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Serena Pellegrino. Marcia per il clima. Per un futuro giusto e sostenibile. Siamo i custodi della Terra, non i padroni.

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Introduzione.

Prego, per una volta, di non vivere l’on. Pellegrino solo per il Partito che rappresenta ma di leggere qualcosa di importante per tutti. Il futuro del pianeta non è prerogativa della destra o della sinistra, come ben ci ha ricordato Francesco Papa con la sua “Laudato si”, e io credo si debba smettere di dividersi in ambientalisti o meno: tutti dobbiamo esser interessati alle generazioni future, che sono i nostri nipoti, e operare per limitare i danni  ambientali, per un futuro sostenibile, sposando il poco e meglio. Ma è anche vero che se noi cittadini possiamo fare qualcosa, se l’impegno non diventa nazionale e verso un’altra economia, poco resta da sperare.

Mi trovavo domenica pomeriggio ad Udine, alla Loggia del Lionello, per sentire tante considerazioni sul clima, su questo nostro pianeta tanto bistrattato, per ricordare che siamo i custodi della terra, non i padroni. Pareva una festa, non era una marcia, ma forse pochi sapevano di questo incontro importante ed internazionale che ha interessato la popolazione di molti stati e città: da Sydney a Città a Capo, da Tokyo a Dakha, da Bagdad a Madrid da Roma a San Paolo da Nuova Delhi a Kampala, Melbourne, Ottawa. La marcia  globale per il clima è stato un successo,  785mila persone, anche se paiono poche rispetto ai miliardi che popolano la terra, ma che non vivono sempre in buone condizioni, anzi,  vi hanno partecipato, 2300 eventi sono stati realizzati in 175 Paesi diversi, come precisa Avaaz, organizzatore. Cittadini di tutto il mondo si sono mobilitati per dare ai nostri figli un futuro sostenibile.
Ad Udine ho sentito gli interventi, ho visto le persone danzare insieme, mentre pensavo, lo confesso, al Premier Renzi che cento ne fa, pare, ed una ne pensa, che vuol vendere a privati la rete elettrica delle ferrovie dello Stato, con che risvolti per il trasporto pubblico futuro non si sa. Già iniziano a preoccuparsi i pendolari: e se i privati desiderano dismettere qualche tratta che si farà? Ritorneremo alle locomotive a carbone? Non è che io veda tutto nero: ho solo vissuto abbastanza da aver visto, letto, sentito a sufficienza. E poi le leggi della finanza, come tutti sanno, non contemplano l’ interesse pubblico ma solo quello privato.
Ma per ritornare alla marcia sul clima, tutti gli interventi sono stati interessanti, ed ho perduto il concerto perché dovevo e volevo rientrare a Tolmezzo. In particolare ho ascoltato con interesse le parole del Sindaco di Udine, che dava spunti pratici, attuati ed attuabili nel contesto urbano, e l’intervento dell’ on. Arch. Serena Pellegrino, che qui pubblico. Laura Matelda Puppini

Serena Pellegrino. Intervento alla Marcia per il clima, ad Udine. Loggia del Lionello, 29 novembre 2015.

Permettetemi di ringraziare tutti coloro che oggi hanno permesso che questa manifestazione si possa svolgere pacificamente in tutte le città del mondo. Una marcia che avrebbe dovuto svolgersi anche il 12 dicembre a Parigi a conclusione della conferenza delle parti voluta dall’ONU.
Purtroppo sapete che così non sarà. In questi giorni simbolicamente milioni di scarpe saranno silenziosamente deposte dai “marciatori” per dire un fermo NO alle politiche dei governi promotori di azioni che favoriscono le emissioni di co2.

A cappello del mio intervento ci tengo a comunicarvi una notizia che non si vuole far sapere: è di questi giorni la decisione della Corte di Cassazione che ha approvato i sei quesiti referendari presentati da dieci Regioni italiane contro le trivellazioni in mare. È una notizia che sta passando nelle cronache senza troppa enfasi ma che riveste un’enorme importanza, tanto più a distanza di poche ore dall’apertura della conferenza internazionale di Parigi sui cambiamenti climatici. Ora spetta alla Corte Costituzionale dare il via libera ai cittadini per poter dire NO alle trivelle e alle fossili volute dal decreto Sblocca Italia e dal decreto Sviluppo.
Ci mobiliteremo! tutti assieme.
Perché il futuro dei nostri figli e della vita su questo pianeta è preziosa.
Oggi in tutto il mondo milioni di uomini e donne si stanno mobilitando per chiedere ai rappresentati dei governi di trovare un accordo per il clima che possa assicurare un futuro giusto e sostenibile.
Perché quello che è sul tavolo di Parigi ci riguarda, tutti!
Come cittadini e come abitanti di Madre Terra!
Perché è in gioco la nostra sopravvivenza!

L’influenza dell’uomo sul sistema climatico è dimostrata con ricadute disastrose su tutti i continenti ed è colpa dei combustibili fossili che le multinazionali, con gli accordi internazionali, ci continuano a obbligare a bruciare.
Con la concentrazione di biossido di carbonio, che è aumentata a livelli senza precedenti, l’atmosfera e gli oceani si sono riscaldati, la quantità di neve e di ghiaccio è diminuita, il livello del mare si è alzato, la desertificazione interessa sempre più nuove aree, i fenomeni meteorologici devastanti si ripetono con una frequenza mai conosciuta e questo, lo sappiamo, accade sempre più spesso anche nel nostro Paese! A maggio, secondo l’Agenzia americana per gli oceani e l’atmosfera, la concentrazione d’anidride carbonica era di 404 parti per milione, ben al di sopra del livello di sicurezza che corrisponde a 350 parti per milione. È questo il limite posto dal Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici, il cosiddetto l’IPCC, per stare sotto i 2°C della temperatura media globale rispetto all’era pre-industriale.

Il riscaldamento globale sta procedendo più velocemente di quanto si pensasse e molto più in fretta delle mancate risposte che fino ad oggi sono venute dai governi dei paesi industrializzati e dal sistema economico del nostro pianeta.
Dobbiamo gestire i cambiamenti climatici, riducendo fortemente le emissioni costanti di gas serra, altrimenti il rischio di conseguenze gravi accrescerà, sarà generalizzato ed irreversibile sia per l’essere umano sia per gli ecosistemi del nostro pianeta.
I rapporti dell’IPCC hanno fornito dati e scenari che ribadiscono un punto fondamentale: dobbiamo agire, subito!
Gli eventi estremi climatici saranno sempre più frequenti e se non si interverrà subito le fondamenta stessa della nostra società come la sicurezza alimentare e l’accesso all’acqua, l’integrità degli ecosistemi e la salute umana, ma anche le infrastrutture saranno in pericolo, con un impatto immediato sui più poveri e i più vulnerabili, con la continua crescita di conflitti violenti che genereranno milioni di rifugiati climatici: gli eco-profughi!

L’ONU ha stimato che, negli ultimi 20 anni, circa il 90 per cento delle grandi catastrofi planetarie è stato strettamente connesso ad eventi climatici causando enormi perdite umane ed economiche.
Si stima che siano morte 606 mila persone, mentre i danni economici sono misurabili tra i 250 e i 300 miliardi di dollari.
Solo in Italia la spesa dovuta alle alluvioni degli ultimi sette anni, corrisponde a oltre 10 miliardi di euro con una perdita di centoventisei vite umane.
A questo sommiamo che nel 2013 erano 22 milioni le persone che si sono spostate a causa dei cambiamenti climatici, ma secondo le stime dell’ONU nel 2050 raggiungeranno i 250 milioni.
Un bilancio catastrofico.
Nonostante gli appelli delle associazioni, delle Organizzazioni non Governative e dei giuristi, ancora oggi lo status di rifugiato climatico non viene riconosciuto a livello internazionale, e ciò impedisce a milioni di persone la protezione giuridica necessaria alla propria sopravvivenza e al proprio sviluppo.

Nel 2009, alla Conferenza per il Clima che si è tenuta a Copenaghen, venne istituito il Green Climate Fund. Si prevedeva il finanziamento di 100 miliardi di dollari da parte dei paesi industrializzati da destinare a quelli in via di sviluppo con lo scopo di incrementare le loro azioni nella riduzione delle emissioni, nell’utilizzo delle rinnovabili e delle tecnologie pulite e nell’adattamento ai cambiamenti climatici.
Dopo sei anni quel fondo non arriva a 10 miliardi di dollari!
La Conferenza per il Clima si svolgerà a Parigi, nella città colpita al cuore dagli ultimi attacchi terroristici.
Deve essere chiaro a tutti che risolvere le cause che provocano i cambiamenti climatici significa affrontare una delle minacce maggiori alla sicurezza globale.
Uno studio pubblicato dalla National Academy of Sciences dimostra che in Siria il crollo della produzione di frumento, dovuto alla reiterata siccità avvenuta tra il 2008 e il 2010 a causa dei cambiamenti climatici, sia all’origine del conflitto scoppiato nel Paese e alle migrazioni di parte di quel popolo.
Dalla perdita di cibo e di acqua si scatenano i conflitti peggiori. E Noi non saremo esenti.
Tanti cambiamenti negati stanno avvenendo troppo in fretta.
In solo due generazioni le attività umane hanno oltrepassato la capacità della Terra di sostenere le nostre società in modo stabile.
Il testo negoziale da cui si parte a Parigi, prevalentemente a causa della mancanza di volontà politica da parte degli attori chiave, non consente ancora di assumere impegni concreti, vincolanti, di riduzione delle emissioni clima-alteranti.
Voglio ricordare che al summit sul clima del 2013, per superare lo stallo nel negoziato, fu scelto di lasciare alle nazioni la facoltà di decidere in che misura si volevano impegnare per contenere l’effetto serra. Una scelta positiva perché ha permesso ai governi di sentirsi partecipi caricandoli di un forte senso di responsabilità sulla lotta ai cambiamenti climatici.
160 Paesi, che rappresentano il 93% delle emissioni globali, hanno comunicato ufficialmente i loro obiettivi, gli impegni e le azioni che i Governi nazionali intendono adottare per la riduzione delle emissioni globali di gas serra post-2020. Ma adesso che sono stati resi noti, possiamo affermare che gli impegni volontari manifestati dai Paesi non saranno sufficienti a contenere il riscaldamento al di sotto dei due gradi centigradi della temperatura media globale.
È questo il motivo per cui si teme il fallimento della COP21.
Perché questi sono solo i propositi, non le reali agende politiche dei governi.
Secondo l’IPCC in assenza concreta di politiche correttive rischieremmo l’aumento dai 3,8 o 4,5 gradi centigradi.

In Italia stiamo già registrando un trend di aumento di temperatura pari a più del doppio di quello globale. Quest’anno si avvia ad essere il più caldo da quando, alla fine del 1800, si sono iniziate a registrare le temperature atmosferiche.
Secondo il Centro euro-mediterraneo per i cambiamenti climatici entro la fine di questo secolo la temperatura italiana rischia di arrivare a più 7,5 gradi in alcune aree del Sud. Sarà impossibile fare agricoltura, scompariranno i ghiacciai alpini sotto la quota di 3.500 metri. Diminuirà radicalmente la disponibilità di acqua. L’agricoltura nei prossimi trent’anni rischia il taglio delle rese del 50 per cento nelle coltivazioni di riso, grano e mais e un allargamento degli attacchi parassitari.
I cambiamenti catastrofici del clima che stiamo volontariamente scegliendo di imporre ai nostri figli, e a tutte le generazioni dopo di loro, non potranno plausibilmente essere annullati per centinaia e centinaia di anni.
Dalla organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) viene un ammonimento chiaro: “Il tempo gioca contro di noi. Il biossido di carbonio resta per centinaia di anni nell’atmosfera ed ancora più a lungo nell’oceano. L’effetto cumulativo delle emissioni passate, presenti e future di questo gas si ripercuoterà sia sul riscaldamento del clima che sull’acidificazione degli oceani.
Le leggi della fisica non sono negoziabili” !

E’ ancora possibile fermare il peggio – praticamente senza alcun impatto sulla crescita, come hanno chiarito gli scienziati dell’Ipcc – ma se non agiamo subito le generazioni future non potranno adattarsi alla rovina climatica che stiamo per consegnargli.
Dobbiamo assolutamente abbandonare progressivamente l’approvvigionamento da fonti di energia fossile e raggiungere il 100 per cento di energia proveniente da fonti rinnovabili entro il 2050, ma il governo italiano si è posto come limite il 2100.
È necessario pianificare e procedere a una riconversione non solo del settore energetico, ma anche di quello edilizio, agricolo, zootecnico e soprattutto quello dei trasporti. È indispensabile promuovere l’economia circolare! Un approccio completamente diverso rispetto alla crescita e allo sviluppo come l’abbiamo conosciuto e sostenuto in questi decenni, che hanno prodotto una ricchezza effimera. Uno sviluppo realizzato a scapito della nostra stessa sopravvivenza sulla terra. Il consumo delle risorse in modo indiscriminato non può continuare.
È necessario un progressivo arresto del consumo del suolo, la rigenerazione e riqualificazione dei centri abitati, la manutenzione del territorio nel contrasto al dissesto idrogeologico, la manutenzione delle reti idriche; non ci possono essere più soluzioni ex post. A danno avvenuto.
È sempre più necessario attuare misure di fiscalità ambientale, quali la carbon tax, e istituire forme di controllo popolare e pianificazione partecipata degli interventi che siano in grado di incidere sulle politiche ambientali.

La pianificazione del territorio che non può più perseguire le linee fin qui adottate. Troppi immobili sono stati edificati in norma agli strumenti urbanistici ma completamente fuori dalle leggi ambientali e così ci troviamo ad ogni pioggia a piangere i nostri morti.
Abbiamo l’obbligo di ricostruire il patto armonico con la Natura.
Questa è l’unica strategia che potrà darci risultati concreti non certamente la cosiddetta geo-ingegneria o ingegneria climatica, una vera e propria manipolazione del clima di cui sono ignoti gli effetti su larga scala. Questi progetti, assieme allo stoccaggio geologico di biossido di carbonio, sono proposti, non a caso, dai responsabili del riscaldamento globale per non ridurre le emissioni inquinanti. Il rimedio sarebbe peggiore della causa e le conseguenze non governabili.
Perché l’appuntamento di Parigi non fallisca vogliamo che gli accordi che verranno decisi siano vincolanti e globali, con obiettivi determinati, monitorabili e aggiornati.

È positivo che tanti oggi citino l’Enciclica “Laudato si’”, la prima dedicata all’ambiente, dove Papa Francesco rivolge un appello a tutti noi: «L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di cambiare stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono e lo accentuano».
Parole che tutti noi pronunciamo, inascoltati, da decenni.
Dobbiamo essere convinti che è ancora possibile fermare il peggio, disponiamo ancora per poco tempo di opzioni utili a mitigare e ad adattarci a questi cambiamenti perché abbiamo tutte le conoscenze per farlo.

L’essere umano è passato dall’essere una piccola presenza su un grande Pianeta a una presenza devastante su un Pianeta che scopriamo sempre più piccolo e interconnesso. Si tratta di un cambiamento radicale che necessita di una nuova consapevolezza.
Ci dobbiamo rendere conto che condividiamo un pianeta, condividiamo un’atmosfera, condividiamo un sistema climatico: è ora di agire, subito!
E il nostro futuro dipende da cosa saremo in grado di fare.
Dobbiamo ricordare ai nostri governi e a tutti noi che abbiamo, una volta per tutte, la possibilità di ammettere che siamo Custodi di questo Pianeta e non Padroni.

Onorevole arch. Serena Pellegrino.

Pubblicato con il permesso dell’on. Serena Pellegrino, da: http://www.serenapellegrino.it/. L’ immagine che correda l ‘articolo è tratta dalle immagini inviate da Avaaz. Laura Matelda Puppini


don Pierluigi Di Piazza sui migranti. Lettera aperta ai componenti del Consiglio e della Giunta Regionale del FVG.

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Ai componenti del Consiglio Regionale e della Giunta Regionale del Friuli Venezia Giulia 

Centro Balducci di Zugliano, 21 novembre 2015

Mi rivolgo a voi pubblicamente per esprimervi vissuti di preoccupazione e di dolore, per sollecitare la vostra attenzione e auspicabilmente decisioni operative immediate. Sento di esprimere i vissuti di tante donne e uomini della nostra Regione Friuli Venezia Giulia. Nessuna polemica e nessun protagonismo da parte mia, però, questo sì, l’evidenza della verità e la insopportabilità etica della situazione che ora vi sottopongo.

La notte del 3 gennaio di quest’anno, sollecitato dall’Associazione di volontari “Ospiti in arrivo” in una notte gelida ho deciso un gesto di semplice umanità di accogliere nel Centro Balducci 38 giovani afghani e pakistani che sarebbero stati costretti a dormire all’addiaccio, in qualche casa abbandonata, cercando riparo sotto qualche muro e con qualche coperta fornita dalle persone volontarie. Un piccolo gesto dentro all’ampiezza della situazione. Ho pensato che sarebbe stato comunque preferibile per loro dormire per terra su imbottite e coperte, al caldo piuttosto che in una condizione umanamente inaccettabile. Sono rimasti, insieme agli altri 50 ospiti già presenti al Centro Balducci, dodici giorni prima di una sistemazione in altri luoghi. Un piccolo segno vissuto con la solidarietà e per nostra scelta, senza contributo dalle istituzioni.

Due giorni dopo era già previsto un incontro in prefettura a Udine; attorno al tavolo: Prefetto, Questore, Caritas, Croce Rossa, Nuovi Cittadini. Ho espresso con rispetto alle persone e alle istituzioni, e insieme con passione, la denuncia per la situazione inaccettabile di persone che non trovano, pur essendo previsto dalla normativa, nessuna accoglienza. Ho proposto: aprite alcune caserme! Ho ribadito l’importanza di un’accoglienza sul territorio con la necessità di prepararla con la diffusione di sensibilità e cultura e con il sostegno operativo della Regione ai Comuni. Mi sono dichiarato disponibile, naturalmente in piena gratuità, a percorrere il Friuli, come per altro continuo a fare, non per insegnare bensì per condividere con umiltà, sensibilità e prospettive attingendo anche all’esperienza di oltre 27 anni al Centro Balducci.

Mai nessuno delle istituzioni in seguito mi ha risposto. Ora, a fine novembre di questo stesso anno 2015, dopo 11 mesi la situazione incredibilmente è la stessa nonostante che il numero di profughi non sia cambiato da allora in modo significativo. Questo è inaccettabile; quindi è logica e immediata la deduzione che ‘qualcosa’ di decisivo non funziona a livello strutturale nella nostra Regione riguardo all’accoglienza. E vi chiedo: quando si parla dell’autonomia e della specialità della nostra Regione le qualità fondamentali e principali non dovrebbero essere l’umanità e l’etica, la dignità umana e i diritti fondamentali di ogni persona in quanto esseri umani? In caso contrario non si rischia l’autoreferenzialità in un mondo sempre più interdipendente? Com’è possibile restare noncuranti quando qualche centinaio di persone straniere e altre italiane non trovano accoglienza in nessun luogo? E perché questa situazione permane da mesi e mesi? Se non ci fossero state la disponibilità e la catena di solidarietà di tante persone volontarie a Udine, a Gorizia, a Trieste, a Pordenone, cosa sarebbe avvenuto?

Ma le istituzioni dove sono? A mio sentire e a sentire di molti voi dovreste impegnarvi a realizzare una situazione in cui nessun profugo e nessun italiano viene abbandonato ed è costretto a vivere sulla strada. Ritengo che la nostra Regione abbia le possibilità economiche, le qualità professionali, le esperienze di accoglienza significative per realizzare subito quello che questa situazione umana esige. La decisione è politica. Ci penso continuamente specie quando viene la sera e io, come voi, posso ritirarmi a dormire in un letto, al caldo. Il fenomeno dei profughi e degli stranieri in generale esige analisi, riflessioni, progettualità su cui troppo poco ci si confronta. La drammatica vicenda di Parigi chiede prima e soprattutto coinvolgimento nel dolore; e la partecipazione al dolore esige ed esprime profondità umana e attenzione alle persone, memori dell’insegnamento straordinario che ci è venuto, ad esempio, dai genitori di Valeria Solesin di Venezia e dal giornalista francese Antoine Leiris che ha perso la moglie. E poi, con questo dolore l’esigenza di approfondire, di capire, di agire liberandosi dall’odio e dalla vendetta che portano altra violenza e altre morti.

Nell’aula del Consiglio Regionale è stato collocato qualche anno fa un crocefisso preteso, secondo me in modo strumentale, da alcune forze politiche. Non so se qualcuno di voi alle volte lo guarda per trarne ispirazione. Il Crocefisso richiama la storia di Gesù di Nazareth ucciso dal potere, primo quello religioso, per il suo amore incondizionato verso le persone, senza pregiudizi e discriminazioni. Ha detto anche: “Ero forestiero e mi avete o non mi avete accolto”. Nelle continue riflessioni chiedo a me stesso e a voi: come attuiamo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo; come la nostra Costituzione, come la Convenzione di Ginevra? Come, per chi vi fa riferimento, il Vangelo di Gesù di Nazareth dato che poi tutti, più o meno strumentalmente dichiariamo le radici cristiane e la cultura cattolica?

Spesso mi viene questa immagine: che noi stiamo stracciando i riferimenti appena ricordati e poi gettiamo con un gesto di stizza i loro frammenti addosso a queste persone sulle strade, nei parchi, nelle case abbandonate, sulla riva dell’Isonzo. Non si tratta di opinioni diverse dettate dall’appartenenza al centrodestra o al centrosinistra (per il valore che ancora possono assumere questi riferimenti) ma si tratta dell’etica laica fondamentale in cui tutte le donne e gli uomini di buona volontà dovrebbero riconoscersi. Tante persone pensano che questa situazione non può continuare e non deve continuare, disponibile con tante altre persone a collaborare. Se voi volete, potete decidere in una giornata: con l’intervento della Protezione Civile, con l’apertura di qualche caserma la questione troverebbe subito una risposta. Questo è il primo, doveroso intervento, non rinviabile. Il progetto dell’accoglienza chiede poi altri passaggi e impegni.

Saluti.

don Pierluigi Di Piazza

Questa lettera viene pubblicata su questo sito  con il consenso di don Luigi Di Piazza, ed è tratta da: Centro di accoglienza e di promozione culturale Ernesto Balducci, Newsletter di Dicembre 2015 – 1^.  La grafica a paragrafi spaziati, è mia per aiutare la lettura. Laura Matelda Puppini 

Ancora su: salute e sanità nazionale e regionale .

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Non vorrei scrivere ancora di sanità/salute, ma dopo aver letto due articoli su “Il Fatto Quotidiano” del 16 novembre 2015, oltre ad: Elena Del Giudice, “Fvg modello per la sanità. Bocconi promuove la riforma”, in Messaggero Veneto, 2 dicembre 2015, molto chiaro sulle spese di noi cittadini, mi sento quasi costretta a farlo. Per quanto riguarda Il Fatto Quotidiano, sotto l’occhiello: “Pro & Contro Come sopravvivere alla riduzione del fondo sanitario?” compaiono due articoli: Bruno Tinti, “Le assicurazioni private possono compensare i tagli”, l’altro: Roberto Satolli, “I sistemi pubblici restano migliori, ma ci sono sprechi”.
Bruno Tinti è un ex- magistrato e scrittore italiano, Roberto Satolli è un medico e giornalista.

Leggo gli articoli e quello che subito compare alla mia mente è che i due scrittori stanno parlando come fossero la diplomata ministro Lorenzin, né più né meno, e come i tagli si dovessero subire, da parte del popolo italiano, senza batter ciglio e senza che si riformi realmente il sistema sanitario, che pare sconosciuto ai più nelle sue dinamiche, linguaggi, scelte, invasioni di campo da parte aziende che vendono prodotti di ogni tipo, senza vera prova del loro valore terapeutico, che riempiono farmacie e para farmacie, e che anche medici, in buona fede, possono prescrivere, od i pazienti liberamente acquistare. Vi è una vera e propria inflazione di cosiddetti farmaci omeopatici, allopatici da banco, erboristici, ecc. che possono avere anche effetti nocivi. E le persone, che sempre più ascoltano radio e tv, ed i vari spot, tendono a comperarli. Io, tanto per fare un esempio, mi sono sempre chiesta a che servano tutti i prodotti che si dovrebbero inserire in vagina, e quali eventuali cattivi odori vaginali dovrebbero togliere.

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Per quanto riguarda le assicurazioni sanitarie, secondo Altroconsumo, (News Altroconsumo: Polizze sanitarie: come scegliere quella giusta, 14 settembre 2015, in: http://www.altroconsumo.it/salute/assicurazioni-sanitarie/news/), che ha preso in considerazione 19 contratti assicurativi relativi alla salute, di altrettante compagnie diverse fra loro, « […] gli alti premi e le troppe cure non coperte non le rendono un buon affare. […] le cose stanno sostanzialmente così: nonostante alcuni miglioramenti rispetto agli anni precedenti, rimangono prive di copertura per alcune spese di routine. Un esempio? I problemi dentali, le visite specialistiche e i check up preventivi. Coprono soltanto gli esami e le visite dovute a malattia o infortunio e, nella maggior parte dei casi, non quelle preventive, se non diversamente specificato, senza considerare affatto quelle situazioni non coperte o coperte male dal servizio pubblico. Inoltre, le spese sono direttamente a carico della compagnia, senza bisogno di anticipare denaro, solo se ci si fa curare nelle strutture convenzionate con l’assicurazione».(Ivi).

A questo puntomi chiedo: chi pagherà le costosissime cure dentali, che il Ministro Lorenzin pare non intenda vengano mantenute nel sistema sanitario nazionale?

Inoltre dieci compagnie, fra le 19 prese in considerazione da Altroconsumo, «prevedono ancora limiti di età entro i quali stipulare la polizza (dai 55 ai 75 anni). In molti casi si rischia quindi di non avere la copertura proprio quando serve di più. Solo due prevedono la formula a vita intera, cioè fino alla morte dell’assicurato. UnipolSai, Unisalute, Sara e Allianz prevedono una clausola di aggravamento del rischio. In pratica, l’assicurato deve comunicare immediatamente alla compagnia qualsiasi elemento che faccia variare il suo rischio malattia, e l’assicurazione avrà la possibilità di recedere entro un mese. Sono inoltre previste precise categorie di persone che non sono assicurabili: tossicodipendenti, malati di Hiv, alcolisti e, solo per Zurich e Alleanza, anche chi è insulinodipendente: se un cliente lo diventa durante il contratto l’assicurazione recederà restituendogli il premio al netto delle imposte». (Ivi).

«Le polizze sanitarie coprono: spese di ricovero, degenza, cure, fisioterapia e riabilitazione; acquisti di medicinali durante il ricovero; accertamenti diagnostici legati a una malattia o a un infortunio, successivo alla stipula del contratto. Non sono, invece, incluse le spese per :cure dentarie (tranne qualche contratto che prevede l’ablazione del tartaro e, più in generale, gli interventi ai denti derivanti da infortuni e tumori maligni); gli interventi estetici; le cure dietologiche; le correzioni di difetti fisici; gli infortuni derivanti da abuso di alcol, stupefacenti, allucinogeni e psicofarmaci». (Ivi). Ma TUA Assicurazioni, per esempio, precisa che «Non sono assicurabili, le persone affette da dipendenza da sostanze psicoattive (alcool, stupefacenti, allucinogeni, farmaci, sostanze psicotrope), sindrome da immunodeficienza acquisita (A.I.D.S.), siero-positività da H.I.V., da Parkinson, nonché le persone affette dalle seguenti infermità: schizofrenia, forme maniaco depressive o stati paranoidi, altre infermità mentali caratterizzate da sindromi organiche cerebrali.  L’insorgenza di tali affezioni costituisce causa di risoluzione del contratto. In questo caso TUA restituisce al contraente la parte di premio versata, relativa al periodo di premio di garanzia non goduto». (http://www.tuaassicurazioni.it/public/prodotti/tua-salute-condizioni-di-polizza).

Infine bisogna stare molto attenti nel compilare il questionario per adire all’assicurazione, cosa da fare dopo aver parlato con il proprio medico, e bisogna dichiarare tutta la verità riguardo ultimi accertamenti, malattie diagnosticate e curate, eventuali infortuni e ricoveri. Le malattie presenti prima del contratto non sono tutelate e le dichiarazioni inesatte o le reticenze, anche incolpevoli, possono comportare la perdita totale o parziale del diritto all’indennizzo. (News Altroconsumo: Polizze sanitarie, op. cit.).
Infine altre condizioni potrebbero venir imposte dalle assicurazioni, private, in futuro.

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Per quanto riguarda l’articolo, a firma di Elena Del Giudice, quello che impressiona un attento lettore è il fatto che, grazie al triplicarsi della spesa del cittadino per la sanità, i conti non sono poi malvagi. Che c’entrano l’assessore Telesca e la Bocconi con detto miglioramento? Pare nulla.
La Bocconi ha fornito solo alcuni dati, non si sa da chi commissionati e pagati, visto che è Università privata, a carattere commerciale. E le Università pubbliche non sanno dare due dati? Mai che facessero valutare all’utenza o ai medici stessi la bontà di una riforma della sanità nazionale o regionale;  si chiede solo una valutazione e stima commerciale, quasi non si parlasse di gestione della salute, ma di una azienda che vende patate, o sedie, si fa per dire.

Ma entriamo nel dettaglio dell’articolo, lasciando perdere il titolo, che a me appare propagandistico.
Alle prime righe si può leggere che «Dal rapporto Oasi del Cergas Bocconi, (non si sa firmato da chi, n.d.r.) arriva una sostanziale promozione per la riforma della Sanità del Friuli Venezia Giulia. Quantomeno perché ha generato effetti sui conti, sulla spesa, sulla riorganizzazione e semplificazione del sistema». (Ivi). Tolto il fatto che non si sa se detti effetti siano positivi o negativi, e dal punto di vista di chi, proseguiamo nella lettura dell’articolo.

« […] dal 1990 a oggi la spesa sanitaria pro- capite anche in Friuli Venzia Giulia è triplicata, passando dai 730 euro medi a testa del ’90, ai 2 mila 12 dello scorso anno […]». (Ivi).
I continui disservizi, dati da lontananza dai punti di cura ecc. potrebbero essere, poi, alla base di quel 3,4% in meno di spesa regionale registrata dopo la riforma Marcolongo Telesca, non certo relativa solo ai posti letto. Inoltre io non so come si faccia a conteggiare la spesa nel settore privato, che potrebbe aumentare. Meno pubblico più privato potrebbe celarsi dietro questi dati.
Nella realtà essi potrebbero, quindi, nascondere una specie di “fai da te”, un cercare qualche buon medico, che magari poi lavori anche nel pubblico, e qualche buon laboratorio analisi magari privato, ormai, senza prescrizione medica, più a buon prezzo di quelli pubblici, e più veloce nelle risposte.

La Bocconi, poi, certifica non si sa come, che la sanità del Sud, “arranca” come quella del Nord penso io, e che dal Sud si emigra per la sanità anche in Fvg., nascondendo i dati di possibili migrazioni di friulani e giuliani per esempio verso il Veneto. Dati? Nessuno. Opinions? Se sì di chi? Per carità io credo all’Assessore incarico esterno, laureata in scienze politiche Maria Sandra Telesca, pare proprio abituata a far da sola o con il dirigente Adriano Marcolongo, quando dichiara alla stampa che aveva in mente una gran riforma in partenza, ma non lo abbiamo mai saputo, e a me pare, ma posso sbagliarmi, che con detta riforma si tenda a privatizzare la sanità, come del resto a livello nazionale, ed a far cassa, tagliando letti, ospedali risorse. Un taglio “Zac” qui uno là, ridimensionando la montagna e sostenendo il polo udinese, costosissimo nel nuovo ospedale, che non si tocca. Ma visti i limiti presentati dall’edificio del nuovo nosocomio, come da lettere al Messaggero Veneto ed articoli sullo stesso, e non da ora, perché l’Azienda universitario-ospedaliera Santa Maria della Misericordia di Udine non chiama almeno la ditta costruttrice a rispondere?

Che servisse ridimensionare il numero di Ass lo scrissi io ai tempi della giunta Tondo, ed è pensiero comune condiviso anche dai Codacons Fvg. (Cfr. Laura Matelda Puppini, Sanità Fvg, carrozzoni e semplificazioni, in Messaggero Veneto, e, con data 13 ottobre 2011, in: http://www.codacons.it/articoli/). Ma se a fronte di ciò si aumentano gli amministrativi in altro modo … Nessuno ci ha dato la ripartizione, nel servizio sanitario regionale, fra amministrativi e camici bianchi. Con il passaggio dalle Usl alle Ass, pare sia aumentato moltissimo il personale amministrativo, sia a causa della burocrazia moloch, che a causa  del blocco del turn over medico e paramedico, tanto che gli amministrativi rischiano di superare, numericamente, medici ed infermieri, in alcune realtà. Inoltre sulla spesa sanitaria incidono i costi per i manager, top- manager ecc., troppi e troppo pagati. Si limitino i burocrati e le strutture burocratiche e la sanità, a livello di spesa, ne trarrà giovamento. La salute deve essere in mano ai medici che fanno i medici, coadiuvati da personale infermieristico, non ad amministratori anche se diligenti.

Insomma, quello che si capisce dai dati dell’Università privata Bocconi, non si sa da chi commissionati e come, cioè su quale tipo di quesito (così funziona in genere nelle commesse, si ricerca e valuta in base al quesito), è che il Sud in fin dei conti sta peggio del Fvg, che spendiamo anche in Fvg molto di più in sanità che nel 2009, che forse il dato del 2014 potrebbe dipendere dal fatto che guadagnando nel 2014 meno che nel 2013, si tende a contrarre, anche in sanità la spesa, ed a curarsi, se non si è ricchi, sempre di meno, che non si sa se sia stata valutata la spesa presso cliniche private, esulando dal sistema sanitario regionale e statale.

Ed ancora, come nascondersi che:

La politica è massicciamente entrata in ambito sanitario, tanto che, almeno pare, si guarda prima a quale tessera ha un primario, o, ultimamente, un sindaco, per sapere la fortuna di un medico, di un reparto, di una struttura sanitaria?

