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Riforme del potere. Deciderà il Governo come curarci, cioè sui nostri corpi e le nostre vite?

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Inizierei un ulteriore articolo sulla fine della sanità pubblica, guardando alle cause e alla politica.

RIFORME DEL POTERE, POTERE DI RIFORMARE.

Giustamente, a mio avviso, Furio Colombo intitola un suo articolo: Renzi: riforme del Potere, potere di riformare. (Furio Colombo, Renzi: riforme del Potere, potere di riformare, in il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2015).
Infatti questo voler riformare la Costituzione, portare al partito unico senza ideologia, minacciando gufi e pensanti per conto proprio, volgendo, in tal modo, ad un governo di Yes-men, “correndo” e urlando che «Ogni discussione fa male all’Italia» – come scrive Colombo – impensierisce davvero.
Per questo PD non più di sinistra, ma amorfo e pare piegato al volere di alcuni ceti sociali ricchi e benestanti, e desideroso di diventare il partito unico, è importante fare, non certo pensare.

« La riduzione delle tasse riguarda poco chi vive di lavoro e di pensioni. Ma è un grande passo per gli abbienti, un passo gigantesco per i ricchi. – scrive Furio Colombo – È tutta gente che sa dire grazie e possiede strumenti per farlo. (…). Servono fondi per una operazione e politica, e si prendono dove i soldi ci sono». – scrive pure, riferendosi ai tagli sulla sanità per coprire i mancati introiti da Imu. (Ivi).

Per far cassa «Le ricette non sono assolutamente nuove», – sostiene Rosanna Dettori, segretaria generale della Fp Cgil. «C’è preoccupazione: dovendo tagliare 35 miliardi per il taglio delle tasse si fanno le solite scelte, si va sulla sanità e sugli enti locali che però sono già al collasso». (Bongiorno il mattinale di oggi, http://www.cgilbrianza.it/). E sulla stessa fonte si può leggere anche l’ affermazione della fp Cgil, che sostiene che, togliendo dieci miliardi alla sanità nazionale, la si uccide. (Tagli alla sanità: fp cgil: cosi’ si uccide il servizio nazionale, in http://www.cgilbrianza.it/).

VERAMENTE  PIÙ DI QUALCHE LIRA SI POTREBBE RECUPERARE ANCHE DALLA LOTTA ALLA CORRUZIONE ED ALL’ EVASIONE FISCALE … INVECE… 

Veramente qualche lira, si fa per dire, si potrebbe recuperare anche dall’evasione fiscale e dalla lotta alla corruzione, dico io, ma pare che Renzi, al di là delle parole che si potrebbero definire anche propagandistiche, il più delle volte, visti poi i fatti, continui ad aiutare i ceti ricchi, dato che ha posto, nella nuova norma della delega fiscale, sconti e meno carcere, per chi evade sino a 150 mila euro, il che, in parole povere, viene definito un regalo del governo agli evasori. In proposito Francesco Greco, Procuratore aggiunto di Milano, e coordinatore del Dipartimento dell’Economia, si chiedeva, nel corso di un suo intervento alla Camera il 27 luglio 2015, quanti processi per evasione salteranno con questa norma. (Liana Milella, “Sconti e meno carcere per chi evade le tasse fino a 150 mila euro”, in: http://www.repubblica.it/,6 agosto 2015).

Ma a quanto ammontavano i danni allo stato per evasione fiscale e corruzione, in Italia, l’anno scorso? Nel rapporto annuale 2014 della Guardia di Finanza, vengono evidenziati danni per 4,1 miliardi allo Stato, 8 mila evasori totali, appalti illeciti per 1,8 miliardi. (GdF: 8mila evasori totali, 1 appalto su 3 irregolare, frodati 4 mld allo Stato – in: http://www.blitzquotidiano.it/economia/, 8 aprile 2015, ma anche su molti altri siti e testate giornalistiche, come Corriere della Sera o la Repubblica).
Bastava che il Governo Renzi avviasse un piano concreto all’evasione fiscale ed alla corruzione ed avrebbe recuperato 4 miliardi, senza tagliare la sanità, dico io, da buona massaia.
Invece …

Umanamente a questo punto uno si chiede a cosa puntino Renzi ed i suoi ormai, pare, quasi yes-men,  fra tagli della sanità per aiutare i ricchi a non pagare l ‘Imu, problema ben poco sentito dai poveri, e caro a Berlusconi, di cui Renzi pare una copia ( cfr anche Marco Travaglio, “Trova le differenze”, in Il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2015),  sgravi agli evasori, prestazioni mediche obbligatorie con taglio della  sanità/salute per gli italiani, e della libertà di esercizio della professione per i medici, in un paio di mesi e via dicendo.

E si può parlare ancora  in Italia di uno Stato democratico europeo o bisogna iniziare a leggere l’azione del governo come presa di “Potere” ma non nel senso in cui lo sta esercitando Obama in Usa, visto che le parole d’ordine, per le riforme Renzi- Boschi – Lorenzin, e c.  sono: «verticalizzazione, unificazione, personalizzazione»? (Furio Colombo, op. cit).

Preoccupa questo fare senza pensare, senza avere degli studi qualificati in proposito, senza confronto e discussione, anche fra parti sociali, e rimpiangiamo il tempo che i padri costituenti, proprio perché di diverso partito e con idee diverse, dedicarono per stendere una meravigliosa costituzione, quella del 1948, nata dalla Resistenza, poi spesso disattesa e mai completamente applicata.
Ora siamo giunti ad una aberrazione: il taglio delle prestazioni sanitarie che si concretizza con una ingerenza della politica e del Governo in materia medica, non di competenza,  evitando, invece, di por mano concretamente ed efficacemente,  alla lotta all’evasione fiscale  ed alla corruzione,  di competenza governativa, come la tutela dell’ ambiente.  Io penso che ormai l’Italia sia nel baratro e la Costituzione a due passi dallo scarico di un water.

SU BEATRICE, DIPLOMATA, E LA SUA RIFORMA MEDICA  …. CON LA BENEDIZIONE DEL GOVERNO RENZI 

Per quanto riguarda la scienza medica, quando Beatrice Lorenzin, figlia di un profugo istriano di Medolino e di una fiorentina, e neppure laureata, solo in possesso di un diploma di scuola media superiore, del PdL, poi esponente del nuovo centro destra  (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Beatrice_Lorenzin),  che mi pare, fra l’altro, non molto ferrata in materia sanitaria, sostiene che la RM alla schiena verrà fatta solo nel caso di tumore, (SkyTg 24 ieri l’ altro), solo per fare un esempio,  non capisce che detto esame potrebbe (e uso il condizionale perché non sono medico) servire in fase diagnostica. Ma Dio mio non siamo mica nel medioevo, quando si usavano solo le mani per capire cosa uno avesse! Inoltre se è vero quello che affermano ignoti radiologi, che per un’artrosi al ginocchio bastano i raggi, come fa però il medico a sapere che trattasi di artrosi? Perché un dolore al ginocchio può esser creato dalla rottura del menisco o dalla sua usura, che si vedono solo con una Rm, che io sappia, come alcuni problemi a tendini e legamenti. Inoltre le cure per le varie problematiche che possono presentarsi ad un ginocchio o comparti adiacenti non sono le stesse, e non basta un unguento definito “miracoloso” fino a diventar zoppi, come un tempo, per qualsiasi tipo di patologia. Per non parlare, poi,  del colesterolo previsto ogni 5 anni, ecc. ecc. per tutti ed indipendentemente dall’ età e problematiche del soggetto, ed altre trovate su cui meriterebbe stendere un velo pietoso, se non si trattasse della nostra salute e di quella dei nostri figli. Andate a casa o fate marcia indietro, per favore, prima che noi, mamme e nonne di Italia, vi malediciamo per i secoli a venire, sperando che i nostri nipoti, se non lo hanno già fatto i nostri figli, emigrino all’ estero.

Dal luglio 2014 – secondo Nino Cartabellotta –  «professionisti sanitari e cittadini hanno assistito impotenti alla progressiva scadenza degli adempimenti del Patto per la Salute sotto il segno di una schizofrenia legislativa che ha permesso alla politica di concorrere al “suicidio assistito” del SSN scaricando sempre le proprie responsabilità. Le dichiarazioni dei protagonisti, oltre delegittimare le Istituzioni, fomentano un conflitto tra poli indeboliti, con compromessi sempre più al ribasso. E inevitabilmente scaricano le conseguenze del conflitto tra governo e Regioni su aziende sanitarie e professionisti, ma soprattutto su pazienti e famiglie delle fasce socio-economiche più deboli, […]. Inoltre, nel clima di continua incertezza che affligge la sanità da oltre tre anni, è aumentato a dismisura il disagio di pazienti, professionisti e organizzazioni sanitarie che continuano ad aspettare risposte concrete da numerosi provvedimenti rimasti al palo […]. In altri termini, mentre la politica continua a sbandierare un sistema sanitario “tra i migliori del mondo”, la realtà della sanità pubblica italiana è ben diversa e necessita di un riallineamento degli obiettivi politici, economici e sociali di governo, Parlamento e Regioni, […]. (…). E, mentre la politica rilascia continue (e discordanti) dichiarazioni, l’intermediazione assicurativa si insinua strisciando tra le incertezze delle Istituzioni e contribuisce a demolire impietosamente l’articolo 32 della Costituzione e il modello di un SSN pubblico, equo e universalistico. (Nino Cartabellotta, “Sanità pubblica e tagli. Cronaca di una morte annunciata”, in: http://www.huffingtonpost.it).

E se questo fosse il vero obiettivo della politica che intende sbarazzarsi di una fetta consistente della spesa pubblica? – si chiede Cartabellotta. «In tal caso, – continua – è il momento di svelare le carte sia per governare adeguatamente il doloroso passaggio a un sistema sanitario misto, sia per acquisire la consapevolezza che la Repubblica non tutela più la nostra salute come diritto fondamentale». (Ivi).

IL PARERE DI GINO STRADA DA: IL FATTO QUOTIDIANO.

Comunque di fatto, oggi si sa che le prestazioni tagliate da Renzi –Lorenzin – Gutgeld, sono 208. Non si tratta quindi di tagli alla spesa, ma alle prestazioni, quasi che della vita di noi tutti ora decidesse il Governo, mentre Renzi dà la scalata definitiva al potere. Ed è chiarissimo il cardiochirurgo Gino Strada, oggi, 25 settembre, su Il Fatto Quotidiano. «Chi decide se un esame è inutile, la Lorenzin?» – si chiede. Ritiene la riforma Gutgeld Lorenzin Renzi «l’ultimo scempio ai danni della sanità»;  si domanda come fare a diagnosticare, dato che la Ministra ha deciso che: «alcuni […] esami si potranno prescrivere solo in caso di anomalia pregressa» che un medico non sa come verificare; ritiene, come medico di avere «il diritto ed il dovere» di utilizzare le prestazioni necessarie per accertare le condizioni di salute del proprio paziente. Infine reputa questo regolare per legge le prestazioni mediche da parte del governo, l’ennesino scempio della sanità pubblica, sostiene che si potrebbe spender meno negli acquisti non limitandoli ma scegliendo da chi comperare, dato che Emergency paga 500 euro una valvola cardiaca, mentre in Italia si paga almeno 2000 euro;  che gli ospedali hanno dispersione di calore a causa dei materiali con cui sono costruiti e costano così una follia per il riscaldamento e che avere 20 sanità regionali non fa che moltiplicare a dismisura la spera burocratica, in sanità. (Alessio Schesari, “Non può decidere Lorenzin se un esame è inutile o no”, intervista a Gino Strada, cardiochirurgo, fondatore di Emergency, in Il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2015).
Inoltre Gino Strada, da medico qual è, ritiene una protesta ragionevole lo sciopero dei medici (Ivi) ma si sta ventilando uno sciopero generale del mondo della sanità.

