del  prof. Ing. Antonino Cancelliere, del Dipartimento di Ingegneria civile ed ambientale dell’Università di Catania, per fare delle considerazioni puntuali nel merito delle sistemazioni idraulico forestali, che propongo alla vostra attenzione, chiedendomi perchè nessuno abbia mai pensato a “mettere in sicurezza”, come ha detto Riccardo Riccardi, il territorio della Carnia. Laura Matelda Puppini 
♦♦♦

«Mi permetto solo un breve commento relativo alle sistemazioni idraulico forestali. Il testo citato del prof. Cancelliere riprende nozioni di idraulica applicata classiche e ben note fino agli anni ’80. Per fortuna con l’introduzione dell’ingegneria naturalistica siamo andati ben oltre e in modo virtuoso almeno per quanto riguarda questa Regione fino agli anni 2000 (la buona ingegneria naturalistica scompare e si integra perfettamente nel paesaggio dopo un paio di anni, le opere d’arte in cemento invece no, ergo: quello che appare di più paga in termini economici e di voti …). Le sistemazioni classiche, che mantengono comunque la loro validità, si sono fatte prendere la mano dai “cementieri” che pian piano hanno fatto riempire di cemento anche opere di difesa longitudinale, come le scogliere a secco, che garantivano la “filtrabilità” e la flessibilità adattandosi ai naturali movimenti delle sponde fluviali. Ma questi sono dettagli tecnici. Ciò che ancora non si vuole capire è che da decenni abbiamo rubato (e continueremo a rubare: vedi sistemazioni in Valcanale e Canal del Ferro dopo l’alluvione 2003)) lo spazio agli alvei canalizzandoli, costringendo le portate di piena a correre sempre più veloci, con più trasporto solido, con pelo d’acqua sempre più alto. La conseguenza è un impatto tremendo di masse fluide (acqua e detriti) su spalle e pile di ponti mal progettati o mal mantenuti (che riducono la sezione di portata), su argini deboli e bassi e presso strettoie (erosioni e allagamenti). E allora non resta che restituire agli alvei la loro più ampia sezione, eliminando opere idrauliche inutili, ri-naturando il fondo dei torrenti montani eliminando le briglie e soglie (risultate in certi casi superflue) con il riposizionamento delle grandi pietre (spesso asportate a fini commerciali), aumentando quindi la scabrosità del fondo, allungando il percorso delle acque e ricostituendo le naturali “casse di espansione” di fiumi e torrenti. Lo scopo è quello di rallentare più possibile il flusso delle acque verso le aste principali, diluendo così le portate in tempi più lunghi ed evitando le esondazioni in pianura (Leonardo da Vinci aveva realizzato un simile modello di riduzione delle portate già alla sua epoca). Non è fanta-idraulica questa, in Svizzera la ri-naturazione degli alvei è una realtà da decine di anni. Ma purtroppo i nostri amministratori dimostrano di non avere le idee molto chiare in questo senso: pare infatti che “la pulizia degli alvei dei fiumi dalla folta vegetazione che fa da barriera al deflusso delle acque verso valle” (Assessore Roberti al Ministro Costa, su “notizie dalla giunta” in sito FVG del 9/11/2018). Ma su questo, sono sicuro, anche il prof. Cancelliere avrebbe molto da ridire.

Mario Di Gallo, dottore forestale».

♦♦♦

L’immagine che correda l’articolo è quella che illustra il testo “Ingegneria naturalistica”, che si trova sul sito dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Ispra. (http://www.isprambiente.gov.it/it/temi/suolo-e-territorio/ingegneria-naturalistica). Laura Matelda Puppini

Viewing all 1257 articles
Browse latest View live