In Italia, e non solo, la salute è diventata oggetto di business, e che ci sono case farmaceutiche che hanno prezzi esorbitanti per i farmaci, tanto che la testata cattolica Avvenire, pubblicava, on line, (http://www.avvenire.it) il 27 agosto 2015, un articolo del medico Vittorio Alessandro Sironi, che invito a leggere, intitolato: “Farmaci se il prezzo sacrifica i malati al profitto”? E come mai le case farmaceutiche indiane producono gli stessi farmaci della Novartis, per esempio, a prezzi di gran lunga inferiori e non sono ancora fallite?
E perché non possiamo acquistare dall’India, chemioterapici per la leucemia e nuovo farmaco per la cura dell’epatite C, con grande risparmio, e senza tagliare sui piccoli ospedali? Forse a causa dell’Europa? Per accordi non si sa di chi con chi?

I medici potrebbero seguire, attualmente, più di quanto appaia, scuole di pensiero e ipotesi diagnostiche date anche dalla specializzazione. La medicina, attualmente, è divisa in troppe branche specialistiche, e va a finire che il medico potrebbe perdere una visione di insieme e di gravità. Ed ogni operatore di settore tende ad interpretare un sintomo in base alla sua preparazione specifica. Così stessi sintomi possono esser riportati a varie cause. Qualsiasi specialista è in primo luogo un medico, e dovrebbe conoscere aspetti generali della disciplina medica e fare il numero maggiore di accertamenti possibili, nel corso di una visita. Per esempio una donna dovrebbe andare dal proctologo, dal ginecologo, dall’urologo, quando un bravo medico chirurgo, sia esso proctologo, sia esso ginecologo, sia esso urologo, se segue una paziente, può valutare in una sola visita il pavimento pelvico.

Si seguono linee generali senza un po’di buon senso. Dal 2006, a livello europeo, si è iniziata una campagna per limitare l’uso di antibiotici a causa dei ceppi resistenti, con il finale che si rischia di sottovalutare  le infezioni o non curarle adeguatamente, mentre pare ci si sia dimenticati di lottare contro il mercato abusivo e meno abusivo degli antibiotici per uso ingrasso animale negli allevamenti e di calcolare comunque l’uso degli stessi in zootecnia. («Antibiotici, usati per curare gli animali malati ma anche a scopo preventivo. Negli allevamenti industriali gli animali vivono in spazi ristretti che favoriscono lo sviluppo e la diffusione rapida di eventuali epidemie», in: Sicurezza della carne di pollo, manzo e vitello – Ormoni antibiotici beta agonisti, http://www.cibo360.it/alimentazione/cibi/carne/sicurezza.htm).

Ogni nuovo Governo, come espressione del potere politico, in Italia, vuole fare delle riforme a sua detta epocali, in ambito socio – sanitario, educativo, dei servizi, all’egida del risparmio forzato, costi quel che costi, spendendo in ogni passaggio magari di più di quanto si spendesse prima, senza progettualità, uno straccio di dato, verifica della funzionalità dell’esistente, suoi punti critici e possibili adeguamenti, senza due conti, senza uno studio di fattibilità, senza piena attuazione della riforma precedente.
Si trascura ormai, di sentire le parti in causa e gli addetti ai lavori: basta che contabili e politici dicano “Volli, fortissimamente volli”. Per questa/e riforma/e della sanità non si sono sentiti i medici ed i paramedici, si è andati avanti, da parte dei politici, così molto a caso,legiferando ed ipotizzando prima, senza dato alcuno, cercando di far attuare poi, seguendo quindi una logica di imposizione dall’alto, che fa a pugni con quello che dovrebbe essere il metodo democratico.

Non si può negare, infine, che all’interno delle troppe università o di istituti di ricerca ed affini, si possano produrre ricerche che potrebbero portare più a finalità di visibilità sociale che altro, ed atte ad avere, magari, qualche soldo in più. Così si sacrificano tempo e forze in malattie rare, (ammesso che i sintomi descritti da un paziente non celino altre patologie di base), e va a finire che, magari, si vede le stesse anche dove i sintomi celano altra causa. A fini diagnostici, sarebbe quindi auspicabile, secondo me, che i medici rifissassero l’attenzione diagnostica sulle malattie più diffuse, sintomi, localizzazione, dolore e sua valutazione, sui farmaci assunti dal paziente e con che esiti, e, solo dopo aver scartato con certezza un quadro diagnostico comune, prendessero in considerazione le malattie cosiddette rare.

Per chiudere ospedali, secondo me, non basta il criterio dimensionale, cioè che siano piccoli. Quando essi servono una vasta zona montana retrostante devono restare aperti perchè svolgono servizi essenziali per chi abita nel territorio di riferimento, permettono ai parenti di seguire più facilmente il malato, possono dare cure senza far spostare il paziente, magari oncologico. ( Si vedano i grafici in: dott. Flavio Schiava, Demografia e salute in Alto Friuli, www.nonsolocarnia.info, sui tempi di percorrenza degli utenti che abitano in montagna per rendersene conto). Men che meno si può pensare di limitare il servizio di pronto soccorso o di far intervenire sempre l’elisoccorso. Inoltre l’elisoccorso prevede che l’elicottero atterri anche per caricare il malato e questo è difficilissimo nei centri abitati, ma paradossalmente anche sul Cansiglio, da che ho potuto notare l’anno scorso.

La nuova situazione venutasi a creare nel modo del lavoro e con la centralizzazione dei poli ospedalieri, implica che persone ammalate vadano a lavorare o raggiungano l’ospedale erogatore di servizi, facendo del male a sé, oltre che rischiando incidenti stradali, e riempiano gli ambulatori medici, dato che il medico non va molte volte a casa, con la possibilità di infettare altri pazienti. Così può accadere che persone con diarrea di origine ignota, usino bagni pubblici, senza mezzo di disinfezione del water, pazienti possano vomitare in strada od in ambulatorio, possano diffondere microbi con tossi e catarri, ecc. ecc. contagiando.

Medici e pazienti pare abbiano talvolta perso il concetto di cosa significhi essere ammalati, identificando la malattia solo con quella gravissima ed urgente; manca la fase della convalescenza, manca la cognizione del concetto di igiene pubblica. Inoltre la prevenzione non puó esser fatta solo dal paziente, ma deve avvenire a livello generale, ambientale, evitando smog, contaminazioni ecc… E senza interventi generali nessuna azione individuale sarà efficace. Se la terra è malata, l’uomo è ammalato.

I politici devono pagarsi la sanità, visti i loro stipendi, come i comuni mortali e così i loro parenti, senza continuare ad essere una classe di privilegiati, che dice agli altri cosa devono pagare, vivendo in una specie di Olimpo.

Ieri o ieri l’altro, poi, ho tornato a sentire, alla televisione, qualcuno che sosteneva che si è sicuri che vi siano 10 miliardi di euro, in Italia, spesi per la cosidetta medicina difensiva, che potrebbe essere anche cautelativa per il paziente, dico io.  Ma questi dati – mi chiedo –  da che studi fuoriescono? Siamo proprio sicuri che sia così, o è una ipotesi buttata là?

Secondo me, comunque,  se non si riuscirà a pensare in modo nuovo il sistema sanitario nazionale, conoscendolo e non nascondendosi le criticità dello stesso, se esso diventerà solo un sistema da distruggere per far brutalmente cassa, se non si riuscirà, attraverso i medici, a valutare spese necessarie e superflue, mode e metodologia diagnostica, se non si riuscirà a mandare a casa gli incapaci, se quei medici che si considerano “padri eterni”, non accetteranno di sbagliare e di correggersi, (aspetto che anche il paziente deve valutare) il che è umano, se alcuni medici non cercheranno di superare i pregiudizi personali ( p.e. verso  pazienti obesi), e se non si renderanno conto che ciò che firmano potrebbe essere un cappio al collo del paziente, con cui il medico anche specialista  deve iniziare a parlare, in qualche modo,  allora non so che si voglia o debba riformare.

Naturalmente queste sono mie considerazioni,  con cui voglio trasmettere il mio pensiero su alcune criticità, non offendere alcuno, e se erro correggetemi.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è presa, solo per questo uso, da: www.comunisti-italiani.it. Laura Matelda Puppini

Fotografia e Grande Guerra.

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Quando si parla di soldato fotografato si pensa immediatamente alle fotografie del militare in divisa, solo o con i compagni, con la famiglia, od alle feste del coscritto che parte … (Silvana Rivoir, Il soldato fotografato e fotografo, in: La guerra rappresentata, rivista di storia e critica della fotografia, Priuli e Verlucca ed., 1980, p.11).

Ma vi furono anche soldati, non fotografi di professione ma dilettanti, spesso ufficiali appartenenti ai ceti abbienti e borghesi, che partirono per il fronte con la macchina fotografica ad immortalare la “loro guerra”, (Ivi, p. 13) pur autolimitando  immagini troppo forti o che potevano cadere sotto il vaglio della censura ufficiale, (Ivi, p. 16) che voleva non si producessero  immagini contro la guerra. (Ando Gilardi, I tabù impossibili della censura militare in: La guerra rappresentata, op. cit., p. 42).

Durante la prima guerra mondiale operò, in Italia, pure il Servizio Cinefotografico Italiano, simile a quello di altri stati belligeranti, «che aveva il compito di documentare a scopi propagandistici l’avvenimento, rispettando una regia il più possibile patriottica ed indolore. Sono quasi sempre gli stessi operatori che riprendono di volta in volta films o fotografie, negli stessi luoghi e nelle stesse situazioni. Specialmente i films dovevano esser proiettati ad un pubblico di civili o soldati per rassicurarli dell’efficienza dell’ armamento e dell’organizzazione dell’ esercito in guerra». (Bernardo Mario Valli, Appunti sul cinema e la fotografia nella prima Guerra Mondiale, in: La guerra rappresentata, op. cit., p.48).
Ma Liberale Frescura, soldato fotografo, viene impiegato anche per fotografare i cimiteri di guerra, in guerra, dall’ Ufficio Centrale Cure ed Onoranze funebri di Udine.  (Claudio Fontana,  Dal marcescibile all’ immaginario, in: La guerra rappresentata, op. cit., p.53). Intorno ai morti si crea poi tutta una retorica, che paragona la morte al sonno, la morte in campo di battaglia alla gloria, ed che si regge su: “in grazie al soldato morto la Patria vive”. Il corpo del soldato non si putrefà ma riposa, il campo di battaglia diventa il campo dell’ onore. (Ivi, pp. 56-57).

A parere di molti, non esclusi storici irreprensibili, in tanto sconcerto ci fu, a difesa dell’uomo, una macchina e un armamentario: quello fotografico. Ma in tal modo si confonde, con il senno di poi, il ruolo che le fotografie di guerra, di quella guerra e in quella guerra, svolsero: «strumenti di annientamento, come le armi e gli uomini che ritraevano». (Angelo Schwarz, La guerra rappresentata, in: La guerra rappresentata, op. cit., p. 1). Le immagini del soldato qualunque, dei ministri e generali in parata, degli strumenti di distruzione, degli interni delle trincee e delle fabbriche di munizioni erano finalizzate alla guerra e non alla pace. Ricostruire i meccanismi della messa in scena di quella rappresentazione “ meccanica” «è forse l’unica possibilità per poter oggi guardare, diversamente da allora, le fotografie della Grande Guerra e scoprire quanto tacquero, quanto consolarono, quando non mentirono.» (Ivi).

 « Di immagini di questa guerra – scrive Gira –  esaltata dai nazionalisti esecrata da molti altri, ne esiste un numero enorme, grazie all’opera svolta, durante il conflitto, dal Reparto Fotografico del Comando Supremo del Regio Esercito” e da singoli fotografi amatoriali».  (Gira, 1915 – 1918 La grande Guerra rappresentata, in: http://www.cimetrincee.it/rapp.htm).

La tipologia, in cui si può dividere il patrimonio fotografico mondiale sulla Grande Guerra, è, grosso modo, anche secondo Gira, la seguente:

•Le fotografie ufficiali, quelle che, dopo accurata scelta da parte di un apposito ufficio censura, venivano pubblicate su giornale e, soprattutto, sui periodici dell’ epoca: in particolare su “La Domenica del Corriere”; “L’Illustrazione Italiana”; “La Tribuna Illustrata”. Nel giugno del 1916 tale materiale fotografico confluì nell’opera dei fratelli Emilio e Guido Treves, composta da 18 eleganti volumi, dal titolo “La guerra”. Così si esprime Wladimiro Settimelli, su detta opera: «L’analisi dei vari fascicoli […] visti nella loro sequenza di uscita nelle librerie, conferma che, nel complesso, la pubblicazione è saldamente in mano al Comando supremo che riesce a farne un esemplare strumento di propaganda, scegliendo immagini di una certa guerra e non della guerra …]».  (Wladimiro Settimelli, La guerra a dispense, in: La guerra rappresentata, op. cit., p. 72).
Oggetto di queste fotografie furono: movimenti di truppe; mezzi a disposizione dei combattenti; corvees in alta montagna; trincee; paesaggi; visite ufficiali dello Stato Maggiore,  presunte o reali prime linee ecc.

• Le fotografie scattate da soldati, fotografi dilettanti, come ricordo o documentazione privata. Essi erano, in genere, ufficiali dell’esercito, appartenenti alle classi nobili o borghesi, visto il costo dell’attrezzatura. La produzione di questo foto – amatoriali è vasta ma composta, sempre, da immagini che ritraggono momenti tranquilli della vita quotidiana, quali la tregua, il riposo, momenti di compagnia con i commilitoni, il segno di una vittoria (per es. un paese distrutto), paesaggi di diverso tipo. Spesso queste fotografie venivano inviate ai familiari, per rasserenarli. Uno dei pochi che ebbe il coraggio o l’incoscienza di documentare, a livello fotografico, la morte, la paura, i disagi, fu Carlo Salsa, che, successivamente, corredò, con queste immagini, il suo libro “Trincee: memorie di un fante”.

• Le fotografie dei paesaggi delle zone operative, a scopo puramente bellico e strategico. «All’inizio della guerra l’osservazione dall’alto era basata sulla ricognizione visuale: il protagonista del volo, soprattutto inizialmente, era l’ufficiale osservatore, mentre il pilota era considerato alla stregua di uno chaffeur. Nel marzo 1915 fu preparata con le fotografie una prima mappa delle trincee e da allora fu una continua richiesta di ricognizione fotografica, sia per realizzare mappe sia per tenere d’occhio l’attività nemica. La nazione che diede il maggior impulso alla fotoricognizione aerea fu la Germania che, già alla fine del 1917, produceva circa 4.000 fotografie al giorno, coprendo tutto il sistema di trincee del fronte occidentale due volte al mese. Il continuo impiego dell’aerofotografia cominciò a delineare un confine, fino ad allora incerto, fra la realizzazione di mappe e la raccolta d’informazioni militari. Per gli inglesi la ricognizione aerea in Egitto e la Palestina fu uno dei fattori di vittoria su quel fronte, consentendo la realizzazione di mappe di vaste zone fino ad allora prive di carte geografiche. Anche l’esercito italiano incrementò molto l’uso della fotografia aerea: per dare un’idea dello sviluppo dell’aerofotografia a fini militari in Italia basta pensare che nel settembre 1915 furono consumati 36 mq di lastre sensibili e 187 mq di carta al bromuro, mentre nel luglio 1918 si era passati rispettivamente a 451 mq e 3.855 mq, con un aumento delle fotocamere aeree da 22 a 391. La ricognizione coprì anche per la prima volta delle fotoplanimetrie della zona dolomitica». (L’evoluzione della fotografia aerea nella prima guerra mondiale, in: Il volo e la fotografia, in: http://aeroclub.it/).

Ma ritorniamo al Reparto Fotografico del Comando Supremo del Regio Esercito. Esso aveva lo scopo di fornire alle persone lontane dal fronte una testimonianza “reale” dello sforzo bellico sostenuto dall’Italia, con palesi intenti di tipo celebrativo di un momento storico così importante. Alcuni fotografi operavano in pianura, a ridosso degli Alti Comandi, altri in zona montana, altri ancora facevano i “fotografi d’ assedio”.
Dei fotografi “accreditati” più noti, si conosce il nome; il più famoso fu certamente Luca Cormerio, uno dei primi e più importanti cineoperatori italiani dei primi Novecento. All’inizio della guerra, fu l’unico civile autorizzato dal Comando Supremo a riprenderne le scene. Egli non si servì solo di immagini fotografiche ma, talvolta, pure di riprese cinematografiche sui campi di battaglia, dando, in tal modo, il via al primo servizio ufficiale e moderno di cronisti di guerra. Dopo Caporetto, venne istituita la Sezione Cinematografica del Regio Esercito, da cui Cormerio venne escluso. Altre fotografie vennero firmate da inviati di quotidiani o riviste come, per esempio  Arnaldo Fraccaroli del “Corriere della Sera” o Aldo Molinari dell’ “Illustrazione Italiana”, o da fotografi mandati da qualche agenzia specifica al seguito delle truppe. (Gira, 1915 – 1918 La grande Guerra rappresentata, in: http://www.cimetrincee.it/rapp.htm).

A proposito Dario Reteuna scrive: «Lo spaventoso uragano di ferro e di fuoco che si sta abbattendo sull’Europa, devastando uomini e cose, forse per la prima volta viene vissuto anche dalle persone lontane dai fronti, attraverso il documento fotografico o cinematografico. (…).
In quegli anni, giornali, riviste e altri mezzi di comunicazione dedicano uno spazio sempre più crescente all’immagine “retinata” (fotografia o ripresa n.d.r.) perché meglio di un disegno può informare: ma a seconda del suo utilizzo, può anche illudere e mistificare .
Per questo non si tratta di una grande conquista perché le icone di guerra “ufficiali “ sono spesso “posate” per non dispiacere agli Stati Maggiori; quindi ancora una volta la fotografia, alla pari della litografia e del disegno, si presterà a ogni genere di falsificazione a fini propagandistici e rassicuranti, con il solo scopo di nascondere la realtà dei fatti». (Dario Reteuna, Una pocket per l’alpino, il bersagliere e il marinaio e alcune fotocamere da sparo, in “La guerra rappresentata” – Rivista storica…op. cit. “, p. 35).

Alcune caratteristiche di come la “Grande Guerra” venne illustrata anche all’estero è riportata sull’articolo di Angelo Schwartz “ La retorica del realismo fotografico”. Egli parla, in proposito, di “estetizzazione” della guerra, e dà un esempio concreto di ciò che intende dire, citando una fonte dell’epoca.

“Apriamo, per esempio, la collezione dell’”Illustrierte Zeitung”, il grande periodico illustrato di Leipzig (nome tedesco di Lipsia n.d.r.) –  scrive Schwarz – riferendosi ai numeri del 1917 – e vediamo quello che vi trova il borghese di Monaco o di Dresda, il quale ogni settimana lo consulta all’ “Hofbrau” assaporando caffè di ghiande di noci zuccherato con un “ ersatz” di zucchero.
Fin dall’inizio si scopre in questi numeri una faticosa ostentazione di libertà di spirito. (…). Si parla tranquillamente di musica, pittura, scultura. Ci si interessa ai minimi problemi estetici. L’occupazione della Lituania non è che un felice pretesto per ammirare i monumenti del paese, per descrivere con commozione i costumo patriarcali degli abitanti (…), per fotografare delle scene pastorali. (…).
E per far vedere a tutti che non si è barbari si citano con noncuranza strofe di Alain Charter nel loro testo originale.» (Angelo Schwarz, La retorica della guerra rappresentata, in: “La guerra rappresentata, op. cit., p.3).

Inoltre l’autore riprende l’iconografia delle copertine della nota rivista, nel periodo bellico.
Sulla sinistra, in alto, si poteva vedere «un ovale in cui sono raffigurati tre soldati tedeschi in posizione di fuoco con una mitragliatrice (…) al centro di una allegoria dove, incorniciate da una ghirlanda di foglie di quercia, vediamo due torce fumanti in croce opposte a dei fogli (…) su cui poggiano due penne d’oca e un sigillo, e poi una torre sotto un bombardamento con un cavallo che si impenna, una grande croce di ferro con la data 1914 due fasci di bandiere tra le quali si intravedono due cannoni le cui bocche guardano il lettore.
E se il soggetto dell’ovale cambia ogni settimana, il resto rimane invariato durante quaranta mesi di guerra». (Ivi, p.3).
E per quanto riguarda il francese “L’ Illustration”, Schwartz nota che, per fare un esempio, “Un intero numero (…) è dedicato al Marocco “rappacificato”. Il testo è un elogio della tutela francese e del folklore locale. La riproduzione di dipinti, incisioni ed accattivanti immagini fotografiche di tipo turistico non accenna minimamente a quei marocchini che, oltremare, servono l’armée, impiegati in opere del genio militare quando non in prima linea “ (Ivi, pp. 3-4).

Ma se sfogliando “ L’Illustration” non è possibile trovare una fotografia che ritragga un soldato francese morto, conducendo la medesima ricerca su “L’Illustrazione italiana” o “La Domenica del Corriere” dal 1915 al 1918, «non si riesce a trovare – scrive sempre Schwartz – un’immagine che ritragga sul terreno un morto identificato come italiano». (Ivi, p.4). E si deve inoltre tener presente che, nel periodo preso in esame, furono circa ottocento le foto concernenti la guerra pubblicate da “La Domenica del Corriere” e circa milleottocento quelle pubblicate da “L’Illustrazione italiana”.
Sulla base delle immagini fotografiche pubblicate, conclude l’autore citato, si potrebbe sostenere che “sul campo dell’onore” cade solo il nemico o, in rarissimi casi, l’alleato. (Ivi, p.4).

Ciò non toglie, che a fini di riconoscimento del “caduto”, le due riviste illustrate sopraccitate riportassero riproduzioni di funerali ed anche fototessere «già quasi tombali (…), di ufficiali e soldati alle quali (…) vengono dedicate centinaia di pagine; ma queste immagini significano altra cosa: lì la morte è già un mito. E la censura era cosciente di ciò quando imponeva l’assenza di filetti ai necrologi dei morti». (Ivi, p.4).

Nel 1916, “L’Illustrazione Italiana “ dedicò tre pagine alle fotografie, di carattere pittografico, scattate dall’architetto Pietro Portaluppi in quanto già allora la montagna, di fatto teatro di guerra e morte, veniva vista come «luogo salubre, che permette la caccia al camoscio e di praticare lo sci». (Ivi, p.4).

Curioso, infine, fu quanto fece la rivista fotografica francese “Le miroir”. «Durante la Grande Guerra, la rivista fotografica francese “Le miroir” documentò il conflitto ma si distinse dalle altre riviste fotografiche per la particolarità delle immagini pubblicate: nel 1914 la rivista aveva lanciato infatti un concorso fotografico con premi in denaro per i soldati che avessero inviato le proprie fotografie scattate al fronte. Interni di trincea, soldati feriti e distruzioni, ma anche città bombardate, civili, momenti di tregua riempiono le pagine del settimanale, ma la vera novità è rappresentata dal fatto che i fotografi – gli “inviati speciali” – sono i soldati, protagonisti e testimoni al tempo stesso.
Le fotografie spesso mostrano la guerra con il suo volto più crudele, ma il tono delle didascalie e la presentazione delle immagini trasmettono ai lettori messaggi rassicuranti sull’immancabile vittoria. Per parte sua, il filtro del giornale escludeva dalla visione i caduti francesi e le vittorie tedesche, ma l’orrore della guerra, a chi era disposto a guardare, non rimaneva nascosto.
Nel corso del conflitto, il settimanale raggiunse una tiratura straordinaria (500.000 copie) e, sulla base delle foto premiate, contribuì a modellare il repertorio iconografico dei soldati/fotografi, che inviavano al giornale ciò che intuivano più gradito: in questo modo, “Le Miroir” concorse a sedimentare un’educazione allo sguardo ed a diffondere uno stile fotogiornalistico ». (Stefano Viaggio (a cura di), Fotografie della Grande Guerra sulle pagine di “Le Miroir”, presentazione di una mostra intitolata: “Soldati fotografi” tenutasi a Rovereto dal 13 febbraio al 25 settembre 2005,in: http://www.museodellaguerra.it/portfolio/soldati-fotografi/).

In sintesi le immagini fotografiche, nel corso della grande guerra, furono usate come mezzo di propaganda da un lato, per mediare il ricordo della guerra, dall ‘altro. Ma vi furono anche coloro che , come Giuseppe Pessina e Giuseppe Baduel, riuscirono a documentare la vita reale delle trincee, altri che ci provarono ma vennero censurati.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’ articolo fa parte del fondo Albino Candoni dell’ isis Fermo Solari di Tolmezzo, che ringrazio e che mi ha concesso la riproduzione a fini culturali. Laura Matelda Puppini

Carnici che scrissero la storia della democrazia: Manlio Fruch, medico, figlio del noto poeta Enrico di Ludaria di Rigolato.

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Spesso non conosciamo uomini che resero onore alla nostra terra, alla Carnia, al Friuli, ma che poi furono, per anni,  sepolti nell’oblio. Fra questi vi è Manlio Fruch, medico, figlio del più famoso Enrico Fruch, il poeta, maestro, poi direttore ed ispettore scolastico, originario di Ludaria di Rigolato.

Enrico Fruch nacque a Ludaria di Rigolato il 20 settembre 1873. Suo padre si chiamava Giovanni Battista, sua madre Giovanna Puschiasis. Passò l’infanzia a Premariacco, studiò, fu maestro elementare a Resia, Osoppo, Moggio ed Udine, dove, nel dopoguerra, superò gli esami di ispettore scolastico. Morì ad Udine il 6 dicembre 1932. Enrico Fruch è noto per le sue poesie e per i testi di canzoni popolari. Sua è la notissima: “Aquilee” che inizia così: “Contadin che tu rompis la tiare di Aquilee/ ferme i bûs un moment” musicata da Oreste Rosso. (https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Fruch, e Poesia Aquilee, di Enrico Fruch, in www.bostro.net/lettura/poesie/poesia).

E se queste scarne informazioni, che si desidererebbe fossero ampliate, possono esser anche note, meno noto è che Enrico Fruch ebbe un figlio Manlio, medico e partigiano e che curò partigiani, nato a Moggio Udinese il 6 aprile 1904, morto nel lager di Eresing (Germania) il 12 maggio 1945.  (http://www.anpi.it/donne-e-uomini/1748/manlio-fruch).

Laureatosi in medicina e chirurgia a Bologna il 12 novembre 1929, con una tesi di laurea su: “La lotta contro la lue per il progresso demografico”, (http://www.archiviostorico.unibo.it/it/struttura-organizzativa/sezione-archivio-storico/fascicoli-degli-studenti/manlio-fruch), Manlio Fruch esercitò la professione prevalentemente a Pulfero, nelle Valli del Natisone, ove iniziò la sua attività di medico condotto il 1° maggio 1936 quale vincitore di concorso. (Luciano Chiabudini, I nostri morti nei lager nazisti, in: http://www.lintver.it/storia-dueguerre-russiacampagna.html).

«Il giovane medico, dalla rombante motocicletta e dal caratteristico pizzetto, entrò subito nelle simpatie della gente che egli metteva a proprio agio e che si recava a visitare in qualsiasi ora e con qualsiasi tempo fino nei più sperduti paesini allora privi di strade». (Ivi).

La sensibilità che egli dimostrava verso la gente umile,  secondo alcuni, poteva esser stata da lui mutuata dal padre, il poeta friulano Enrico, insegnante e direttore didattico che commuoveva le scolaresche con la lettura delle sue poesie intrise di sentimenti di compassione verso i poveri.

Il dott. Manlio Fruch non condivideva le ideologie fasciste e naziste allora in voga e preferiva intrattenersi con la gente di paese piuttosto che con le autorità, con il podestà o il segretario  del fascio, tanto per fare un esempio. Agli scolari stessi, che erano tenuti a salutarlo «romanamente» quale ufficiale sanitario rispondeva con un gesto scherzoso della mano, come di chi vuole scacciare una mosca.

La casa isolata, ove il medico abitava ed aveva l’ambulatorio, era continua meta di ammalati che molto spesso ricompensavano la sua prestazione con generi alimentari di cui potevano disporre: un pezzo di burro, frutta, un salame, cibi che spesso prendevano la strada delle famiglie piú bisognose.

La signora Livia B. di Loch, che, ancora ragazzina, come allora si usava, prestava servizio in casa del dott. Fruch, che viveva con la moglie e la figlia Paola, a cui fece da bambinaia, rammenta molti di questi episodi. La signora Livia ricorda il periodo bellico, i partigiani che venivano a chiedere cura e soccorso, ed egli non negò mai la sua opera, sottoponendosi a rischi a causa di delatori. (Ivi).

E delatori, pare, informarono i tedeschi del fatto che Manlio Fruch aveva contatti con i partigiani. Infatti, nel dopoguerra, i suoi familiari sporsero denuncia contro persone di un comune vicino che avrebbero istigato alcuni residenti di Pulfero a sottoscrivere una informativa sui contatti del dott. Fruch con i “ribelli”. Infine il dottor Fruch fu arrestato. Restò in carcere dal 12 novembre 1943 al giorno di Natale. Rilasciato, tornò in prigione dopo una diecina di giorni. (Ivi).
Probabilmente egli si appellò al giuramento di Ippocrate per giustificare il suo operato, forse si trovò qualche prova o appiglio, oltre la delazione, per sostenere un suo collegamento al movimento partigiano.

Rinchiuso nel carcere di Udine, il 25 febbraio del 1944, Manlio Fruch fu prelevato dai tedeschi con un gruppo di detenuti politici il giorno seguente e deportato nel lager di Pratzweiber. (http://www.anpi.it/donne-e-uomini/1748/manlio-fruch).

«… Domattina partiró per l’esilio in Germania. Saremo in molti. Spero di tornare, e presto, e per sempre. Ma non si sa. Non mi sorprende la decisione presa nei miei riguardi, né mi risveglia proposiiti di rivalsa contro nessuno… Non piangere mamma, pensa a quante madri e figli hanno sofferto più di noi, molto più in questa illogica guerra. Vedrete in Paradiso il vostro Manlio se non tornerò…» scriveva ai familiari il giorno prima di essere deportato in Germania.  (Ivi.).

Dal lager di Pratzweiber, fu spostato, poi, in vari campi di concentramento in un lungo calvario ove a causa delle sevizie subite contrasse diverse malattie. (Ivi). Morí di tifo petecchiale il 12 maggio 1945, a Eresing-St. Ottilien, ove una lapide fatta erigere a cura di quel comune, ne individua il luogo di sepoltura. (Ivi).

Non sapevo nulla di Manlio Fruch, sino a che non lo incontrai leggendo l’articolo di Lino Argenton: “I medici durante la resistenza nella regione Friuli (1943- 1945)” pubblicato su: Storia Contemporanea in Friuli, ed. I.F.S.M.L., n. 21,1990. Ma la scheda più completa sul medico di Pulfero è certamente quella pubblicata da Luciano Chiabudini, in: http://www.lintver.it/storia-dueguerre-russiacampagna.html. L’ immagine che correda il testo è tratta da detto sito ed è quella posta a ricordo di Manlio Fruch, che potrebbe esser stato  di ideali socialisti. 

Laura Matelda Puppini

Natale 2015: fra Babbo Natale e la piccola fiammiferaia.

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Continuo a leggere, ad ascoltare,  la voce del potere che può esprimersi, che può parlare. E dall’altro lato vedo i dati Inps ed Istat, sento delle banche a capofitto dopo aver venduto fumo, come la CoopCa, ormai in regime di “deregulation”, e rifletto sulla solita Italia, ove i poveri pagano tutto.

Quello che mi crea sconcerto sono poi le affermazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi, l’ uomo solo al comando, che in genere dice e promette di tutto.
In ottobre ha promesso da cinquecento milioni ad un miliardo di euro (di noi italiani non suoi) per i bambini poveri, respingendo l’idea, che mai abbiamo creduto sua, di fare la guerra alla ricchezza, (Nicola Corda, Renzi: «Per i bimbi poveri fino a 1 miliardo di risorse», in: La città di Salerno, 11 ottobre 2015, in: http://lacittadisalerno.gelocal.it/salerno/cronaca/2015/10/11/news/), ma elargendo carità ai poverelli, magari figli dei precari e licenziati, delle vittime sacrificali della sua politica e di quella del precedente ventennio berlusconiano, facendo il filantropo con i soldi della nazione, ( chissà perché mi viene alla mente la Befana Fascista, ma sarà solo così, per caso o per stanchezza). In novembre ha promesso 1 miliardo di euro, sempre nostri, per la cultura, o forse per “l’identità culturale” (come scrive il Fatto Quotidiano il 24 novembre 2015, nel suo: “Terrorismo, Renzi: Un miliardo per la sicurezza, uno per la cultura. La bellezza sarà più forte della barbarie”), ed un altro miliardo di euro per la sicurezza, fondi che pensa di scovare, per una parte, non diminuendo l’Ires. Purtroppo pare, però, che almeno una fabbrica le tasse se le sia tagliate da sola: infatti il 28 ottobre 2015, il Messaggero Veneto intitolava un articolo di Tanja Ariis: “La Burgo non pagherà l’Ici e il Comune non fa ricorso”. Anche la Commissione tributaria regionale, sempre secondo la Ariis, aveva dato torto al Comune di Tolmezzo. Perché trattasi di detto Comune e della Cartiera. “Eh, ma … “. Mancano i versamenti Ici di detta fabbrica dal 2007 al 2010, pari ad oltre 37 mila euro, ma … cosa vuoi che sia … Evitasse di pagare l’ Ici un poverello, gli piomberebbero tutti addosso … penso io.

Ma ritornando a Renzi, alle cifre così decise, si devono aggiungere i 500 milioni per le periferie, ecc. ecc. così, senza un progetto, senza due dati, senza delle linee dei settori ove investire … ecc.. Per i soldi per le periferie basta presentare domanda. Per fare che? Come il solito mistero.
E fin qui lo scenario è dominato da Babbo Natale, si fa per dire.