Inoltre, dico io polemicamente, questo decidere del governo e  della Ministra diplomata Lorenzin i piani diagnostico – terapeutici oper- legis,  cui prodest? Alle assicurazioni private? Alla sanità privata? Inoltre quest’ ultima, dalla mia personale esperienza, in alcuni casi, ben venga: le analisi  costano spesso meno di quelle del ssn e gli esiti vengono dati, per certi esami di routine, in giornata, favorendo le cure; le visite sono meno frettolose, ed un paziente può aver garantito lo stesso specialista, soprattutto in caso di malattie croniche, e non vi è tutta quella farraginosa burocrazia … E spesso lavorano nella sanità privata, post pensione, alcuni fra i medici migliori del sistema pubblico. Perché si dovrebbe aprire una parentesi anche sui medici e loro preparazione, ecc. ecc. e sui legami fra il mondo medico e quello della politica, su odi, ripicche, sgambetti interni, o inchini, e via dicendo, nel snn, ma è altra storia. Si veda invece di migliorare la sanità pubblica, tagliando carozzoni, dirigenti e direttori, e mala sanità e forse tutti vivremo meglio in Italia e spenderemo di meno per farmaci e medici.

Ma per ritornare a Beatrice Lorenzin, una sua dichiarazione allarma ulteriormente: «”Non c’è una “caccia” al medico – dice e non sappiamo come le sia venuta francamente in mente una cosa del genere che credo nessuno abbia mai detto – Gli diamo gli strumenti per agire in modo più sereno.» Ed a questa affermazione io credo che molti italiani, fra cui io, tranne forse qualche politico ed i soliti fedelissimi, si sentano presi per il … dalla Ministra, e così dovrebbero sentirsi anche i medici non filo – governativi, non yes- men. ( “Sanità: Lorenzin, non c’è ‘caccia’ al medico, sanzioni solo dopo verifiche, Roma, 23 set., AdnKronos Salute, in: http://www.focus.it/scienza/salute/sanita-lorenzin).
«Le sanzioni amministrative sul salario accessorio scatteranno dopo un eccesso reiterato di prescrizioni inappropriate e solo dopo un contraddittorio con il medico che dovrà giustificare scientificamente le sue scelte. Se non lo farà, solo allora scatterà la sanzione». (Ivi) – precisa Beatrice Lorenzin, agghindata nell’immagine che correda l’articolo, con, pare, due orecchini con perle, alla portata non certo dei poveracci che la sanità se la dovranno pagare e sudare, se riescono, e se avranno un medico filo governativo forse non la vedranno neppure.

COSA POTREBBE ACCADERE A NOI, POVERI CRISTIANI … 

Un laureato, un po’ più anziano di me, oggi mi diceva che, essendosi recato dal medico, vicino al PD, e già parchissimo nella richiesta di prestazioni, si era sentito dire un chiaro no perché pare, dal racconto fattomi, che lo stesso fosse già proiettato nel futuro e stesse facendo le prove generali per non rimetterci neppure una lira ed adeguarsi alle direttive della ministra di centro- destra.  Sarà questa la nuova forma di medicina difensiva? Beatrice, Beatrice, in che “casino” hai messo noi poveri pazienti?

Se poi Lorenzin, stia di fatto decidendo di che vita o morte moriremo noi tutti,  intromettendosi pesantemente nel  ssn, senza confronto alcuno, discussione, consenso se non del governo, che ha però i numeri per approvare, avendo eliminato la dissidenza, come fossimo in un regime totalitario, se lo chiede anche Sergio Cararo, nel suo: “Dovete morire prima. Adesso non è più una battuta” in http://contropiano.org/articoli/item/32993, 24 settembre 2015.

Così egli scrive: « Il progetto di riduzione del capitale umano in eccedenza (ossia le persone in carne ed ossa) ha fatto un altro passo in avanti. Prima l’innalzamento dell’età pensionabile e adesso la riduzione drastica degli standard sanitari, non possono che produrre quell’abbassamento dell’aspettativa di vita che tante preoccupazioni suscita tra i tecnocrati del Fmi, dell’Ocse e dell’Unione Europea. Qualcosa lo avevamo intuito negli anni scorsi leggendo tra le righe documenti e ragionamenti che provenivano da quegli ambienti. Ma adesso quella che sembrava “fiction” sta diventando realtà.
Il governo, attraverso il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha calato le sue carte (o meglio i suoi tagli) sulle prestazione sanitarie. Le prestazioni che saranno soggette a restrizioni salgono da 180 a 208 e riguardano tra l’altro odontoiatria, radiologia, prestazioni di laboratorio e non solo […]».(Sergio Cararo, “Dovete morire prima. Adesso non è più una battuta” in http://contropiano.org/articoli/item/32993, 24 settembre 2015).

A dimenticavo: oggi anche tale Sergio Venturi, sorriso sul volto, quello che manca ora a noi, cittadini d’ Italia non certo abbienti, e foto da copertina di rotocalco con braccia conserte, orologio arancione su giacca morbida grigia, camicia azzurra e cravatta in tinta, con l’aria di quelli arrivati, ricchi e contenti, coordinatore degli assessori regionali alla sanità, carica che mi era francamente sfuggita, ha affermato, dalle pagine di “Il sole 24 ore”, che a lui, visti i tempi difficili, la riforma della sanità Lorenzin  va bene così. (Barbara Gobbi, “Venturi (capofila assessori) a tutto campo: «Tagli? Sono fermo a 113mld. Appropriatezza? Bene Lorenzin. Farmaci? Vogliamo due tetti. Contratti? È una pentola a pressione»”, in: http://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/dal-governo/2015-09-25/»).
Il che significa che va bene o deve andar bene a tutte le Regioni?

Sinora il mio rincrescimento maggiore va al fatto che i miei figli siano rimasti in questo paese, che pare amino molto più della madre,  e non siano volati in Germania, Svizzera o Finlandia. Migrate, ragazzi, migrate… lasciate qui noi vecchi che tanto dobbiamo morire lo stesso e anno su anno giù…  Andrà a finire che ci trascineremo una volta, due volte, dal medico di base, se ci ricorderemo gli orari, per sentirci dire di no, con il sorriso sulla bocca, ed infine desisteremo.

MAGARI SI POTREBBE PENSARE AD EVITARE MAGGIORMENTE LE CAUSE AMBIENTALI DI MALATTIA IN ITALIA …

Magari si potrebbe pensare ad evitare le cause ambientali di malattia e morte in Italia, facendo adeguati controlli sull’ inquinamento, il cibo, l’ aria, sposando l’ uso di bicicletta e mezzi pubblici di trasporto e sostenendo le ferrovie, invece che il trasporto su gomma, ma questa è altra storia, e forse la Lorenzin non ci ha pensato ancora, e Renzi e Gutgeld neppure … E si chiamerebbe prevenzione. E meno malati ci sono, meno costa la sanità.

Ma non ho sentito parlare, sinora, di uno studio dell’ Università Cattolica del Sacro Cuore di Gesù, di Milano, commissionato dal Governo, che prenda in considerazione di agire sull’ambiente per far star bene  … ma forse il Governo non glielo aveva commissionato. Infatti se commissioni di cercare “a”,  chi paghi cercherà “a” …  Ogni ricerca ha alla sua base delle ipotesi di partenza, e forse erano già quelle governative. Mi sarebbe piaciuto, comunque, che qualcuno avesse almeno pubblicato lo studio, unico,  che scusa questa distruzione della sanità pubblica, steso per mano di una università privata, che io sapevo esser specializzata  in storia del Cristianesimo e dintorni.

E chiudo con le dichiarazioni di Cittadinanzattiva  sulla riforma sanitaria Renzi Gutgeld Lorenzin.

IL PARERE DI CITTADINANZATTIVA.

« Esami inutili? Non si decidono per decreto!

Dalle cure odontoiatriche alla radiologia alla risonanza magnetica, dai test genetici alla terapia anti colesterolo: sono 208 le prestazioni che potrebbero essere giudicate inappropriate e che il cittadino potrebbe, di conseguenza, dover pagare interamente di tasca propria. Se la prescrizione non risponderà ai criteri indicati dal decreto in preparazione, la Asl potrà intervenire e sanzionare il singolo professionista nel caso in cui non sia in grado di motivare la sua scelta. Il testo del provvedimento sta per essere inviato alla Conferenza delle Regioni.
Di seguito le dichiarazioni rilasciate all’ANSA da Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato.
Cittadinanzattiva, ‘medico eviterà prescrizione esami per paura’.

«Roma, 23 set -Associazioni di cittadini e pazienti pronti ad unire le loro forze con i sindacati di medici e sanitari per un obiettivo ben preciso: evitare che il decreto sulle prestazioni inutili annunciato dal Ministero della salute si traduca in realtà. “Contro la prospettiva di un medico trasformato in ‘funzionario’ è necessario confrontarsi per azioni comuni”, commenta all’ANSA Tonino Aceti, portavoce del Tribunale dei Diritti del Malato Cittadinanzattiva. “Avevamo già annunciato la nostra intenzione di mobilitarci e siamo pronti – prosegue – anche a farlo insieme a medici e sanitari su questo specifico tema. Non possiamo non intervenire vedendo che si vuol trasformare il medico da professionista che agisce in scienza e coscienza a funzionario amministrativo che esegue comandi dall’alto per fare cassa”. L’inappropriatezza del resto, “non si contrasta per decreto”. “L’appropriatezza si promuove facendo formazione al personale ed ai medici, facendo cultura e utilizzando linee guida: tutto questo è stato dimenticato”. Un decreto simile “incentiverà la medicina ‘astensiva’, il contrario di quella difensiva ma non meno dannosa, che spinge il medico a non prescrivere, perché se prescrive viene multato. Questo proprio nel momento in cui i dati ci dicono che aumenta la popolazione che non riesce ad accedere alle prestazioni per motivi economici e liste d’attesa”. Più che lottare contro l’inappropriatezza si vuole razionare il paniere delle prestazioni garantite. Dimenticando – conclude – che definire cosa è appropriato attiene al medico, e non può esser fatto a priori, prescindendo dal malato specifico».
(http://www.cittadinanzattiva.it/notizie/salute/8085-esami-inutili-non-si-decidono-per-decreto.html).

Laura Matelda Puppini

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Sui tagli della sanità rimando, chi non li avesse letti, ai miei tre precedenti sull’argomento, sempre su www.nonsolocarnia.info:

Laura Matelda Puppini “Ancora sanità. Sui tagli alle analisi e visite ambulatoriali, sulle ultime trovate Lorenzin/Gutgeld, e sui geni della lampada, si fa per dire …”,

Laura Matelda Puppini “Apriamo gli occhi sul governo Renzi. Il paese è in affanno. Dove andremo a finire? Considerazioni condivisibili da Il Manifesto”.

Laura Matelda Puppini “State allegri arrivano i tagli di Renzi/ Gutgeld/ Lorenzin /Boschi/. Addio a sanità e salute?”

L’immagine che illustra l ‘articolo è ripresa solo per questo scopo da: www.mirellaliuzzi.it.jpg.