Ma poi … Poi arrivano i dati Inps, ed il progetto: “Non per cassa ma per equità”, sempre dello stesso Istituto, che pone prioritariamente, nella “Motivazione e descrizione delle proposte normative”, la lotta alla povertà. Ma come? Non basta il miliardo di soldi nostri promessi da Renzi per i bimbi poverelli? E chissà perché mi viene alla mente, in relazione alla proposta di Matteo Renzi, il termine “demagogia”, ma sarà perché sono vecchia, ecc. ecc…
E poi … Da Il Fatto Quotidiano del 24 ottobre 2015, sappiamo che non ci sarà nuova occupazione almeno nel settore pubblico. Infatti il Governo ha bloccato nuovamente il turnover, cioè se uno va in pensione non viene rimpiazzato. Per la prima volta il settore pubblico è sotto i 3 milioni di occupati a tempo indeterminato. Per la precisione, per l’Inps sono 2. 943.021. Tale perdita di lavoratori pubblici «inizia a essere percepibile anche nella quantità e qualità dei servizi forniti dal pubblico». (Salvatore Cannavò, Statali, servizi a rischio. E Renzi offre solo tagli, in: Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2015). Ma cosa vuoi che sia… E poi il settore del pubblico impiego era già in discesa prima del 2007, per poi avere una breve ripresa in quell’ anno –  potrebbe obiettare qualcuno.  «Da allora , però, la riduzione è micidiale. “Un’ ecatombe” la definisce la segretaria della Funzione pubblica Cgil Rossana Dettori. “Il calo incide pesantemente su campi delicati: penso agli anziani, all’ infanzia, al settore sanitario in generale”» – continua. (Ivi). Ma cosa vuoi che sia … E con la legge di Stabilità  il Governo ha stanziato solo 300 milioni cioè 93 euro lordi all’ anno per dipendente. (Ivi).
In questo modo, scrive Cannavò nell’articolo citato, si avranno più contratti a termine e meno personale.
Ma tranquilli: se manca e mancherà personale nella sanità, scuola, Università e Polizia, stanno aumentando i dipendenti pubblici nella Presidenza del Consiglio ( + 2,8) e nell’ Esercito. (+ 2,6). (Ivi).
Beh, dirà qualcuno che ha ancora il coraggio di sostenere questo Governo, in fin dei conti resiste il privato. Forse Finmeccanica che vende armi agli arabi sta guadagnando. Qualcuno ha detto per la verità, che gli emirati arabi potrebbero anche vendere armi all’ISIS, ma la risposta è stata, in sintesi, che gli affari sono affari. «Pinotti: “Smettere? Sarebbe come se si interrompessero i rapporti commerciali con l’Italia perchè da noi c’è la mafia».  E Mauro Moretti, amministratore delegato di Finmeccanica, precisa: «Noi parliamo con i governi di Paesi che non sono sulla lista nera. Siamo autorizzati anche dagli Stati Uniti a farlo. Se poi all’interno di quei Paesi ci sono persone che raccolgono denaro per finanziare l’ Isis, non è un problema nostro.» 
(Ambedue le citazioni sono da: Gianluca Rosselli, Finchè c’è guerra c’è speranza, per il Fatto Quotidiano, in: unaliraperlitalia.altervista.org/blog/2015/11/21/6362/).

Infine con milioni di italiani  sotto la soglia di povertà, acquistiamo gli F 35!
Con che soldi ? Con i nostri. Ma non abbiamo neppure i soldi per la sanità … ci narrano Lorenzin e Yoram Gutgeld, che paghiamo pure come esperto della spending review, perché, penso io, firmi lui i desiderata di Renzi, cioè la privatizzazione dei servizi e il si arrangi chi può e come può conseguente. E mentre la Regione Fvg, perché abito qui, spende soldi regionali nostri per riempire gli ospedali di reclames per la riforma regionale, in patinata a colori, inutili e mal fatti, come quello intitolato “Nuova sanità. Cosa cambia?”, che è un insieme di parole ad effetto messe là, senza contenuto alcuno, gli operatori sanitari scendono in sciopero. Perché? Ci sono 800 operatori in meno in Regione – recita un volantino che unisce più sigle sindacali, e direi unitario, e gli operatori nella sanità Fvg. hanno fatto 400.000 ore di lavoro straordinario nel 2014. Chi incentiva il lavoro straordinaro, se ben ricordo,  è l’ assessore  incarico esterno Maria  Sandra Telesca, per evitare assunzioni anche a tempo determinato, pare. Eh mah … Se poi il personale è stressato, in ambito così delicato, che può fare un assessore?

Intanto la manovra proposta dal Governo, con la legge di stabilità, ha superato i 31 miliardi di euro, (Marco Palombi, La manovra sale a 31,6 miliardi, ma aumentano anche i buchi, in Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2015) e pare che 17,7 miliardi di spesa siano senza copertura. (Ivi).

Ma speriamo in Babbo Natale e nella Befana …
Lo sperano in particolare i poveri, che ormai sono milioni. Nel 2014, secondo la Caritas, il 6,8 % della popolazione italiana era in condizioni di povertà assoluta. Ed « Oltre ad essere aumentati, i poveri rappresentano anche la parte della società che ha visto le proprie condizioni deteriorarsi maggiormente. Infatti, durante la crisi, il 10% della popolazione con minor reddito per lo più, appunto, persone in povertà assoluta ha sperimento una contrazione percentuale del proprio reddito (meno 27%) assai superiore a quella vissuta dal restante 90% (Brandolini, 2014; Inps, 2015; Baldini, 2015). Inoltre la povertà ora colpisce trasversalmente i gruppi sociali: non più solo famiglie numerose che vivono al Sud e con componenti disoccupati, ma famiglie con uno e due figli, che vivono al Centro- Nord e in cui sono presenti membri occupati». (“Dopo la crisi costruire il welfare, le politiche contro la povertà in Italia, Rapporto Caritas 2015, in: http://s2ew.caritasitaliana.it/materiali/Pubblicazioni/libri_2015/Rapporto_politiche_poverta/Executive_summary_politiche_poverta.pdf).

E nuove povertà emergono, a causa della perdita dei risparmi, sempre da parte dei pensionati e delle categorie più povere. “Chi paga il conto ” – intitola Il Manifesto dell’ 11 dicembre 2015, due pagine che parlano del crollo di 4 banche di cui la più nota è banca Etruria. E parla di banchieri inaffidabili, e controlli colabrodo.

Ma qui viene il bello. Con il crollo delle 4 banche, a cui non si sa quante seguiranno, con capo in testa banca Etruria, con figura cardine il padre della ministra Boschi, ma con anche il fratello in affari nella stessa, l’uomo solo al comando, cioè Matteo Renzi, “se ne è inventata una nuova”.
Dopo che, come il solito, nessuno ha vigilato sufficientemente, tanto da far intervenire anche l’ ‘Europa, Matteo nostro ha lapidariamente detto che non si possono salvare banche con i soldi pubblici (cosa fatta e strafatta da Monti se non erro ed altri) e fin qui si potrebbe essere d’accordo, e, udite, udite, pertanto andranno sul lastrico i piccoli privati. E gli amministratori incauti? Eh, mah … E quelli che hanno proposto obbligazioni capestro ai pensionati? Eh mah… Sappiamo però, in compenso, che la mamma della Ministra per le riforme renziane, Maria Elena Boschi, ha dichiarato : «’Soffriamo per i risparmiatori’ Per fortuna c’è un’inchiesta, ci sono le carte e da quelle carte, vedrete, la verità verrà fuori. E la verità è che noi, in primis mio marito, non abbiamo mai preso un euro dalla banca», in: http://247.libero.it/focus/34382307/403/banca-etruria-la-difesa-della-mamma-di-maria-elena-boschi-mai-preso-un-euro-arriveranno-delle-sorprese/). Beh a me poco interessa delle lacrime della Signora, se devo essere sincera. Mi interessa di più il suicidio del risparmiatore. 

E siamo alla piccola fiammiferaia …

E chiudo come il solito dicendo che queste sono mie considerazioni, basate però su informazioni, e se erro correggetemi. Ah dimenticavo. se qualcuno non conosce la favola tristissima di Andersen, “La piccola fiammiferaia”, la può trovare in: http://www.letturegiovani.it/Andersen/piccola_fiammiferaia.htm

Laura Matelda Puppini

L’immagine di La piccola fiammiferaia è presa da: “Fiabe di Natale: La Piccola Fiammiferaia, in: mamma.pourfemme.it”, solo per questo uso.

Governo, banche, sanità ed acqua oro del domani. Quale futuro per i nostri bimbi?

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Stasera sentivo a Ballarò, la difesa di Renzi, sul caso Etruria e dintorni, del sottosegretario Paola De Micheli, per l’occasione di scuro vestita, quasi un abito monacale, ed una specie di crocefisso strano al collo, nulla a che fare con una delle sue immagini ufficiali con collana, orecchini e scollatura, e mi chiedevo come si può difendere il Governo su banca Etruria e dintorni. Il problema non è solo e comunque cosa si sarebbe potuto fare invece di far pagare ai poveri pensionati affari sballati, salvando banche e banchieri ora, ma che potevano fare il Governo e gli organi preposti alla vigilanza prima della catastrofe.
Che si sarebbe dovuto vigilare, lo direbbe persino uno qualsiasi che passa per strada.
Al tempo stesso sentivo, dal giornalista Andrea Scanzi, parole già sentite tante altre volte in questa Italia sempre meno dei cittadini e degli italiani, ammesso che lo sia mai stata, ma sempre più del Gotha del ed al potere: “conflitto di interessi”. Non sono parole di poco conto, ed ha ragione il giornalista.

Parallelamente mi viene alla mente mia madre, che fiduciosa andava dall’esperto della banca a chiedere consiglio. Quanti e quante hanno fatto così anche con banca Etruria, per trovarsi poi, a differenza di mia madre, senza nulla? E secondo il governo, dovremmo noi, poveri cristiani, farci un corso su titoli ed affini, quando si sa che ormai in Italia non ci si può fidare di nulla e di nessuno, e di informazione alcuna, tanto è spesso tutto reclame? Inoltre è giusto che, in un modo o nell’altro, con i soldi nostri, (si parla di miliardi di euro negli anni) si siano salvate le banche dai loro affari sballati, facendo passare, tra l’altro, quanto come salvezza dell’economia per il bene degli italiani? Per cortesia, almeno non prendeteci in giro. E’ inutile correre in chiesa e poi metter  ….  ai cittadini, è inutile predicare bene e ….

E mi viene in mente quell’ “Eh mah” che non fa che coprire ogni scelta od azione anche priva di etica. Se non vi è più etica, e siamo nella giungla almeno ditecelo, che andremo a vivere con gli oranghi, ove la giungla viene inghiottita dall’ uomo, creando disastri ambientali.
Questi nuovi “Paperon De’Paperoni”, banchieri ed amministratori che non guardano in faccia nessuno, pur di far “dollari” e coprire ogni loro errore macroscopico, ogni loro sventatezza, restando sempre sulla breccia, fanno davvero paura. E pare che, come al solito, diminuendo il lavoro ed aumentando le spese, oltre alla povertà aumenti l’usura. Ma cosa vuoi che sia …

È un problema di etica, dicevo anni fa, relativamente ad una situazione in cui mi ero venuta a trovare mio malgrado. Sono più che mai ora un problema di etica, le scelte del governo. Ma è il neo liberismo, che provoca questo, mi dice qualcuno. Si trova sempre una scusa o una nuova invenzione per tranquillizzarsi la coscienza, penso io.

Parallelamente sappiamo dal Messaggero Veneto che la dott. Maria Sandra Telesca, assessore regionale F-vg alla sanità, mai eletta dal popolo, ha trovato un accordo (non si sa a che prezzo) con i sindacati dei medici di base perché coprano il servizio ambulatoriale 12 ore su 24, creando gruppi di professionisti, entro il 2018. In sintesi se ne riparla fra un po’. «Cardine dell’accordo sono proprio gli ambulatori dei medici di base, che […] , dovranno “armonizzare l’orario di accesso all’attività ambulatoriale, assicurare una miglior continuità assistenziale, attuare iniziative di promozione della salute e di prevenzione, perseguire l’integrazione assistenziale con l’ospedale e gli altri servizi coinvolti nei processi di cura e razionalizzare le spese”». (Giovanni Stocco, Ambulatori con sei medici di base e aperti otto ore al giorno, in: Messaggero Veneto, 22 dicembre 2015). In sintesi siamo ancora a : parole parole, ed ad un “dovranno” senza sapere come.

Ove saranno locati tali gruppi di medici di base, che dovrebbero praticare la “medicina d’iniziativa” (Ivi), ultima trovata, che speriamo di non dover subire, dato che, oltre non sapere cosa sia, non pare di buon auspicio nel suo nome? E quanti pazienti avranno? Oddio, si sono dimenticati di dircelo. Resteranno i medici di paese o i poveri pensionati dovranno decidere fra il fai da te, molto in uso e sempre più quotato, e il comperarsi una casa in città, aumentando gli utili degli immobiliaristi, ammesso che lo possano fare, sobbarcandosi trasloco, sradicamento ecc.? Ancora non si sa … Inoltre si sono dimenticati di dirci che possono fare i medici di base, consorziati o meno, senza strumenti diagnostici. Accorrono, dicono “ Non si preoccupi … si mantenga calmo “ … e poi? E poi? Che può fare di più, infatti, senza poter fare subito una analisi del sangue e dell’ urina, una ecografia, ecc. ecc. per cui può solo fare  l’ impegnativa, (che implica per l’ ammalato andare all’ ospedale più vicino il giorno successivo, se uno ce la fa, ecc. ecc. andare a ritirare il referto, ecc. ecc.),  senza avere un defribillatore, armata solo di mani ed uno stetoscopio, questa novella futura, e mi scuso subito per il parallelo, ma non me ne viene in mente altro “armata Brancaleone” ora consociata,  priva in alcuni casi di ospedale vicino d’ appoggio?

Secondo me i politici dovrebbero fare meno tentativi di realizzare i loro utopici sogni, e calarsi nella realtà dei poveri cristiani che devono sopportare le loro scelte.
Credetemi, penso che se in F-vg ci fossero state meno idee rivoluzionarie in sanità, e si fosse mantenuto lo status quo, si sarebbe speso meno e si sarebbe stati meglio. Si poteva chiedere ai medici ove fossero le spese non necessarie ed agire in conseguenza, senza riforme epocali. Ma si voleva far capire subito che la regione può … Che cosa? “Incasinare” tutto sicuramente … Che poi queste idee di riforma peschino dal governo Renzi, visto quanto sta accadendo in Toscana, ove si riforma la riforma per impedire un referendum popolare, e questo da parte di un partito che nel nome si dice democratico, (Riccardo Chiari, Toscana riforma sanitaria bis, per evitare il referendum, in: Il manifesto, 22 dicmebre 2015) beh, poco importa, e sa davvero poco di democrazia e molto di prevaricazione e sopruso e di “Qui comando io”. Ce lo dicano pure, oltre che farcelo capire, e faranno più bella figura. Almeno ci metteremo il cuore in pace …

Leggo poi, a livello locale, che, visto che non piove e nevica, il comune di Paularo è rimasto senz’ acqua potabile. Non è una novità, penso. Che l’acqua sia l’oro del domani lo diceva anni fa persino il segretario dell’Onu. “L’acqua non basta per tutti”. Allarme dell’Onu: “In futuro tensioni tra i Paesi” intitolava un pezzo di Davide Patitucci il 16 marzo 2012 Il Fatto Quotidiano, ma il problema data ben prima. «Secondo l’ultimo rapporto dell’Unesco, presentato al VI Forum internazionale sull’acqua, un miliardo di persone al mondo vivono senza risorse idriche potabili. La questione riguarda anche l’Italia: “Il numero di persone che può disporne è diminuito rispetto al 1990.  E la situazione è destinata a peggiorare”» – sottotitola l’articolo citato.

Ed ancora: « In suo nome potrebbero combattersi le guerre del terzo millennio. Al pari dell’oro nero, l’acqua sta diventando una risorsa sempre più strategica e preziosa. Tanto da essere spesso definita “oro blu”. Le cifre sono impietose. Ancora troppe persone nel mondo vivono senz’acqua potabile. Un miliardo. È il dato che emerge dal nuovo rapporto dell’Unesco, “La gestione dell’acqua in condizioni d’incertezza e di rischio”, sullo sviluppo delle risorse idriche mondiali, presentato a Marsiglia nel corso del VI Forum internazionale sull’acqua.
Le Nazioni unite denunciano come “l’aumento considerevole della domanda di acqua in tutti i settori di maggior consumo – agricoltura, produzione di energia, industria e uso quotidiano -, unito alle pressioni esercitate dai mutamenti climatici, rischiano di ridurne ulteriormente la disponibilità in molte zone del mondo. E di aumentare le disparità economiche tra alcuni paesi o regioni diverse dello stesso territorio, a danno dei più poveri”. L’Onu mette in guardia dal “rischio che i cambiamenti climatici possano esasperare tensioni attuali e future in materia di risorse idriche. L’acqua è alla base di tutti gli aspetti dello sviluppo. Rappresenta, infatti, il mezzo principale attraverso il quale i cambiamenti climatici influenzano l’ecosistema terrestre e quindi la sopravvivenza e il benessere delle società”. Basti pensare, sottolinea la rivista Nature in un articolo di commento, che “tre nazioni – India, Cina e Stati Uniti – da sole utilizzano un terzo dei circa 4mila chilometri cubi di acqua adoperata ogni anno nel pianeta”». (Ivi).

«Anche in molte zone dell’Europa meridionale e dell’America tanti rubinetti restano a secco. Secondo il rapporto, “nei prossimi decenni i flussi idrici estivi tenderanno a ridursi dell’80 per cento in Europa meridionale e in una parte centrale e orientale del Vecchio continente”. La questione, pertanto, riguarda direttamente anche l’Italia. “Il numero di persone che può disporre di acqua corrente nelle città – si legge nel rapporto – è diminuito rispetto alla fine degli Anni ’90”. Siccità e agricoltura intensiva le cause principali della carenza di oro blu. E la situazione è destinata a peggiorare nei prossimi 25-30 anni, per il previsto incremento dell’urbanizzazione. L’Onu stima che “la popolazione mondiale toccherà i 9 miliardi nel 2050 e il bisogno di acqua per i soli processi di produzione di combustibile s’innalzerà del 50 per cento». – continua Patitucci. (Ivi).

Ora pur tenendo conto che il PD, che si è autoproclamato Partito della Nazione potrebbe avere una specie di idiosincrasia per Il Fatto Quotidiano, non certo renziano, e non leggerlo, il problema dell’ acqua è arci – noto.

Allora perché Debora Serracchiani e la sua giunta, saldamente renzista, non hanno acquistato non solo le centrali per energia elettrica, quando sono state messe in vendita, (Elena Del Giudice, Le 26 centrali del Fvg cedute a una Spa di Bolzano, in: Messaggero Veneto, 29 ottobre 2015) ma pare permettano l’ utilizzo di rii per piccole centraline da parte di privati?

Persino Enzo Marsilio, con cui su questo concordo, era intervenuto sul passaggio di mano del patrimonio idroelettrico del Fvg, ed aveva chiesto, attraverso un’interrogazione alla giunta, che la Regione entrasse nella trattativa.
«E questo in considerazione che “la valorizzazione delle risorse idroelettriche è uno degli obiettivi strategici dell’amministrazione”, e che avrebbe potuto essere interessante e remunerativo per il territorio costruire un progetto in grado di mantenere in loco la proprietà degli impianti». (Ivi).

Chiediamocelo, mentre il futuro si tinge di tinte fosche, chiediamocelo ….
Ah, scusatemi, dimenticavo l’ ultima. Ignoto, su Cronache tolmezzine , ultimo numero credo, ci avvisa che Carniacque confluirà in Cafc, punto e basta. Neppure un tentativo di far politica, cioè di fare proposte anche alternative al governo, ma che sarebbero sostenute, magari dai cittadini. Pare che la politica tolmezzina sia incentrata sulla tecnica dell’adeguamento e della sottomissione, sia politica non di attori ma di sotans. Ma è davvero così?
E chiudo con la solita frase che mi contraddistingue, premettendo che vorrei sentire parlare di questi argomenti invece che di candidature ecc. che a noi non interessano: non è mia intenzione offendere nessuno ma solo esprimere, come riesco il mio pensiero,  e naturalmente queste sono mie considerazioni, e se non vi paiono corrette scrivetemelo, ma almeno parliamo del nostro futuro e di quello dei bimbi italiani che ci guardano con i loro grandi occhi, ancora ignari di ciò che li potrebbe attendere.

Laura Matelda Puppini

L’ immagine che non so se sia coperta da diritti d’autore, non essendo precisato, è presa da:https:// stefotomaternity.wordpress.com, solo per questo uso. Laura Matelda Puppini

Gino Strada. Abolire la guerra unica speranza per l’umanità. “Sono un chirurgo e ho visto …” Una riflessione per il Natale.

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Gino Strada, il noto chirurgo fondatore di Emergency, ha ricevuto il Right Livelihood Award 2015. Nel corso della cerimonia egli ha pronunciato un discorso, che qui riporto come spunto di riflessione per il Natale, festa di pace,  che, in Inglese, inizia così:

” Abolishing war is urgently needed…” 

« Onorevoli Membri del Parlamento, onorevoli membri del Governo svedese, membri della Fondazione RLA, colleghi vincitori del Premio, Eccellenze, amici, signore e signori.

È per me un grande onore ricevere questo prestigioso riconoscimento, che considero un segno di apprezzamento per l’eccezionale lavoro svolto dall’organizzazione umanitaria Emergency in questi 21 anni, a favore delle vittime della guerra e della povertà.

Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili.

A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette “mine giocattolo”, piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita.

Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una “strategia di guerra” possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del “paese nemico”. Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili.

Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo “il nemico”? Chi paga il prezzo della guerra?

Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più “conflitti rilevanti” che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano.

Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho percepito l’entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti.

Negli anni, Emergency ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri paesi, ampliando in seguito le proprie attività in ambito medico con l’inclusione di centri pediatrici e reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso.

L’origine e la fondazione di Emergency, avvenuta nel 1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita su tavoli operatori e in corsie d’ospedale. Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare.

In 21 anni di attività, Emergency ha fornito assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell’oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso l’esperienza di EMERGENCY.

Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.

Confrontandoci quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito l’idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco.

In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo all’indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell’ONU: “Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”.

Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e il “riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.

70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli stati firmatari ha applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all’istruzione e alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All’inizio del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi.

La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani.

Vorrei sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo.
Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4000 civili in vari paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case.

In qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia – nella maggior parte dei casi – portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l’uso della violenza.

Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto Manifesto di Russell-Einstein: “Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?”. È possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano?

Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro.

Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare.
Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l’umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla.

Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell’apocalisse, stanno mettendo in guardia gli esseri umani: “L’orologio ora si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana”.

La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente.

L’abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione.

Possiamo chiamarla “utopia”, visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento.

Molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù sembrava “utopistica”. Nel XVII secolo, “possedere degli schiavi” era ritenuto “normale”, fisiologico.
Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l’idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell’utopia è divenuta realtà.
Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà.

Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità.

Ricevere il Premio “Right Livelihood Award” incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento culturale per l’abolizione della guerra.
Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa.
Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future.

Grazie.

Gino Strada, Stoccolma, 30 novembre 2015
http://www.emergency.it/abolire-la-guerra-unica-speranza-per-umanita.html.

Il minuscolo, tranne che la lettera iniziale,  per la dicitura  Emergency, scritta correttamente in maiuscolo nel testo originale, è mio, ed è scelta di editing. L’ immagine che accompagna il testo è tratta, solo per questo uso, da: www.flickr.com.  Laura Matelda Puppini


Francesco Cecchini. Rosso Bombay

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“He let his mind drift as he stared at the city, half
slum, half paradise. How could a place be so ugly
and violent, yet beautiful at the same time?”

“Mentre guarda la città, mezza bassofondo e
mezza paradiso, lascia la sua mente viaggiare.
Come un posto può essere così brutto e
violento e allo stesso tempo così bello?”

(Chris Ambani, Graceland, New York 2004).

Ho conosciuto Bombay prima ancora di visitarla. Avevo visto film, letto romanzi, ascoltato musica e canzoni indiane, ma la città mi rimaneva comunque lontana. Gli occhi che la guardavano e le parole che la descrivevano non erano le mie, non mi appartenevano.
Poi mi capita per lavoro di andarci a vivere per un anno intero.
Vi arrivo a notte fonda. Durante l’atterraggio guardo dall’alto il mare di luci che si estende lungo tutta la costa, da nord verso sud, intervallato da macchie di nero al centro; sono le baraccopoli della famosa Dharavi ed altre.
È l’alba del 20 Luglio 2005 quando lascio l’aeroporto Chattrapathi Shivaji diretto ad un alberghetto di Bombay South.

۞

La stagione delle piogge è iniziata da poco più di un mese; il monsone è tranquillo, ma indovini e meteorologi prevedono entro pochi giorni l’arrivo di un diluvio di acqua e vento. La gente ha paura. C’è sì bisogno di acqua per le riserve idriche della città e per l’irrigazione delle campagne circostanti, ma un monsone infuriato può rappresentare per la città una vera e propria sciagura.
Vikram Kaur, un collega, mi accompagna al piccolo tempio di Sri Sankara Mattham che si trova in Telang Road, nel quartiere di Matunga, per assistere ad una cerimonia religiosa.
Ogni anno, infatti, all’inizio della stagione monsonica bramini vestiti di bianco con corone di fiori al collo, immersi in bidoni pieni d’acqua, invocano il Dio della Pioggia affinché ne conceda a sufficienza.
È mattino, il vento e la pioggia sono leggeri. Telang Road è una stradina stretta lungo la quale sorgono l’uno accanto all’altro diversi templi.
Vikram, anche se di casta bramina, non è un frequentatore abituale di luoghi sacri e non sa quale sia quello in cui si svolgerà il rito. Chiediamo a un passante che ce lo indica.

۞

Lasciamo scarpe e calzini nell’atrio, il luogo è silenzioso, illuminato da candele e profumato d’incenso; vicino ad una colonna, seduto a gambe incrociate, vi è un uomo forse il custode. Ci avviciniamo. Vikram inizia a parlare in hindi senza tradurre; afferro solo un paio di parole che conosco: namaste e yajna. Parlano per una decina di minuti ed alla fine scopro che siamo in ritardo, la cerimonia è già avvenuta il giorno prima.
Quando usciamo nuovamente in strada, pioggia e vento sono cessati. Ci fermiamo ad un banchetto di cibo per mangiare qualcosa. Il mio amico improvvisamente scoppia a ridere ed esclama:
«Forse i bramini hanno esagerato questa volta a chiedere piogge abbondanti ed ora è troppo tardi. Me lo ha detto il santone che abbiamo incontrato al tempio. Sta per arrivare il diluvio universale»!

۞

Il pomeriggio del 26 luglio, sei giorni dopo il mio arrivo, il Dio della Pioggia attacca Bombay e la colpisce con una violenza inaudita, scaricando in poche ore quasi un metro d’acqua. I quartieri, separati l’uno dall’altro, diventano isole galleggianti e negli slums, dove vivono i poveri e gli emarginati, affiorano e si intravedono solo i tetti delle baracche.
Il sistema dei trasporti è paralizzato: treni, bus e automobili sono fermi. Uomini e donne si spostano con difficoltà, nuotando o guadando da un punto all’altro, con l’acqua che arriva oltre le ginocchia. Ad aumentare le ferite di una città già devastata, contribuiscono anche le frane di fango che in un attimo seppelliscono intere baraccopoli e i cicloni al largo della costa che distruggono barche e fanno strage di pescatori.
Dopo il primo violento schiaffo, il monsone fortunatamente si attenua, ma continua a imperversare per quattro lunghi giorni, mettendo in ginocchio la città. La gente, dimenticate le divisioni tra musulmani, indù e cristiani, si aiuta e distribuisce cibo; brucia i morti, trasporta con ogni mezzo i feriti negli ospedali: giorno e notte, sorridendo, parlando ed ascoltando musica alla radio. Una nuova canzone viene cantata e ricantata:

Bombay affaticata
Si dice che Bombay non dorma mai
Non si fermi mai
Non si stanchi mai
Ma, fratello mio,
Martedì 26 Luglio
Bombay si è fermata
Si è stancata

L’emergenza dura ancora qualche giorno, poi l’acqua inizia a ritirarsi, lasciando al suo posto una spessa coltre di fango. In poco tempo Bombay ritorna quella di sempre, la “Città che danza”.
Bombay…
Un tempo chiamata dai naviganti portoghesi che per primi la scoprirono “Bom Bahia”, “La Buona Baia”, formata da sette isole che gli inglesi comprarono e trasformarono in una penisola, sulla quale costruirono la “Perla dell’Impero”, sopravvisse al crollo del dominio britannico. Poi il suo nome fu cambiato in “Mumbai”, in onore di una dea Mumba semisconosciuta. Attualmente è la più grande metropoli indiana, un luogo che cambia pelle in continuazione.
Troppa gente. Una ventina di milioni, forse di più, di residenti; centinaia di migliaia di lavoratori che ogni mattina arrivano dai villaggi dell’entroterra, lavorano quattordici ore di fila e poi rientrano a sera tarda nelle case lontane. Un giorno dopo l’altro… Una vita di merda che giustifica malessere, frustrazione, odio ed anche rivolta.

۞

Bombay…

Eldorado per i disperati in cerca di un luogo stabile in cui lavorare, mangiare e sopravvivere, meta di pellegrinaggi a tutte le ore di tutti i giorni.
Quando questa moltitudine affamata e triste non riesce a trovare un alloggio si adatta a vivere in tende, lungo le strade, sui marciapiedi, oppure sotto ponti e viadotti, rischiarata solo dalla luce delle stelle, quando ci sono. Queste persone conducono una vita da cani randagi, vissuta ai margini del lusso sfrenato di una élite opulenta. Vengono chiamati slumdogs, cani delle baraccopoli, abitanti di Slumbay, la Bombay di Dharavi, Kalina, Matfalan. Una terra di nessuno fatta di catapecchie di legno, cartone, lamiera e teli di nylon bianchi e blu. In questi posti non c’è acqua potabile e a volte manca anche quella per lavare e lavarsi. Di notte è difficile addentrarsi, camminare ed uscire dal labirinto di questi luoghi privi di luce che, con il calare delle tenebre, diventano ancora più miseri e squallidi.

Nel quartiere bordello di Kamathipura, con la sua via principale Falkland Road, uomini, donne e bambini sono costretti a vendere il proprio corpo per poche rupie. Qui acqua e luce ci sono, perché la prostituzione va avanti ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana senza un attimo di pausa.
Troppe macchine, bus, taxi, moto, motorini, che non si fermano mai, bruciano benzina e diesel, trasformando questi liquidi nella spaventosa nube di smog che avvolge tutti e tutto.
Il rumore dei motori assieme alla musica delle canzoni indi è l’inno di questa città, la colonna sonora che non abbandona mai la vita della moltitudine, come il fetore dei rifiuti, l’odore del cibo cucinato all’aperto, dei profumi dolci e delle spezie.

Bombay…

Immensa, sporca, rumorosa e puzzolente. Un mostro urbano il cui fascino è simile a quello di una donna bella e pericolosa, incontrata in un bar di malaffare.
Accanto alla bruttezza di Slumbay, dei quartieri della prostituzione e dei marciapiedi dormitorio, infatti, risplende la bellezza di Juhu Beach, delle Torri del Silenzio, del quartiere di Bandra, di Churchgate, delle colline, dei laghi e del parco Sanjay Gandhi. Ristoranti, bar e pub alla moda, ma anche i locali malfamati frequentati da provocanti e seducenti bar-girls.
In questa metropoli, più che in ogni altra, bellezza e bruttezza convivono, a volte si mescolano. I confini non sono mai netti.
Il mio anno a Bombay vola e l’11 luglio 2006, il giorno prima della mia partenza, la città viene colpita da una nuova catastrofe. Questa volta non si tratta del Dio della Pioggia ma di una pericolosa organizzazione terroristica islamica chiamata Lashkar-e-Quahhar. Sette esplosioni in sette stazioni diverse squarciano il ferro dei treni e lacerano impietosamente i corpi di uomini e donne. In un pugno di minuti la morte sorprende coloro che, dopo una lunga giornata di lavoro stipati nei vagoni dei treni, stavano rientrando a casa. La folla, che a quell’ora brulica nei bazar e nei mercati circostanti, assiste in diretta all’orrore. Il bilancio è drammatico: 181 morti e 890 feriti.
Chiamo subito i miei amici, tutti lontani grazie a Dio dai luoghi in cui le bombe hanno cancellato quelle vite.
Solo il telefonino di Mary, la mia segretaria, continua a squillare a vuoto. A quell’ora, finito il lavoro, abitualmente prende il treno alla stazione di Jogeshwari per raggiungere la sua casa a Borivili.

۞

Ganesh, il fidanzato, imbarcatosi da poco su una nave come cuoco, mi chiama preoccupato e mi prega di ritrovarla. Mi aiuta nelle ricerche Mira, la sorella minore di Mary, che mi raggiunge a Bandra il quartiere in cui vivo.
Prendiamo un taxi e cerchiamo di dirigerci verso la stazione. La città, su cui ora è calata la notte, sembra in stato di guerra. Le sirene delle autoambulanze urlano, il traffico è bloccato, la gente si accalca impaurita mentre centinaia di poliziotti cercano di mettere ordine al caos.
Con una lentezza che aumenta l’angoscia, raggiungiamo la stazione semidistrutta. Si vedono ancora disseminati pezzi di gambe e braccia umane. È una visita all’inferno. Mary non c’è, né tra la folla ancora sconvolta né fra quei tristi brandelli di corpi inanimati. Iniziamo la ricerca partendo dagli ospedali e dalle cliniche situate nelle vicinanze, ma telefonare è un esercizio di pazienza: le linee sono spesso occupate e le risposte nervose e incomprensibili. Poi finalmente risponde il Bhagwati Hospital a Borivali. Una voce gentile di donna ci informa che sono stati ricoverati in quella struttura una trentina di morti ed una cinquantina di feriti, fra cui un paio di giovani ragazze di nome Mary.
Da sud a nord percorriamo tutta Bombay che, dopo una lunga e caotica notte, si prepara – nonostante tutto – all’alba di un giorno qualsiasi. Arriviamo all’ospedale il cui nome – mi spiega Mira – è quello di una dea e significa fortuna, e vediamo l’atrio occupato da molti corpi, avvolti in lenzuoli bianchi con larghe macchie di rosso. Evidentemente i posti negli obitori sono esauriti. Fa caldo e il fetore di carne in decomposizione è forte, ma non è possibile bruciarli senza prima effettuarne il riconoscimento. Molta gente aspetta in silenzio. Dopo un paio di ore ci dicono dove cercare; saliamo al piano superiore scavalcando uomini e donne, attraversiamo un salone intasato da feriti con gli occhi colmi di paura e tristezza. Dal tetto enormi ventilatori a pale muovono aria bollente. Vicina ad una finestra aperta, che lascia entrare la luce e i rumori ella città, troviamo Mary, addormentata su un letto senza lenzuola. Il suo kameez salwar è stracciato e sporco di sangue. Ha ferite sulle braccia e sulle gambe, ma per fortuna è viva.
Rassicurato, guardo l’orologio e mi rendo conto di avere l’aereo fra meno di dodici ore. Non vorrei partire, ma mi è impossibile restare.