Laura Matelda Puppini


Divagando, si fa per dire, sulla “scure” Lorenzin sulla salute di noi italiani. Siamo davvero ancora in Europa?

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Premettendo che non sono medico, a me, leggendo l’elenco delle prescrizioni cioè prestazioni, in sintesi, tagliate dalla ministra Lorenzin , e dalla stessa definite ” esami inutili” , a causa di una ricerca sulle prescrizioni legate a quella che qualcuno dell’ Università Cattolica del Sacro Cuore di Gesù, privata, ha definito la medicina difensiva,viene la pelle d’oca. Tagliata tutta l’ odontoiatria, ma quando, sdentati, cioè in piena edulìa, anche perché non viene più praticata l’ablazione del tartaro e non ci ribaseranno neppure più la dentiera, noi italiani anziani o meno,  anche, pare, in età pediatrica, avremo guadagnato, grazie al Governo, mal di stomaco e dolore cervicale, tranquilli: potremo ricorrere a maxillo facciale, che non si sa come potrà intervenire, farci prescrivere una gastroscopia, e fare i raggi alla schiena. A meno che, nel frattempo, non abbiamo guadagnato anche qualche infezione. Tagliate l’alfa amilasi e udite, udite, la creatinina, perché la ministra è sicura che a tutti i reni funzionano e la dialisi non costa nulla, e, tra l’altro, senza creatinina, nessun radiologo inietta un mezzo di contrasto, ma stiamo tranquilli: molta radiologia diagnostica è tagliata, in particolare la risonanza magnetica muscolo scheletrica, cioè quella che serve per studiare le articolazioni (caviglia, ginocchio, anca, polso, gomito, spalla) e i muscoli degli arti inferiori, e che permette al radiologo ed al paziente di non prendere radiazioni.  Se avete qualche importante problema renale, vi verrà diagnosticato con la sfera magica, e se un medico ipotizzasse, a caso, una possibile aritmia: tranquilli: dovete vedere positivo, perché tanto non potete fare gli elettroliti. Se poi ci venisse un tumore, patologia che è in aumento anche a causa di problemi ambientali e di inquinamento, e, per disgrazia, dovessimo ricorrere alla terapia del dolore, sarà preferibile che cerchiamo altro modo di contenerlo perchè la terapia del dolore da metastasi ossee, (presente in molti tumori in fase terminale, cfr. www.airc.it/tumori/ tumore alle ossa.asp), è stata soppressa. Non si sa, poi, perchè non si debba più ricercare la chlamydia,  dato che non è precisato come si debba fare, dopo il taglio di alcune metodiche,  (e quella trachomatis  può portare a stenosi dell’ uretra),  e qualche altro batterio patogeno: vorrà dire che, nel caso specifico,  le infezioni si vedranno ad occhio. Naturalmente questo vale in particolare per i poveri e poverissimi, perchè, per fortuna, pare che il Governo, finchè restano due lire in tasca, permetta di  ricorrere alla sanità privata.

Se poi, da anziani, al medico viene il dubbio che abbiate una anemia da carenza di ferro, patologia presente nei vecchi ma anche in giovani mestruate, fate training autogeno per non adirarvi con il governo, tanto l’ analisi principale non potete farla.
Se avete un cancro, magari ad insorgenza ambientale, sorridete e rilassatevi, tanto non potete più fare una radioterapia stereotassica corporea, che è una innovativa tecnica radioterapica non invasiva che permette di inviare una elevata dose di radiazioni direttamente sul volume tumorale con estrema accuratezza e precisione, provocandone la morte cellulare (necrosi). Tale tecnica viene eseguita in regime ambulatoriale e non richiede alcun tipo di anestesia, il paziente non è in nessun momento radioattivo e può proseguire la sua normale vita familiare. (http://www.humanitas.it/pazienti/trattamenti/radioterapia/658-radioterapia-stereotassica-corporea). È fra gli esami che la ministra sospetta vengano previsti in genere a caso, in un contesto di medicina difensiva, come la radioterapia cutanea. E così dovrete fare una radioterapia non mirata, e diventare radioattivi, ma che vuoi che sia, in fin dei conti nel medioevo era peggio. E via dicendo. 

Insomma per dirla fuori dai denti ed alla veneta pare che : “Xè peso el tacon del buso”, e si rischia, oltrettutto,  di spendere alla fin fine, di più per “rattoppare” poi i guai fatti, con netto peggioramento della qualità della vita degli italiani, anche a livello sociale, lavorativo, familiare, per non fare una creatinina, esame da poche lire, o che ne so.

Se poi mi sono sbagliata correggetemi, e sono mie considerazioni personali senza voler offendere alcuno, per carità. Sapete, ogni tanto vien voglia di scrivere qualche considerazione personale. E c’è da chiedersi se siamo in Europa.

E questo perché Renzi vuol tagliare le tasse sulla casa ai ricchi e non ha problemi, tanto i parlamentari e pure  i loro familiari …

Per quanto riguarda i parlamentari, così si legge su: https://it.finance.yahoo.com/notizie/assistenza-sanitaria-parlamentari-quanto-costa-104108995.html, 23 maggio 2013:

«I parlamentari italiani guadagnano troppo. Almeno rispetto alla media europea. E come se non bastasse l’indennità, unita alla diaria e al rimborso spese, gli onorevoli e i senatori della Repubblica possono anche contare, tra i tanti privilegi, sull’assistenza sanitaria integrativa. Una sorta di mutua “privata”, che come definizione poi è un paradosso, considerato che i soldi per il fondo vengono detratti da una parte dello stipendio lordo dei parlamentari, è bene non dimenticarlo, ossia dai soldi dei contribuenti.

Nei giorni scorsi si è tornato a parlare dell’assistenza sanitaria integrativa perché l’Ufficio di presidenza della Camera ha concesso la possibilità di estenderla anche ai conviventi dello stesso sesso. Sì perché il rimborso per le prestazioni sanitarie dei parlamentari è esteso anche ai conviventi more uxorio – questa modifica è stata introdotta dall’allora presidente di Montecitorio, Pier Ferdinando Casini – e ai familiari. Ma anche ex parlamentari, ai beneficiari di quota del vitalizio, nonché ai giudici e presidenti emeriti della Consulta. In totale ci sono 5mila e 600 iscritti circa che possono tranquillamente godere di rimborsi per prestazioni sanitarie più o meno necessarie. La domanda sorge spontanea: in tempi di austerity e di grave crisi economica, quanto costa questa “cassa mutua privata” alle tasche degli italiani?
All’incirca 12 milioni di euro all’anno. Approssimati per eccesso. Un’enormità, considerato anche che con i 12mila euro mensili che si intasca un parlamentare, la necessità di chiedere rimborsi per un massaggio termale suona più come uno schiaffo alla miseria. I dati sono stati diffusi, già un paio di anni fa, dai radicali che con la loro campagna Parlamento Wikileaks avevano svelato i segreti di Montecitorio e dintorni.

Ebbene, nel 2010 il fondo di assistenza sanitaria integrativa ha rimborsato spese per 10,1 milioni di euro. Un dato in lieve calo rispetto agli oltre 11 milioni del 2009 e ai circa 12 milioni dell’anno prima. Le maggiori voci di spesa sono rappresentate da ricoveri e interventi (3,17 milioni di euro, 31,3 per cento del totale) e odontoiatria (3,09 milioni, 30,5 per cento), mentre un altro 10 per cento circa è costituito dai 973mila euro di rimborsi per fisioterapia. Ben 3mila e 636 euro se ne vanno per l’omeopatia, oltre 745mila euro tra analisi e accertamenti. Il dato curioso è che negli scorsi anni 153mila e 139 euro sono stati spesi per il rimborso del ticket, ossia deputati, ex deputati e familiari hanno deciso di rivolgersi al servizio sanitario nazionale, pagando, per poi richiedere il rimborso della spesa alla Camera.

Per avere diritto all’assicurazione sanitaria integrativa occorre iscriversi al Fondo di solidarietà – esiste sia per i senatori sia per i deputati – che eroga un rimborso, sino alla cifra stabilita dal regolamento. Fino all’anno scorso il tetto massimo di spesa era di mille e 860 euro all’anno. Superata questa soglia, onorevoli e senatori dovrebbero mettere mano al loro portafoglio. La quota di adesione al Fondo è di circa 550 euro al mese, che vengono trattenuti dallo stipendio lordo del senatore di turno. A conti fatti, mica male. Anche perché, sempre curiosando tra i dati resi pubblici dai radicali, ci si accorge che ben 7,3 milioni di euro degli oltre 10 di rimborsi vanno agli ex deputati. Come se non avessero già diritto ad incassare una pensione dopo aver passato 5 anni seduti sugli scanni del Parlamento. Le voci di spesa sono varie: gli occhiali valgono 488mila euro, le protesi ortopediche 37mila e 412 euro, quelle oculistiche valgono 186mila e 400 euro, solo 7mila e 653 euro per l’assistenza infermieristica. E fino a qui, si potrebbe anche pensare a cure mediche necessarie alla salute. Ma anche al benessere. Oltre 200mila euro sono stati rimborsati per le cure termali e quasi 260mila per la psicoterapia.
Insomma gli aventi diritto all’assistenza sanitaria integrativa sono un piccolo esercito. Puntualmente pagato con i soldi dei contribuenti. I quali, però, non possono certo accedere a questi privilegi perché il fondo è riservato esclusivamente ai parlamentari. Che con il generoso stipendio mensile, non si capisce proprio perché debbano farsi rimborsare la visita medica o il massaggio della moglie con i nostri soldi».

E chiudo qui, perché non posso neppure ” farmi un fegato così” come si suol dire, non sapendo se potrò eseguire poi una banale bilirubina, e ast, alt, ggt: ma pare di sì, per ora, perchè se un ministro può indicare prestazioni  mediche possibili o no per il ssn oggi, dallo stesso definite inutili, lo potrà fare anche domani.  Inoltre non si capisce ancora il rapporto pubblico privato che il Governo vuole predisporre, anche tenendo conto del ruolo del medico di base o di medicina generale, che dir si voglia, che esce stravolto dalla riforma,  alla luce dei tagli di donna Beatrice e delle sue riforme epocali,  e delle ingerenze governative nella professione medica.

Pensate che in una prima bozza, si volevano tagliare i farmaci oncologici salvavita!

Invito chi non lo avesse fatto, a leggere i miei precedenti stesso argomento.

Laura Matelda Puppini

 

La Regione Fvg risponde a: “Carnia. Verso altre forme di turismo possibile che coniughino arte e paesaggio”. E ora andiamo avanti. 2 ottobre 2015: la mia proposta per continuare.

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Avuto il permesso di pubblicare questa risposta, giuntami in forma personale ieri,  lo faccio davvero volentieri, per far sentire ai Carnici che la Regione, in particolare Debora Serracchiani e Sergio Bolzonello,  non sono lontani da noi, anzi.

Gentilissima,

la Presidente mi ha inviato, in quanto assessore al  turismo, la Sua nota con la quale evidenzia le bellezze culturali, storiche e architettoniche presenti in molti luoghi della Carnia e come queste potrebbero essere valorizzate a fini turistici.

Condivido assolutamente quanto Lei  segnalato sulle potenzialità dei nostri territori  e sulla necessità di una sistematicità di catalogazione, ma ancor di più sulla necessità di interventi di restauro privilegiando quelle situazioni che si trovano in uno stato di maggiore degredo.