۞

Nel taxi che mi accompagna da Bombay South all’aeroporto, ripenso al tempo trascorso in questa immensa città, agli episodi, alle storie, alle sorprese, agli amici indiani.
Leggo le annotazioni e i pensieri che ho appuntato in un quaderno e l’idea di un romanzo che racconti Bombay, così come l’ho vista e vissuta, lentamente prende vita in me. Poco prima di arrivare a Chattrapathi Shivaji l’idea diventa una decisione.
Da questa mia esperienza nasce quindi Rosso Bombay.
Rosso, perché questo è il colore del sangue che scorre fra le storie che racconto, ed anche perché mi piace pensare che se un giorno la città verrà liberata dalla fame, dalla miseria e dalla disperazione in cui versa, sarà questo il suo colore.
Rosso Bombay… Un romanzo. Ma anche il mio ritorno in questa splendida e contraddittoria città, per vivere un altro monsone, se non con il corpo, almeno con la mente.

Francesco Cecchini.

Questo racconto è stato utilizzato da Francesco come prologo del suo romanzo “Rosso Bombay”, pubblicato da Nuova IPSA, nel 2014, ed è già stato pubblicato sicuramente su: http://www.sagarana.net/, con titolo: “Una passione chiamata Bombay”.
L’immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: www.unfilmunarecensione.com, e rappresenta Dhoby – Ghat a  Mumbay. L’ho ricolorata  in seppia,  per rendere la povertà che per me è monocolore. Laura Matelda Puppini

Governo, regione, sanità, delle entrate e delle spese.

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Leggo, con ben poco sconcerto, sul numero del Messaggero Veneto post- natalizio ( 27 dicembre 2015) un paio di articoli di Mattia Pertoldi sulla sanità regionale. Udite, udite! È andata in rosso e di non poco (95 milioni di euro) nonostante la riforma Telesca. (Mattia Pertoldi, Sanità del Fvg in rosso. Il buco è di 95 milioni, in Messaggero Veneto, 27 dicembre 2015).

Ma state tranquilli: secondo i dati, che si apprende essere del giugno 2015, quella che perde maggiormente è la nuova aas3; quella che pare virtuosa, anche se in perdita, è la nuova ass4, in pratica relegata ad essere solo l’ospedale di Udine.

Ma dico io: le spese si valutano in base alle entrate. Quali entrate per l’ospedale di Udine, e quali per la nuova aas3?

E già questi dati meritano una prima considerazione. A casa della buona massaia le spese si valutano sulla base delle entrate. Chi non ha nulla, solo per avere il minimo indispensabile per vivere si indebita, chi è ricco non ha problemi a scialacquare anche nel superfluo.
Qual è stata la ripartizione del fondo regionale per la spesa sanitaria fra le aziende sanitarie regionali? Non sarà che, come mi par di ricordare, perché non sono riuscita a trovare i dati complessivi, l’ospedale di Udine, confuso con l’ass4, ha fatto la parte del leone?

Quello che emerge dai dati che sono riuscita a recuperare, è che «Dall’analisi sull’“Italia degli sprechi in sanità”, il Friuli Venezia Giulia ne esce bene. In coda alla classifica, infatti, per spesa pro-capite, o meglio, per il finanziamento pro capite assegnato dalla Regione alle, allora, Aziende sanitarie: mille 22 euro e 78 centesimi, contro una media nazionale di mille 444 euro e 52 centesimi. Un dato che mette in evidenza le sperequazioni che esistono in tema di sanità tra regione e regione. Ma la stessa analisi palesa le medesime sperequazioni tra Aziende di una stessa Regione». (Elena Del Giudice, Sanità, friulani penultimi in Italia, inm: Messaggeor Veneto, 27 aprile 2015).

E così dichiarava allora la dott. Maria Sandra Telesca, che tanto incide sulle nostre vite senza mai essere stata da noi eletta:
« È vero invece che, a partire dal 2014, “abbiamo modificato i criteri, orientandoli in modo importante sui costi standard, e in misura marginale, e lo sarà sempre più, sulla spesa storica”. Il costo standard altro non è che il valore di una determinata prestazione, ad esempio il ricovero, che deve essere simile in ogni struttura, nel caso di attività routinarie. Ad esempio, un’appendicectomia deve costare allo stesso modo se eseguita a Udine o a Tolmezzo.

“Dal 2014 – prosegue Telesca – abbiamo introdotto il criterio dei costi standard sulla base dei quali abbiamo ripartito il 70 per cento delle risorse, e il restante 30 sulla base del costo storico. Con il 2015 abbiamo eroso ulteriormente la quota assegnata sulla base dello storico, e così proseguiremo nei prossimi anni fino a raggiungere un sistema di riparto più equilibrato ed equo. Il sistema deve cambiare – prosegue Telesca – ma lo deve fare in modo graduale. Se avessimo rivoluzionato il sistema subito, avremmo generato il classico “bagno di sangue”. Ma il percorso va in quella direzione ed è funzionare a rivedere anche la qualità della spesa migliorando la virtuosità”.

Nel 2015 il riparto del fondo sanitario tra le nuove Aas (Aziende per l’assistenza sanitaria) continua a vedere in testa alla classifica l’area triestina. A lei, infatti, 1.916 euro pro capite. Al secondo posto viene la Aas4 Medio Friuli, con 1.845; quindi la Aas 2 Isontino-Bassa Friulana con 1.484 euro per residente; segue la Aas 5 Friuli occidentale con 1.417, e infine la Aas 3 Alto Friuli con 1.383. Se anzichè considerare la popolazione residente, il conteggio lo si fa sulla popolazione pesata (ovvero ricalcolata tenendo conto di alcuni indicatori, come l’incidenza della popolazione anziana), è l’Aas 4 Medio Friuli che riceve l’importo maggiore, 1.692 euro, mentre Trieste è seconda con 1.639 euro, quindi Pordenone con 1.364, l’area Isontino-bassa friulana con 1.341 e infine la Aas 3 dell’Alto Friuli con 1.262 euro.

La disparità tra territorio rimane, anche se un po’ meno pesante. «Ma il nostro obiettivo – conclude Telesca – è arrivare ad un finanziamento omogeneo e soprattutto a garantire servizi omogenei sull’intero territorio, valutando peraltro le aziende non sulla base dell’utile di bilancio, ma dal punto di vista dei cittadini, osservando se fruiscono o meno di quei servizi. Ed è anche a questo che vincoleremo le risorse da assegnare alle aziende». (Ivi).

Quindi l’Aas3 potrebbe aver un buco maggiore perché ha ricevuto minori introiti. Inoltre come mai l’ass3 era in attivo? Ed è vero che tale attivo è stato assorbito dalla ass4, in un discorso di area vasta?

Inoltre le attuali Ass, devono coprire sia la spesa sanitaria che sociale, che è finanziata pure attraverso il fondo per l’Autonomia Regionale, ma  non sono riuscita a reperire  come sia stato ripartito fra i comuni, e con fondi relativi ad altre voci, facenti riferimento alla legge regionale 6/2006. Infine l’ ospedale di Udine in particolare, dato che pare di capire di che piede va zoppa la sanità regionale, potrebbe aver ricevuto altri introiti, settoriali, che ne limitano il deficit. Infine è tragico che siano aumentate le spese per i dirigenti, che potrebbero esser anche meno. 

Le spese dovrebbero esser  ripartite in base ai carichi di lavoro, che potrebbero essere alti, in una azienda molto richiesta ma con non alto numero di utenti di riferimento. E se si ripartiscono i fondi solo sulla base del numero di abitanti … .

Inoltre chi meno ha, come l’Aas 3, più deve spendere, se l’utenza si rivolge a Lei per costose operazioni, dato che, magari, ha qualche bravo chirurgo che svolge operazioni di routine, o che ne so, i tempi di attesa sono minori, o la popolazione di altre regioni si rivolge qui.
Vorremmo sapere dati, avere una analisi completa del bilancio fra entrate ed uscite, per voci, ma la Regione ci vende, spesso, solo parole. Anche Maria Sandra Telesca pare faccia lo stesso, se a fronte delle sue stesse parole (Mattia Pertoldi, Sanità del Fvg in rosso, op. cit.), che evidenziano, a suo dire, un rosso causato dalla spesa per alcuni farmaci innovativi, che si potrebbero acquistare a minor prezzo in India dico io, ribatte poi a se stessa, attraverso il sito regionale, dopo l’ uscita dei dati sul Messaggero Veneto: « Conti Sistema sanità FVG in ordine», (Salute: Telesca, conti sistema sanità FVG in ordine, comunicato datato 27.12.2015 ore 15:38, in: La Giunta Regionale, in: http://www.regione.fvg.it/), che francamente non si sa che vuol dire, e che a me pare il solito discorso da clima pre-elettorale: “Tranquilli, ghe pens mi” e “Va tutto bene, non allarmatevi, a fine anno”. Quando vedremo i dati del bilancio 2015, mi chiedo io, invece?
Perché ormai, e confermato dal fatto che ora sono noti i dati di giugno 2015, i consuntivi appaiono a metà anno successivo, ed andrà a finire che i bilanci preventivi verranno fatti il 31 dicembre, per l’ anno già trascorso.

Inoltre, a livello previsionale, si possono supporre meno entrate statali i prossimi anni, e quindi meno fondi per la sanità pubblica e privata, perché molte cliniche private si reggono su un sistema misto.

Intitola Marco Travaglio il suo editoriale su : Il Fatto Quotidiano del 27 dicembre 2015: «Governo d’ evasione”, in cui tratta ampiamente i regali fatti dal Governo Renzi agli evasori, ed a cui rimando per aspetti analitici. Inoltre processi per evasione fiscale, in via di conclusione , debbono essere rivisti, perché ora il fatto, in molti casi, non costituisce più reato.

Infatti: «Dal 1° ottobre, giorno dell’entrata in vigore del decreto Renzi, non è più reato la dichiarazione infedele sotto i 150.000 euro, ( prima lo era dai 50.000 in su). E pure quella fraudolenta, mediante altri artifici, sotto 1,5 milioni (prima la soglia era un milione).
Il tutto in un paese che evade ogni anno almeno 122 miliardi sui circa 1000 dell’ intera U.E. e conta meno di 200 condannati per reati fiscali. (Marco Travaglio, Governo d’evasione, Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2015). False valutazioni, raddoppio dei tempi per gli accertamenti da parte delle Agenzie delle Entrate, tutto cancellato dall’uomo solo al comando.
Persino l “Economist”, ha sottolineato come, riferendosi all’Italia: « Un governo coraggioso proverebbe a risolvere l’eccessiva pressione fiscale abbassando le aliquote, migliorando i controlli, ampliando la base fiscale. Invece, rendendo più facile imbrogliare, Renzi farà ricadere il peso dello Stato sulle spalle di meno italiani.» (Ivi), e sulle spalle dei più poveri, che garantiranno sempre meno entrate, dico io.
Il “Financial Time”, ha invece sottolineato come «L’immensa economia sommersa dell’Italia rimane uno dei fardelli più pesanti per il Paese e nulla di buono potrà arrivare da una misura ( quella sui 3 mila euro in contanti n.d.r.) che serve solo a peggiorare il problema».
Ora meno sono le entrate meno si può spendere, anche in sanità/ salute e nei servizi, ed è inutile che si parli di cittadini virtuosi, di sacrifici necessari con questi chiari di luna, con un governo che fa regali agli evasori, spende per F 35 ed aereo personale per Renzi, promette due spiccioli, di soldi nostri per non perdere immagine, quando il lavoro manca e lo Stato italiano è in ginocchio, anche se Berlusconi ha dato il primo imprinting a questa politica suicida, ed il suo “pensiero”, se così si può chiamare, detta ancora legge.

Inoltre per spendere di meno in sanità sarebbe opportuno prevenire la malattia, agendo anche a livello ambientale.

Cosa si fa per esempio, in Italia, per limitare le malattie ambientali? Nulla. Nonostante i problemi dati dallo smog, quando ormai non si può più far finta di nulla, pare che la solerte Lorenzin nel tagliare farmaci e prestazioni mediche,  non intenda fare nulla. (Marco Palombi, L’Istituto di Sanità:”Indagate sul disel”. Lorenzin non fa nulla, in Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2015).
Gli effetti dello smog sulla salute degli italiani è ben fotografata dall’Agenzia europea per l’ambiente, con un report, diffuso il 30 novembre 2015: «nel solo 2012 in Italia ci sono stati 59.500 decessi prematuri da polveri sottili, […], 21.600 per i livelli di biossido di azoto ( attribuiti per l opiù agli scarichi dei disel), e 3.300 per l’ozono. Secondo il “Progetto Viias” finanziato dal ministero della Salute, l’inquinamento accorcia in media la vita degli italiani di 10 mesi (14 mesi al Nord)». (Ivi).
A fronte di ciò le soluzioni prese ora, per esempio per Roma, con circolazione a targhe alterne, vengono considerate inutili.« Per il Codacons le targhe alterne romane sono inutili senza controlli severi, mentre i “Verdi” le considerano un “palliativo” che consente comunque a 1,3 milioni di auto di girare – secondi i calcoli forniti- e chiedono il blocco totale del traffico». (“Feste con un clima pazzo. Smog cresce l’emergenza”, in Messaggero Veneto, 27 dicembre 2015).

Problemi  territoriali e riforma regionale.

Per quanto riguarda la Carnia ed il gemonese, restano da comprendere l’alto numero di neoplasie precoci nella popolazione, il perché del numero di morti precoci, rispetto alla media di aspettativa di vita in regione, in particolare per i maschi, e come si pensa di affrontare il problema degli stili di vita, (Cfr. Flavio Schiava, Demografia e salute in Alto Friuli, in: www.nonsolocarnia.info) senza una politica che tenda a favorire il dialogo e l’incontro non in osteria o enoteca che dir si voglia. Ed anche una politica culturale che favorisce sagre e mercati con una forte componente alimentare, non credo proprio siano pertinenti con un adeguamento a stili di vita corretti.

Resta insoluto il nodo dei medici di base, che secondo l’Assessore Telesca dovrebbero fare tutto, secondo Lorenzin limitare al super necessario la loro opera, sottoposta al controllo del paziente (e questo davvero è fuori dalla realtà, perché fra medico e paziente deve esistere fiducia, e questo è a tutti noto, tranne forse che al ministro Lorenzin, e non deve instaurarsi un rapporto simile a quello che si potrebbe avere con uno sportellista dell’Agenzia delle Entrate), ed i medici di base,  in previsione del futuro,  magari in alcuni casi già potrebbero prepararsi a porsi contro il paziente stesso, visto come un nemico, ed a limitare ulteriormente le prestazioni da richiedere.

Ricordo infine, che la salute della popolazione è legata anche al servizio tempestivo, qualitativamente corretto, cioè con presenza di un medico su ambulanza, non da affidare ai pompieri, del pronto soccorso, che dovrebbe diagnosticare ed intervenire appena giunto sul posto, non limitandosi ad effettuare, con ambulanza, il mero trasporto ad unità più vicina.
E i problemi nel servizio di pronto soccorso, per limiti funzionali imposti dalla riforma sanitaria in fvg, che porta il nome Marcolongo- Telesca par proprio non accennino a diminuire. (Lucia Aviani, Cividale, riesplode il caso ambulanze, in Messaggero Veneto, 27 dicembre 2015). Così non va, anche se l’assessore continua serafica ad andare avanti per la sua strada, come Renzi, come questo PD, sordo e berlusconiano. “La polemica dilaga – scrive Lucia Aviani – declinata in forme diverse a seconda delle fasce territoriali, ma accomunata dalla constatazione che il sistema dell’ emergenza, così come strutturata dalla riforma sanitaria regionale non funziona. Ilcaso dell’ambulanza, in forte ritardo verificatosi giorni fa, a Pulfero […] ha reinnescato un dibattito ormai di vecchia data». (Ivi).
Che fare? Per ora alziamo il nostro bicchiere e brindiamo al nuovo anno, cercando di soprassedere, per un attimo, al nichilismo che ha pervaso l’Italia, che non ha fede nei governanti e non l’ha mai avuta, perché ha ancora un senso della realtà e sa valutare i propri bisogni. L’augurio ai politici è che il nuovo anno porti loro un po’ di senso della realtà, un po’ più di umiltà e un po’ meno di: “So tutto mi”, e un po’ più di capacità di procedere in modo scientifico, per il bene di noi Italiani, che potremmo anche non voler più esserelo, ma purtroppo lo siamo, anche se desidereremmo essere orgogliosi di esserlo. Ed ora attendiamo quale risveglio nel nuovo anno ci ha preparato la legge di stabilità.

E come il solito, se erro correggetemi e ho scritto queste righe senza voler offendere nessuno, ma solo per esprimere il mio pensiero documentato.

Laura Matelda Puppini

La vignetta di Vauro che accompagna questo articolo, utilizzata da me solo per questo uso, è stata pubblicata su http://vauro.globalist.it/Detail_News_Display?ID=8110, è datata 8.12.2011, ed è intitolata “Evitare la catastrofe. Servizio pubblico”.  Laura Matelda Puppini

Divagando su “Porzûs”, in modo documentato. E se …

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Il 25 aprile 2015 commentavo l’articolo di Matteo Zola, L’eccidio di Porzûs, la Resistenza spezzata, pubblicato su East Journal il 24 aprile 2015.
Allora avevo scritto da Roma, sulla base della mia sola memoria di ciò che avevo letto ed appuntato, riservandomi di riprendere l’argomento su www.nonsolocarnia.info, citando le fonti.
Non ebbi il tempo, poi, per documentare il mio pensiero, anche perché i fatti di Topli Uorch (detti erroneamente di Porzûs) non erano fra i miei interessi precisi. Ma ora, dopo che l’argomento è stato riproposto, momentaneamente, dall’assessore Torrenti e ripreso da Gian Luigi Bettoli, ho deciso di esporre in modo organizzato e documentato quanto scritto su East Journal allora, senza avere assolutamente la presunzione che sia la verità, ma solo come ipotesi, come un divagare documentato.

Comunque il fatto che «A settant’anni dai quei fatti resta solo la certezza delle morti e degli esecutori», come afferma Matteo Zola nell’articolo citato, è anche mia convinzione.

Credo che, forse, per poter cercare solo di capire il contesto in cui accadde la strage di Topli Uorch si dovrebbe dimenticare molto di quello che fu scritto, ipotizzato, ecc. nel dopoguerra, che potrebbe esser stato condizionato dall’anticomunismo ed in particolare dal fatto che i processi videro unirsi, forse arbitrariamente, tre aspetti diversi: il passaggio della Divisione Garibaldi Natisone nella zona libera ove comandava il IX° Korpus dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo, l’uccisione di un gruppo di osovani, comandato da Francesco De Gregori Bolla, da parte di un gruppo garibaldino, comandato da Mario Toffanin, Giacca, l’anticomunismo che, nel dopoguerra, portava a cercare nei rappresentanti del P.C.I. la causa di ogni male.

Viste le storie personali di Bolla e Giacca, do per scontato che Bolla non fosse favorevole ai comunisti, mentre Giacca sì.

Francesco De Gregori era un ufficiale effettivo del R.E.I., aveva combattuto la guerra di Spagna con l’esercito italiano a fianco dei franchisti e quella di Grecia – Albania, ove era rimasto seriamente ferito, a Mali Topoianit, ad un ginocchio. Egli aveva trascorso molti anni della sua vita presso scuole militari. Infatti, dopo la Scuola Allievi Sottoufficiali di Modena, aveva frequentato la Regia Accademia di Fanteria e Cavalleria nella stessa città, e quindi la Regia Scuola di Applicazione di Fanteria di Parma, fino a raggiungere il grado di tenente e quindi di capitano. Egli viene ricordato come persona intelligente e colta, che riusciva a farsi benvolere dai sottoposti e stimare dai superiori. Se avesse voluto avrebbe potuto benissimo non scegliere la carriera militare, perché proveniva da una famiglia agiata. (Il diario di Bolla (Francesco de Gregori), a cura di Giannino Angeli, A.P.O. 2001, pp. 15-21). Inoltre egli a me non appare un grafomane, come fu definito, ma un bravo ufficiale, che aveva osato dire no, a differenza di altri, al servire di fatto i tedeschi.

Mario Toffanin, invece, apparteneva ad una famiglia operaia, a 17 anni aveva iniziato a lavorare come garzone a Trieste e nel 1933 era entrato a far parte del Partito Comunista. Nel 1939 il Partito lo inviò a Zagabria. Nel periodo 1941-1943, dopo l’invasione della Jugoslavia da parte di nazisti ed italiani, agì con i partigiani in Croazia. Il 20 aprile del 1943 fu arrestato, ma quattro mesi dopo riuscì a fuggire, con altri 28 compagni, mentre veniva trasferito in Germania. Continuò quindi a prender parte alla resistenza, anche come gappista. Il 19 aprile 1944 sua moglie venne arrestata e deportata ad Auschwitz da dove fece ritorno alla fine del 1945. (Mario Toffanin 1912 “Giacca”, in: http://www.inricordo.eu/). Ai primi di agosto del 1944, Giacca, con un proprio battaglione, chiamato GAP, gruppo «abbastanza numeroso ma senza nessun ordine e disciplina» (Padoan Giovanni (Vanni), Abbiamo lottato insieme, Del Bianco editore, 1966, p.114), si presentò al Comando della Natisone, in Zona Libera del Friuli Orientale. «Non era un cattivo compagno – scrive Vanni – ma di una limitatezza d’orizzonte e d’una ristrettezza veramente paurose.» (Ivi, p. 114). La Divisione Natisone gli pose delle condizioni chiare, come quella della dipendenza dal btg. Picelli, comandato da Gino Lizzero, Ettore, ed infine, dopo vari tentennamenti, egli accettò, (Ivi, p.115) ma non riuscì mai, come il suo gruppo, ad integrarsi completamente. Inoltre si distinguevano perché il fazzoletto rosso che portavano al collo era di dimensioni enormi, quasi uno scialle, e sul berretto avevano una stella rossa talmente grande che pareva una piovra, e stelle rosse erano incise sui fucili. (Ivi, p.119). Giacca, quando vi fu la ritirata dalla Zona Libera Orientale non obbedì agli ordini, lasciando il suo gruppo al comando del vice – comandante, il quale, ubriaco, giunse con i suoi, mezzi dei quali ubriachi come lui, al posto assegnatogli dal Comando. A questo punto, Sasso, Mario Fantini, alla guida del Comando Unico, fece arrestare il vice-comandante del gruppo, che fu però successivamente liberato dai suoi, e con loro si eclissò. Giacca si salvò o fu salvato dalla fucilazione. (Padoan Giovanni (Vanni), Porzus, Ed. La Laguna, p. 57, e Padoan Giovanni (Vanni), Abbiamo lottato insieme, op. cit., p. 121). Forse già allora egli con il suo gruppo riparò in bosco Romagno.

Bolla aveva aderito alla resistenza osovana ed aiutato ad organizzare la stessa, (Cfr. Romano Marchetti, (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, p.89), ed era per questo ricercato da nazisti e fascisti, Giacca aveva aderito alla resistenza garibaldina, ed era per questo ricercato da nazisti e fascisti.

Ma ritorniamo all’ipotesi di un collegamento fra IX° Korpus, P.C.I., omicidio plurimo di osovani che stavano a Topli Uorch da parte di garibaldini, Divisione Garibaldi/ Natisone, accusata di essere anti- italiana, quando è noto che non solo la “Natisone” aveva comunicato il passaggio alle dipendenze operative del IX Korpus al CLNAI, ma questi continuò sempre a considerarla una formazione della resistenza italiana, e così attestò anche alla fine della guerra, (Kersevan Alessandra, Porzûs: il più grande processo antipartigiano del dopoguerra, in: http://www.diecifebbraio.info/2012/02/).  Chi dice che questo collegamento sia stato vero?
Questo collegamento fu ipotizzato dai comandanti osovani Candido Grassi Verdi, e Alfredo Berzanti Paolo. Subito dopo la Liberazione, essi furono i primi a denunciare data e dinamica dell’eccidio ed accusarono i partigiani comunisti di aver ucciso i propri compagni di lotta «solo perché si erano resi colpevoli di non aver voluto combattere i tedeschi sotto la bandiera jugoslava». (https://it.wikipedia.org/wiki/Processi_per_l’eccidio_di_Porzûs).

Per esser sinceri, però, la prima informazione osovana sui fatti dava la cattura di Bolla ed altri per mano del IX° Korpus. Infatti una prima comunicazione sull’accaduto, inviata: al Comando 1^ e 3^ Brigata,; al Comando della 6^ Brigata, al Comando Btg. Guastatori – G.E. , e p.c. in stralcio al CLN PROV. e CRV, recante le firme autografe di Vico (Giovanni Battista Carron, vicentino) e Mario (Cencig Manlio, comandante, dopo la crisi di Pielungo, della Brigata Osoppo/Carnia), attribuiva l’azione contro il gruppo che stanziava a Topli Uorch e la cattura di elementi dello stesso ai partigiani sloveni, e prospettava la necessità di una azione a Robedischis, dove aveva sede il reparto del IX° Korpus più vicino, e presso il quale si presupponeva fossero stati portati gli osovani fatti prigionieri. (Buvoli Alberto, Le formazioni Osoppo Friuli, documenti 1944- 45, ed. I.F.S.M.L. Ud, 2003, p.189).
«Che nei primi giorni ci sia confusione di notizie – scrive Buvoli – lo prova anche il radiomessaggio, […] che il giorno 8 il magg. Nicholson (cioè del maggiore inglese Thomas John Roworth), invia al Comando alleato:  «Catturato quartier generale 1^ Brg. e Bolla Enea una donna e un ragazzo brutalmente uccisi. Tedeschi e repubblicani guidati da una spia. Avvertite McPherson di cambiare zona. Sospendere per ora i lanci solo per la 1^ Brg..» (Ivi, p.189).

Il 9 febbraio 1945, il Comando della 1^ Divisione Osoppo, ritenendo ancora l’azione alle malghe di Topli Uorch (sul documento malghe Fastena) opera di un centinaio di sloveni che avevano riparato poi a Robedischis, ordinava e programmava un’azione contro gli sloveni, che avrebbe dovuto iniziare l’11 febbraio 1945 e terminare entro 5 giorni. (Ivi, pp. 188-189).

Il 10 febbraio 1945, Nicholson,  dopo aver avuto contatti con Mario/Cencig, modificava pure lui la sua versione, sposando la colpa slovena, e inviava al comando alleato un radiomessaggio di questo tenore: «Ricevuto oggi urgenti notizie da Mario, comandante Divisione Osoppo per immediata fornitura d’armi a seguito ordini di Mac Pherson per prepararsi ad un’azione combinata con gli alleati contro imminente invasione slovena del Friuli ordinata da Tito. Presumo Mac abbia ricevuto ordini da voi ma egli è irraggiungibile non solo da me ma anche dai comandanti dell’Osoppo. Se queste notizie sono vere propongo cautela dal momento che la situazione è molto complicata. Tutti i capi della Garibaldi sono ora in Slovenia e stanno forse pianificando un colpo di stato con Tito per una occupazione comunista con aiuto degli sloveni. Se così gli agitatori potrebbero causare seri attacchi diversivi nella prima retroguardia. Consiglio fermamente una soluzione diplomatica […] per far sì che entrambi sloveni ed italiani si concentrino contro i tedeschi. Ogni ulteriore incoraggiamento dato ai partigiani su questo soggetto molto popolare farà sì che essi dimentichino completamente l’ imminente ritirata tedesca. In caso di richiesta vostro piano a Mac mio 197 diventa molto importante dal momento che i ragazzi di Willie (Junio Valerio Borghese, n.d.r.) hanno già proposto azione congiunta antislovena con Osoppo ed attualmente hanno preparato una linea di resistenza fortificata contro probabili attacchi sloveni. Inoltre tutti ben disciplinati possono assorbire Osoppo in una formazione militare. Essenziale è che maggiore ufficiale inglese stia in pianura preferibilmente a Udine capitale del Friuli e quartier generale dell’attività partigiana. (…).» (Ivi, pp. 190-191).

Successivamente la Osoppo ricevette altre informazioni, più precise, sulla strage di Topli Uorch, come si apprende dalla relazione del Comando gruppo brigate Est, datato 25 febbraio 1945, e pubblicata sempre da Alberto Buvoli (Ivi, p. 191); ma forse l’anticomunismo post-bellico, (che originò Gladio e le altre Gladio, come da: Giacomo Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia 1943-45, Einaudi ed., 2014) e/o il proprio, portarono Grassi e Vico a sposare la tesi accusatoria centrata su di un miscuglio fra comunisti e sloveni, IX° Korpus, vertici garibaldini (che non capisco come Nicholson non sapesse non essere tutti in Slovenia), e Divisione Natisone come causa dei fatti accaduti a Topli Uorch.

Per quanto riguarda la documentazione che ho citato, mi resta solo un dubbio: Nicholson radiotelegrafava in italiano al comando Alleato, o il testo è stato tradotto? E se sì da chi?
Perché a me pare interessante il problema della lingua in cui ordini vennero trasmessi, documenti vennero scritti, comunicazioni avvennero.
Inoltre, così, solo come boutade, penso pure che documenti, ora come allora, potessero venir falsificati, e mi auguro che, per quelli presentati al processo, si sia verificata l’autenticità con adeguate perizie calligrafiche e analisi della provenienza.
Inoltre a fine gennaio 1945, erano avvenuti reali contatti a Vittorio Veneto fra Manlio Mario Morelli della Xa Mas e Candido Grassi Verdi, (Giacomo Pacini, op. cit., p. 42) che però, ufficialmente non comandava allora la Osoppo. Detto incontro non portò ad una collaborazione, subito considerata difficile. (Ivi, pp. 42-45). Questo incontro viene anche ricordato da Marco Cesselli, che sottolinea come esso ebbe oggetto il fronte unico antisloveno, peraltro non accettato, secondo lui, da Verdi.  (Marco Cesselli, Porzûs, due volti della Resistenza, Aviani & Aviani, ristampa 2012, p. 44).

I contatti fra Xa Mas e Verdi, erano inoltre avvenuti con la benedizione di Nicholson. Infatti sempre secondo Pacini, «Un autorevole avvallo allo svolgimento di quella trattativa, l’aveva dato il maggiore inglese Thomas John Roworth, (Nicholson), capo della missione Soe nell’Italia Nordorientale […]. (Giacomo Pacini, op. cit., p. 42). Infine Cino Boccazzi, detto, secondo Pacini, tenente Piave, noto anche solo come Piave, era stato il mediatore dell’incontro, conoscendo la Xa Mas. (Ivi, p. 42).  Cesselli afferma che Cino Boccazzi, che ben conosceva Nicholson, fu presente all’incontro. (Marco Cesseli, op. cit., p. 44).

Ed è comunque realistico che la commistione fra la “partitizzazione” dei Garibaldini, considerati, a torto, tutti comunisti, ed i partigiani dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo operanti in Slovenia e formanti il IX° Korpus di detto esercito (si noti che allora vi era l’OZAK, e quindi non vi era il confine tra due stati nei pressi di Trieste, semmai vi era quello fra OZAK e Zona Libera in mano agli sloveni), unita ad una criminalizzazione della divisione Natisone, potesse essere congeniale ai Repubblichini di Junio Valerio Borghese.
Si può certamente ipotizzare che questi aspetti, se noti, come la feroce propaganda anticomunista dei tedeschi che tendevano a metter l’uno contro l’altro, avrebbero potuto avvelenare gli animi in una condizione di freddo, fame e paura per tutti.

Le problematiche e tensioni, sorte fra garibaldini ed osovani, venivano descritte da Ostelio Modesti in una missiva al Triunvirato Insurrezionale Veneto, datata 13 febbraio 1945: « Ogni giorno che passa si delinea nettamente la rottura con lo strato superiore della Osoppo. Aumentano i loro legami diretti con la polizia e perfino con i tedeschi. Deliberatamente i capi dello strato superiore si oppongono alla nostra politica di unità e contemporaneamente proibiscono ai loro uomini […] di fare accordi con i garibaldini.
In modo sempre preciso accelerano la campagna antigaribaldina, anticomunista ed antislava. (…). Ricevono lanci sì lanci in grandi quantità (pur essendo in questo momento in quattro gatti). (…).  Il compagno Andrea (Mario Lizzero n.d.r) ha steso una relazione che vi manderemo. (…). » (Padoan Giovanni (Vanni), Porzus, op. cit., p. 55).
Certamente in Carnia, ove Andrea aveva cercato, con l’appoggio di Romano Marchetti, Cino da Monte, osovano, di formare il secondo comando unico, era accaduto così. Aurelio, don Ascanio De Luca, aveva bocciato detta ipotesi, che permetteva di giungere insieme alla liberazione, e su questo esiste documentazione.

Ma cosa c’entrava, in tutto questo,  la Divisione Garibaldina Natisone, allora in territorio sotto il controllo del IX° Korpus? Mistero.
Come narra Annibale Tosolini, dopo il 29 settembre 1944, fine della Zona Libera del Friuli Orientale, la Natisone si era rifugiata in località Campo di Bonis, non distante dalla 1^ Brigata Osoppo, che era riparata in zona Porzûs. Poi i partigiani garibaldini si erano spostati qui e là, ma nei dintorni, finché non era passato il periodo critico. Dopo il proclama Alexander, che aveva detto di andare tutti a casa, i vertici della Divisione Garibaldi Natisone avevano deciso, per la sopravvivenza, di portare tutti oltre l’Isonzo, a svernare, ad aspettare primavera. (E tu seis chi a contale, Annibale… Storia di un partigiano friulano della Divisione Garibaldi Natisone, intervista di Laura Matelda Puppini ad Annibale Tosolini, Tarcento, 6 settembre 2013, pubblicata in: www.nonsolocarnia.info).
Credo sia comprensibile che, avendo ben poco anche per sé stessi, ed essendo in corso una guerra feroce, il comando del IX° Korpus avesse richiesto a Sasso e Vanni la dipendenza operativa.