Alcune cose, come anche da Lei sottolineato, sono già fatte, vedi il grande patrimonio di catalogazione realizzato dal Centro di Villa  Manin, altre come gli interventi andranno sicuramente e inevitabilmente  concordate con la  Sovraintendenza, ma credo che un programma di interventi vada assolutamente predisposto.

Per quanto riguarda la valorizzazione di determinati luoghi alcune cose sicuramente si stanno facendo, sostenendo iniziative private, come ad esempio il  “Cammino delle pievi” che abbina cammini di fede a valorizzazione dei luoghi  e altri progetti che enti pubblici (comuni) o privati ci sottopongono  per far conoscere  le peculiarità artistiche dei loro territori.

Infine, ma non certamente ultimo, è il lavoro che sta facendo Turismo FVg per valorizzare il territorio regionale e le sue peculiarità.

Credo comunque che diverse cose di quelle che ci ha segnalato potranno trovare adeguato riscontro nel nostro lavoro dei prossimi mesi.

La ringrazio per il contributo che ha voluto fornirci e per la passione che sta mettendo per far conoscere e apprezzare la Carnia e l’intero Friuli Venezia Giulia

La saluto cordialmente

 

                                                                                                                                                                                 Sergio Bolzonello

 

LA MIA PROPOSTA PER CONTINUARE.

A mio avviso, relativamente ad un progetto per la tutela, la manutenzione, la salvaguardia, delle opere d’arte sacra e dei siti ove si trovano, spesso piccole chiese carniche soprattutto frazionali, ritengo che sia importante che l’Arcidiocesi, attraverso l’Ufficio Beni Culturali, Monsignor Sandro Piussi referente, che io sappia, e la Regione Friuli Venezia Giulia attraverso l’Istituto Regionale per il Patrimonio culturale di Passariano, o altro ente di competenza, mettano insieme i dati in loro possesso, creando un database comune (per esempio unificando i dati sui CD in possesso dei parroci attraverso l’Ufficio Beni Culturali Arcidiocesano con quelli anche valutativi dello stato della opere in oggetto, dell’Istituto Regionale per il Patrimonio culturale (ex Centro di catalogazione) di Villa Manin di Passariano) per poi verificare lo stato attuale di dette opere di arte sacra, recandosi in situ a visionarle, dando loro un valore globale ai fini della priorità di intervento manutentivo se necessario. Per ogni opera è inoltre indispensabile sapere se vi sia stato restauro, da chi fatto, con che modalità. Infine io credo che sarebbe importante creare un database pure delle pubblicazioni prodotte sulle chiese carniche, anche da siti, e sui progetti presenti e attuati relativi alle stesse. A livello pratico manca l’aspetto finanziario ed il contatto tra l’Arcidiocesi e la Regione Friuli Venezia Giulia per un progetto comune, che potrebbe collocarsi come proposta, anche da ampliare, all’interno degli stati generali della montagna. Per quanto riguarda i percorsi per brevi marce non competitive e di interesse artistico-culturale, mi pare importante che ogni comune, attraverso per esempio le pro – loco e con la collaborazione delle parrocchie, individui gli stessi, che potrebbero essere anche quelli delle rogazioni, e che vengano evidenziati quelli già utilizzati, a chilometraggio variabile, arricchendoli, pure, con nuove proposte, creando un altro database.

Naturalmente questa è una mia proposta, ma vorrei davvero che ne giungessero, entro breve però, altre.

 

Laura Matelda Puppini

 

E tu seis chi a contale, Annibale… Storia di un partigiano friulano della Divisione Garibaldi Natisone.

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Intervista di Laura Matelda Puppini ad Annibale Tosolini, nome di battaglia “Ulianov”, garibaldino della Divisione Natisone, nato a Tricesimo il 18 agosto 1921. Molinis di Tarcento, 6 settembre 2013.

Tosolini:

«Sono nato a Tricesimo il 18 agosto 1921, e da piccolo abitavo a Leonacco. Mio padre si chiamava Tosolini Lino Valentino, ed era contadino – fittavolo, mia madre si chiamava Rita Ellero ed era di Tricesimo.
Quando abitavo a Leonacco, prima del 1937, anno in cui ci siamo spostati qui, a Molinis di Tarcento, eravamo in 19 nell’abitazione: 9 che formavano il nucleo familiare di mio papà, 4 quello di barbe Àgnul, 3 an veve Toni ( 3 ne aveva nel suo nucleo Antonio), barbe Cornelio a l’ere lât fur di cjase e al veve, alore, ancje lui dos frututis ( lo zio Cornelio era andato fuori casa ed aveva, allora, anche lui due bambine). Per sfamare tutti facevano tre polente così ( e indica una grande circonferenza n.d.r.) ed era solo polenta! Si mangiava pane due volte all’anno: a Pasqua ed a Natale. Barbe Àgnul faceva da capofamiglia: andava a macinare il grano e portava la farina al fornaio e il fornaio faceva il pane. E venivano una gerla e due ceste di pane, due volte all’anno. E per il resto del tempo solo polenta! In paese c’era il forno privato e facevano le pagnocche. E andavamo a cuocerle là. E poi facevano il pan di sorc, che era fatto di cinquantino, segala e orzo, e a metevin une fuee di verze dentri in tal for ca no si tachi ( e mettevano una foglia di verza dentro nel forno perché il pane non si attaccasse)».

Laura dice che forse le condizioni di vita di un tempo permisero a molti di sopravvivere alla durissima vita partigiana. Aggiunge che una volta morivano molti bambini, vi era una selezione naturale.

Tosolini:

«Une volte a scampanotavin quant cal murive un frut piciul, invecit cumò, cu la scienze ca è, cu la medisine ca è a iu guariscin ancje dentri, prime di nasci, cheste è la veretât (ed una volta suonavano a lungo le campane quando moriva un bimbo piccolo, invece ora con la scienza che c’è, con la medicina che c’è li guariscono anche dentro la pancia, prima che nascano, questa è la verità). E quando ero bambino –  continua –  se moriva uno di 40 anni si diceva: ” Dio, che vecchio quello là!”  E adesso vanno avanti fino a 100!»

«A 17 anni sono andato a lavorare come famei ( famiglio, domestico) là di Snaidar (probabilmente friulanizzazione di Schneider n.d.r.), e l’ho fatto per due anni. Snaidar aveva una officina meccanica a Tarcento quando è andato militare mio fratello maggiore (1) , e aveva anche prima mucche e campi.
Quando era da falciare un campo intero, chiamava un uomo a darmi una mano. Aveva allora 5 mucche, e io dovevo mungerle alla mattina ed alle 5, la sera. Bisognava poi portare il latte nella latteria, in questa davanti alla casa. Lavoravo di giorno e venivo a dormire a casa. Partivo alle 4 del mattino e tornavo alle 10 di sera, e lavoravo per 3 lire al giorno! Però non ho mai visto una lira perché le davo sempre a mio papà, che non aveva molte altre entrate. E mio papà, non mi vergogno a dirlo, andava a prendere il mangiare con il libretto (2) e quando aveva soldi perché vendeva un po’ di granoturco o un vitello andava a pagare».

Laura dice che con il sistema dei libretti a credito, in Carnia, più di uno si era indebitato fino a mangiarsi casa e terreni.

Tosolini dice che a Molinis uno si era mangiato la casa perché faceva segnare i quarti di vino che beveva all’osteria. Precisa che una volta c’erano solo il quarto, il mezzo litro ed il litro di vino e che anche lì approfittavano.

Tosolini:

«A 19 anni e 5 mesi sono andato militare. Ero della Guardia alla Frontiera. Il 15 febbraio 1940 ho fatto la visita di leva e sono stato chiamato alle armi nel 1941, per la precisione il 20 gennaio 1941.
Sono stato mandato guardia alla frontiera a San Pietro del Carso (3), 25° settore. Nel mese di marzo abbiamo fatto tutti il giuramento a Sagrado e dopo siamo andati alle “opere” in zona monte Nevoso, sul monte Obrame . C’erano tre fortini sul monte Obrame (4)  (adesso sono slavi là – precisa Tosolini), uno a Fontana del Conte (5) e uno a Casa Marsu (6) . Casa Marsu era dove portavano i viveri, lì era il rifornimento viveri anche per noi che eravamo sul monte Obramec.

Nel 1941, quindi, mi trovai a combattere, per l’Italia e contro la Jugoslavia, sul fortino. Il nemico ha però solo bombardato una notte.
Ci siamo trasferiti poi un mese in Jugoslavia e dopo ci hanno rispedito indietro e ci hanno portato a fare il campo a Fontana del Conte. Finito il campo, sempre nel 1941, ci hanno portato a Delnice (7) e si faceva la guardia sulla ferrovia … di pattuglia. Ho fatto 23 mesi a Delnice. Poi sono venuto in licenza, nel marzo 1942. Quando sono rientrato ho trovato un funerale di dieci militari che erano stati uccisi dai partigiani. Era incominciata la vita partigiana di Tito (8). L’ inverno, del 1942- 1943, sono venuti 3 metri di neve e 36° sotto zero, e facevo servizio sulla ferrovia. C’erano 36° sotto zero, insomma quasi 40° sotto zero come in Russia, dove c’erano anche 50° sotto lo zero. E lo si sapeva perchè arrivava sempre il giornaletto. Ci mandavano sempre la propaganda, quando eravamo militari.

Ed è venuta tutta quella neve, e venivano i ribelli, a iu clamavin i ribei, a vignivin a trai in staziòn e nou ci si platave e quant ca si vignive dentri a si ere miez congelāts: lis mans, lis vorelis, parfin lis guancis … A mi è vignude una plae cussì a mi in Croazie. A erin trentesis grads sot zero e trei metros di nêv! Alore i vecjos, ca vevin ottante ains, a no si visavin ca iere stade cussì, mai. ( E venivano i ribelli, i partigiani li chiamavano così, i ribelli, venivano a sparare in stazione contro di noi e noi ci si nascondeva per non esser colpiti e per rispondere al fuoco. E quando si rientrava si era mezzo congelati: congelate le mani, i piedi, le orecchie, persino le guance. A me è venuta una piaga sulla guancia, per il freddo, in Croazia. E gli anziani ottantenni dicevano che non si era mai vista, a memoria, una situazione del genere). I partigiani hanno iniziato ad attaccarci nel 1942. E il confine era lì dove ero io militare, da Postumia fino a Fiume.
Insomma, quant chi hai fat vint ains i eri già stat in guere e tornat indaur. In genâr, quant i soi lat militar, i vevi disenûv ains e cinc meis; il disevot avost i compivi vinčh ains e ieri là da siet meis! (Insomma, quando ho compiuto vent’anni ero già stato in guerra e ritornato indietro.  In gennaio, quando sono andato soldato, avevo 19 anni e cinque mesi; il 18 agosto, quando ho compiuto vent’anni, ero militare da sette mesi!).

Nel 1943 hanno ucciso un mio fratello in Grecia, che si chiamava Alcide Tosolini, artigliere (9) .
Alcide era nato nel 1920.
Nel 1943, verso il 20 luglio, è giunto un telegramma che era morto mio fratello. Sono andato dal comandante e mi ha detto che non poteva mandarmi in licenza, però mi ha promesso che mi avrebbe mandato, in settembre, per servizio ad Udine, a prelevare del materiale per il battaglione e (anche qualche giorno a casa. Sottinteso n.d.r.).

Ed era il 3 settembre 1943 quando siamo partiti per Udine. Ho fatto 5 o 6 giorni a casa ed è venuto l’armistizio l’8 settembre. E allora sono andato a Palmanova ma la caserma era chiusa. Ho trovato chiuso. E sono ritornato a casa.
Ero andato a Palmanova per riprendere servizio ed incontrare il capo- squadra del gruppo, che mi pare che fosse formato da 4 soldati fra cui io ed un caporal maggiore, anche mio amico, e ho trovato chiuso, e ho saputo, tramite il comandante della zona di Palmanova, che bisognava arrangiarsi. Mi ha detto così, che bisognava arrangiarsi.
Così sono andato alla stazione. E lì è arrivata una tradotta, che doveva andare a Verona e proveniva dalla Grecia, e sono scappati tutti. Io sono riuscito a prendere un treno per arrivare ad Udine e poi sono andato subito a casa. Ed era il 9 o il 10 settembre 1943. Sono venuto a casa e poi sono ritornato a Palmanova a prendere lo zaino, che avevo lasciato in deposito in stazione, dopo essermi messo abiti civili.

E poi ho iniziato a lavorare. Mio papà aveva un cavallo e con quello ho fatto trasporti di legname ed altro per la Todt, al “ristoro” di Tarcento. Ed era il 1944. Però collaboravo (con i partigiani n.d.r.).
Avevo il fratello più giovane, nato nel 1923, che era stato chiamato dalla R.S.I. ed era stato mandato a Montespino (10), situato lungo la sponda sinistra del fiume Vipacco, un poco a nord della confluenza di questo con il torrente Branizza, come altri. E non so se sono scappati o se li hanno presi i partigiani là sul Carso, ed è diventato partigiano. E non lo so dove sia andato a finire ma su in montagna.

Ed era il mese di giugno 1944, il giorno di San Pietro. E stavo lavorando, quando hanno ucciso quattro a Villafredda.
E c’era una donna, una partigiana, era una staffetta. Si chiamava Derna Vattolo (11) , e aveva un nome di battaglia che non ricordo. E una volta io ho capito che lei faceva la staffetta, e l’ho capito quando hanno ucciso i quattro ragazzi a Villafredda di Premariacco (12) . Ed allora era con il Cln anche il primo sindaco di Tarcento (13), che era già vecchio allora, che faceva il falegname lì di Ceschia e si chiamava Giovanni.
Io sono andato partigiano perché sono venuti i Cosacchi a casa mia, nel mese di agosto del 1944, il 15 – 20 agosto, non so di preciso la data.
Mi hanno arruolato, nella Garibaldi – Natisone, a Canalutto (14). Io, come già detto, lavoravo con il cavallo di papà per la Tot al “ristoro” di Tarcento. Portavo legna, un po’ di ghiaia … E ho saputo, tramite una persona, che i tedeschi stavano facendo una pista per gli apparecchi, una pista da Codroipo a Palmanova, per fare atterrare gli apparecchi piccoli, le cicogne. E ero venuto a sapere che certi (lavoratori per la Todt n.d.r.) li portavano a Codroipo, li tenevano lì una settimana o due e poi, dato che avevano bisogno di lavoratori in Germania, li portavano in Germania a lavorare. E io l’ho saputo, e quando sono arrivati qui i Cosacchi sono scappato perché non volevo più stare qui. Avevo un fratello sposato con due figlie che è rimasto a casa, ed uno che era già andato con i partigiani. Eravamo in quattro fratelli, uno del 1915, uno del 1920, io del 1921, uno del 1923. Quello del ’20 è morto in Grecia. Il più giovane, quello del 1923, è stato il primo ad andare partigiano, è scappato da Montespino o è stato preso e poi è diventato partigiano, non lo so, ed era con la Garibaldi Natisone – Btg. Manin.

Io ho trovato mio fratello quando sono andato partigiano (15). Mi hanno messo con il Manin dato che eravamo, forse, della stessa zona. Mi hanno tolto la carta di identità ed i soldi, e mi hanno dato il nome di battaglia “Ulianov“. La carta d’identità la toglievano perché non fossimo riconoscibili, perché se ci riconoscevano subiva poi la famiglia.
E dopo 5 mesi ci hanno portato di là. Abbiamo passato l’Isonzo la notte di Natale, il 25 dicembre 1944. Prima ero a Nimis, nella Zona Libera Orientale. C’erano tre Brigate, no, però la mia era qui, a Nimis. Tre Brigate formavano la Divisione, e c’era la Seconda Brigata ed era a Nimis ed io vi facevo parte.
Dopo il 29 settembre 1944 (16) siamo andati su, al Campo di Bonis (17), e poi abbiamo girato finché non è passata un po’ la burrasca. Quando Alexander, l’Inglese, ha detto di andare a casa, ci hanno portato oltre l’Isonzo.
Ci hanno portato oltre l’Isonzo ad aspettare la primavera.
Ed erano anche quelli della Osoppo vicino lì. “Bolla” era a là di Porzûs (italianizzazione di “a l’ere là di Porzûs, cioè era in zona Porzûs n.d.r.), a l’ere a lis Farcadicis par furlan, Canebola, Porzûs, Claps, a Robedischis e verso Platischis (18) e Montmaiôr (19), tutti quei paesi lì insomma.
Dopo la fine della Zona Libera, prima di passare l’Isonzo, andammo su, in montagna, verso Robedischis, in quella zona là.
Qualche scaramuccia sempre, ma si cercava sempre di squagliarsela, no. ( Non si cercava lo scontro diretto n.d.r.). C’era una compagnia del IX° Korpus a Montemaggiore, ma loro non attaccavano mai, erano lì solo per tirare vicino la gente, verso i partigiani».

Tosolini aggiunge che un garibaldino come lui non sapeva aspetti relativi alle scelte dei Comandi e notizie riguardanti il IX° Korpus:  si ubbidiva e vi era disciplina.

E continua:
«Ho trovato più disciplina io sulla montagna che quando ero militare. Non si poteva sbagliare. Quello che comandavano loro si doveva fare. O bene o male ma si doveva fare. O risolvere o non risolvere.
Dopo passato l’Isonzo siamo andati a Circhina, che adesso è Cerkno (20).
Abbiamo passato l’Isonzo senza le braghe e con i vestiti sulla schiena. E dopo passato l’Isonzo avevamo asciugamani per asciugare in particolare i piedi perché, dal freddo che c’era, i piedi, se bagnati, si attaccavano ai sassi grossi, a causa del gelo. Il ghiaccio forma ghiaccio subito, in acqua no, ma fuori le pietre si attaccavano ai piedi».

Laura lo interrompe e gli chiede se avevano vestiti, coperte…

Tosolini:

«Chi aveva una coperta era fortunato. I vestiti erano stracci e tanti di loro erano senza scarpe e si fasciavano i piedi con gli stracci, un sacco, qualcosa, mangiare quando si poteva, quello che c’era, con il freddo e con la neve… Ma si mangiava anche forse niente.
Quando si aveva il tempo per mangiare, quando non si camminava, quando si riposava, quando si poteva far da mangiare, preparavano da mangiare … qualche patata, qualche ravanello, e le foglie dei ravanelli, facevano così. Dopo, se c’era la carne, davano la carne, ma non si trovava in tutti i tempi. Per il mangiare c’erano i rifornimenti inglesi ma non arrivavano sempre. Perché se lo sapevano i Domobranzi e i Salò e i Tedeschi che erano là, li impedivano.
E dopo passato l’Isonzo siamo andati a Circhina. E là c’era il comando degli Sloveni, del IX° Corpus, e noialtri andavamo su a Tribussa superiore (21), o si faceva qualche attacco, e c’erano partigiani a Bukovo (22) , e il btg. Manin lo hanno portato a Paniqua (23) , a Pian di Paniqua.
La notte di Capodanno dovevamo passare Selo per andare sul Pian di Paniqua. Invece ci hanno attaccato i repubblichini ed i tedeschi e nel mio battaglione da 180 che eravamo siamo rimasti in 11 o 12 (24). Hanno preso due pattuglie. Dovevo andare anch’ io di pattuglia ma avevo mal di pancia e non sono andato».

Tosolini sospende il racconto per l’emozione e dice “Ioi, ioi!” E aggiunge: «Stasera, per ricordare, non dormirò più». E poi continua il racconto.

Tosolini:

«Alcuni morirono di fame perché, nell’ultimo tempo, siamo rimasti due settimane senza mangiare anche se avevamo due torelli con noi, perché dovevamo spostarci, e si camminava sempre nella notte, e sempre in fila indiana. Ci si addormentava camminando e si sbatteva la testa sullo zaino di quello che era davanti. E eravamo sempre sulla montagna, dove non arrivavano i nemici. E avevo 23 anni … e ora nessuno me ne dà 92.

Il comandante del battaglione era “Rocco”, “Rocco” era il suo nome di battaglia. Il suo cognome era Venuti, si chiamava Venuti (nella realtà pare invece Giorgiutti n.d.r.) Ferdinando mi pare, (25) ma a son passâts settante ains sacrament! (ma sono passati settant’ anni, sacramento!) . Ero del C.V.L. , seconda Brigata Picelli, comandante Gino Lizzero, “Ettore”, fratello di Mario. Non ricordo, invece, chi era commissario politico. Io sono andato là perché avevo il fratello della Natisone, ma a Molinis e Pradandons eravamo 17 partigiani, compresi quelli della Osoppo. E ora sono rimasto solo io, se ne sono tutti andati».

Laura chiede se ha partecipato ad azioni di guerra con la Natisone.

Tosolini dice che gli hanno rilasciato un attestato, finita la guerra, dove si vedono anche le azioni belliche. Lo dà a Laura che inizia a copiare le date delle azioni: 1 settembre 1944; 22 settembre 1944; 27 settembre 1944; 7 febbraio1945; 17 marzo 1945; 24 marzo 1945; 1 aprile 1945; 30 aprile 1945.
Poi Laura guarda il battaglione e dice a Tosolini che lì è scritto btg. Miniussi.

Tosolini: «No, no, Manin! Quello lo hanno scritto al distretto».

Tosolini dice che gli hanno detto che sapevano già a quale battaglione apparteneva, quando ha tentato di dirlo.

E continua: «E mi hanno concesso la croce la merito perché ero partigiano ( e la mostra a Laura), e mi ha concesso il distretto la croce al merito di guerra (26) come partigiano combattente, come gregario. Però io comandavo una squadra. Il mio nome di battaglia, come detto, era “Ulianov“».

Laura legge le malattie contratte e vede che Tosolini ha contratto la nefrite. Continua dicendo che molti partigiani, nel periodo della resistenza, avevano contratto malattie legate al freddo, alle condizioni di vita ed all’alimentazione, per esempio malattie polmonari: enfisema, bronchiti, pleuriti, polmoniti, tbc, malattie renali, malattie gastroenteriche ed intestinali.