A livello personale, Bolla poteva esser affaticato dalla situazione venutasi a creare alla fine della Zona Libera del Friuli Orientale e dal Comando Unico (Cfr. Laura Matelda Puppini, La Zona Libera del Friuli Orientale, in: http://www.storiastoriepn.it) a cui forse non era abituato, voluto però anche dalla Osoppo, che aveva richiesto, ovunque, che i comandanti fossero garibaldini, in quanto più organizzati, e l’inverno si era dimostrato foriero “di fame, di gelo, di disagi”. Giacca aveva avuto la moglie catturata, ed era forse provato dagli anni passati nella resistenza, e dal continuo vedere la morte in faccia, era tipo forse impulsivo, e più portato al far da sé, ma ciò non lo giustifica.

Dalla lettura del diario di Bolla, par di capire che De Gregori, in quel lungo inverno 1944-45, forse, ad un certo punto si trovò in difficoltà, ma continuò a comandare in condizioni di vita durissime.

Mancano i viveri e si inizia ad intaccare le riserve dei magazzini 1 e 2, il pane promesso non giunge, fa freddo e la temperatura raggiunge i 10 gradi sotto zero al mattino, l’acqua ghiaccia e per bere bisogna sciogliere la neve ghiacciata e da prelevare, le coperte e gli indumenti sono scarsi. Inoltre il nemico fa incursioni ed uccide, e la tensione è alta, la via normale dei rifornimenti viene preclusa da una azione dei partigiani sloveni contro i cosacchi che da allora in poi la pattugliano, il morale degli uomini è un po’basso. (Diario di Bolla, op. cit. p. 84). Non resta che attendere il lancio di viveri e munizioni, promesso dagli alleati, programmato per il 1° febbraio 1945.

Ma pur essendo giunto l’apparecchio, nulla viene trovato nel campo stabilito per il lancio, mentre Bolla viene a sapere che «gli sloveni hanno acceso fuochi nella zona di Robedischis, con l’evidente intenzione di disturbare il lancio e trarre in inganno l’apparecchio». Infine si viene a sapere che il lancio è stato effettuato nella zona Cancellier – Salandri – Forame. (Ivi, p. 98).

Il 2 febbraio Bolla si reca personalmente, al comando di un gruppetto dei suoi, a Plan dal Jof a cercare i colli spediti e mancanti, ma deve sospendere le ricerche a causa del nemico. Nel pomeriggio viene informato che l’operazione della mattinata, contro il gruppo osovano, era stata condotta dai cosacchi, che avevano recuperato molto materiale del lancio e catturato il Patriota Nodo, comandante del battaglione osovano Carnizza . (Ivi, pp. 99-100).

Pare, inizialmente, che quanto lanciato sia stato preso dai cosacchi, in un secondo momento Bolla ritiene pure colpevole la popolazione dei paesini di Cancellier e Salandri, e annota, in data 3 febbraio 1945, che:
«la popolazione di Cancellier si è comportata malissimo sottraendo tutti i paracadute e moltissimo materiale;
la popolazione di Salandri si è comportata malissimo, accendendo fuochi che hanno contribuito a trarre in errore l’apparecchio». (Ivi, p.100).

Del materiale viene recuperato e messo al sicuro, ma vengono impartiti ordini (da Bolla essendo comandante, altrimenti non si capisce da chi, e si ricordi che allora gli ufficiali, come anche Romano Marchetti, scrivevano, di se stessi, in terza persona) «per l’arresto delle persone che hanno acceso fuochi a Salandri;
per l’arresto di cinque ostaggi a Cancellier, da trattenere fin quando la popolazione non avrà consegnato tutto il materiale sottratto». (Ivi, p. 101).
Infine queste decisioni vengono comunicate alla popolazione con un “bando n.1”.(Ivi, p.101).

Il 4 febbraio 1945, il bando, che impone la restituzione del materiale del lancio sottratto, pena la fucilazione degli ostaggi, viene letto alla popolazione di Cancelier, e nel contempo vengono arrestati «cinque giovani, a caso, in qualità di ostaggi ed una donna che ha fatto segnali luminosi agli apparecchi.

Contemporaneamente il Btg. Guastatori, […] arresta tre minorenni che hanno acceso fuochi durante il lancio, nella zona di Salandri.

Alle h. 13, tutti gli arrestati arrivano al Comando.
Questi ne trattiene undici:

– Imponendo alla popolazione di Cancellier la restituzione del materiale sottratto, pena la fucilazione d’un ostaggio al giorno, in caso di inadempienza;

– imponendo alla popolazione di Salandri la multa di 20 Kg. di grassi o di salumi pena l’internamento degli ostaggi, in caso di inadempienza.

Il Comando agisce con tanta severità per due ragioni:

1°) È necessario sopperire allo scarso numero (15 guastatori a Pecol e 15 al Reparto Comando alle Malghe) col mostrare la massima decisione;

2°) È indispensabile dare un esempio per togliere alla popolazione locale, una volta per sempre, il malvezzo di considerare le formazioni osovane come una fonte di sfruttamento e di lucro.

I prigionieri sono riuniti in una malga, sotto buona guardia, e ricevono un solo pasto serale, mentre, per la notte, non viene loro distribuita nessuna coperta. È bene che sentano bene i disagi della nostra vita, loro che hanno cercato di sottrarci quel poco materiale che può mitigare questi disagi.» (Ivi, p. 102).

E si giunge così al 5 febbraio 1945.

Così si legge sul diario: «La popolazione viene al Comando e versare 15 dei 20 Kg. di grassi con i quali è stata multata.
Viene il parroco di Subit a implorare clemenza per gli ostaggi di Cancellier. Il Comando concede 24 ore di proroga per la fucilazione del primo ostaggio.

Intanto la popolazione di Cancellier versa al Comando 8 paracadute con relative corde.
I prigionieri di Salandri vengono rimessi in libertà, meno uno che sarà trattenuto fino a quando non giungeranno i 5 Kg. di grasso mancanti al pagamento totale della multa.

In genere la popolazione dei due borghi mostra di aver capito molto bene la lezione, e di temere le minacciate rappresaglie del Comando.» (Ivi, p. 105).

Il 6 febbraio 1945. «Accertato, a mezzo di un’accurata inchiesta che:
– a Cancellier sono effettivamente caduti colli contenenti esplosivo perché, data l’altezza dalla quale l’apparecchio ha effettuato il lancio, solo il materiale pesante è caduto concentrato;
– tutto il materiale caduto a Cancellier è stato prontamente versato al Comando»,

il Comando (di Gruppo che è, secondo me, sempre Bolla che sta per diventare o è già diventato Comandante del gruppo brigate Est) decide di rimettere in libertà tutti gli ostaggi. (Ivi, p. 106).

Ed il 6 febbraio Bolla scrive che sono giunti, ivi, sia il Comandante ed il gruppo Comando della 6^ Brigata, sia il Delegato Politico Enea (Gastone Valente). (Ivi, p.106).

La si veda in un modo o nell’ altro, quanto è accaduto è, un fatto gravissimo. Possiamo ipotizzare che le durissime condizioni di vita abbiano giocato un ruolo nelle scelte di Bolla ed anche che la sua preparazione militare, peraltro avuta pure in epoca fascista, lo abbia indotto a pensare, in quel contesto bellico, che la vita dell’ufficiale e dei suoi subordinati fosse la cosa principale, come forse aveva appreso nella scuole militari frequentate, ma quanto non giustifica Bolla per questa azione contro civili, come nulla giustifica la sua uccisione e quella dei suoi da parte di Giacca e del suo gruppo.

Si potrebbe quindi supporre che quanto Bolla aveva comandato di fare, fosse giunto alle orecchie del comando divisionale osovano, che aveva accelerato la ristrutturazione inviando altro comandante a Topli Uorch, ma è più probabile che nulla si sapesse e che l’avvicendamento sia avvenuto per caso, essendo già in corso. Si può ipotizzare che quanto accaduto fosse giunto anche alle orecchie dei garibaldini e forse del P.C.I. , che inviarono a verificare. «Va fai e fai bene»  (interpetabile anche come: “comportati bene o vedi cosa è accaduto”), dice Modesti a Giacca, che gli chiede di andare a vedere che sta accadendo alle malghe di Topli Uorch. (Padoan Giovanni Vanni, Porzus, op. cit., p. 55).

Ma le persone dei paesini di Cancellier e Salandri avrebbero potuto anche aver solo inviato un messaggero a Giacca, perché era da loro conosciuto. Infatti egli era stato in precedenza a Poiana (Buvoli Alberto, op. cit., p.194) e sapevano, magari, che si trovava in Bosco Romagno, sua sede quando operava con i Gap. (Padoan Giovanni Vanni, Porzus , op. cit., p. 37). Questi, presente all’ incontro di Orsaria, predisposto per preparare il colpo alle carceri di Udine, avvenuto il 7 febbraio 1945, avrebbe allora ricevuto un distratto «Va, fa e fai bene» da Ostelio Modesti. Ma Giacca avrebbe potuto anche sapere solo che c’era qualcosa di anomalo che stava accadendo lassù.

Intervistato da Marco Cesselli, prima di scrivere il suo volume su Porzûs, Modesti ha sostenuto, che la riunione di Orsaria era stata convocata per decidere l’azione sulle carceri, e che solo alla fine, in procinto di andarsene, Giacca riferì i suoi sospetti accusando il gruppo di Bolla, mostrando quindi la necessità di preparare una spedizione su Porzûs, per “Vederci chiaro”». (Ivi, p. 55).

E non si deve dimenticare che se i fatti avvenuti in zona Topli Uorch, Cancellier e Salandri, erano gravi per tutti, figurarsi per Giacca, se a lui comunicati, che era un comunista “intransigente” vecchio stampo e pure affamato (Ivi, p. 194).

Dal racconto di Franco di Faedis, medico della Osoppo, si viene a sapere che egli aveva incontrato il gruppo comandato da Giacca mentre saliva alla malghe, e che elementi dello stesso gli avevano urlato:«Tu, vigliacco assisti quei porci di badogliani: voi mangiate, bevete, fumate, noi niente». (Ivi, p. 194).
Inoltre si sa che Giacca aveva portato con sé alimenti, dalle malghe, svuotando i magazzini, aperti da Bolla, infatti: «La strada che essi avevano fatto era identificabile per le tracce del bottino disperse (pasta, riso, tra l’altro il libretto di appunti del povero Bolla).» (Ivi, p. 194).

E questo tema del cibo dovrebbe far pensare alle condizioni di vita di partigiani e popolazione all’epoca. Inoltre Giacca trovò lì Elda Turchetti, e non esistono prove, che io sappia, per dire che sapesse che si trovava lassù. Giacca, poi, è definito da Prima Cresta che lo aveva conosciuto “ avventuriero, violento” ( Costa Primo, Un partigiano dell’ Osoppo al confine orientale, Del Bianco 1969, p.118), mentre Vanni lo riteneva bravo nel fare azioni ma “ottuso ed incapace” (Padoan Giovanni Vanni, Porzus, op. cit., p. 57).

Inoltre nella sua relazione, datata 13 settembre 1944, così l’ispettore del P.C.I. Bruno Venturini descrive Giacca ed i suoi: « Settarismo, superiorità, saluto con il pugno chiuso, stella rossa, politica integrale, sfiducia e critica a tutti e a tutto. (…). Lavorare con loro è una terribile fatica. Sarebbe meglio per noi fare una buca profonda mille metri e metterli tutti dentro, poiché se non hanno capito oggi non capiranno mai più. L’esempio più grave in questo ultimo tempo fu il distaccamento formato dal compagno Giacco ( sic!) …attorno a lui molti vecchi e giovani influenzati da questo spirito. In questo distaccamento tutti i difetti sopra detti affiorano fino a portare a condizioni tristissime disgregatrici.» (Buvoli Alberto, l’eccidio di Porzus, ipotesi interpretative, in: S.C.in F. n.32, 2001, pp. 22 – 23).

Per quanto riguarda la descrizione dei fatti, non so se possa essere vero che le uccisioni in bosco Romagno continuarono per tanti giorni, e vi è confusione anche sui nomi dei morti, come ha ben sottolineato Alessandra Kersevan, che precisa come sulla lapide sita a Porzûs ci siano i nomi di battaglia degli uccisi in ordine alfabetico, da questo elenco si possano rilevare alcuni problemi.
Il corpo di Egidio Vazzaz, Ado, non è mai stato trovato, né ci sono altre prove valide perché sia stato inserito fra gli uccisi; Rinato, Mache e Vandalo sono morti in altre circostanze, che non centrano con Porzûs, come già emerso al processo di Lucca, nel 1951; Flavio, Erasmo Sparacino, risulta, dai documenti presso l’anagrafe di Cividale, fucilato dai nazisti il 12 febbraio 1945; ma il suo nome continua ad essere citato fra le vittime di Giacca; Gruaro, Comin Giovanni, non era osovano, ma garibaldino e il suo nome da partigiano era Tigre: e non si capisce come mai i loro nomi siano indicati nella lapide. Infine sulla lapide manca il nome di Elda Turchetti, che pure nei giorni precedenti all’eccidio era stata arruolata nelle file osovane, con un numero di matricola, 1755, e nome di battaglia Livia. (Kersevan Alessandra, Porzûs: il più grande processo, op. cit.). Per inciso sicuramente la Turchetti si trovava con Bolla a Topli Uorch, ma a me la sua storia non è molto chiara.
Il problema dei nomi dei morti a Bosco Romagno e la storia di Elda Turchetti sono stati oggetto di studi anche da parte di Paolo Strazzolini.

Io credo che a far scoppiare la scintilla di “Porzus” possano esser state le condizioni di vita, il clima di sospetto che era ingigantito dalle stesse situazioni di sopravvivenza, esacerbate pure dalla vicinanza di cosacchi che si vedevano comparire all’improvviso e di sciatori tedeschi che sparavano; dai nervi tesi anche fra partigiani dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo, ed osovani; dall’attesa di quei cibi e coperte che ” tutti volevano” e su cui tutti si gettarono, e dalla concomitante presenza della Turchetti. Questa è solo un’ipotesi ma anche le altre lo furono, anche se la giustizia ha l’obbligo di decidere sui fatti e lo fece, cercando di capire sulla base dei capi di imputazione, dei fatti narrati, della documentazione prodotta.

Per quanto riguarda Bolla, non a caso sulla motivazione alla medaglia d’oro concessagli, si legge:« Soldato fedele e deciso, animato da vivo amore di Patria, dopo l’armistizio prodiga ogni attività alla lotta di Liberazione organizzando, animando e guidando […]. Comandante capace e valoroso soldato […]. In condizioni difficili di tempo e d’ambiente, fermo, deciso, coraggioso, […]. Cadeva vittima di una situazione creata dal fascismo ed alimentata dall’oppressore tedesco in quel lembo martoriato d’Italia, dove lo spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un solo blocco le forze della Resistenza.» (Padoan Giovanni Vanni, Porzus, op. cit., pp. 58-59).

L’interpretazione della causa dei fatti di “Porzûs” potrebbe esser stata ipotizzata presupponendo motivi e mandanti senza riscontri sufficienti. Ed io penso che forse Giacca non ebbe da nessuno l’ordine di uccidere, ma diede, da solo, l’ ordine di sparare, come ha sempre sostenuto, che io sappia, anche Mario Lizzero.
L’ estraneità o meno di Mario Lizzero a quanto accadde a “Porzûs” è stata oggetto di un processo, intentato dalla sua famiglia contro chi lo accusava. (Cfr.Gianna e Luciano Lizzero contro il “Corriere della Sera”, (a cura di FlavioFabbroni), Quaderni della Resistenza n.13, Anpi, IFSML, 2007).
Non so quanto credibili, per incriminare come mandanti della strage i comandanti sloveni del IX°Korpus, possano essere le lettere Virgilio/Malvin datate 6 e 12 dicembre 1944. «E’ palese che queste due lettere presuppongono un ordine del Comando del IX Korpus» scrive Alberto Buvoli (Buvoli Alberto, L’eccidio di op. cit., p. 20), ma è anche vero che: « […] non si è mai trovato ancora nessun documento scritto del IX° Korpus che convalidi le affermazioni di Virgilio» (Padoan Giovanni Vanni Porzus, op. cit. p. 81. Su dette lettere, cfr anche elementi per confutarne la validità, ivi, pp. 80 – 81).
Che poi in fase processuale difesa e accusa tentino di contestualizzare fatti ed opinioni in base alle loro tesi è cosa nota, ma è aspetto relativo al mestiere dell’avvocato, non dello storico.

Io credo che alcuni aspetti qui da me esposti  possano far riflettere,  anche se subito preciso che non ho letto tutti gli atti processuali integralmente, ma mi sono fatta l’idea, leggendo Alessandra Kersevan, Porzûs: dialoghi sopra un processo da rifare, Kappa Vu, 1997, che si trattasse di molte testimonianze orali, talvolta anche non identiche da parte di stesso teste, talvolta discutibili. Ma allora pareva ai più, un processo al comunismo, a Tito, agli sloveni, ecc. ecc. L’idea che la Garibaldi fosse “ totalmente dominata dal PC” è idea di parte, per es. di don Lino (don Aldo Moretti), e da un suo scritto l’ho presa (Rapporto di don Lino alla Dc sulla 1a divisione Osoppo, in: Buvoli Alberto, Le formazioni Osoppo Friuli op. cit., p. 153), e non solo sua, perché fu pure di altri sacerdoti e politici, per es. di Aurelio, don Ascanio De Luca e di altri non preti ma anticomunisti e venne rinfocolata ed ampliata nel dopoguerra a fini politici. E Porzûs, piano piano, divenne pure un luogo di incontro, quasi “presidio” di gruppi paramilitari, ma dovrei trovare l’articolo relativo dal Messaggero Veneto forse del 2003 o poi, per documentarlo.

Le controversie sull’eccidio di Porzûs hanno causato un acceso dibattito giornalistico, politico e storiografico, intersecatosi con i processi, e detto eccidio è  stato citato da alcuni per cercare di delegittimare la Resistenza Italiana, proiettando sull’intero movimento partigiano un episodio ritenuto marginale, da altri per dimostrare la natura totalitaria e antidemocratica del Partito Comunista Italiano e del carattere sostanzialmente antinazionale della sua politica. (https://it.wikipedia.org/wiki/Controversie_sull’eccidio_di_Porzûs). Ma questo dibattito appartiene al dopoguerra, ed in particolare all’ epoca della guerra fredda, ed ad altro contesto che ne ha dato la chiave di lettura.

E chiudo precisando che ho scritto questo testo solo per esporre alcune mie considerazioni documentate, e se erro correggetemi in modo documentato,  e che non è mai stata mia intenzione offendere alcuno.

E così ho mantenuto la promessa fatta a East Journal.

Laura Matelda Puppini

L’ immagine che accompagna questo scritto rappresenta il retro copertina della pubblicazione del diario di Bolla, da me scannerizzata per questo uso. L’ articolo, come gli altri è coperto da diritti d’autore e piò esser parzialmente citato solo citando pure la fonte. Laura Matelda Puppini 

«Ghe pensi mi» No grazie. Sui problemi etici della sanità, sulla sua politicizzazione, sul laboratorio analisi tolmezzino.

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SANITÀ E SALUTE, VALORI E INDIFFERENZA.

Correva l’anno 2002, e La Vita Cattolica, nel numero del 27 aprile, pubblicava un’intervista al Ministro della salute Girolamo Sirchia, medico, di Forza Italia, intitolata «Sirchia, nuovo imbarbarimento».
Sottotitolo: «Duro, anzi durissimo, il Ministro della Salute: «Ognuno vive nel suo loculo, si rende indifferente al resto dell’umanità che lo circonda, non ha assolutamente attenzione ai più deboli. Questo è il nuovo imbarbarimento». Come dargli torto?

L’intervista toccava poi i soliti temi, ancor oggi sul tappeto a distanza di 13 anni: imposizione di ulteriori tickets sanitari, patto di stabilità, eliminazione di reparti inutili a fini del contenimento della spesa, riutilizzazione delle risorse in base al territorio, dare ai medici di famiglia (detti anche di base, di medicina generale) la possibilità di tenere aperti i loro ambulatori 12 ore al giorno, obiettivo mai raggiunto, onde evitare l’intasamento dei pronto soccorso.
«Bisogna poi realizzare – diceva Sirchia – l’integrazione socio-sanitaria che oggi non esiste. Si scontrano interessi – continuava- gerarchie e burocrazie diverse. E chi paga è il cittadino, che non ha servizi, per cui oggi chi dipende interamente da questi servizi spesso e volentieri soffre, e scarica sulle famiglie, soprattutto sulle donne […]». (Francesco Dal Mas, Sirchia: nuovo imbarbarimento, in: La Vita Cattolica, 27 aprile 2002).
Invece di togliere l’odontoiatria agli anziani, Sirchia proponeva, allora, di dare ad 800.000 anziani protesi, in modo da permettere loro di mangiare. Come non essere d’accordo?

Quindi egli continuava sottolineando l’indifferenza che spesso è presente verso gli anziani e non solo,  aggiungendo: «Ognuno fa il suo interesse egoistico, nessuno si cura di nessuno». (Ivi).
Sirchia proponeva quindi di cambiare, a livello sanitario, tendenza, e di occuparsi dei più deboli. (Ivi).

A fianco di detta intervista, veniva pubblicato pure il parere di Antonio Guidi, sottosegretario di Sirchia, che così si esprimeva: «La salute sembra diventata solo un problema economico. Ridurre gli sprechi va bene, ma ridurre la spesa non è possibile. Sulla salute non si discute. I soldi si devono trovare. Certo gli sprechi ci sono all’interno delle strutture sanitarie – continuava Guidi – ma ci sono soprattutto all’interno di quella che è la madre di tutti gli sprechi d’Italia: che è la Finanziaria». (“Risparmi con i tickets”, in: La Vita Cattolica, 27 aprile 2002).

Infine Guidi si soffermava sulla costruzione di una cultura della solidarietà in cui l’economia fosse al servizio della salute e non viceversa. L’aziendalizzazione del sistema sanitario avrebbe, sempre secondo lui, potuto avere un senso solo se avesse consentito l’ottimizzazione delle risorse, non il contenimento delle spese. (Ivi).

Come non essere d’accordo con questi concetti?

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MA POI ….

Queste considerazioni pare però non avessero trovato realizzazione se, il 24 febbraio 2004, La Repubblica pubblicava un articolo di Giancarlo Mola, “Le famiglie e la crisi. Impoveriti dal caro salute. Più ticket meno letti. E per curarsi le spese raddoppiano”.
L’articolo parlava pure di problemi concreti, generati dal peggiorare del sistema sanitario nazionale: Francesca Paola Accardi aveva dovuto traslocare, in un paesino, perché non ce la faceva a pagare farmaci per una malattia rara e affitto in città, Maria Antonietta Cappelletti era morta dopo esser stata rifiutata da 32 ospedali in Lombardia, una giovane aveva deciso di partorire nel reparto di ostetricia chiuso e trasformato in ambulatorio, in provincia di Bari.

Tre casi, si precisava, saliti agli onori della cronaca, in un’era: «segnata da ticket che ritornano, ospedali che chiudono, strutture per malati cronici che non partono, liste di attesa che non si riducono. E da milioni di italiani che si sentono sempre più soli di fronte alla malattia». (Giancarlo Mola, Impoveriti dal caro salute, in: La Repubblica, 24 febbraio 2004).

L’articolista faceva notare, pubblicando i dati, che i cittadini italiani, in un anno, cioè dal 2003 al 2004, avevano sborsato, per la sanità, tra ticket e rincari, un miliardo di euro in più, e, secondo l’Ocse, la spesa sanitaria pro capite, era, in un decennio, più che raddoppiata, a differenza di quanto avveniva in Francia e Germania, ove l’aumento per spese sanitarie era ben più contenuto. E ciò, in Italia, accadeva nonostante i servizi tagliati e stratagliati, pure con chiusure di ospedali e reparti, alimentando quella visione realistica della Penisola come paese al declino, a causa principalmente di sprechi e inefficienze. L’articolista sottolineava, poi, come vi fossero, a suo avviso, dei limiti, nella spesa sanitaria, invalicabili, già allora valicati, con regioni che pensavano di vendere ospedali a privati. (Ivi).

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Uno di questi limiti invalicabili è relativo, secondo me, ai laboratori analisi , che non possono essere accentrati per questioni di mera spesa, come accade oggi. Come fanno, infatti, un ospedale ed un pronto soccorso a dare un’operatività efficiente, senza laboratorio analisi nell’ospedale, ma dovendo attendere trasporto campioni, accettazione esterni e via dicendo?

La politica regionale Fvg sogna banda larga ed Insiel quali nuovi Mercurio in versione accelerata, ma la trasmissione dei referti a livello informatico, come ho già scritto, ha dei limiti che potrebbero esser dati: dall’intasamento del servizio di erogazione centralizzato, dalla scelta prioritaria di refertazione, dal tempo impiegato per trasporto ed accettazione esame esterno, dai limiti del caricamento e comunicazione dati in un sistema oberato che porta, come accade già ora, a lentezza nel servizio quando non si tratti di vera e propria mancanza dello stesso. Non si deve dimenticare, poi, che la trasmissione informatica può esser rallentata pure dai sistemi di controllo della rete. Inoltre la tanto cara all’assessore Maria Grazia Telesca, idea che i medici parlino fra loro, sta diventando possibile solo nel polo udinese. Infine come non ricordare che una lentezza nella comunicazione dati può portare a morte? Ma cosa vuoi che sia … Importante è che si risparmi … E ritorniamo a Sirchia ed alla sua denuncia dell’indifferenza. In fin dei conti i senatori e i deputati non pagano la sanità, e così i loro parenti; possono scegliersi il medico ed i medici che desiderano, senza nulla sborsare, forse sono vezzeggiati e benvoluti … ed i rischi e problemi sono di altri. Così pensa l’italiano che si arrabatta fra mille difficoltà. È populismo o sana visione della realtà?

Ed è “ora passata” che anche a Tolmezzo, ove si sa, da tempo, che il laboratorio analisi sarà spostato ad Udine, i medici si muovano come l’amministrazione comunale per mantenere il servizio. Non è illudendosi che non verrà tolto, per poi dire “Eh mah”, che si interviene nel merito. Ed il mio plauso va a Paolo Urbani, sindaco, che si batte per la gente del suo comune, ed i servizi per lo stesso ed a quei comitati gemonesi che si fanno sentire, che invitano al confronto la presidente Serracchiani e l’assessore Telesca, pur sempre senza risultato. Le sedie per Serracchiani -Telesca rimangono vuote. Quelli dei comitati sono forse lebbrosi o appestati, da evitare ogni “contagio”con loro? – mi chiedo, mentre nessuno sa più cosa sia vero o falso, visto che dichiarazioni contrastanti volano sui mezzi di informazione.

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Terminando l’inciso e ritornando all’articolo su La Repubblica, la Cgil già allora denunciava:«Siamo ben oltre il contenimento della spesa. La vera strategia di Governo è un’altra: si abbassa il livello dei servizi, si tagliano i posti letto, si aumenta il tempo di attesa per gli esami e le visite per far diminuire il consenso nel welfare state, che è ancora alto. Il passo successivo è, purtroppo, lo smantellamento totale, magari a furor di popolo» (Giancarlo Mola, op. cit.).

Tranne che per il “furor di popolo”, aveva forse torto?

Invece di tagliare la sanità/ salute, agiscano sull’evasione fiscale, 122 miliardi, sui reali sprechi … ed almeno non ci chiedano fiducia, e adesione alla politica del “Ghe pensi tut mi”, “È per il vostro bene e se vi è qualche disagio per voi ci dispiace tanto”.

Ed ancora: con lungimiranza, sempre nel lontano 2004, la Cgil osservava che: «Sanità ed assistenza non scontano soltanto il peso dei tagli del governo, ma anche l’assenza di scelte strategiche» ( “Cgil: sanità regionale senza strategie, in Messaggero Veneto, 13 febbraio 2004), in una situazione caratterizzata, pure, da incerte prospettive occupazionali e dalla presenza di segnali di declino delle prospettive di ripresa economica. Insomma si va avanti così ed a tentativi già da allora, senza dati, senza visione di insieme, senza valutazione delle ricadute dell’agire politico su popolazione, territorio, economia globale, par di capire …

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VALUTAZIONE ED EFFICIENZA DEL S.S.N..

Giacomo Sirchia, medico e ministro, nel 2001 o 2002, volendo migliorare il sistema sanitario nazionale e studiarne l’efficienza, ordinava una inchiesta sulla sua funzionalità, da svolgersi monitorando «i risultati medici negli ospedali pubblici o privati (accreditati) per tre tipi di intervento molto importanti: i trapianti, l’artoprotesi dell’anca e l’intervento di by-pass aortocoronarico». Seguendo l’esempio degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, si voleva stabilire i tassi di successo di queste operazioni in vari centri e confrontarli. (Attilio Giordano, Quell’indagine sui cattivi medici sparita nel nulla, in Il Venerdì di Repubblica, 27 febbraio 2004, n. 832).

In Italia, precedentemente, solo l’ospedale San Camillo/Forlanini di Roma aveva osato, sotto la direzione generale di Roberto Clini, procedere su questa via, che aveva portato al licenziamento di alcuni chirurghi, e, conseguentemente, il passaggio delle morti post- operatorie dal 14% a poco più del 2%.
Ma ritornando all’indagine voluta da GirolamoSirchia, essa aveva dato, come risultato, che in 5 centri ospedalieri la morte del paziente nel post-operatorio era più alta di 15 volte rispetto agli altri. (Ivi).

Ovviamente il monitoraggio, nell’uno e nell’altro caso, teneva debitamente conto di: età, sesso, gravità dei pazienti.
I risultati erano però importanti: l’esito di una operazione dipendeva, come immaginabile, sia dal centro ospedaliero erogatore, sia dall’abilità del chirurgo. L’“uno vale l’altro” veniva cancellato.
Ma poi, alla fine del lavoro a livello nazionale, Gerolamo Sirchia vietò la pubblicazione dei dati. Perché, si chiede un cristiano qualunque? Non è dato ufficialmente sapere, ma alcuni pensarono che fosse causato dal fatto che alcuni poli ospedalieri lombardi avevano fornito dati carenti, altri fecero notare che una grossa azienda ospedaliera del Sud, fra quelle “incriminate”, aveva come direttore generale un grande elettore della destra. (Ivi).

Così, per un motivo o per l’altro, i cinque responsabili delle cardiochirurgie disastrose restarono ai loro posti, né in detti ospedali venne mai inviato un ispettore, quando già allora si mandavano ispezioni, nei tribunali, per eccesso di spese di cancelleria, (Ivi), ed ora, dico io, si fa saltare un sindaco eletto e benvoluto dal popolo romano, per un per un paio di scontrini, che era disposto a risarcire, per mettere poi al suo posto, un commissario che intende privatizzare tutta gli asili nido della città di Roma (Roberto Ciccarelli, La proposta indecente di Tronca: privatizzare gli asili nido a Roma, Il Manifesto, 8 gennaio 2016), che funzionano bene con un sistema misto pubblico/privato, lasciando magari senza lavoro 6000 persone. Ma cosa vuoi che sia, basta che egli, l’entità posta al potere, lo voglia …Ghe pensi mi, – state tranquilli.

Ma ritornando alla sanità, nel 2004 invano i medici scioperavano per “le nomine politiche” di direttori e primari, (ora potremmo parlare di ospedali chiusi o meno o favoriti su base politica ed elettorale? Non lo so, alcuni se lo sono chiesti).

Comunque, in un modo o nell’altro, iniziò ad avvenire, magari anche perché le commissioni mediche preposte non negavano ad alcuno l’idoneità, «sgravandosi da eventuali responsabilità tecniche», che le nomine dirigenziali nelle aziende ospedaliere fossero fatte dai politici, ed esulassero da una laurea in medicina, e da esperienza nel settore. (Ivi). Si fece come nella scuola: ove i dirigenti divennero, di fatto, dei super segretari – burocrati ed accentratori, con sempre maggior scollamento dalla didattica, dalla psicologia, dai problemi reali dell’utenza.

Per quanto riguarda la nomina del direttore generale delle aziende ospedaliere, così si esprimeva Roberto Clini, già incontrato come direttore del San Camillo /Forlanini: «So che in molti casi la nomina è politica e che molti direttori non hanno la capacità di resistere a pressioni che sono comunissime. (…). Accettiamo lo spoil – system (cioè il sistema per cui ogni governo decide i dirigenti da porre nei posti chiave, per esser sicuro che seguano la sua linea politica n.d.r.)? Va benissimo, ma diciamolo senza ipocrisie.» (Attilio Giordano, op. cit.).
Invece, sempre secondo Clini ma anche secondo me, l’aspetto politico dovrebbe essere, in medicina, secondario, perché, per dirla con Mao, non importa se i gatti sono neri o bianchi, basta che prendano i topi. (Ivi).
Comunque, per valutare l’operato medico, era stata disposta la creazione di apposite commissioni mediche, da porsi nei dipartimenti, nati, pure, all’uopo. (Ivi). Ma poi…

Purtroppo in Italia la politica ha sempre cercato di impadronirsi del potere medico, sosteneva Attilio Giordano, e, secondo il medico dirigente Roberto Clini: «Il grave non è solo che la politica metta le mani sulla sanità, ma pure che i medici accettino il sistema come fosse ineluttabile e ne approfittino». (Ivi).
L’articolo sottolineava anche l’elevato ed ingiustificato numero di interventi di tonsillectomia infantile in Campania, se raffrontati a quelli delle altre realtà regionali, ma rarissimi quelli su figli di medici. (Ivi).

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Ma ritornando al servizio sanitario, pare proprio siano le scelte della politica ad incidere massicciamente sulla sua funzionalità .
«Da quando […] la sanità è gestita “managerialmente” – affermava nel 2005 il consigliere regionale Virgilio Disetti di Gemona – si sono moltiplicati, come i pani e i pesci della parabola, consulenti, esperti, responsabili e dirigenti, con enorme assorbimento di risorse finanziarie, ovviamente sottratte ai servizi sanitari per la nostra gente e, ne sono certo, si tratta di diversi milioni di euro» (“Disetti: sanità, troppi sprechi”, in: Messaggero Veneto, 13 ottobre 2005).