Tosolini:

«Ho avuto anch’io la diarrea a sangue, nell’aprile 1945, mi ricordo che era prima del primo maggio, quando ci hanno portato sul Carso, a San Daniele sul Carso (27), dopo ci hanno portato a Sesana (28). Dovevano mandarmi a Trieste ma perché avevo i vestiti tutti stracci non sono andato. Dopo un giorno ci hanno chiamato per passare una visita dal dottore della brigata Italia. Il dottore mi ha visitato e mi ha trovato la nefrite. Avevo le gambe gonfie così (e indica una circonferenza con le mani n.d.r.) e non potevo neanche camminare. E dopo mi hanno mandato all’ospedale di Gorizia ma io, invece, sono venuto a Udine, ho fatto una visita all’ospedale di Udine. Ed era dopo la Liberazione, ai primi di maggio. Ed ad Udine mi hanno mandato a casa. E qui mi hanno ricoverato ma andavo in ospedale di giorno e tornavo a dormire a casa.
C’era un medico, chel di Tors, cal veve fat un ospedalut lassù dal ricovero. Ma cumò no mi visi il nom. (C’era un medico, originario di Tors, che aveva costruito un piccolo ospedale a Tarcento dove c’è il ricovero. Ma ora non ricordo il suo nome).
C’era questo dottore, finita la guerra, per partigiani, combattenti, ragazzi che si erano fatti male con le bombe e via dicendo. Quando ha saputo che ero io, mi ha fatto la visita lui e mi ha ricoverato. Io, che da mesi non vedevo nessuno dei miei, andavo a dormire a casa e poi andavo su, all’ospedaletto, e lui mi curava. Ma no sai ce ca si clamave …
E da partigiano ma anche da soldato, ho avuto i pidocchi. I ai avût tančh di chei pedoi io! A l’ere l’aiar da Slovenie, i dis io cumò! I mi recuardi chi vevi une canotiere, e me la han giavade. I soi stat doi dis senze mangiâ quant chi iu hai vioduz! Iu vevi inta fasce! I vevi une fasce dintor. ( Ho avuto tanti pidocchi anche. Era l’aria della Slovenia che li favoriva, dico io ora! Mi ricordo che avevo una canottiera e che me l’hanno fatta togliere. Sono stato due giorni senza mangiare quando ho visto quanti ne avevo! Li avevo nella fascia che indossavo, una specie di panciera).
Qualcuno che veniva da là, dalla Slovenia, aveva anche il tifo petecchiale … E quant ca si veve i pedoi, vie dučh in une stanze e un al veve la macchinette e nus ha depilat  dučh i pei! ( Quando avevamo i pidocchi: via tutti in una stanza. E uno aveva una macchinetta e ci depilavano tutti i peli!).

Tosolini:

«Dopo la guerra facevo il contadino. Facevo qui il contadino, come mio papà che è morto nel 1948. E io, come lui, ero fittavolo da Pividori Giuseppe, “Bonat”. Io avevo la metà dei bozzoli ed il resto (della produzione n.d.r.) era tutto mio. Eravamo fittavoli, no, si pagava l’affitto del terreno. Hanno fatto nel 1937 il contratto di affittanza mio padre e mio fratello maggiore, ed allora si pagava 3.600 lire all’anno e metà dei bozzoli. Mio fratello maggiore faceva il meccanico e nel 1938 ha messo su l’officina ed è andato avanti. Si è sposato ed ha avuto tre figlie».

Laura parla poi di quanto narrato da Bruno Cacitti e cioè che i giovani che andarono partigiani non avevano spesso una precisa formazione politica, perché erano cresciuti sotto il fascismo, e così la scelta della formazione partigiana a cui aderirono spesso non era dettata da motivi ideologici.

Tosolini:

«Io si cjatavi chei dal fazolet vert i lavi cun chei dal fazolet vert ( Io se avessi incontrato quelli con il fazzoletto verde sarei andato con loro). Io no hai mai avût un partit. I soi stat sì fascist… Ma i fascisti facevano pagare la tessera (di fatto obbligatoria n.d.r.) a fasevin paiâ un aquilin, cinc liris. E a fasevin paiâ la tessere e dopo a fasevin il cors pre- militâr. A nus preparavin, a nus insegnavin cemut ca l’ere il fusîl, cemut ca ere la mitrae e dutas ches robas alì. Cusì a si ere già preparaz ( a la guere n.d.r.) a si saveve cemût ca l’ere il fat. Però an han sbagliāt, cemût chi hai dit prime: di ce ca han prometut a l’ere dut il contrari.
( Io non ho mai avuto partito. Sono stato solo fascista. Ma i fascisti facevano pagare la tessera e la facevano pagare un aquilino, cinque lire. E facevano pagare la tessera e dopo ci facevano il corso pre- militare. Ci preparavano, ci insegnavano come era fatto un fucile ed un mitragliatore, e tutte quelle cose lì. Così eravamo già pronti alla guerra, e si era addestrati. Però hanno sbagliato, come ho detto prima, perché di quello che hanno promesso non abbiamo visto nulla ma invece tutto il contrario!).

E aggiunge che egli però non ha raccontato ai suoi figli quello che ora dice a me, «perché allora nessuno diceva niente».

Laura sottolinea il valore di tramandare la propria esperienza di vita anche partigiana ai figli e nipoti ma Tosolini ritiene che i giovani siano poco interessati.

Poi racconta fatti personali, dei suoi figli e nipoti di cui è orgoglioso e della piccola Rebecca, la nipotina … Narra anche dei suoi mali più recenti, e dice «I hai avût un pôc di dut. ( Ho avuto diverse malattie)».

E la signora Bianca, la moglie, chiude dicendo:

« Ma tu seis chì a contale … »

E Tosolini: «E a fa inrabiā te».

 

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  1. Il fratello maggiore di Annibale Tosolini era nato nel 1915.
  2. Dato che non aveva soldi subito per pagare, il costo della merce veniva segnato sul libretto ma in Carnia il dovuto lievitava per eventuali interessi aggiuntivi.
  3. Attuale Pivka, in Slovenia.
  4. Trattasi del monte Obramec in Slovenia, alto 1131 m. Allora era in territorio italiano e poi fece parte della provincia di Lubiana.
  5. Fontana del Conte, in sloveno Knežak, è un paese frazione del comune di Bisterza, in Slovenia. (it.wikipedia.org/wiki/Fontana_del_Conte‎).
  6. Forse Celje, così chiamata perché vi erano i resti di un tempio di Marte. Infatti casa Marsu potrebbe essere un termine italiano ed uno sloveno per indicare. casa di Marte- Marsu in sloveno).
  7. Piccolo insediamento sulle colline a nord di Poljane nad Škofjo Loko attualmente nel Comune di Gorenja Vas-Poljane in Alta Carniola regione della Slovenia. (en.wikipedia.org/…/Delnice,_Gorenja_Vas–Poljane‎ n.d.r.)
  8. Qui intende, probabilmente, la resistenza slovena. Infatti: ”L’ esercito partigiano sloveno divenne formazione militare organizzata nella primavera del 1942” si legge in: Zdenko Čepič, Damijan Guštin, Nevenka Troha, La Slovenia durante la seconda guerra mondiale, ifsml, 1012, p. 114.
  9. Precisa, poi, che la salma fece rientro in Italia, con tante altre, nel 1954, e che andò con altri familiari ad attenderla a Bari. Poi fu tumulata nel sacrario del monte Bernadia, almeno così par di capire, anche se i familiari avrebbero preferito riposasse nel cimitero di Tarcento.
  10. Anche Dorimbergo, in sloveno Dornberk. (:it.wikipedia.org/wiki/Dorimbergo‎, in sloveno Dornberk).
  11. Derna Vattolo, nome di battaglia Ivana, figlia di Eliseo Gatti e Giuditta, era nata a Molinis di Tarcento il 17/9/1913, ed ivi risiedeva. Fu partigiana combattente dal 3/5/1944 al 24/6/1945 presso il Comando della Divisione Garibaldi Picelli-Tagliamento. Non figura tra le partigiane riconosciute come tali poiché la domanda di riconoscimento quale partigiana non pervenne mai alla Commissione. (Fonte: Patrick Del Negro per Anpi Udine).
  12. Il riferimento, probabilmente, è alla fucilazione di: Roberto Italo Aizza, Rinaldo Bobbera, Pasquale Cericco Pascolo, Ernesto Negro, barbaramente uccisi il 15 dicembre 1943 dai nazifascisti nei prati di Loneriacco di Tarcento. Ad essi, secondo Roberto Pignoni, si deve aggiungere Virgilio Blasizzo,, fratello di Natalina BIasizzo, Nina, la compagna di Carlo, Tarcisio Cescotto, impiccato il 29 febbraio 1945 a Villa Fior di Tarcento. ( Pignoni Roberto, Quei giorni sulla Bernadia vissuti da “Carlo” e “Nina”, in Il Messaggero Veneto, 28 febbraio 2014).
  13. Non sono riuscita ad identificare la persona.
  14. Canalutto è una frazione del comune di Torreano, nel Cividalese.
  15. Par di capire che prima non sapesse dov’era.
  16. La data a si riferisce alla ritirata della Divisione unificata Osoppo – Garibaldi Natisone dalla Zona Libera Orientale.
  17. Campo di Bonis è località in comune di Taipana, Italia.
  18. Tosolini pronuncia il suono dlce: Platiscis e Robediscis.
  19. Montemaggiore, frazione del comune di Taipana.
  20. Circhina, in sloveno: Cerkno, è attualmente un comune della Slovenia occidentale, nel cuore delle Alpi Giulie. (it.wikipedia.org/wiki/Circhina).
  21. Tribussa, in sloveno Gorenja Trebuša, è una frazione del comune di Tolmino in Slovenia. (it.wikipedia.org/wiki/Tribussa‎).
  22. Buccovo è Bukovo è un villaggio sito in una valle a sud ovest del Monte Kojca, in comune di Cerkno. (en.wikipedia.org/wiki/Bukovo,_Cerkno).
  23. Paniqua, in sloveno Ponikve, è un paese della Slovenia, frazione del comune di Tolmino. (it.wikipedia.org/wiki/Paniqua).
  24. In: Mautino Ferdinando, ( a cura di), Guerra di popolo, storia delle formazioni garibaldine friulane, – Un manoscritto del 1945 – 1946, Feltrinelli, 1981, cap. XIII, PP. 118- 132, si può trovare conferma di alcuni fatti narrati da Annibale Tosolini. In particolare a p. 131 si legge: «Itinerario della 157a brigata: Pulfero, Brizza, Tribil, Luico, Montenero, Ciadra, Rauna, Selo, Piedicolle, Novaki, Circhina, Zakris. La marcia viene effettuata dalle brigata nelle medesime condizioni delle altre e procede senza incidenti fino a Selo. Al passaggio del Bacia, la notte di Capodanno, il nemico, che le due notti precedenti aveva già avuto sentore del movimento della Divisione, e aveva sistemato numerose postazioni e ricevuto rinforzi a Tolmino, permesso il passaggio dell’avanguardia attaccava il grosso della colonna con numerosi mortai ed armi pesanti. Sorpresa nel momento in cui la testa della colonna era già in fondo alla valle, la brigata riesce a malapena a portarsi fuori tiro, risalendo il costone e abbandonando molti materiali, armi pesanti e feriti. La sorpresa costrinse la brigata a mutare percorso, con marce forzate in terreno sconosciuto e coperto di neve. Riorganizzati i reparti e sistemati i feriti negli ospedaletti sloveni, i nostri, la notte successiva, riescono ad attraversare il Bacia e la ferrovia passando tra due presidi nemici di Piedicolle e Collepietro e arrivano a Dancia dopo 23 ore di marcia con un metro di neve. All’ arrivo in zona mancano 40 uomini, quasi tutti del battaglione Manin». Per la storia della Divisione Natisone, cfr. anche cap. XVI, pp. 154 – 167.
  25. Secondo Giovanni Padoan, Vanni, il comandante del btg. Manin era Ferdinando Giorgiutti, nato a Savorgnano del Torre, nome di battaglia Rocco. ( Padoan Giovanni, Vanni, abbiamo lottato insieme. Partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Del Bianco, 1965,p. 105).
  26. La croce la merito di guerra come partigiano fu concessa ad Annibale Tosolini il 1° marzo 1967 dal distretto militare di competenza.
  27. San Daniele del Carso, già San Daniele, Štanjel in sloveno, è una località facente parte del comune di Comeno, in Slovenia.
  28. Sesana, in sloveno Sežana, è un comune di 12.959 abitanti nella Slovenia sud-occidentale, posto nel cuore del Carso. (it.wikipedia.org/wiki/sesana‎).