Ieri, 8 gennaio 2016, leggevo, sempre sul Messaggero Veneto, l’articolo di Giulia Zannello: “La regione fusione o.k. Ora nuovi infermieri”, ove si parla anche del Centro servizi e laboratori di Udine, che poteva pure restare “laboratorio analisi” ma la nomenclatura, in politica, ha il suo peso. Dopo averne magnificato le future sorti, sperando vi sia sufficiente personale impiegato, dico io, si sottolineava come esso sia stato creato, nel 2013, per l’accentramento delle analisi, pur mantenendo i punti di prelievo sul territorio (Giulia Zanello, La regione fusione o.k. Ora nuovi infermieri , in: Messaggero Veneto,8 gennaio 2016).

Tolgono il laboratorio analisi a Tolmezzo? Tranne che Paolo Agostinis, quale medico che lavora a Tolmezzo e Gemona si è pubblicamente mosso? Vogliono chiudere l’ospedale di Gemona? Tranne Pietro De Antoni, quale medico che lavora a Tolmezzo e Gemona si è pubblicamente mosso? A loro tutta la mia stima. E vero però che i dirigenti pare non amino chi dice la sua opinione non tra le quinte. 
E l’amministrazione tolmezzina, capeggiata da Francesco Brollo, dov’è? E il direttore generale Aas3, che rimarrebbe sguarnita di laboratori analisi, se quelli presenti a Tolmezzo e San Daniele vengono accentrati ad Udine, che dice? Mistero, almeno per ora. Per quanto riguarda la regione, che dire del suo fare paternalistico, del suo evitare il confronto con i cittadini, con i comitati gemonesi, ma anche con altri, di quel suo decisionismo con soldi nostri, stando “nelle alte sfere”?
E non sarà che, tolti i laboratori analisi , si andrà verso l’accentramento di ogni servizio sanitario ad Udine? Ma non vi è in Regione, una giunta di sinistra? – mi chiedo, dopo aver sostenuto Serracchiani alle regionali.
« Ma cos’è la destra cos’è la sinistra… Il pensiero liberale è di destra, ora è buono anche per la sinistra», cantava Giorgio Gaber ( Giorgio Gaber, Destra-sinistra). Come dargli torto? Dove sta andando la sanità carnica, gemonese delle valli del Natisone e del cividalese, con questa politica che segue quella dei governi precedenti retti dalla destra? Chiediamocelo ed agiamo prima che sia troppo tardi, prima che ci resti solo un “Eh mah …, ci dispiace tanto”.
E termino precisando che non intendo offendere nessuno, ma solo esprimere in modo documentato il mio pensiero, ed introdurre il tema delle scelte etiche, della tendenza a disumanizzare la sanità, quasi fossimo solo corpi da tagliare, od a cui somministrare farmaci,  dell’ ingerenza politica in campo così delicato come quello della gestione della salute, che non può essere basata solo su un concetto utilitaristico e monetario. E mi scuso subito con chi si possa sentir offeso da questo scritto, anche se non saprei chi possa esserlo.

Laura Matelda Puppini

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Si rimanda ai miei precedenti su sanità : ed in particolare:  “Su quel laboratorio analisi tolmezzino, dalla sorte incerta, almeno pare”. “Ancora su quel laboratorio analisi tolmezzino e il caso Agostinis”. “Divagando su quel laboratorio analisi tolmezzino tra medicina e pronto soccorso”. “Messaggero Veneto del 25 marzo: il dott. Pietro De Antoni sul San Michele di Gemona. Ospedali: destini legati in Alto Friuli”.

La vignetta di Vauro che accompagna questo articolo, è stata pubblicata su http://vauro.globalist.it/Detail_News_Display?ID=8110, è datata 8.12.2011, ed è intitolata “Evitare la catastrofe. Servizio pubblico”, ed è da me già stata utilizzata.  Laura Matelda Puppini

Se perdo te … ancora due considerazioni sul laboratorio analisi dell’ospedale tolmezzino …

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Riassumo in queste mie righe i motivi per cui, senza se e senza ma, si doveva, a mio avviso, dire no alla modifica del laboratorio analisi del nosocomio tolmezzino, ed al passaggio del personale all’ass4, senza neppure che i cittadini lo sapessero.

Nel gennaio dello scorso anno, il dott. Paolo Agostinis, internista, così si esprimeva, nel merito dei laboratori analisi negli ospedali periferici della regione:
«Non serve un laboratorio spaziale, serve che non ci venga tolto ciò che abbiamo e che è di fondamentale importanza per il clinico e per il paziente». (Tanja Ariis, Aumentano diagnosi errate e tardive, in Messaggero Veneto, 29 gennaio 2015).

Ed aggiungeva: «Qualcuno ha pensato a quanto costerà far correre un’automobile avanti e indietro dall’ospedale di Udine? E se l’autista è appena partito, ma in pronto soccorso o in reparto è appena arrivato un altro caso da studiare con urgenza, cosa si fa? Si aspetta che torni l’autista o si manda un secondo commesso? Si rifletta sul fatto che diagnosi errate o in ritardo […] a causa di un ospedale senza pezzi importanti, come è la microbiologia e il servizio di analisi cliniche, avranno esiti infausti per il paziente […]. In assenza di un laboratorio di base, alcuni pazienti saranno subito dirottati al pronto soccorso dell’ospedale di Udine. Questo comporterà perdita di tempo prezioso per il paziente e un ulteriore intasamento del nosocomio udinese. Inviterei davvero […] l’assessore alla sanità a rimanere per una settimana, dalle 8 alle 20, nel laboratorio di microbiologia tolmezzino, per verificare come vanno davvero le cose e quale è l’impatto di un buon laboratorio sulle decisioni terapeutiche e il decorso clinico dei pazienti.»

Così affermavano, allora, immediatamente, minacciando il medico di provvedimenti disciplinari, il direttore generale, quello sanitario e quello amministrativo della neonata aas3: «L’azienda per l’assistenza sanitaria “Alto Friuli-Collinare-Medio Friuli” smentisce con fermezza rischi per la salute derivanti dalla riorganizzazione dei laboratori in provincia. Nessun rischio […] ci sarà nella qualità dell’assistenza sanitaria e nella tempestività delle diagnosi di laboratorio per i cambiamenti che introdurrà la riforma sanitaria. (…). L’Ass 3 assicura che tutti gli esami con caratteristiche di urgenza, compresi quelli di microbiologia, saranno effettuati nei laboratori degli ospedali di rete, garantendo perciò rapidità e tempestività di risposta alle necessità cliniche.» (Tanja Ariis, È bufera sull’ospedale: “Allarmismo infondato”, in Messaggero Veneto, 30 gennaio 2015).

Dalla stessa fonte si apprendeva, poi, che «il problema era all’esame della commissione tecnica formata da tecnici e specialisti dei laboratori degli ospedali della provincia, che stava, allora, ancora valutando il migliore assetto da adottare per assicurare la massima efficienza sia organizzativa che clinica» (Ivi). Nel merito interveniva pure l’assessore Maria Sandra Telesca che affermava che il progetto di riorganizzazione dei laboratori in provincia non aveva ancora nulla di definito, ed aggiungeva: «Mi fido dei professionisti che stanno lavorando». (Ivi).

E qui io cadevo dalle nuvole, perché non sapevo che stessimo forse pagando, ma credo di sì, una commissione formata da tecnici e specialisti dei laboratori della provincia, di cui vorremmo i nomi e la parcella, se esistente, per affrontare il problema, ed ora, ad un anno, vorrei fossero resi noti anche gli esiti. (Laura Matelda Puppini, Su quel laboratorio analisi tolmezzino, dalla sorte incerta, almeno pare, in: www.nonsolocarnia.info, 30 gennaio 2015).

Quindi il 9 febbraio 2015 si veniva a sapere, come il solito dalla stampa, che si era tenuto un incontro fra la presidente della Regione Debora Serracchiani, la dott. Maria Sandra Telesca, il dott. Adriano Marcolongo, il sindaco Francesco Brollo e la dott. Cristiana Gallizia, ed altri dirigenti della sanità di distretto, il cui esito era stato il seguente: «Il laboratorio di analisi dell’ospedale di Tolmezzo non chiuderà e non sarà ridimensionato», ma servirà solo per le urgenze e le emergenze, mentre gli esami di routine verranno inviati ad Udine».  (“Tolmezzo: il laboratorio delle analisi non chiude. I prelievi saranno raccolti in ospedale, che continuerà quindi a eseguire tutti gli esami che rivestono carattere di urgenza ed emergenza”, in: Il Friuli, 9 febbraio 2015).

A questo punto iniziavo a non capire più cosa si volesse fare, e mi perdevo e perdo ancora sulla fattibilità del progetto, se non visto come l’anticamera per portare tutto ad Udine e sbaraccare l’ospedale di Tolmezzo e gli altri periferici trasformandoli nei “telesc – marcolonghiani ” presidi ospedalieri, legalmente, pare, inesistenti, ed in mano ai medici di base per alcuni posti letto. (Anna Buttazzoni, Fvg, Roma declassa quattro ospedali, in Messaggero Veneto 2 gennaio 2015, dal titolo impreciso perché chi ha declassato è stata la regione Fvg).
Ma non capire potrebbe essere limite mio.

Il 21 marzo 2015, dato che correva voce che il 31 marzo 2015 le sorti precise del laboratorio tolmezzino sarebbero state decise, ritornavo sul problema con un articolo sempre su: www.nonsolocarnia.info, intitolato: “Divagando su quel laboratorio analisi tolmezzino tra medicina e pronto soccorso”.
Infatti, da una veloce ricerca, da profana, su internet, avevo appreso che gli esami in genere richiesti, nei pronto soccorso, a fini diagnostici, risultano:
analisi urina, emocromo, tempo di protrombina, tempo parziale di protrombina, elettroforesi delle sieroproteine, glicemia, creatinina, azotemia, acido urico, acido cloridrico, sodio, potassio, calcio, fosforo, cloruro, contenuto di co2 cpk; ldh, ast alt ggt fosfatasi alcalina e bilirubina diretta e totale, troponina i, mioglobina, ckmb massa, emogasanalisi, d- dimero, ck- mb, amilasi, lipasi, che sono anche quelli di routine. (R.Baricchi, M.Maconi, D.Formisano, A.Parisoli,P.Ferrini, A.Sangermano, A.Ferrari,M.Brini, Come introdurre la EBLM nel Laboratorio di Analisi Chimico-Cliniche (LACC) e nel Dipartimento di Emergenza-Urgenza (DEU), Servizio sanitario regionale Emilia Romagna, Azienda Ospedaliera Arcispedale S.Maria Nuova –Reggio Emilia; Piera Maria Ferrini, Dipartimento Emergenza Urgenza,Arcispedale S.Maria Nuova Reggio Emilia, Clinical audit del progetto, upgrading, e…prospettive future, documento non datato ma post 2005, R. Baricchi, M. Maconi, D. Formisano, A. Parisoli, P. Ferrini, A. Sangermano, M. Brini, La Evidence Based Medicine nella interpretazione dei test diagnostici applicata a pazienti afferenti al Dipartimento di Emergenza Urgenza, Dipartimento di Patologia Clinica, Servizio Sviluppo OrganizzativoDipartimento di Emergenza-Urgenza – Azienda Ospedaliera Arcispedale S. Maria Nuova – Reggio Emilia, – Riv Med Lab – JLM, Vol. 5, S.1, 2004, in: http://www.asmn.re.it/utilizzo-appropriato-dei-test-diagnostici-di-laboratorio-561).

Perché spendere per inviare quelli routinari ad Udine, cioè una pipì ed un emocromo, tanto per fare un esempio, invece che lasciare che si facciano a Tolmezzo, dato che i macchinari non saranno comunque spostati? Per dare proventi all’ospedale di Udine invece che all’aas3, per poi traghettare lentamente l’ospedale tolmezzino verso la chiusura, non essendo in attivo? Per coprire possibili carenze di personale di laboratorio dell’ass4, con quelli della aas3? Mistero.

Inoltre mi chiedevo cosa significasse il termine “esami di routine” nel caso specifico, ed ora ancor di più, data la posizione del governo e del Ministro Lorenzin, sul taglio delle prestazioni mediche. Significano gli esami dati dai medici di base (non so se dalla guardia medica perché mi pare non possa prescriverli)? E se fossero urgenti per la salute del paziente?

E quelli successivi al primo, nel reparto di medicina, sono di routine o no? Mistero.

Negli studi emiliani sopra citati, veniva, pure, sottolineata l’importanza del rapporto di collaborazione tra clinico e patologo, che potrebbe venir a mancare del tutto, con il trasferimento del laboratorio tolmezzino ad Udine. Ma sicuramente verrebbe a mancare, in Carnia, nel gemonese, nel cividalese, nel Canal del Ferro e nella Val Canale, nelle Valli del Natisone, e mi scuso subito se ho dimenticato qualcuno, sulla base di quanto deciso il 9 febbraio 2015, il rapporto fra medici di base e medici di laboratorio, sinora esistente.

Infine non è di poco conto il tempo per il trasporto dei campioni, pare con ambulanza, ed anche questo è un problema perché si toglie un mezzo di soccorso, utilizzandolo in forma credo impropria.

Sul trasporto dei campioni e problematiche connesse, ma non solo, una persona laureata che aveva operato nel settore laboratori analisi mi informava che:  alcuni esami, come quello delle urine, devono avere campione fresco o trasportato con metodiche attentissime ed in contenitori adeguatamente predisposti, e comunque i tempi di trasporto esistono; campioni non perfettamente trasportati possono emolizzare, precipitare ecc.;  le emocolture vengono fatte direttamente portando, al letto del paziente, il sangue prelevato subito nella bottiglia per analisi ed anche per analisi sinoviale; vi sarebbe stato, sicuramente, un problema per il liquor; alcune metodiche per enucleazione dna, anche se di biologia molecolare, presuppongono tempi lunghi di risposta, non le sei ore dichiarate alla stampa. (Le nuove tecnologie consentiranno infatti di ottenere diagnosi microbiologiche in tempi estremamente rapidi, entro le 6 ore in confronto alle 24-48 ore oggi necessarie, in Tania Ariis, È bufera sull’ospedale, op. cit.).

Ma poi mi fermavo sull’argomento, perché pareva il problema fosse rientrato sino a che il Messaggero Veneto pubblicava, l’8 gennaio 2016, l’articolo di Giulia Zanello, La regione fusione o.k. Ora nuovi infermieri, in cui si parlava della visita di Debora Serracchiani e Maria Sandra Telesca al nuovo Csl (Centro servizi e laboratori) udinese, ed in cui si poteva leggere che il complesso tecnologico «prevede l’accentramento delle analisi degli esami di laboratorio, pur mantenendo i presidi di prelievo sul territorio».
Nulla di nuovo, mi dicevo.

Anche La Vita Cattolica sottolineava come il laboratorio udinese, ad un anno dalla nascita, «prevede la riorganizzazione della diagnostica di laboratorio per le Aas2 e Aas3 nei presidi ospedalieri di Latisana, Palmanova, San Daniele e Tolmezzo e nei punti prelievo per esterni afferenti agli stessi con la costituzione di un laboratorio con sede centrale nell’Azienda Ospedaliero Universitaria di Udine» (Serracchiani: «Il laboratorio unico dimostra che la riforma sanitaria è positiva», in La Vita Cattolica, 7 gennaio 2016, avente come cappello: “La struttura accorpa le analisi degli ospedali di Udine, Palmanova, Latisana, S. Daniele e Tolmezzo”).

E ivi si leggeva pure che il Csl sarebbe giunto: «a sfiorare i 4.000 referti una volta completato il percorso con l’acquisizione degli ulteriori campioni per esterni attualmente gestiti dai laboratori periferici dei presidi che fanno parte del Lui. Dopo Palmanova, che già da un mese conferisce campioni esterni, la prossima settimana sarà la volta di Latisana, per poi proseguire con Tolmezzo fra due mesi e infine San Daniele entro maggio 2016». (Ivi).

Inoltre: «Dopo un percorso di preparazione che ha impegnato parte del 2014 e l’intero 2015, dal 1° gennaio 2016 – previo accordi con le organizzazioni sindacali del comparto e della dirigenza – tutto il personale (circa sessanta unità) tecnico e laureato dei laboratori che partecipano al Lui è transitato giuridicamente alle dipendenze dell’Azienda Ospedaliero Universitaria di Udine, programmando un contingente sufficiente a garantire le funzioni necessarie nelle sedi periferiche» (Ivi).

Ma essendo diventato personale dell’ass4, – dico io – esso naturalmente può venir impiegato dalla stessa a suo piacimento, anche per coprire carenze udinesi, e si verifica una situazione in cui un ospedale dipendente da una ass ha un laboratorio analisi dipendente da un’altra, che ovviamente ha esigenze diverse. “Garantire un contingente sufficiente “ di personale per i laboratori periferici, poi, è frase ambigua,  e siamo ancora a “ Parole, parole, parole”, per dirla con Mina ed Alberto Lupo.

Ed ancora: «Attraverso un attivo coinvolgimento delle direzioni e dei responsabili delle strutture cliniche presenti negli ospedali di San Daniele, Tolmezzo, Palmanova e Latisana la Direzione del Dipartimento di Laboratorio ha definito il pannello di esami che continuerà ad essere garantito nelle diverse sedi periferiche, ciascuna delle quali manterrà un laboratorio adeguato alle esigenze, in grado di rispondere in tempi rapidissimi ai quesiti clinici per i degenti nei diversi presidi ospedalieri» (Serracchiani: «Il laboratorio unico dimostra, op. cit.). E il coinvolgimento dei cittadini? Per carità, basta il parere dei “tecnici”.

Infatti: «Il lavoro di accentramento dei laboratori è stato fatto di concerto con i professionisti e i risultati sono già estremamente positivi. A fare da regia clinica della diagnostica è stato costituito, inoltre, un Comitato Clinico permanente». (Ivi).

Tolto il fatto che non si sa chi siano questi “professionisti” ed in che, pare che paghiamo sempre più burocrati e sempre meno medici ed infermieri, e la sanità stia diventando un moloch con nessun contatto con i problemi reali. Si continua a parlare e magnificare , senza dati e senza che neppure sia completata la fase di trasferimento dei laboratori periferici verso quello centrale, come politica vuole, non metodologia scientifica, e ci si trova davanti al fatto già compiuto, senza nemmeno sapere criticità ed esiti possibili, nulla di nulla. Che cosa ci stia a fare il comitato sopra citato, poi, non si sa e neppure da chi sia composto, né quanto viene pagato con soldi dei contribuenti, almeno così pare, che dovrebbero esser spesi per la sanità/salute.

Così tanto per divagare a sera inoltrata od al mattino, mi pare che questo modo decisionista ben poco attento alle esigenze di chi mette il capitale per tali operazioni, cioè dei cittadini, abbia ben poco a che fare con il metodo democratico, e prepari alla fine dell’ospedale di Tolmezzo ed alla fine della montagna, ma Renzi docet anche a livello metodologico, e così il novello partito della Nazione. Tutto è deciso dall’oligarchia al potere, e ormai siamo sotàns, dato che, pare proprio, come tali la Regione e lo Stato ci trattino. E se erro correggetemi.

Ma ritornando al laboratorio analisi tolmezzino, scrivevo il 9 gennaio 2016, il mio «Ghe pensi mi» No grazie. Sui problemi etici della sanità, sulla sua politicizzazione, sul laboratorio analisi tolmezzino, e così mi esprimevo relativamente ai problemi possibili dati da un laboratorio unico, oltre quello di avere personale sufficiente:
«La politica regionale Fvg sogna banda larga ed Insiel quali nuovi Mercurio in versione accelerata, ma la trasmissione dei referti a livello informatico, come ho già scritto, ha dei limiti che potrebbero esser dati: dall’intasamento del servizio di erogazione centralizzato, dalla scelta prioritaria di refertazione, dal tempo impiegato per trasporto ed accettazione esame esterno, dai limiti del caricamento e comunicazione dati in un sistema oberato che porta, come accade già ora, a lentezza nel servizio quando non si tratti di vera e propria mancanza dello stesso. Non si deve dimenticare, poi, che la trasmissione informatica può esser rallentata pure dai sistemi di controllo della rete».

In attesa di avere qualche precisazione, pare non ci resti altro da fare che brindare, senza eccedere, ancora al nuovo anno, riflettendo tristemente sulla politica, che come piovra, tutto ha invaso, e su quel metodo di governare, anche di berlusconiana memoria, senza dati, progetti, previsioni, studi scientifici, che sta distruggendo, secondo me, lo Stato italiano nato dalla Resistenza ed uccidendo ogni primavera ed avvenire degni di questo nome. Almeno “Salviamo il salvabile” per dirla con Edoardo Bennato, perché questo solo pare possano fare i cittadini, ammesso che sia loro concesso.

E concludo scrivendo, come il solito, che queste sono mie considerazioni documentate, che non intendo offendere nessuno ma solo porre problemi sul tappeto, e se erro correggetemi.

E rimando pure, alla lettura, per chi non lo avesse ancora fatto, del mio: “«Ghe pensi mi» No grazie. Sui problemi etici della sanità, sulla sua politicizzazione, sul laboratorio analisi tolmezzino” sempre su: www.nonsolocarnia.info.

Laura Matelda Puppini
L’immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: www.laboratorioanalisicardillo.com. Laura Matelda Puppini

Zuglio, scavi e reperti. Correva l’anno 1800 …

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Guardando distrattamente fra i vecchi libri di “casa Plozzer” la casa della mia infanzia e gioventù, casa di gente colta, curiosa, amante della storia locale, imparentata in un modo o nell’altro con preti, socialisti, italianissimi e carabinieri, ho trovato questo libretto che mi ha incuriosito.
Per la verità esso è un saggio, forse già pubblicato in precedenza,  scritto da Bartolomeo Cecchetti, che si intitola: La Carnia. Studi storico-economici, edito in Venezia, nel 1873, presso la tipografia Grimaldo.
Mi sono messa a leggerlo, e, mentre andavo avanti con la lettura, i miei occhi incontravano la storia degli scavi di Zuglio che non conoscevo, e che mi affascinavano. Ma vediamo, per sommi capi, cosa narra Bartolomeo Cecchetti.

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Correva l’anno 1808, e Francesco Maria Richieri, vice Prefetto di Tolmezzo, il 24 agosto scriveva una lunga relazione sugli scavi in Zuglio, condotti dal Signor Commissario di guerra Siauve, con spese proprie e sollecitudine.

Non si riteneva che esistesse, ove si pensava, una vera e propria Basilica, per la «poca grossezza delle muraglie». «Si sono scoperti muri d’un’ala intiera di questa Basilica, o piuttosto d’una galleria e gran vestibolo, che sporgeva in fuori dinanzi a questo edificio immenso, che non bisogna confondere con un tempio, essendo probabile che la basilica di Zuglio fosse uno di quegli edifizii dove i magistrati rendevano giustizia a cielo chiuso, laddove nel foro tenevano le loro sessioni a cielo scoperto. La lunghezza del vestibolo dissotterrato a Zuglio, ed il cui muro esteriore era fiancheggiato da dei pilastri, è di 40 metri e 13 centimetri esternamente, internamente di 38 metri e 51 centimetri: la larghezza interna è di 7 metri ed 85 centimetri». (B. Cecchetti, nota 1 p.132).

Il terreno, sotto cui furono trovati i resti della cosiddetta ‘basilica’, si elevava di due metri e mezzo sopra il pavimento interno dell’antico edificio, formato da lastricato durissimo. Richieri ipotizzava che la sopraelevazione fosse stata causata sia dell’ammasso di terra provocato dalla caduta dell’edificio, sia dalla confluenza in loco, di più torrenti, che discendevano dai soprastanti burroni, trascinando seco materiali.

Egli, inoltre, scriveva di aver visto coi suoi occhi, nella ‘casa comunale’ di Zuglio, mattoni romani, pezzi di marmo di diverse qualità, pezzi di bronzo di varie forme, di cui alcuni sembravano appartenere a degli scudi dorati, altri a degli abiti di statue, ed ancora verghe e foglie d’acanto, ornamenti in bronzo che parevano esser stati di abbellimento a qualche statua. (Ivi, p.133).  Infatti nei pressi della ‘basilica’ erano stati trovati alcuni ‘bucranii’, (crani di bue) utilizzati nei fregi dell’ordine dorico, un piccolo prefericolo (bacinella metallica usata per i sacrifici) di forma elegante, una coppa ed altri ornamenti che, come il prefericolo, erano applicati ad una piccola ara. (Ivi, nota 2 ,p. 133). Ed ancora si erano reperiti: il dito di una statua di donna in grandezza naturale, pure in bronzo, vasi di terra cotta, come per esempio anfore, un mulino a braccia «con tutti i suoi ferramenti», la base di un grande vaso in pietra d’Istria, due enormi artigli di leone, nello stesso materiale, medaglie consunte, di cui una di Antonino Pio, dei pezzi di cemento a terrazzo ad intonacature di muro interno, dipinte in giallo e cinabro, e diversi altri oggetti. (Ivi, nota 2, p. 133 e  pp. 133-134).

Si erano ritrovati, però, anche resti di costruzioni con caratteristiche non romane ma lombarde, e pure: oggetti e chiodi in ferro di diversa dimensione, travi bruciate, masse di piombo fuso, pezzi di muraglie dipinte a fresco risalenti al medio evo,  cubi di mosaico in pietra d’Istria e mattoni, un muro di costruzione romana grosso circa tre metri e mezzo, alcuni frammenti di iscrizioni attribuibili all’era di Augusto imperatore, in uno dei quali si menzionava la presenza, in Zuglio di un ‘edile’, cioè di un magistrato, che rappresentava, forse, la cittadinanza, o forse addetto al tempio. (Ivi, pp. 134-135).

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Per coprire le spese per futuri scavi, il Vice Prefetto di Tolmezzo aveva aperto una sottoscrizione a cui molte autorità civili del Dipartimento, e non solo, avevano aderito. Ma essa era stata sospesa, come di fatto gli scavi, perché il Commissario di guerra Siauve non poteva seguire personalmente l’attività archeologica, ed in modo continuativo, trovandosi lontano. Sottolineava, però, come egli avesse, durante il suo soggiorno in Friuli, raccolto elementi sufficienti per «istabilir la nostra opinione sull’antica e vera situazione del Forum Julii». (nota 2, pp. 133-134).

In una lettera, indirizzata al commendator Teodoro Somenzari, ed oggetto di stampa a Verona, presso la tipografia Maroni, nel 1912, citata da Giuseppe Girardi nella sua, Storia della Fisica, a p. 164, Siauve descriveva, in particolare, una lapide, che lo aveva colpito, la cui iscrizione, completata, si poteva presentare così:

«Herculi Sancto – Sacrum – M. Ogius L.F. Para.
Praef. Collegi – Fabr. et dendr. – signum cum base marm. De suo – imperio posuit – L.D.D.D.

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Correva l’anno 1811, ed il governo austriaco, tanto vituperato, fece eseguire, a proprie spese, in Zuglio, (sorto, pare, inizialmente come municipio romano, per tener a freno l’intera Carnia), ulteriori scavi archeologici, nel sito detto ‘La Basilica’, sotto la direzione di Giuseppe Grassi e del sacerdote Giuseppe Riolini.
Nel 1819, si ritornò a scavare, e si trovarono «parecchie anticaglie per gran parte di bronzo, ed un bell’idoletto, nel luogo detto ‘gli stretti della Bueda’, alle radici del monte di San Pietro. (Ivi, pp. 61-62).

Nel 1819-20, negli atti del Governo austriaco, si trovano già alcuni elenchi di oggetti reperiti a Zuglio grazie agli scavi, od acquistati. In particolare veniva segnalato un inventario del canonico Michele co. Della Torre e Valvassina, che, nel 1820, risultava essere direttore degli scavi voluti dagli Asburgo. (Ivi, nota 3 p. 61).

Nel 1919, sempre secondo Bartolomeo Cecchetti, erano state trovate pure 52 monete, di cui 50 in rame, e due d’argento, tra le quali si potevano notare: alcune dei triunviri monetali, una «bellissima, di Massimiano Erculeo», la più antica di Flavio Vespasiano, risalente al 69 dopo Cristo, altre di C. Luperco ed Adriano. Quest’ultima, sempre secondo il Cecchetti, portava la scritta: « Sacra moneta Aug. et Caes.». (Ivi, p.62 e nota 1, p. 62).
Inoltre si erano reperite: corniole, patere, mascheroni, frammenti di statue.
Furono trovati conii di acciaio: uno di Augusto con attorno alla testa la scritta «CAESAR DIVI. F. COS.II e nel rovescio COL.IVL.KAR.; altri di Tiberio, con la sua testa a destra e l’ iscrizione: «Ti. Caesar Divi Aug. F. Augustus imp. VII p.m.», e di Nerone giovane. (Ivi, p. 63).

Si erano poi recuperate alcune iscrizioni, su pietra e bronzo, i cui originali, però, all’epoca dello scritto del Cecchetti, erano spariti, probabilmente a causa del riutilizzo dei materiali a livello locale.

Una di dette iscrizioni, su bronzo, potè esser completata e compresa, dal dott. Giovanni Battista Labus, grazie alla similarità con due fra quelle custodite al museo di Chiaromonti, in Roma. Successivamente il reperimento di una iscrizione identica ed intera, in Zuglio, (conservata poi presso il museo di Cividale), confermò quanto presupposto dal dott. Labus. (Ivi, p. 62).

Vi era, poi, un’ iscrizione che riguardava la presenza di un mercato (macellum) e da questa si poteva supporre che, in Zuglio, vi fosse stata una piazza ove esso si teneva, e che detto mercato, non più in vigore, fosse stato ripristinato grazie a Falerio Faleriano, con l’approvazione dell’imperatore Marco Aurelio Alessandro. (Ivi, p. 63).

Un’altra iscrizione venne trasferita, sempre secondo Cecchetti, sotto un arco del chiostro dell’Abbazia di San Gallo in Moggio. Secondo l’Asquini detta scritta era relativa ad un intrecciatore di corbe, cioè di grandi ceste con manici, ed egli sottolineava come i mosacensi (abitanti di Moggio, da Moosach) si dedicassero a quest’arte, il che, però, portava ad avere dei dubbi sulla provenienza ‘julocarnica’ della stessa. (Ivi, p. 64 e nota 1 p. 64).

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Francesco Maria Richieri, vice prefetto di Tolmezzo, in una lettera al comm. Teodoro Somenzari, prefetto del Dipartimento di Passariano, datata 26 dicembre 1811, accenna essersi trovati a Zuglio, nei primi scavi, pure alcuni tubi di piombo per acquedotti. «Forse servivano a condurre le acque di Avosacco (un miglio da Zuglio) a certo fabbricato creduto una basilica, ma che era veramente un bagno pubblico» – scrive Cecchetti, senza che si capisca se si tratti di vere e proprie terme.
Ed ancora: una iscrizione recava tracce di una fonte dedicata da Sesto Erbonio, decurione della colonia carnica, alle ninfe augustee, un’altra ricordava un duumviro procuratore dell’imperatore Claudio, che aveva funzione di intendente del tesoro imperiale, e giudice degli aspetti fiscali. (Ivi, p. 64).

Quintiliano Ermacora riferiva, precedentemente, che provenivano da Zuglio e dai villaggi vicini: «Formia (Formeaso), Secia (Sezza), Arta, Nuaria (Nojariis) e Suttrio (Sutrio) altre iscrizioni, di cui una veniva trasferita in Venezia; una posta in un angolo della parrocchiale tolmezzina, a destra, uscendo dalla porta maggiore, mentre altre erano rimaste a Zuglio, fra le quali una all’epoca  ancora visibile nella chiesa dedicata a San Leonardo. (Ivi, p. 65).

Ed ancora: «Si rinvennero anche, colà, frammenti di mosaici, oggetti di marmo, ferro, vetro e bronzo, mescolati ai residui di piombo fuso, d’ossa d’uomini e d’animali, di ceneri e di carboni, il che fece supporre che Zuglio fosse stato incendiato.
Altre anticaglie raccolte nel quartiere di San Pietro, greche e romane, conservano il dott. Gortani di Arta, il dott. Riccardo Milesi, farmacista di Paluzza, e quasi ogni parroco di quei villaggi. Monete e reliquie il cui pregio è quasi affatto locale».  – precisava il Cecchetti. (Ivi, p. 66).
«Dieci monete greche antiche, trovate in Tolmezzo, serba il dott. Gortani, insieme a Romane di Augusto (30 av. Cristo – 14 di Cr.), di Claudio, Vespasiano, Tito, Trajano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Aless. Severo, Probo, Diocleziano, e degl’Imperatori greci Eraclio, Costantino II, Costante e Gallieno.
Si trovarono monete di Giordano III a Formeaso, di Probo a Suttrio, di Costanzo a Piano». (nota 1 p. 66).

Secondo Cecchetti, comunque, bisognava, in altri casi, far attenzione che non si trattasse di oggetti relativi a Cividale, essendovi stata, per un periodo, una certa confusione. (Ivi, p. 66).

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Con una lettera datata 26 luglio 1871, Giovanni Gortani informava il Cecchetti di ulteriori nuovi scavi in Zuglio.
Nel corso di uno sterro, diceva, fatto per erigere una casa privata, in vicinanza di un ponte, sopra una riva del fiume But, sul margine della campagna, erano stati rinvenuti, alla profondità di circa 70, 80 centimetri, un salizzo (una pavimentazione sassosa) in cemento fragilissimo; una chiavica, «nel mezzo in muratura», coperta da lastre ed ingombra di terra, larga circa 20 centimetri; qualche osso e qualche pezzo di carbone; quindi si era trovata una seconda pavimentazione più consistente, sovrapposta ad un letto di ciottoli conficcati in uno strato di sabbia, e posta sopra una massa di ceneri alta, nel mezzo, circa due dita.
Al di sotto di questo secondo salizzo, si trovava una seconda piccola chiavica, e, su un lato, un’altra ancor più grande, entrambe composte da lastre. Quella di dimensioni maggiori era chiusa in un involucro di cemento, a mattone pesto e pozzana.
L’interno superiore era formato da sassi e terriccio, «evidente trasporto d’opera umana» (Ivi, p. 69), sotto, invece, si trovava ghiaia ‘vergine’ di fiume.
Ma qui veniva l’interessante. Nei cementi delle due chiaviche maggiori, si reperivano «anse, bocche, e pareti di anfore infrante», in sintesi cocci delle stesse;  sopra il letto di ceneri, invece, si trovava una mensola che pareva meno antica, poi più nulla. Da ciò, il Gortani derivava che quelli erano resti romani di una casa incendiata, «come lo fu forse l’intiero villaggio, dove fra ruderi spesseggiano ovunque i carboni». (Ivi, pp. 69-70).