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Molinis di Tarcento, 6 settembre 2013

 

Ho cercato di scrivere in friulano nel migliore dei modi, ma non sono un’esperta. Pertanto mi scusino i friulanisti se vi sono delle piccole inesattezze. Una copia del testo dell’ intervista è stato dato al signor Annibale Tosolini, per verifica,  che lo ha approvato così come viene riportato.

 Laura Matelda Puppini

 

Archeologia e lavori previsti dalla realizzazione del progetto dell’ arch. Lenna e c. . Salviamo la nostra storia!

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Udite, udite, come molti avevano previsto, scavando un po’a fondo, ma neppure tanto, per creare il giardinetto che avrebbe sostituito il parcheggio tra l’attuale canonica ed il caffè detto Ghidina, sono emersi resti archeologici che potrebbero essere delle antiche mura di Tolmezzo.
Potrebbe trattarsi, pure, di tracce di una torre!

Avevo cercato di rivedere la struttura delle mura di Tolmezzo, rileggendo il documento datato 2 giugno 1487, pubblicato in: Giuseppe Marchi , Le mura, le torri ed il Castello di Tolmezzo,  riproduzione anastatica dell’ ed. orig. edita nel 1901 per le nozze De Marchi – Ciani, stab. Grafico Carnia, Tolmezzo, 1975, che evidenzia aree difensive delimitate in modo preciso,  ritenendo non appropriata l’interpretazione di  Giuseppe Marchi. (Cfr. Laura Matelda Puppini, Tolmezzo rinascimentale: le sue torri, la sua difesa della terra, in: In Carnia, anno II, numero 2, aprile 2014, pp. 10-11).

Comunque si legga il documento, se uno o più resti riportati alla luce appartengono ad una torre, potrebbe proprio essere quella detta del Pievano.

Stamane cittadini mi dicevano: «Perché non coprono, (dopo averli studiati e classificati, dico io) i reperti delle mura con una lastra trasparente, come abbiamo visto in altri luoghi, e li illuminano»?

E come si fa a desiderare che vengano affossati per sempre e per l’ultima volta, reperti archelogici, per dotare Tolmezzo di un anonimo giardinetto?

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Così scrive Giuseppe Marchi nell’opera citata, datata 1901, relativamente a quanto si sapeva allora:

« Il perimetro delle mura ha forma pressoché rettangolare con la lunghezza di 400 e la larghezza di quasi 200 metri (…). Racchiudeva e proteggeva l’intero abitato all’infuori di poche cascine sparse nel contado. (…).
Oggi una parte delle mura è nascosta nell’interno delle case costruite a cavaliere di esse, altra è mascherata da casupole che hanno chiesto loro un pietoso sostegno, altra fu abbattuta per gli sbocchi stradali, e quanto non è ancora diruto dal tempo va man mano smantellandosi per bisogni di aria e di luce quando non venga demolito per ritrarne materiali da costruzione.
Delle mura rimangono ancora alcuni tratti visibili ed abbastanza conservati (…) e sono quello lungo la strada di Cascina, l’altro fra lo sbocco di via del Canale e la torre grande in angolo S.E. ed il tratto che fa seguito lungo il lato Sud.

(…).
Esternamente alle mura e lungo i lati Est, Sud ed Ovest ricorreva una fossa sommergibile, con l’acqua della roggia, e che partiva dalla torre in angolo  N-O e giungeva, girando verso mezzodì, fino a quella grande in angolo N.E..  Delle sue dimensioni non si hanno tracce […] oggi è tutta interrata e sopra vi han costruito case e si coltivano ortaggi. A testimoniare la sua formazione rimane ancora una grande colmiera delle materie gettate a rifiuto (…) nella braida detta “murata”; qualche decina di anni fa vedevasi ancora un piccolo tratto tra la porta inferiore e la torre in angolo N.E. L’ultimo avanzo dell’antico fossato è oggi il roiello detto fossâl lungo […]. In corrispondenza alle torri della porta superiore, della inferiore e di quella Agostini, esistevano certamente i ponti per superare la fossa, ponti mobili o levatoi, perché venivano sollevati nei momenti in cui lo esigeva la difesa.

A Nord della terra, 25 o 30 metri più in alto, sul piano leggermente inclinato che porta il nome di Pracastello, sorgeva il palazzo o castello patriarcale. Vi si accedeva da una lunga strada proveniente da Est che si staccava dalla carrozzabile presso alla braida Maledo, di cui si riconosce ancora il tracciato, e da altra proveniente dall’abitato attraverso la porta della fontana or detta di Cascina. (…).

Molta parte delle pietre del castello furono impiegate nella costruzione del Duomo e delle cinte ai migliori fondi del paese, ed altro. (…).
Al Castello andava unita una braida murata sita presso la Fabbrica e che tutt’ora si chiama braida del Patriarca».

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Ed infine leggiamo cosa ha deciso la Soprintendenza, in merito alla realizzazione del progetto per la riqualificazione di piazza XX settembre ed alcune adiacenze.

«Sull’intervento la richiesta della Soprintendenza di indagini archeologiche […]. Siccome i lavori previsti dal progetto interessano, nella parte compresa entro le mura quattrocentesche e relativi fossati, il centro storico, la Soprintendenza ha chiesto che le operazioni di scavo siano sottoposte a sorveglianza archeologica da parte di impresa qualificata, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza. Per piazza XX Settembre potrà essere richiesto lo scavo di eventuali strutture messe in luce. Si invita anche a sondaggi finalizzati all’esatta localizzazione, lettura e rilevamento dei resti medievali della roggia e della casa comunale (davanti all’attuale Duomo). A richiedere scavi sarà soprattutto la realizzazione della fontana. Per l’area di via Spalto, spiega Scarsini, la Soprintendenza chiede sondaggi preventivi per localizzare le strutture di cinta, in particolare una delle torri presenti in una mappa storica e probabilmente localizzata nell’angolo sud-est dell’area di intervento. Anni fa, ricorda Scarsini, erano già stati condotti alcuni saggi in loco, trovando un tratto della fondazione della cinta muraria e un tratto di canale. Si pensa che una torre fosse proprio affacciata su via Lequio. L’area ricade in una zona storicamente percorsa dalla cinta muraria cittadina che risalirebbe alla seconda metà del 13° secolo. (…)».   (Tanija Ariis, Piazza, anche indagini archeologiche, Il Messaggero Veneto, 25 giugno 2015)

Grazie Soprintendenza, ma ora aiutaci, assieme agli enti preposti ed al Comune di Tolmezzo, a recuperare questo patrimonio per noi tolmezzini e per altri, come si usa fare in Europa, magari utilizzando  i soldi per la riqualificazione della piazza!

Laura Matelda Puppini

L’acqua non si vende. Ai margini della confluenza di Carniacque in Cafc.

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Ieri non ho avuto il tempo di leggere, al mattino, il giornale, e così, verso le due del pomeriggio, dopo aver pranzato in mensa, una volta tanto assieme a mio marito, volgo verso il bar alla stazione dove sono sicura di trovare il Messaggero Veneto ed il Gazzettino, per vedere se abbiano almeno pubblicato un articolo sui possibili resti di mura e di una torre in Tolmezzo, ritornati, pare ancora una volta, alla luce.

Sfogliando il Messaggero Veneto, lo sguardo mi cade sull’articolo di cronaca tolmezzina corredato da una immagine, a mezzo busto, dell’attuale Sindaco di Tolmezzo.
L’articolo si intitola: «Sì alla fusione di Carniacque con il Cafc – Tomezzo: l’assemblea della zona territoriale omogenea ha votato. Brollo è obbligo di legge». E fin qui io ho capito che Carniacque, che aveva milioni di debiti nell’ottobre del 2014, confluirà, probabilmente o sicuramente,  in Cafc, (Consorzio Acquedotto Friuli Centrale, s.p.a.) che a me rammenta tristi visioni di tagli d’acqua ai cittadini. Per quanto riguarda Cafc, quello che so lo apprendo dal Messaggero Veneto, che il 30 maggio 2015 scrive che Eddi Gomboso ne è diventato il presidente a costo zero, perché pensionato da amministratore del Cafc stesso; che il consiglio di amministrazione è stato completamente rinnovato ed è composto da: Nicola Bertoli, Bruna Flora, Oriano Turello, Edi Collaoni, Eddi Gomboso stesso; che è stato approvato anche il bilancio d’esercizio che chiude con un utile di oltre 5 milioni di euro;  e che detto risultato economico è frutto dell’efficientamento attuato a partire dal piano industriale del 2010, con l’incorporazione di Cdl spa e proseguita, nel 2013, con l’integrazione del ramo d’acqua di Amga. (Gomboso presidente del Cafc per un anno a costo zero, in: Messaggero Veneto, 30 maggio 2015).

Ma attenzione: «L’utile registrato lo scorso anno è anche frutto […] di alcune situazioni straordinarie quali la rivalutazione della partecipazione ricavata dalla vendita delle azioni Hera ereditate da Amga, pari a circa 1 milione e 833 mila euro. (…). Proseguiranno gli investimenti pari a 16 milioni di euro». (Ivi).

Il nome di Eddi Gomboso è impresso nella mia memoria in relazione al fatto che Cafc non intende erogare più acqua a chi non paga.

«La crisi incombe e migliaia di famiglie non ce la fanno a pagare le bollette dell’acqua. Lo scorso anno i tecnici del Cafc (Consorzio acquedotto Friuli centrale) hanno piombato 1.200 contatori. Questo significa che dai rubinetti non scende più acqua.

È l’atto estremo di una percentuale di insoluto che seppur contenuta non fa mancare i suoi effetti nelle famiglie meno abbienti che stentano ad arrivare a fine mese. Il dato è in leggero aumento perché se nel 2013 la percentuale delle bollette non pagate alla scadenza si fermava al 25 per cento, lo scorso anno si attestava al 26,5 per cento. E così anche l’interruzione del servizio è passata da 1.082 a 1.200 unità. Al momento non emerge alcuna inversione di tendenza. (…). E se qualche disguido nei pagamenti è stato favorito dal passaggio del ramo acqua da un’azienda all’altra, il fenomeno degli insoluti resta.
«Lo scorso anno abbiamo riscontrato un aumento delle bollette non pagate alla scadenza passate da 25 al 26,5 per cento del fatturato – conferma Gomboso – anche se il 15 per cento è stato recuperato entro 60 giorni dalla scadenza naturale».
Le attività di recupero crediti vengono attivate, infatti, per circa il 10 per cento delle bollette insolute. Ma alle volte, nonostante i solleciti inviati anche dai legali dell’azienda, le risposte non arrivano. E allora scatta la linea dura con la piombatura del contatore.