Francesco Maria Ricchieri, già nel 1808, però, vista la scarsità dei reperti romani in Julium Carnicum, e la presenza di vestigia lombarde, riteneva che lo stesso fosse stato bruciato al tempo del sacco di Aquileia da parte di Attila, e quindi ricostruito più tardi. (Ivi, p. 135).

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Comunque già nel 1782, Niccolò Grassi, parroco di Cercivento e canonico della Collegiata di San Pietro, nel suo: “Notizie storiche della Provincia della Carnia”, scriveva che Zuglio era stata un insediamento romano, descriveva alcune lapidi ivi trovate, poste in ‘casa Morocutti’, e ne dava lettura ed interpretazione. Una di queste, portata poi a Venezia, secondo Quintilano Ermacora rammentava dei restauri ed abbellimenti fatti in due templi: uno, secondo Gian Giuseppe Liruti dedicato a Beleno, l’altro ad Ercole. (Niccolò Grassi, op. cit., pp. 47-52). Sempre secondo il Grassi, si erano trovati in Zuglio molti epitaffi, ma erano stati trasportati o a Tolmezzo o nella Patria del Friuli, in particolare nel castello di Colloredo ed in Udine. (Ivi, p. 57).
Nel 1752 erano stati trovati, sempre  in Zuglio, un’urna cineraria di pietra, grezzamente lavorata, di forma quasi ovale, alta 3 piedi, con un ago di faretra d’oro «lungo ‘una quarta’», e nel suo convesso quattro sigle: «L.AB.L.»;  due idoli in pietra, di cui andò rotto e l’altro finì a Venezia; alcune arche sepolcrali, di cui una scolpita in un solo blocco di marmo, e con un segno di croce impresso ai quattro angoli, finita poi a fare da alveo alla fontana di Arta. (Ivi, pp. 58-61).

Ma il Parroco di Cercivento ricordava che anche ‘ai suoi tempi’ era stata trovata un’arca sepolcrale, con all’ interno ossa umane ed un’armatura, poi finita in casa del Signor Pittoni di Imponzo a far da alveo alla fontana della casa. (Ivi, p. 60). Dette arche furono scoperte nella campagna vicino a Zuglio, ove i lavoratori, ai tempi di Niccolò Grassi, trovavano spesso molte pietre sepolcrali, se spingevano la vanga un po’ a fondo, il che fa pensare ad un luogo di sepoltura. Si erano trovate, poi, tubature in bronzo, che potevano esser servite o per portare acqua in città, o per le pubbliche terme. (Ivi, pp, 60-61).

Sempre circa nella seconda metà del Settecento, era stata scoperta una fontana sotterranea nell’orto attiguo alla casa del signor Venturini, e «Veggonsi in Zuglio al dì d’oggi, pezzi di Mosaiche sculture, frammenti di finissimi marmi, di colonne, di cornici, e di altre finissime cose. Qui si sono trovate medaglie di rame, di bronzo, e d’argento in grande copia coll’impronta di vari Imperatori Romani, ed alcune d’oro», e « Pochi anni or sono , quivi si trovarono pezzi di catenelle d’oro, (e) testoline di bronzo».

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Nel 1752 era stato reperito un soldo d’oro del peso di mezzo Zecchino, colla effige di Giustiniano, Imperatore d’Oriente, che era stato dato in dono alla Signora Anna Linussio. (Ivi, pp. 60-62), e, probabilmente 5 monete galliche, provenienti da Zuglio, erano finite nel museo privato nel N. H. Marchese Antonio conte di Savorgnan. (Ivi, pp. 62-63).

Ma a proposito di monete, nel 1778 si era trovato un conio di acciaio intero, alto 4 pollici, ed arrecante l’ immagine di Tiberio Cesare, e con la seguente iscrizione: «TI. CAESAR. DIVI AVG. F. AVGVSTVS. IMP. VII. P.M.», il che farebbe supporre che in Zuglio ci fosse una zecca. Detta ipotesi veniva confortata dal reperimento, vicino al conio, di frammenti di crogivoli per forgiare monete. Detto conio finì in dono a Mons. Gian Girolamo Gradenigo, che lo lasciò alla Biblioteca Arcivescovile di Udine, ed era però il secondo trovato, essendo il primo stato scavato anni prima. Quest’ultimo era di dimensioni minori, con l’effige di Cesare ancor giovane, e la scritta CAESAR.DIVI. F. COS. II., ed è sempre quello citato anche dal Cecchetti.

«Molti altri avvanzi di Romane antichità – conclude il Grassi – si veggono nel nostro Giulio Carnico, e molti altri perirono o divorati dal tempo, o per negligenza degli abitanti altrove trasportati. Tuttavia si vanno ancora dissotterrando segni della sua antica magnificenza, benché, considerato il sito dove era eretta quella città, non potea esser di vasta estensione», trovandosi lungo il fiume But, sopra il quale, ove si incontrano i due canali di Incaroio e di San Pietro vi era un ponte di sasso, quadrato e formato da due archi. (Ivi, p.65).

Julium Carnicum aveva il privilegio di avere la Cittadinanza Romana, con voto nella Tribù Velina. (Ivi, p. 68).
Secondo Niccolò Grassi Julium Carnicum era stato creato non tanto per favorire il commercio, quanto per controllare le montagne impervie, e, probabilmente, una parte dei suoi abitanti provenivano da fuori, seguendo una politica di colonizzazione ad assoggettamento all’impero.

E termino qui queste mie due note su Julium Carnicum, tratte da due testi non certo recenti, invitando chi volesse approfondire, a rintracciarli e leggerli.

Laura Matelda Puppini.

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Quest articolo, come gli altri, è coperto da copyright e può esser citato, non integralmente. L’ immagine che lo correda è ripresa da www.familyfvg.altervista.org, e rappresenta una vetrina del MUSEO DI ZUGLIO, CHE SI INVITA CALDAMENTE A VISITARE, sperando che lo dotino al più presto di una ricostruzione della città e della sua storia visibile a computer. Laura Matelda Puppini

Suicidio. J killed me. Parliamone.

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È qualche anno che medito, davanti a casi concreti, sul suicidio.

Ho conosciuto ed ho avuto notizia di persone che improvvisamente se ne sono andate per sempre per propria mano, F. studente universitario, D. ebrea e studentessa universitaria, G. studente delle superiori, B. di cognome, lavoratore, M. studentessa universitaria, L. lavoratore, M. studentessa universitaria, L. docente alle superiori, M. ingegnere, S. infermiera, ed altri di cui si mormora davanti all’ annuncio mortuario, ed a tutti ho rivolto un pensiero, una riflessione, un riposa in pace e che almeno la terra ti sia lieve.

Giorgio Ferigo mi aveva accennato ad un convegno dell’ass3 sul tema del suicidio, a cui aveva parlato come relatore, e mi aveva dato la sua relazione. Così gli rispondevo il 20 gennaio 2006:

« Caro Giorgio,
in merito al tema del “suicidio” vorrei darti queste mie riflessioni personali che si possono, ovviamente, anche cestinare.
Spesso, da quanto ho potuto capire, il suicidio cioè il togliersi la vita, ha come motore il porre fine ad una lunga sofferenza, interiore o fisica (che implica sempre un aspetto anche psicologico) non più tollerabile e, nel primo caso, non sempre palesemente espressa o manifesta.
Pertanto, a mio avviso, non si può puntare o centrare un discorso sul suicidio eminentemente sulla volontà dell’atto, in quanto ogni atto (comportamento, azione) viene posto in essere in un contesto di vita e relazionale, ed è frutto di quanto il soggetto ha “memorizzato” delle sue precedenti esperienze nonché del suo “percepire” in quella data situazione. (Cfr. Salomon Asch, Gregory Bateson, Jacques Deridda, J.L. Moreno, per es.).
K. Lewin scrisse che il comportamento individuale è funzione della personalità e dell’ambiente, concetto sintetizzato nella nota formula: C = ( P,A), che pare sufficientemente verosimile.
A mio avviso, pertanto, il suicidio come categoria astratta non ha una sua logica in un approccio serio al problema ma, invece, il “togliersi la vita” da parte di un soggetto con una sua storia ed in un contesto preciso è certamente un modo più attuale di avvicinarsi al tema in questione.

In quest’ottica, allora, si può parlare di “suicidi” non più di “suicidio” come forma o idea platonica, posta al di sopra dell’esistente e del quotidiano.
Ci sono invece alcune situazioni simili che permettono di raggruppare alcuni casi di suicidio e che ci aiutano a comprendere le motivazioni che possono aver spinto una persona a togliersi la vita.

Vi è il suicidio di chi, malato terminale, già di fatto “spacciato” dalla vita, non fa che anticipare, suicidandosi, l’infausto exitus. In questo caso la coscienza dell’atto può essere presente nella sua totalità e lucidità e non è altro che, come già detto, un precorrere i tempi di una fine già scritta. Paradossalmente in questo caso il suicidio potrebbe essere visto nell’ottica di permettere il mantenimento, nei congiunti e nel “sociale”, di una propria immagine dignitosa, non disgregata dal progressivo ed inarrestabile sfacelo fisico e psicologico insieme. In questa situazione il suicidio è interruzione di un percorso obbligato.

• Nel secondo caso, molto simile al primo, l’atto di togliersi la vita è una fuga da una inutile sofferenza, da una situazione senza reali vie d’ uscita. In tal senso possono venir interpretati i suicidi, tentati o portati a termine, di soggetti in situazioni estreme di dolore e difficoltà: incarcerati in condizioni disumane, torturati, per cui il domani sarà uguale all’oggi, la cui personalità è annientata, a cui è persino vietato togliersi la vita, in spregio alla possibilità di scelta individuale e nella logica sadica del reiterare il dolore e la sofferenza.

Vi sono inoltre persone che, pur essendo uscite vive da situazioni come quelle sopra riportate, non riescono a dimenticare le grida, il dolore, i tunnel senza uscita, la morte sotto indicibili sofferenze anche di persone care, per mano di efferati aguzzini. Esse non riescono a superare quanto loro accaduto, i loro “sogni” si riempiono di incubi, l’odore della “carne macellata” sale continuamente alle loro narici. E spesso, come nel caso di Jean Amery, devono amaramente constatare che gran parte dei carnefici o dei loro mandanti se la cavano a buon mercato o come nulla fosse stato. Ogni cosa ha un limite, anche l’umana sopportazione, e pure chi è sopravvissuto ad un cerchio infernale può decidere che la vita non vale più la pena di essere vissuta.

• Si tolgono la vita pure persone il cui tormento interiore ha raggiunto un punto tale che “farla finita” viene vista come l’unica soluzione. Spesso si tratta di giovani, ma non solo, che non vedono più un futuro, nemmeno uno qualsiasi, disperati, che si sentono soli, incompresi, inascoltati, oppure sono dileggiati dai compagni, vittime di atti reiterati di bullismo, (a proposito leggi, se ne hai voglia il tremendo “Carrie” di Stephen King), o ancora sono “caduti nel dimenticatoio” dopo veloci successi.

Fra i suicidi vi sono persone che si trovano, più o meno improvvisamente, in forti difficoltà materiali. La perdita del lavoro, la mancanza di soldi per tirare avanti ed il non sapere come reperirli, il brusco passaggio dalla classe media ad una situazione di povertà, in una società in cui, tra l’altro, è l’avere che conta e non l’essere, in cui il massimo raggiungibile è essere “Up” senza pensare che ogni “Up” implica almeno un “Down”, può portare a vivere la situazione come senza via d’uscita se non il togliersi la vita.
In questi casi l’aiuto che può giungere al soggetto da una associazione umanitaria, da un sindacato, da un patronato o quant’altro è certamente più efficace di quella del personale medico o paramedico, in quanto tende a risolvere la causa del disagio, dell’ansia, della disperazione.

Vi sono infine coloro che “si lasciano” morire: anziani che rifiutano cibi o bevande, che si pongono a letto senza essere più attivi, che non assumono più i farmaci come dovrebbero o affatto, per scelta e non per demenza senile.

• Un discorso a sé va fatto per coloro che scelgono di suicidarsi come opzione calcolata in precedenza: attentatori – suicidi, persone che potrebbero subire, realmente, l’arresto e la tortura, spie “beccate”, suicidi “per onore” o per non cadere nelle mani del nemico.

Tornando al suicidio, esso non può essere inteso come l’asettico “uccidersi”. Il tentativo di sdrammatizzare il “dramma” viene proprio dalla lingua friulana: “a si è copât”. Questo togliere pathos ha a che fare: da un lato con l’esorcizzare la morte, da un altro con il rifiuto e la rimozione della realtà oggettiva del suicidio come gesto estremo e culturalmente non accettato, infine con la colpa che la comunità attribuisce a chi infrange le sue leggi.
E’ pur vero, però, che nulla attrae l’interesse della gente quanto il suicidio. “Un suicidio non lascia mai indifferenti” scrivono E. Fizzotti e A. Gismondi nel loro “Il suicidio – vuoto esistenziale e ricerca di senso”, S.E.I., TO, 1991.  “Un libro sul suicidio cattura l’attenzione” – proseguono.

Tradizionalmente la problematica suicidaria è stata associata al tema della morte. Il suicidio è la “soluzione finale”, se così si può dire, per chi lo pone in atto, alla propria esistenza. Attuare il suicidio infatti non è solo tacere, chiudere con la comunicazione, ma è un chiudere col mondo, con l’esistere nella complessità del termine, un “farla finita con la vita” e con tutto ciò che il vivere comporta.
Io credo che dietro ogni suicidio ci sia una sofferenza ed un’angoscia intollerabile spesso nascosta “sotto la cenere”. Il suicidio è un atto estremo, consumato in silenzio e nel silenzio; tutto interiore.
“Non aveva vie d’uscita” si dice analizzando certe situazioni in cui un soggetto si è venuto a trovare. Ed è quello che, secondo me, spinge una persona a togliersi la vita: la percezione soggettiva di non avere via di uscita.

Ritornando alla definizione del suicidio come “farla finita” con la vita, è importante sottolineare come il parlare del suicidio non è un parlare di morte ma deve portare ad una riflessione sui contesti e sulle condizioni di vita, materiali ed esistenziali, dei soggetti che lo hanno tentato o portato a termine.
Nel linguaggio comune, lasciando da parte il categorico “a si è copât” per descrivere il comportamento di un suicida si usa: “si è tolto la vita” dove il senso di interruzione della propria esistenza è ben chiaro, “ha posto fine ai suoi giorni”, “ha deciso di farla finita”.

“Ha deciso di farla finita” mi pare l’espressione che, invece di chiudere il discorso, lo apre: quale tipo di esperienza il soggetto voleva terminare, con che cosa voleva “farla finita?”. Ed è qui il nocciolo della questione che ribalta i termini dell’approccio al problema e fa di ogni suicidio una storia a sé.

Inoltre ogni suicidio pone un pressante interrogativo a coloro che rimangono ed in particolare ai parenti del soggetto: “Perché lo ha fatto?”.
A pagina 49 del testo citato si può leggere: “Forse nessun comportamento come quello suicida reclama, nell’animo umano, una ragione che possa mitigare il dolore, lo stupore, la rabbia che si provano quando si viene a conoscenza di un suicidio …”.  L’angoscia, la ferita profonda nell’animo di chi era parente, compagno, genitore, figlio, amico, del suicida sono enormi e con esse: il bisogno di cercare il perchè; la ricerca di come si sarebbe potuto intervenire per impedire l’evento.

Sensi di colpa, sofferenza, disperazione, accomunano chi a quella persona era vicino, assieme alla disperata ricerca di una motivazione plausibile al gesto.
Si deve tener conto però che il desiderio sociale di chiudere il discorso sui perché di un suicidio marcia pari passo al disagio ed alla curiosità che l’atto induce nei più.
Accanto alla tendenza a spiegare, a capire il suicidio, sembra coesistere una tendenza opposta a non voler sapere, a negare, a dimenticare, a rimuovere attraverso una spiegazione frettolosa e superficiale “che sembra avere il solo scopo di liquidare il più in fretta possibile l’idea di suicidio dalla propria coscienza.” (Cfr. Ibidem, p. 50).
Gli estranei possono indicare nei rapporti familiari la causa di un suicidio; i parenti interrogarsi su dove hanno sbagliato.
Ma anche la società, lo stress, la viltà, sono considerati cause possibili di suicidio. Accanto a quest’atteggiamento vi è quello che invoca l’inconoscibilità del fenomeno, il raptus che coglie a sorpresa (a cui io non credo proprio).

Ritornando alla presunta inconoscibilità del fenomeno, è utile riflettere su alcune frasi prese dal linguaggio popolare: “solo lui sa perché lo ha fatto”; “… eppure non gli mancava niente …” .
“Spesso – scrivono gli autori già citati – si conclude che “il suicidio è proprio un mistero” e questa frase suona “un po’ come un metterci una pietra sopra” quasi una pietra tombale sui reali significati, le emozioni, i pensieri che hanno indotto le persone a togliersi la vita, quasi si avesse paura di guardare al di là, di rompere l’ordine costituito che il suicida, nel pensare comune, ha trasgredito col suo atto.

Uno si potrebbe chiedere perché il “farla finita” è considerato violento, inaccettabile, mentre la morte di un sofferente, non per sua mano, può essere descritta con la frase “Dio l’ha sollevato”.
In un caso chi agisce è la persona stessa che si dà la morte, nell’altro caso vi è l’intervento di Dio, nella sua bontà, il che è diverso … ma quanto?
Siamo sicuri che colui che “è stato sollevato” non abbia mai desiderato di “farla finita” ma non abbia potuto mettere in atto, per vari motivi, questo gesto?
Forse sia il primo che il secondo erano “stanchi della vita” e con ciò ritorniamo al dire comune.

Per concludere: alla luce delle considerazioni sopra riportate è ipotizzabile, ammesso che si scelga questo approccio al problema, un’attività di prevenzione efficace al suicidio da parte delle A.S.S. e del Servizio Santario Nazionale?

Innanzi tutto bisogna tener conto che, spesso, il disagio individuale non viene dimostrato in modo palese.

“Essere borghese – scrive Fritz Zorn – vuol dire essere tranquillo a qualunque costo perché altrimenti si potrebbe disturbare la quiete di qualcun altro “ (Fritz Zorn, “Il cavaliere, la morte, il diavolo”, Mondadori ed., 1978, p. 200.)

“Nella nostra società non è abituale essere dolenti (…), a Zurigo non si vive il proprio dolore ma lo si rimuove, perché il fatto stesso di soffrire potrebbe disturbare qualcuno. Non si osa guardare in faccia la realtà della propria tristezza perché quando si soffre si turba la quiete; e questa mancanza di coraggio di disturbare qualcuno con la propria tristezza, nel gergo della mia borghesissima patria si chiama “avere coraggio”. Ma io non sono affatto di questa opinione. (…). Non è solo la gioia che si deve manifestare ma anche la sofferenza.” (Ibidem, pp. 203 – 204).
“Il dolore lo si vive ma si deve vivere anche il pianto che esso provoca. (…). In America, come è noto, non si parla mai della morte. (…). In questo senso da noi è ormai dappertutto America: dapprima scannati da una società totalmente degenerata sul piano emotivo e poi sepolti nel silenzio. Quando qualcuno muore, al giorno d’oggi, non si dice neppure più che è morto, ma soltanto che “non è più”, “non è più tra noi”. ( Ibidem, p. 205).

Sia la gente comune che gli esperti, questi ultimi messi di fronte ai modesti risultati ottenuti nel tentativo di prevenire il suicidio, si chiedono se proprio non si possa fare nulla in questo campo. (Cfr. E. Fizzotti e A. Gismondi, “Op. cit. “ p. 173).

Fizzotti e Gismondi, sottolineano come, al momento attuale, per quanto riguarda la prevenzione del suicidio non vi sono conoscenze e strategie tali da garantire l’efficacia dell’intervento, e che si possano solo formulare delle congetture sulle possibili vie da seguire. (Ibidem, p. 175).
Inoltre, a loro avviso, “è controproducente pretendere di impostare interventi preventivi secondo schemi rigidi e particolareggiati da seguire ad oltranza.” E continuano: “Le (…) conoscenze, soprattutto per quanto riguarda il suicidio, sono troppo scarse per spacciare per rigorosamente scientifici progetti che in realtà sono scopiazzati un po’qua un po’ là.” (Ibidem, p. 178).

Infine i due autori mettono in evidenza alcune capacità che dovrebbero essere possedute da chi si occupi di prevenzione del suicidio e cioè quelle di:

– accettare le incertezze insite nel compito stesso;
– tollerare possibili frustrazioni e fallimenti;
– evitare di negare l’insuccesso attraverso la “magia” dei paroloni e delle terminologie incomprensibili;
– saper progettare interventi flessibili, creativi, ricchi di immaginazione;
– essere pronto a dialogare con le forze politiche per stimolare riforme sociali atte a limitare il disagio individuale e collettivo, e per pretendere l’applicazione delle leggi già esistenti a tutela del cittadino. ( Ibidem, p. 178).

Ma soprattutto: come si fa a prevenire ciò che di fatto “ancora non si conosce” e di cui si è restii persino a parlare?
Forse l’efficentismo moderno ha messo da parte la conoscenza privilegiando l’azione…
Allora, di fronte alla complessità del problema, che ruolo può giocare la scienza medica e la psichiatria in particolare, oggi come oggi, con i venti che spirano dagli U.S.A.? E a monte, cosa si intende per “scienza medica” e per “psichiatria”, attualmente in Italia, dal che discende: come opera un medico, uno psicologo, uno psichiatra del S.S.N. sul territorio?
Quale approccio si tende a dare a questo problema? Un approccio tecnicistico e “medicalizzato” per una tematica che è tutta soggettiva? Ci si appella, anche per le “tendenze suicide”, termine tanto in voga, a qualche non ben definita causa genetica con successiva cura farmacologica?
Dove ci porterà tutto ciò?
Forse, anche per il caso di “potenziali suicidi”, si inventerà un protocollo di intervento, chiaro, puro, asettico; forse l’essere “potenziale suicida” sarà un nuovo marchio per qualche poveraccio di domani. Chissà … Sperando che non si inventi un nuovo “accanimento terapeutico”.

Tolmezzo, 20 gennaio 2006

Laura Matelda Puppini»

Ritornavo sull’argomento il 5 gennaio 2013, su carnia.la, commentando l’articolo di Francesco Brollo, “Donna minaccia di darsi fuoco a Tolmezzo: salvata dall’intervento di una poliziotta”, pubblicato il giorno precedente.
«Volevano uccidersi, sono stati salvati. Ma che motivo poteva esserci dietro quel gesto, perpetrato durante le vacanze natalizie, quando pare sia un obbligo essere lieti? Disagio sociale? Problemi familiari irrisolti? Perdita del lavoro? Malattia invalidante? Dipendenza? Gioco? Perchè uno, nel 2013, decide che vivere è così difficile da cercare di rinunciarvi in via definitiva? Chi gestisce e come il disagio sociale in questa terra di nessuna speranza e di frontiera, di petec e maldicenze, di persone attaccate al bicchiere ed alla bottiglia, di praticamente nessuna sala pubblica, almeno a Tolmezzo, per incontri e programmi culturali, e ben 4 bische, ovviamente private? E come lo gestisce se i risultati sono questi? Di una giovanissima donna italiana mi si è detto: “Era depressa, era in cura, aveva fatto tutte le cure prescritte, pareva stesse bene…si è uccisa…».

Ed ancora in un secondo commento, sempre il 5 gennaio 2013, così scrivevo:

«Nel caso della giovane di cui ho omesso il nome, […] era seguita dagli esperti ecc, in cura, stava meglio: si è uccisa. Quindi bisogna vedere cosa fanno i tecnici del csm (mi pare in ass3 tolmezzo da dati visibili computer 10 infermieri, non si sa perchè, 3 medici 1 psicologo, ma se ho capito male mi si corregga), perchè se usano prozac come male minore e farmaci oltre che un quattro colloqui, non so se sia l’approccio corretto. E non tutti sono adatti a trattare, anche se dipendenti da csm, problematiche di questo tipo e non credo che il suicidio abbia come causa la depressione ma cause diverse, (in quanto credo che la depressione abbia cause non organiche ma situazionali) di cui alcune potrebbero esser prevenute (per es facendo in modo che non si verifichino – gioco – dipendenze) altre risolte: mancanza lavoro soldi ecc … Pertanto non mi pare che un semplice ricorso al csm possa essere una panacea per tutti i mali. Poi mi pare che il csm carnico sposi la tesi organicistica non sociale per la depressione. Infine si è ucciso un uomo anche un paio di mesi fa, e le voci sotterranee parlavano di debiti di gioco, ma i maligni ci sono dappertutto. Ovviamente lungi da me disconoscere il lavoro dei diversi csm, e credo che il ricorrervi in situazioni di difficoltà sia più che plausibile, ma credo che prevenire il disagio sia preferibile. Per esempio perchè vi è disagio scolastico? Si fa quello che si dovrebbe fare per limitare, nelle medie e superiori le azioni di bullismo? O si dice ma dopo, magari molto opportunamente, non si vede? Perchè vi è disagio sociale? ecc. Questo però presuppone un approccio sociale e non medico al problema».

Ed ancora in un terzo commento stessa data:

«Esistono due teorie: quella organicistica che ritiene che la depressione, che viene valutata indipendentemente dalla causa, dipenda da fattori organici, e quella che cerca nelle cause sociali la risposta ad un disagio. Può darsi che esistano fattori multipli ma una cosa è secondo me importante: non dobbiamo nasconderci che esistono degli elementi di disagio che la comunità spesso non vuole vedere, mostrando il suo lato legalmente perfetto, e misconoscendone l’esistenza. Per esempio esisteva bullismo anche nelle scuole tolmezzine, e fatti di bullismo li ho visti io, che sono pure intervenuta, ma altri li hanno visti? La madre di …, che si è impiccato, ufficialmente per amore, continua a dire che suo figlio subiva atti definibili di bullismo da un paio di compagni, ma si sa, la signora è rimasta scioccata dalla morte del figlio; esistono concrete situazioni di disagio giovanile in Italia, ma cosa vuoi che sia, si è pur detto che questa è la generazione perduta …

Inoltre studiare troppo può far male, ci possono essere ragazzi che preferirebbero lavorare che studiare, le famiglie giustamente non mettono in piazza le loro difficoltà ed un ragazzo mi ha detto che se vivi nei paesi tutti sanno tutto e gli adulti sono capaci anche di fare confronti e rinfacciare situazioni. Inoltre lo stato dovrebbe porre più attenzione ai figli di divorziati perché non diventino strumento di ricatti fra ex- coniugi, dovrebbero far in modo che il passaggio da un contesto familiare all’altro sia guidato. Infine esistono situazioni familiari segnate pesantemente dall’alcool, come dalla violenza, come dal lavoro improvvisamente perso.

Ora non è detto che tutti coloro che vivono una situazione di disagio si tolgano la vita o cerchino di farlo, per fortuna, ma una cura farmacologica non credo possa essere risposta esaustiva, su una vittima sociale che così diventa doppiamente vittima, e succube degli effetti dei farmaci. Con ciò non dico che farmaci non debbano mai esser usati, ma per es. il laroxyl, tanto quotato come panacea ad ogni problema femminile, è farmaco che ha grosse controindicazioni d’uso. Era matto, ha avuto un attimo di sconforto … ma è proprio così? Fra l’altro la signora con l’accendino in mano che ha telefonato ad un medico forse voleva un po’ di attenzione, perchè chi vuole uccidersi lo fa. Non pare abbiano chiesto aiuto L.; S.; M.; G.; D., F., e molti altri».

Un medico che opera da anni nel settore delle dipendenze mi ha scritto che, condividendo molte delle osservazioni che avevo scritto a Giorgio Ferigo, non si può però negare che la depressione, come malattia esiste, è presente in alcuni casi, e non ne si può sottovalutare la portata.

E con queste parole chiudo, attendendo qualche commento e per aprire un dibattito e la ricerca di soluzioni concrete.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna queste mie riflessioni è tratta da: http://it.123rf.com/photo_39044165_x–red-lettera-scritta-a-mano-su-sfondo-bianco.html, solo per questo uso.   Si accettano suggerimenti grafici . È PREFERIBILE, PER LEGGERE PIÙ AGEVOLMENTE, IL NERO E BLU OD IL NERO E ROSSO? Laura Matelda Puppini.


Dalla prescrizione medica alla prescrizione governativa. Sanità in black out?

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Quello che mi attendevo dalla politica del governo Renzi verso la nostra vita è puntualmente accaduto: l’israeliano Gutgeld ha detto di tagliare la sanità per guadagnare 10 miliardi di euro senza tagliare l’evasione fiscale, e l’operosa Lorenzin, diplomata, si è messa a fare il medico di noi italiani, insegnando il mestiere a quei “4” che si sono laureati in medicina e svolgono il loro lavoro in Italia. Così, bacchettando professionisti che da anni ed anni esercitano con scienza, coscienza, e talvolta sacrifico personale il loro difficile mestiere, il Ministero della Salute ha partorito il famoso decreto 9 dicembre 2015, avente come oggetto: “Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell’ambito del Servizio sanitario nazionale”,  pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 20 gennaio 2016. Per chi volesse conoscerlo rimando alla stessa od a : “http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=35485”.

A me, avendo dato solo allo stesso un’occhiata, è parso discriminante, una presa in giro mentre  i parlamentari possono avere tutto a nostre spese, discutibilissimo, forse impugnabile da vari soggetti, medici compresi, farraginoso, un moloch burocratico.
  Tanto per fare un esempio, sullo stesso si legge che «Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna».

Una prima considerazione: può un medico in diagnosi possibile di cancro, invece che prescrivere l’accertamento radiologico, dare un farmaco a caso, non si sa per curare che cosa? E cosa significa che una prestazione è erogabile se vi è presenza di vulnerabilità sociale o di vulnerabilità sanitaria? Come e su che base si certifica? E in questa terra di evasori, su che base si valuterà la vulnerabilità sociale, e vi sarà forse qualcuno a cui non si potrà negare? – mi chiedo da italiana avanti negli anni.

Inoltre, per ritornare al “sospetto oncologico”  io conosco un paio di casi in cui non vi erano questi sintomi. E se alla persona si gonfia solo una ghiandola, che si fa? – tanto per fare solo un esempio. Inoltre dopo aver sperimentato al buio un farmaco e visto che non fa nulla, con il rischio di esser denunciato, dopo un mese o un mese e mezzo,  un medico dovrebbe fare la prescrizione per un esame radiografico, con tempi di attesa forse enormi, per giungere alla ipotesi diagnostica ed inviare a visita specialistica oncologica, oppure iniziare altro percorso diagnostico? Infatti dimagrimento, dolore con persistenza notturna possono avere molte cause. E intanto il tempo passa …  Vi confesso che leggendo queste righe del decreto Lorenzin, la mia mente è ritornata a quando ero piccola, e sentivo  che uno era morto di mal di pancia, , uno  di sfinimento  …  Moriremo così in Italia? E se si giungesse troppo tardi alla diagnosi, in questa politica non della buona sanità ma, pare, del “cragnino”, mentre si protegge l’evasione fiscale, e si spende per aereo del premier e F 35, ed il soggetto decedesse, dopo magari esser costato allo stato più di quanto sarebbe costato se fosse stato prontamente curato, rimanendo in vita? Perché la stessa Lorenzin chiama nello specifico la prestazione  “radiologia diagnostica”. Inoltre in tal modo non si configura, forse, per chi ha approvato il decreto e lo ha firmato, l’esercizio abusivo della professione medica?

Ed ancora: il decreto Lorenzin vincola i medici che lavorano per il s.s.n..  Oddio, forse al Governo sfugge che anche i medici del s.s.n. fanno visite private, anzi sono i più, che di fatto la sanità italiana si regge su un sistema misto pubblico/privato, e che così si stravolge tutto il sistema sanitario, per le sue fisse e quelle dell’israeliano italianizzato Gutgeld, Pd, che non si sa quanto viene da noi pagato per fare quel che ha fatto, e che lavorava per la McKinsey, che non consta abbia esperienza in campo di sanità/ salute, ma di consulenza manageriale, che è altra cosa?

Se poi un poveraccio rimane senza denti cosa volete che sia …. Se uno muore per ritardi diagnostici cosa volete che sia … Se un medico di base od ospedaliero non riesce, umanamente, a valutare, per ogni visita, cosa può fare, non in base al principio di ” scienza e coscienza”, ma in base al testo ministeriale, all’allegato 1-2-3 , ecc. e deve porsi problemi di coscienza e di burocrazia ogni giorno, e se uno che sta male si è dimenticato di richiedere l’attestato di vulnerabilità, ammesso gli competa, ecc, ecc, cosa volete che sia …  Credetemi i soldi ci sono, ci sono per mille cose inutili in questo stato, soldi che potrebbero esser investiti in sanità efficiente, dopo un adeguato studio del settore e sue criticità.  Ma qui si va avanti alla garibaldina, si fa per dire … Se il ministro Lorenzin è cattolica, pensi a cosa sta facendo ai cittadini italiani e mediti, dato che non lo ha fatto prima. Ci ricorderemo il suo nome, ce lo ricorderemo … Se Renzi e Gutgeld sono credenti, meditino su ciò che hanno fatto, perchè ci ricorderemo il loro nome … Per fortuna che per la Costituzione Italiana la salute è un bene importante ed è un diritto fondamentale della persona. Così in che si è trasformata la sanità da cui dipende la nostra salute ora? – mi chiedo.

Inoltre  se uno ha pagato la sanità pubblica anche solo per qualche anno, ma pure per molti di più, come si fa a negargli una prestazione di cui necessita, per esempio un esame radiografico, ancor di più se potrebbe trattarsi di cancro? Chiediamocelo.

Ci hanno riempito le orecchie e gli occhi con la teoria che più presto si interviene meglio è, come credo proprio sia vero, ed ora … Ed ora? Che ne sarà del bimbo, della madre, del giovane, della giovane, dell’anziano, se non si diagnostica subito una patologia grave? Ma quale medico oserà negare una prestazione medica che ritiene necessaria, un farmaco che ritiene necessario?

Etica e professione medica, termini su cui riflettere, da approfondire … ma il governo Renzi pare abbia dimenticato la prima …  Quali ricadute sul nostro futuro? Non oso immaginarlo. Intanto però il governo ha nell’immediato dieci miliardi, forse, ma ha fatto crollare l’intero sistema sanitario italiano, ed inciderà sul diritto alla vita ed alla salute, impoverendo, ma anche sulle entrate dello stato, sull’organizzazione ospedaliera, ecc. ecc.. e sull’economia. Chi non sa se avrà cure e deve volgere al privato, risparmia timoroso, non investe.  Credetemi quello di intervenire sull’erogazione delle prestazioni è ciò che di più malefico si sia potuto pensare, in questo stato che stato non è più, ma pare proprio sia ridotto ad un governo “piovra” che funziona come lo sceriffo di Nottingham.

E come non ricordare le parole di Gino Strada, che sostiene che la sanità deve costare quanto serve per curare le persone che ne hanno bisogno, non una in più non una in meno, mentre in Italia milioni di italiani non si possono permettere cure adeguate? Inoltre egli precisa che la spesa sanitaria è il costo del sistema sanitario nazionale per lo Stato, non quello per curare le persone che ne hanno bisogno. Tagliamo allora la sanità gratuita ai parlamentari anche ormai non eletti dal popolo, tagliamo i burocrati, ormai a iosa in sanità, tagliamo commissioni e quant’altro, riqualificazioni di piazze, cattedrali nel deserto, opere faraoniche inutili, ecc. ecc. e si vedrà che si risparmierà ma non sulla salute e condizioni di vita.

Inoltre perché pagare, d’ora in poi, la sanità se non è garantita dal governo, trasformatosi in medico?

E veniamo al Fvg. Con queste norme nazionali, passate per decreto, e i tagli regionali, esiste ancora il diritto alla salute in fvg? – mi chiedo.

What’s up? Come va? – si intitola un programma regionale relativo alla salute, uno fra i tanti che riguardano gli aspetti psicologici e non sanitari.
Vorrei che l’Assessore Maria Sandra Telesca ce lo avesse chiesto prima e ce lo chiedesse ora, dopo il decreto Renzi-Gutgeld-Lorenzin, lo chiedesse ai più, pazienti e medici, non gli uni contro gli altri armati, ma uniti contro il governo, lo chiedesse ai medici  che non sanno più che fare, quando ormai il governo li ha esautorati di fatto dall’esercizio della professione, e trasformati in impiegati, almeno pare.

E che fare nell’immediato, ce lo chiediamo anche noi, montanari della Regione e dell’aas3, mentre alla prima è stato richiesto, dall’ ass4, un finanziamento per la cittadella per la salute udinese, che dovrebbe costare 23,7 milioni di euro, (Alessandra Ceschia, Ecco la cittadella della salute, Messaggero Veneto 6 gennaio 2016), e sempre dall’ass4, che riempie le pagine del Messaggero Veneto, è stato richiesto personale, ormai indifferibile a suo dire, di guardia attiva, ed in generale; mentre la divisione Neurochirurgica e quella di Chirurgia vertebro-midollare, sempre del Santa Maria della Misericordia di Udine, pare che scalpintino per scindersi, creando due reparti, con due primari, ecc. ecc.. L’ospedale di Udine, poi, pare  abbia bisogno di molto più personale per i trapianti cardiaci, in quanto il reparto deve essere sempre attivo, ma dette operazioni non possono essere molte. Nel proposito il commissario Mauro Delendi ha già avvisato la Regione: «L’Azienda, per sanare le carenze di infermieri e operatori sforerà il vincolo di spesa posto dalla Regione», (Alessandra Ceschia, Manca personale in ospedale: entro l’anno settanta assunzioni, in Messaggero Veneto, 17 gennaio 2016) con buona pace di tutti. E pare che l’assessore Telesca abbia assunto subito 7 infermieri.

Ed allora uno si chiede chi fa la politica sanitaria regionale, se ognuno la fa per sè, se Udine la fa da padrona, ecc. ecc.?

Inoltre io credo che, quando si centellinano persino gli accertamenti radiografici in ipotesi di neoplasia e si passa a 5 anni l’esame del colesterolo anche per controllo diagnostico, i reparti di trapianti costosissimi e con pazienti non certo tutti residenti in regione, (Cfr. Patrizia Buzzoni Bellulovich, Una sanità eccellente, lettera al Messaggero Veneto, 10 gennaio 2016), non possano esser mantenuti con fondi regionali. Mi si dice che la chirurgia neurologica di Udine ed il centro trapianti regionale hanno valenza nazionale. Benissimo: li mantenga lo stato. Si potrebbe fare, però, anche un centro unico per trapianti ed interventi lunghissimi al cuore, ed un centro chirurgico neurologico interregionale, con concorrenza di spesa tra regioni e stato. Così non credo si possa andare avanti, facendo pagare pesantemente alla montagna, ove non si sa neppure se sia previsto, in ogni comune, il mantenimento del medico di base.
Inoltre dal mio punto di vista noi dell’aas3 non siamo per nulla virtuosi nella cura della nostra salute se siamo posti in una regione che, rispetto alle altre italiane, si trova in coda alla classifica per spesa sanitaria pro-capite, e, nel il finanziamento pro capite assegnato dalla Regione alle Aziende sanitarie, l’aas3 risulta essere il fanalino di coda (Elena Del Giudice, Sanità, friulani penultimi in Italia, in: Messaggero Veneto, 27 aprile 2015. Dati ripresi e citati anche in: Laura Matelda Puppini, Governo, regione, sanità, delle entrate e delle spese, 28 dicembre 2015, in: www.nonsolocarnia.info), mentre le distanze incidono sulla spesa e sulla fruibilità dei servizi, assieme ad altri aspetti già da me presi in considerazione, e le prestazioni si allontanano sempre più.

Inoltre ogni bilancio viene “impostato” sulla base delle priorità di spesa, e così avviene, mi auguro anche per quelli relativi alle spese sanitarie di cui alcune sono inderogabili, per esempio quelle dei farmaci salvavita. Infatti le cure possono essere sia farmacologiche che chirurgiche.  Secondo quali parametri e principi sono stati impostati il bilancio della sanità statale e regionale, mi chiedo? E dove si può trovare la ripartizione fondi ed i criteri base di stesura del bilancio sia statale che regionale? Perchè non riesco a trovarli, sui siti, ma è certamente limite mio.
Ed ancora: che cifre sono state lasciate alla discrezionalità di direttori, dirigenti ecc.? Si valutano a sufficienza gli incarichi esterni, che non dovrebbero esistere, se non come ultima spiaggia?A che serve, per esempio, uno sportellista in lingua slovena, in aas3? A che serve il progetto “Monitoraggio costo e profilo descrittivi dei consumi dei farmaci oncologici ad alto costo” che l’aas3 ha commissionato all’incarico esterno Tillati Silvia, spesa di circa 30.000 euro coperta con fondi regionali? Può darsi serva ad accantonare la cifra per la spesa, ma non è capace di fare un monitoraggio del genere uno dei vari dirigenti? Ma che fa uno dei tanti dirigenti nella sua giornata lavorativa?

What’s up? Come va, con questi chiari di luna? – mi chiedo io. Per esempio resteranno i medici di base in montagna? E si è pensato a quanto incidono i trasporti locali sulla friubilità del servizio sanitario e sulle cure? O ci stiamo avviando, in montagna, al fai da te?
Ed intanto il Governo, sostituendosi ai medici, ha raggiunto la finalità di stressare tutti, di creare incertezza e confusione in un campo ove non ce ne dovrebbe essere, ed i medici, giustamente, scendono in sciopero. Credo che si possa solo essere con loro. «Si fermano i medici: hanno proclamato uno sciopero per 48 ore per il 17 ed il 18 marzo. (…). L’intenzione è quella di mettere in evidenza il “malessere della categoria” […].». I camici bianchi si fermeranno per dire no ai tagli delle prestazioni erogate ai cittadini, contro «l’indifferenza del Governo ai problemi della sanità» per la salvaguardia del sistema sanitario nazionale. (Tagli alla sanità, Medici, due giorni di sciopero:”Cure a rischio”, in: Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2016). Tutti saremo al loro fianco.
Se si va avanti così in sanità, diceva Zaia, Matteo Renzi, a cui sta tanto a cuore la modifica della Costituzione, potrebbe ormai cancellare il diritto alla salute da Stato e costituzione, senza perdere altro tempo. (“Regioni in rivolta. Scure sulla sanità, al vaglio le misure attuative. Il Ministero: «Discussione ancora aperta”, in: Corriere della Sera del 23 agosto 2015 ). Non sono leghista, né lo sono mai stata, ma semplicemente lo penso anch’io, e non solo io, se si legge l’articolo: “Farmaco salvavita negato. Tribunale condanna Asl Latina ad erogare farmaco gratuitamente a paziente con tumori e metastasi, in: http://www.quotidianosanita.it/lazio/articolo.php?articolo_id=30766.

Le motivazioni della sentenza sono, come «a fronte del diritto alla salute, costituzionalmente riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione, non sia tollerabile che chi ha i mezzi per potersi curare può curarsi e sperare di sopravvivere e chi invece (come nel caso della donna di Latina) dovrebbe rinunciare alle cure solo perché costose come lo Stivarga che arriva a quasi 10mila euro a scatola. Diversamente sarebbe violato l’altro principio costituzionale indicato nell’art. 3 della Costituzione secondo cui “tutti sono uguali…senza distinzione…di condizione economica e sociale…”.
Di questo il Tribunale ha tenuto conto sanzionando, anche con la condanna alle spese legali, l’Asl di Latina che indipendentemente dalla nomenclatura normativa che stabilisce la fascia C per il farmaco avrebbe dovuto, e non lo ha fatto erogare comunque lo Stivarga alla donna». (Ivi).

Sulla sanità/salute cure e farmaci non esistono ne se … ne ma … né ‘E mah’ …né indifferenza, nè il predominio di Mammona, pena il non essere uomini … men che meno cristiani. Qui si parla di diritto alla vita … se in Italia neppure quello è più garantito .. migrate, giovani, migrate, restiamo noi qui, che ormai siamo vecchi …

E termino con la solita frase: se erro correggetemi, e non voglio offendere nessuno, ma non so in che modo scrivere cosa penso nel merito, e lo scrivo secondo il mio sentire di cristiana, madre, cittadina, anche se ritengo che forse non si sia pensato abbastanza ai risvolti del far cassa ad ogni costo in sanità. Ma chi è al governo, e cerca di avocare a sè, pare, anche il potere legislativo,  non può esimersi dal pensare, riflettere, studiare.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è la copertina di un numero di Left, ed è tratta, solo per questo uso, da: www.left.it.

Tagliano sulla spesa anche dei materiali sanitari e chirurgici … siringhe, bisturi, … con che risultati?

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Tagliano sulla spesa anche dei materiali sanitari e chirurgici … siringhe, bisturi, ma loro si mantengono ogni privilegio sanitario, per sè per la famiglia, mentre si fa una politica che incentiva l’evasione fiscale … e ben pochi ci informano  …

CENTRALI DI ACQUISTO. LORENZIN E PADOAN TAGLIANO IL NASTRO. IN SANITÀ “MAPPATI”  12,8 MLD DI SPESA PER BENI E SERVIZI. LORENZIN: “RISPARMI PREVISTI DEL 15-20% E SIRINGHE A PREZZI UGUALI IN TUTTA ITALIA” – si intitola un articolo comparso suwww.quotidianosanita.it.  Padoan: “Sanità modello per la Pa” “Una battuta poi Lorenzin l’ha fatta anche sulle siringhe il cui costo differente nei vari ospedali italiani da sempre è oggetto di polemica. “La siringa con le centrali uniche d’acquisto è evidente che costerà uguale in tutta Italia e che avrà una riduzione del prezzo molto forte. Ma non ci sono solo le siringhe, ci sono gli stent, ci sono i servizi, le protesi. Ma sulle centrali uniche d’acquisto per quanto riguarda i device c’è tutto un lavoro che viene fatto perché a differenza di altri beni e servizi in sanità essi sono beni con un alto tasso d’innovazione tecnologica in cui c’è anche un rapporto tra il professionista medico e il paziente e l’innovazione che si vuole applicare. Tant’è vero che sono state definite delle categorie merceologiche al cui interno si faranno le gare centralizzate”. (Centrali di acquisto. Lorenzin e Padoan tagliano il nastro. In sanità ‘mappati’ 12,8 mld di spesa per beni e servizi. Lorenzin: “Risparmi previsti del 15-20% e siringhe a prezzi uguali in tutta Italia”. Padoan: “Sanità modello per la Pa”, in: http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=35466.

MA GUARDATE CHE ACCADE A GIOCARE AL RIBASSO SENZA CONTROLLARE IL PRODOTTO, mentre lorenzin ci riempie di parole parole, immagine immagine …:

CLAMOROSA DENUNCIA DEI CHIRURGHI ITALIANI: “I NOSTRI BISTURI NON TAGLIANO PIÙ. COLPA DELLE GARE ORIENTATE SOLO AL PREZZO PIÙ BASSO”
Questo, secondo l’Associazione dei chirurghi ospedalieri, il risultato dopo anni di acquisti di dispositivi medici basati sul prezzo più basso. E in più “criteri di valutazione spesso discutibili da parte delle commissioni regionali” che hanno determinato un livellamento verso il basso della qualità.

25 GEN – “I bisturi in Italia non tagliano più”. La clamorosa denuncia è il risultato di un’inchiesta tra i soci Acoi (Associazione Chirurghi Ospedalieri Italiani) che ha coinvolto migliaia di chirurghi in tutta Italia.

“Una situazione – afferma il presidente Acoi Diego Piazza – che è diventata nel corso degli anni preoccupante, nonostante il progressivo deterioramento della qualità dei dispositivi medici sia stato denunciato da tempo, a tutti i livelli, anche dalla nostra società scientifica. La continua ricerca del prezzo di mercato più basso, con criteri di valutazione spesso discutibili da parte delle commissioni regionali, ha determinato un livellamento verso il basso della qualità. Il prezzo non può e non deve essere l’unico criterio di valutazione, a scapito della qualità e della sicurezza”

I chirurghi ricordano come “i cittadini-pazienti hanno diritto, come peraltro stabilito dalla Carta della Qualità in Chirurgia già nel 2007, alla tecnica chirurgia più appropriata secondo gli studi di evidenza scientifica. La mediocre qualità dei bisturi utilizzati oggi ha conseguenze sia estetiche, perché il taglio perde la famosa precisione chirurgica, sia infettive, perché, aumentando il trauma cutaneo per incidere una superficie, si aumenta il rischio di contaminazione batterica della ferita. E’ evidente che, dovendo aumentare la forza per incidere una superficie, si rischia di tagliare oltre le intenzioni dell’operatore”.

Altro che risparmi. Il problema sono anche i costi aggiuntivi dovuti all’uso di materiale di scarsa qualità. “Quanto ai costi, possiamo affermare che si tratta di una scelta antieconomica, perché per uno stesso intervento può essere necessario utilizzare più bisturi, cosa che non si verificherebbe con un buon bisturi che, al contrario, potrebbe essere utilizzato più volte durante lo stesso intervento. Per questi motivi è indispensabile che le società scientifiche di chirurgia siano parte attiva nel processo di selezione e scelta dei dispositivi medici. Se continuiamo a privilegiare il prezzo a scapito della qualità, fino a fare scomparire quasi del tutto le caratteristiche minime di funzionalità del prodotto, addirittura dei dispositivi medici ad elevata tecnologia il cui malfunzionamento può avere affetti letali, che tipo di sicurezza e qualità forniamo ai nostri pazienti?”. (http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=35602, che mi scuso per aver riprodotto integralmente, ma non riuscivo a citare solo parzialmente, e l’uso è informativo).

SE VI SARANNO MORTI “DA RIFORME” E FORSE DEFINIBILI INCAUTI ACQUISTI, PESERANNO TUTTI SULLA COSCIENZA DI QUESTO GOVERNO, DI GUTGELD, RENZI, PADOAN, BOSCHI, LORENZIN, e dall’uso spregiudicato del decreto legge, che però deve esser trasformato in legge entro 60 giorni. Infatti il decreto legge è un atto normativo di carattere provvisorio avente forza di legge, adottato in casi straordinari di necessità e urgenza dal Governo, ai sensi dell’art. 77 della Costituzione della Repubblica Italiana.

Mandate a casa parlamentari, il decreto legge pubblicato sulla G.U.  il 20 gennaio 2016, che è legge dalla stessa data, e iniziamo già a sentirne gli effetti, ma senza la vostra approvazione decade.

Come si fa ad approvare un provvedimento d’urgenza, quando è allo studio da mesi e mesi, quando non vi è urgenza? Il Governo fa così per scavalcare il Parlamento e governare da solo? Fa così perchè ha speso troppo e male, senza uno straccio di studio, proiezione, indagine neppure di mercato, senza consultare i porfessionisti? Siamo all’oligarchia, capitanata da un non eletto? E a cosa servono i denari risparmiati e le vite che potrebbero esser stroncate? Cui prodest?

Con questo non dico che non si debba pensare ad una sanità con meno sprechi, ma non così, e par di capire che in due anni non si sia chiesto a nessuno e fatto indagine alcuna se non sui costi. Ed  anche ” il primo che passa per strada” sa, si fa per dire, che cibo detto “cibo spazzatura” a basso costo può far male … pur essendo sempre cibo …  

LAURA MATELDA PUPPINI

L’immagine  è quella siglata: operazione.jpg, ed è tratta da  www.tempostretto.it solo per questo uso.

Anpi nazionale. Qualche considerazione su cui riflettere e per la memoria attiva.

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Desidero porre questo lunghissimo documento, frutto dell’Anpi nazionale e rivolto agli iscritti, che condivido, sul sito perché secondo me è ricco di spunti positivi, di valori, di aspetti su cui ritornare a riflettere, in questo mondo italiano che gioca al ribasso, che pone come valore fondamentale la fede in un premier non eletto e la spending review, mentre le diseguaglianze aumentano, e un padre, il giorno dopo o lo stesso del family day, si uccide ed uccide i figli di 9 e 13 anni, perché ridotto alla fame. Maurilio, di 58 anni, notare l’età, non era uno sbandato ma aveva lavorato, si era sposato, aveva avuto due bambini … la moglie Katerina faceva lavori saltuari, ma avevano loro pignorato anche la casa … si è salvata per un pelo ma come vivrà ora?

Leggiamo questo importante documento, anche solo le parti che interessano, perché aiuta ancora a credere in qualcosa di positivo, a leggere di problemi e risposte reali. Grazie Anpi nazionale per averlo scritto ed avercelo inviato.

Ricordo che per scorrere il testo bisogna porsi in fondo alla prima pagina  sulla sinistra, e compaiono i comandi per scorrere, cioè le virgole bidirezionali. In sintesi funziona come per le diapositive del dott. F.Schiava. Laura Matelda Puppini

Gianni Borghi su: “La nuova proposta per la salute in territorio montano”.

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Buona sera. Ringrazio molto per l’invito. Il mio ruolo di Presidente della Conferenza dei Sindaci mi impone di non limitarmi solo ad un semplice saluto ma a enunciare alcune considerazioni generali che riguardano il tema dell’incontro.
Intanto vorrei salutare:
L’Assessore Regionale alla salute, integrazione socio-sanitaria, politiche sociali e famiglia e la ringrazio per aver accettato l’invito;
Il collega Sindaco di Tolmezzo;
Il Commissario della C.M.;
L’Assessore alla salute nonché Presidente Assemblea dei Sindaci ambito 2 per il cortese invito;
I tanti sanitari e operatori dell’AAS 3 presenti unitamente al Direttore Generale dott. Benetollo;
Tutti voi partecipanti.

Credo non vi sia domanda più complessa da rivolgere a un assessore, se non quella contenuta nel titolo dell’incontro: “La nuova proposta per la salute in territorio montano”. Qual è?
Perché faccio questa affermazione?
Perché nessuno ha pensato di porre attenzione, nel legiferare, alla montagna, ai suoi problemi specifici. E si è legiferato “erga omnes”, per tutti nello stesso modo. E questa non è solo una mia considerazione, è soprattutto la mia preoccupazione. Perché ciò implica la necessità da parte nostra, dei Sindaci, di vigilare e difendere i servizi essenziali nei territori più critici (presenze grandi territori e poca popolazione quindi di diseconomie = costo / opportunità).

Vede assessore, siamo molto preoccupati perché come sempre, relativamente alla montagna: tutti teoricamente sanno cosa si dovrebbe fare, ma nessuno fa quello che si dovrebbe fare, perché nessuno o quasi, poi, alla fine, vive in montagna.
Secondo me vi è poca consapevolezza nel pensare che ciò che vale per un centro, non equivale a ciò che vale per una periferia!
Se poi la periferia è montagna, la cosa si complica sia per gli aspetti orografici che per quelli finanziari.

Questo, per dirLe, Assessore, che non vogliamo 2 sanità, ma due modelli organizzativi intelligenti che rispondano ai bisogni di salute di un città come di un ambito rurale/montano.
Questo, per dirLe, Assessore, che queste comunità e la maggioranza dei Sindaci che rappresento sono stati con Lei e saranno con Lei:

– tutte le volte che Lei riuscirà a mettere al centro della sanità il cittadino e non l’organizzazione,

– tutte le volte che nelle scelte o nelle premiazioni dei professionisti si guardi al loro saper fare più che al loro saper apparire.

Noi Sindaci saremo con l’istituzione tutte le volte che saremo coinvolti nelle decisioni per dare alle comunità che rappresentiamo quello che serve.
E chiediamo quindi di interpretare assieme correttamente il bisogno e non la domanda di questo territorio.

Per quanto riguarda la Riforma, oggi si parla molto di riforma e si abusa anche del termine.  Inoltre quando viene varata una legge di riforma si innescano molte aspettative da parte di: cittadini; operatori; politici; amministratori.

Riformare significa “modificare in modo profondo uno stato di cose, un’istituzione ecc.; noi abbiamo proprio fatto questo nella sanità?

Quali aspetti tangibili della riforma percepirà quindi il cittadino della montagna, che non siano solo quelli di una mera suddivisione territoriale (peraltro molto critica e discutibile di cui non mi addentro perché oggi il tema è un altro)?
Quali vantaggi percepirà il cittadino della montagna, riscontrabili in questa LR17/2014 nell’:
– assistenza primaria,
– assistenza ospedaliera,
– nella rete dei servizi socio assistenziali,
– nella sanità privata?

Il cittadino e l’amministratore pubblico, questa sera, con quali informazioni, rassicurazioni, torneranno a casa?
Vede assessore in sede di conferenza dei sindaci in occasione della discussione del PAL 2016 ho raccomandato all’Aas3:

– di assumere e mantenere come principi guida della programmazione: la sicurezza delle cure, l’appropriatezza, l’equità, l’efficienza nonché la sostenibilità economica.

– di mantenere un rapporto privilegiato con gli enti locali per percorsi di analisi, partecipazione e consultazione al fine di giungere a disegnare e realizzare uno scenario complessivo della nostra sanità aderente agli specifici bisogni delle nostre comunità.

Io come presidente della Conferenza dei sindaci dell’Aas3 e abitante di questa terra chiedo a Lei, Assessore, di farsi garante di alcune semplici istanze:

Nell’assistenza Ospedaliera:
– che l’ospedale di Tolmezzo rimanga con tutte le articolazioni necessarie a soddisfare i bisogni sanitari di questa montagna.

– che chi ha una patologia acuta trovi nell’ospedale professionisti e attrezzature in grado di garantire sicurezza di trattamento.

Non chiediamo, prioritariamente, di conservare Direttori di SOC di DPT, ma soprattutto di avere équipe di sanitari preparati.
Non chiediamo di avere un nostro laboratorio analisi o dove si fanno gli esami ma che gli esami si possano fare, e che i referti giungano senza difficoltà.

Nell’assistenza Distrettuale chiediamo che:

–  l’assistenza primaria divenga tale e si indirizzi alla medicina d ‘iniziativa’ e che le parole chiave di questa siano:

o Prossimità dei servizi quotidiani, quelli che servono ogni giorno devono essere vicini al cittadino;

o Continuità delle cure;

o Personalizzazione degli interventi;

o Qualità delle cure;

E con forza chiediamo:
– che la rete degli ambulatori di medicina generale restino diffusi nella montagna. Guai a un loro ridimensionamento o chiusura: sarebbe una tragedia per il territorio montano.

– che si creino i CAP dove e possibile (Paluzza- Ampezzo – Ovaro ecc).

In sintesi e per concludere, Assessore, Le chiediamo di pensare come se fosse una di noi e di poter dire, un domani, che una volta tanto alla Carnia, alla montagna, è stato dato e non tolto.

Il Presidente della conferenza dei sindaci dell’Aas3 Alto Friuli -Collinare-Codroipese:

Gianni Borghi

Marco Puppini. Convegno sul confine orientale (italiano) dell’Anpi a Milano: una riflessione.

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Ho assistito sabato 16 gennaio al convegno organizzato dall’Anpi nazionale a Milano sul confine orientale, cui ha partecipato una folta rappresentanza di nostri storici regionali. Non sono purtroppo riuscito per ragioni di trasporti ad assistere a tutta la tavola rotonda che si svolgeva nel pomeriggio, mentre ho assistito alle relazioni del mattino. La mia è pertanto una riflessione parziale, che vorrebbe essere utile per sollecitare un dibattito. Sono riuscito ad ascoltare per ultimo Franco Cecotti. Devo dire che non me ne sono pentito. In effetti, a mio giudizio, la prima relazione (Marta Verginella) e l’ultima che ho ascoltato (Franco Cecotti) sono state le migliori, sulle altre mantengo delle perplessità. L’impressione generale in ogni modo è stata che un ascoltatore lombardo (o comunque non friulo – giuliano) che di queste cose giustamente sa poco, alla fine del convegno non abbia risolto i suoi dubbi. “Forse la storia del confine orientale è troppo complessa” ha commentato un ascoltatore vicino a me. Non è vero, ovviamente, tutti i temi senza esclusioni sono complessi e lo storico deve raccontarli in modo comprensibile. In questo senso mi pare che la strategia comunicativa di molti oratori sia stata pessima.

Bene devo dire ha fatto Smuraglia a non prevedere interventi dal pubblico. Molte volte c’è stata una strategia organizzata in particolare dalle destre per trasformare i convegni su questi temi in risse becere. Positivo anche il fatto che ogni studioso rappresentasse se stesso e non una determinata tendenza o associazione, di fronte alle immancabili contestazioni di una associazione di esuli perché non erano presenti “suoi” relatori.

Verginella ha volato forse un po’ troppo alto, ma il suo discorso è assolutamente condivisibile. Ha criticato lo stesso titolo del convegno perché nazionalista ed escludente: il confine è orientale italiano, ma anche occidentale sloveno, meglio era parlare di confine italo-sloveno (o jugoslavo). La sua critica ai limiti delle storiografie prettamente nazionali, o al “piano memoriale” attuale che privilegia vittime e testimoni invece di ricerca e documenti sono a mio giudizio corrette.

Cecotti è invece andato sul concreto. Sui media si parla di foibe ed esodo almeno da 15-20 anni – ha affermato – perché allora c’è qualcuno ancora oggi (e talvolta si tratta di insegnanti) che pensa si parli di argomenti sconosciuti? Da 15-20 anni i media ospitano periodicamente articoli su questi temi, ed ogni volta i giornalisti devono scrivere che si tratta di temi di cui non si è in precedenza mai parlato. In un momento in cui il mondo si globalizza e si parla di storia mondiale, in realtà si sta affermando una storia nazionale, o meglio in questo caso una storia regionale (della Venezia Giulia) che si vuole far passare come simbolo e compendio di quella mondiale. Nell’introdurre la tavola rotonda del pomeriggio, Marcello Flores ricordava giustamente che il giorno della Memoria fa riferimento ad un fatto europeo, la Shoah, quello del Ricordo ad un fatto regionale, che ha interessato Istria e Venezia Giulia. Si tratta pertanto di eventi difficilmente paragonabili.

Anna Vinci ha mostrato le radici lontane, prefasciste, del nazionalismo italiano e del pregiudizio della superiorità della cultura latina su quella slava. Ha anche trattato la complessità della repressione fascista, il disaccordo tra le varie istituzioni repressive che controllavano il territorio. Forse dal suo discorso sono rimaste fuori proprio le violenze fasciste. Ha parlato di scuole slovene chiuse, ma vi sono state anche le associazioni culturali (150 solo nel goriziano) e altrettante economiche chiuse a forza, i beni requisiti, le italianizzazioni dei cognomi di cui non ricordo abbia parlato, il divieto nell’uso pubblico della lingua, i morti ammazzati. Forse la Vinci li ha dati per scontati, ma per il pubblico presente non lo erano. Mi è invece piaciuta l’indicazione di estendere la ricerca sulle biografie dei responsabili della politica repressiva anche agli anni del secondo dopoguerra, quando tali personaggi non erano certo scomparsi. E il parallelo (che però riguarda una ricerca ancora da fare) tra Ispettorati creati in Sicilia e Sardegna per la lotta contro la mafia e quello della Venezia Giulia contro sovversivi e sloveni (a questo proposito Vinci avrebbe potuto però accennare al fatto che Gaetano Collotti, uno dei membri dell’Ispettorato più accaniti torturatori e cacciatori di partigiani a Trieste, è stato decorato dall’Italia repubblicana dopo la guerra per i meriti acquisiti nella lotta alla mafia).

Buvoli ha molto insistito sullo scontro tra Partito Comunista Italiano e Sloveno (o Jugoslavo) durante la Resistenza. Certo, lo scontro c’è stato, era importante che il pubblico lo sapesse. Ma vi è stata anche collaborazione. Perché parlare di annientamento della Resistenza italiana nelle regioni rivendicate dagli sloveni? Il Battaglione poi Brigata Trieste ad esempio ha operato dal 1943 al 1945 nella zona slovena vicino all’attuale confine come formazione italiana con proprie bandiere ed insegne, ed ha riunito nell’estate 1944 oltre duemila combattenti prima che una parte andasse a costituire la Fratelli Fontanot all’interno della Slovenia. Certo, era sottoposta a comando sloveno dopo un breve periodo di Comando paritetico. Anche la Natisone ha operato in Slovenia nell’inverno 1944 – 45, fra moltissime difficoltà pratiche e sotto comando sloveno. Ma tra questo e l’azzeramento c’è una bella distanza. Su questi temi mi pare anche importante fare un passo in avanti. Se avessero vinto non i partigiani comunisti ma i monarchici, appoggiati dalla Gran Bretagna, le cose per il confine orientale italiano sarebbero andate meglio? Credo che in quel caso sarebbe stato molto difficile per la diplomazia italiana evitare l’annessione alla Jugoslavia di Trieste e Gorizia. Perché i comunisti sloveni apparivano così poco internazionalisti ed invece “avidi” territorialmente? La Resistenza comunista ha dovuto fare i conti nei paesi sloveni passati nel primo dopoguerra all’Italia con un ambiente sociale decisamente antifascista e nel contempo decisamente nazionalista, e con le critiche delle forze monarchiche jugoslave che li accusavano di fare il gioco degli italiani in nome dell’internazionalismo. C’era anche, certo, la diffidenza verso l’Italia che si riteneva non stesse facendo veramente i conti con il fascismo. Però credo che sarebbe stato difficile in quel contesto per i comunisti jugoslavi avere una diversa linea politica.

Interessante l’intervento di Gloria Nemec, che ha mostrato il carattere non univoco dell’esodo e la varietà di motivazioni che vi stavano dietro. Ha parlato di comunisti (nazionalisti) sloveni e croati mal disposti in Istria verso gli italiani, e questo intento punitivo è stato una delle cause dell’esodo. anche al di là delle effettive intenzioni di chi lo metteva in atto. Intento non necessariamente condiviso dai vertici di Belgrado, l’esodo infatti ha svuotato l’Istria di forze produttive che sarebbero state utili all’economia jugoslava. Nemec ha parlato di slovenizzazione dei cognomi (o forse erano restituiti alla precedente grafia prima della italianizzazione fascista?) e distruzione del tessuto economico della comunità italiana, quasi una repressione comunista e nazionalista uguale e contraria a quella fascista. Dimentica però l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, il teatro italiano di Fiume, il periodico e la casa editrice italiane. Certo che la pressione sugli italiani vi fu, frutto più di una politica rozza e punitiva che di un disegno pianificato dall’altro, ma pure le differenze con la snazionalizzazione fascista.

Spazzali purtroppo non mi è piaciuto, ha saltato tra vari argomenti dando molti suggerimenti senza fornire un quadro complessivo, augurandosi l’avvio di nuove ricerche che però in parte già ci sono. Perché dire che sarebbe utile fare le biografie delle vittime ma che questo ormai è quasi impossibile, mentre è possibile fare quelle dei carnefici? Esistono molti elenchi e biografie di vittime, che lui conosce, dalle quali si capisce ad esempio che non tutti furono vittime ma che alcuni erano bene inseriti nell’apparato repressivo fascista. Dice che il tema delle foibe è stato taciuto per anni nel dopoguerra perché scottante, ma anche lui evita di toccare argomenti sotto i fari mediatici come la quantificazione delle vittime, il contenuto reale della foiba di Basovizza ecc. Incomprensibile per il pubblico presente la parte dedicata ad Udovisi, che avrebbe protetto la popolazione di Portole dalle violenze naziste (comprensibile per noi, che sappiamo che Udovisi, condannato nel dopoguerra dal Tribunale di Trieste per collaborazionismo ma allora latitante in Italia, si è presentato nei primi anni Duemila su tutti i media come sopravvissuto alla foiba nella quale sarebbe stato gettato risalendo fino al bordo. Racconto che alcuni hanno giudicato improbabile, vedi Pool Vice, La foiba dei miracoli, Kappa Vu 2008). Resta la censura, non solo di Spazzali, sui lavori meticolosi ed a mio parer validi di storiche come Claudia Cernigoi o Alessandra Kersevan, ma a questo purtroppo siamo abituati.

Nel convegno – per quanto mi ricordo – non si è parlato di Porzus, e neppure del controesodo dei tremila monfalconesi in Jugoslavia dopo la guerra. Il presidente dell’Anpi, Smuraglia, si è augurato che l’analisi storica porti a superare le contrapposizioni. Effettivamente è l’unica via, e questo è un tentativo da fare. Ma temo sia un’illusione. Dalle vicende della relazione della commissione storica italo – slovena del 2000, commissionata e poi affossata dai politici, si è capito che la riflessione storica interessa a pochi.

Marco Puppini

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