“Nel 2013 – riferisce il presidente – abbiamo effettuato 1.082 piombature, lo scorso anno 1.200”. Si tratta di azioni estreme che anche il Cafc fa a malincuore. “Prima di agire – aggiunge ancora Gomboso – ci confrontiamo con le assistenti sociali dei singoli Comuni. Se in un appartamento vivono anziani, minori o disoccupati anziché piombare l’utenza installiamo i riduttori di pressioni per garantire il minimo vitale”.
(Giacomina Pellizzari, Bollette dell’acqua non pagate, il Cafc taglia 1.200 contatori. Le piombature sono in aumento anche se in molti casi viene garantito il minimo vitale. Il presidente Gomboso: l’insoluto è pari al 10% ed è coperto da chi versa regolarmente, in: Messaggero Veneto, 19 giugno 2015).

A questo punto mi chiedo cosa ci dobbiamo aspettare in Carnia, dopo la fusione, se la vecchietta di una frazioncina di montagna, e non solo,  non riuscirà a pagare.  Solo il pensare a rubinetti che si vanno ad aprire per non veder uscire una goccia fa impazzire … figurarsi averli in casa, o vedere gocciolare l’acqua, se va bene. E poi senza acqua o con poca le ripercussioni sulla salute paiono inevitabili.

Inoltre, in questo clima di tagli pesanti alla sanità, sotto forma, di fatto, di tagli alle prestazioni, mi chiedo perché noi cittadini dovremmo pagare un’assistente sociale comunale perché lavori per la ditta privata Cafc.  Se la paghino. Il comune per ora è un ente pubblico, ed inoltre non si sa perché dovrebbe dare ad ente privato dati sulla salute e lo stato economico dei cittadini. E questo fa pensare a come il dare servizi essenziali per la vita ad un’azienda spa, abbia ricadute notevoli sulla salute, vita, ma anche sulla gestione di dati ed informazioni sui singoli, che prima restavano all’interno del comune, che li rilevava e provvedeva in caso di stato di indigenza o problematiche varie.
E comunque su che base di accordo il comune o l’ass di competenza, permettono alle assistenti sociali da loro dipendenti, di operare per Cafc? Sulla base del fatto (o ricatto) che se non fanno così i poveracci resteranno senza acqua, non potendo attingere, come un tempo, alle sorgenti ed ai fiumi? E se poi quelli a cui viene razionata al limite vitale (che io non so quale sia) o tolta, si ammalano, chi paga accertamenti e cure e che esami donna Beatrice Lorenzin prevede nel caso specifico? E se l’intervento di Cafc sulla pressione dell’acqua causa, in condominio, problemi di intasamento colonna comune dei water, e problemi o danni  alle tubature comuni, condominiali, non di Cafc, ma di propietà dei condomini, chi paga?

Inoltre, sempre pensando come la buona massaia, non so come si possano prevedere 16 milioni di investimenti con solo 5 di utili, pare dati da una convergenza propizia di fattori, se in Cafc entra Carniacque, che, da che si sa, è indebitata per milioni di euro.

E come pensa Francesco Brollo che Cafc faccia partire investimenti in montagna in questa situazione? (Tanja Ariis, Sì alla fusione di Carniacque con il Cafc, in Messaggero Veneto, 6 ottobre 2015).
Speriamo che non aumentino le bollette, perché «Ci dispiace tanto ma… noi dobbiamo guadagnare» con il risultato di aumentare quelli che si vedranno uscir gocce di acqua dal rubinetto, se, bontà di Cafc, resterà aperto.

Non mi dilungo sull’acqua come base per la vita, dono di Dio al mondo, e non a poche multiutility che agiscono, con il favore dei politici, in regime di monopolio, e che hanno, per loro fine, l’incremento del guadagno, che così diventano padroni di vita e salute,  perché sono anni che, da cristiana, tocco questo argomento, opponendomi alla privatizzazione dell’acqua, fonte per la vita. E non so perché non si occupino anche di questo i numerosi movimenti per la vita, che vogliono cancellare la legge che permette in Italia, dopo doveroso iter informativo e di sostegno, l’interruzione di gravidanza entro i primi tre mesi di gestazione.

Per terminare, scrivo che mi è dispiaciuto l’attacco incomprensibile del sindaco di Tolmezzo Francesco Brollo a Franceschino Barazzutti, laureato in scienze, docente stimato, sindaco di Cavazzo Carnico nel difficile periodo del post terremoto, che ha speso anni ed anni per la sua gente e per la salvezza del lago di Cavazzo, per l’ambiente, (per quell’ambiente naturale tanto amato anche da Brollo, se ben ricordo le sue belle fotografie scattate in montagna, su carnia.la), per la Carnia. Egli ha infatti dichiarato alla stampa «Certi commenti come quelli di Franceschino Barazzutti rendono un cattivissimo servizio al territorio, perché illudono la gente, mettono in cattiva luce i sindaci che invece stanno lavorando per il bene dei propri cittadini e sviliscono il dibattito politico. Se Barazzutti se ne esce con proposte così populiste in quanto impercorribili, c’è da chiedersi a cosa gli sia giovata l’esperienza e l’importante passato di amministratore pubblico.» (Ivi).

Relativamente a questa sua dichiarazione, mi sento di dire a Francesco Brollo che, in primo luogo, io, come credo molti altri, non sappiamo di che parli, se non cita dove trovasi le dichiarazioni di Barazzutti, che non so quali siano; che chi ci disillude e ci tiene con i piedi per terra sono Cafc, Gomboso, e le bollette; che non so cosa significhi, in lingua italiana, “proposte populiste”, nel caso specifico, poi, ignote, e quindi non so perché considerate vie impercorribili, se per esempio si rifanno all’esperienza trentina o napoletana; e perché sviliscano il dibattito politico, e non arricchiscano di documenti e proposte, alternative, uscendo dal pensiero omologato. Per i problemi legati alla privatizzazione dell’acqua, rimando ai miei precedenti, ed all’articolo di Franceschino Barazzutti da me pubblicato, sempre su www.nonsolocarnia.info.
Senza offesa per nessuno, ma solo per palesare, in modo documentato, il mio pensiero e continuare a parlare di un argomento così importante.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’ articolo è quella già precedentemente utilizzata, tratta da: www.acquabenecomune.org/con variazione nel colore. Laura Matelda Puppini

Marco Puppini. In ricordo di Mario Foschiani “Guerra”.

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Mario Foschiani operaio friulano di Cussignacco, antifascista e partigiano fucilato alle carceri di Udine il 9 aprile 1945, medaglia d’argento della Resistenza, non ha ancora pace. Di recente se ne è occupato per denigrarlo sulle colonne del Messaggero Veneto l’autore di due libri sulla Resistenza in Carnia. Libri in cui a mio parere mancano cose importanti come il contesto (fascismo, guerra) e le ragioni per cui le parti combattevano, dove spesso le fonti non sono citate correttamente o sono difficilmente verificabili. Libri il cui fine è denigrare comandi e formazioni partigiane. L’autore costruisce però ipotesi che restano fragili, e a volte si limita all’insulto gratuito verso i partigiani. Un esempio: riportare, rafforzandolo, il contenuto di un cartello anonimo di derisione appeso alla tomba del partigiano Amadio De Stalis, “Crucchi” poco tempo dopo la sua uccisione per mano dei tedeschi, significa infatti solo perpetuare a decenni di distanza un insulto anonimo (Gianni Conedera, Dalla Resistenza a Gladio, Roncade(Tv) 2011 p.66). In ogni modo questi interventi ci danno l’occasione per ricordare la figura di Mario Foschiani “Guerra” un combattente comunista ed antifascista espressione del Friuli più autentico, e di dire qualcosa in proposito. Nello scrivere le righe che seguono ho potuto approfittare dei preziosi studi di Raimondi Cominesi, pubblicati sul n. 34 di “Storia Contemporanea in Friuli”.

Il padre di Mario era un piccolo contadino di Cussignacco, la madre era casalinga. Avevano sette figli, quattro maschi e tre femmine, ma a causa della prima guerra mondiale, la “inutile strage” (o la “guerra imperialista”) muoiono i due fratelli maggiori, Giuseppe e Florindo. Mario va a lavorare ancora adolescente come apprendista, diviene operaio e più tardi nichelatore. E’ anche vittima, giovanissimo, di un incidente sul lavoro e perde tre falangi della mano destra.

Un ragazzo così non può che odiare la guerra, la retorica nazionalista, sognare l’emancipazione dei lavoratori. Ma intanto il fascismo è salito al potere. Mario conosce i lavoratori comunisti della sua zona (gli altri partiti antifascisti sono ormai spariti), inizia a fare attività politica clandestina curando la stampa di volantini e la diffusione di opuscoli. Nel dicembre 1933, alla vigilia della grande retata che porterà in carcere un centinaio di comunisti friulani, viene avvisato dai compagni del pericolo. Espatria in Jugoslavia, dove viene arrestato, incarcerato, espulso in Austria dove viene nuovamente arrestato ed espulso. È a Zurigo, poi a Parigi. «Per arrivare ho fatto il più duro cammino -scriverà alla madre – (…) camminando, prigione, fame, senza dormire che sulla neve. Eppure sono arrivato al destino». Infine è inviato da Parigi in URSS probabilmente alla scuola leninista dove non arriverà. Era partito dall’Italia con un compagno che in Francia era “caduto in disgrazia”. Mario aveva ricevuto dal partito l’ordine di non avere contatti con lui ma lo incontra ugualmente. Nella rigida mentalità militare dei comunisti di allora questo fatto era una mancanza grave. Quando a Mosca si sa, Mario non viene più inviato a scuola ma in fabbrica. Da questo momento viene accompagnato dalla fama di essere “leggero” e “facilone”, per un episodio che caso mai rivelava una mentalità indipendente e pronta al confronto.

Nel maggio 1938 va in Spagna per arruolarsi nelle Brigate Internazionali ed è presente con la “Garibaldi” sul fronte dell’Ebro. In seguito finisce internato nei campi di concentramento francesi, compreso quello “punitivo” di Vernet. Nel gennaio 1942 è tradotto in Italia, interrogato alla Questura di Udine (possiamo immaginare con i metodi in uso allora), condannato a quindici anni di carcere dal Tribunale Speciale ed incarcerato a Roma. Viene liberato solo nell’agosto del 1943 e raggiunge nuovamente Cussignacco dopo dieci anni di esilio e vita clandestina, guerra, campi di concentramento.

Dopo circa un mese saluta nuovamernte i familiari e sale in montagna con i primi partigiani friulani. Quando viene arrestato dai cosacchi, il 28 febbraio 1945, ha trascorso in montagna quasi un anno e mezzo di guerra partigiana, la più logorante e difficile forma di guerra dal punto di vista fisico e psicologico. E’ arrestato all’alba del 28 febbraio, poi sappiamo con chiarezza che viene torturato. Alcuni lo ricordano a Tartinis caricato su un carro cosacco e coperto con un lenzuolo. Perché? Forse non si voleva che si vedesse come era ridotto? Altre testimonianze ricordano come le sue grida di dolore si udissero per tutto il paese di Enemonzo, uno dei luoghi dove fu seviziato. Mario ha certamente detto qualcosa sotto tortura, lo ammette lui stesso in una drammatica ed umanissima lettera scritta dal carcere il 15 marzo in cui chiede perdono ai familiari di “Grifo”, ucciso a causa del suo cedimento.

«Tentai di scappare, mi tirarono (…) avrei desiderato una pallottola ben messa nessuno più avrebbe parlato e io avrei finito più bella la mia vita. Invece mi hanno riconosciuto malgrado i documenti in regola. (…) Il caso più grave poi che mi trovarono un piccolo biglietto in tasca scritto in russo dal Comandante del Btg. Russo “Stalin” il quale diceva “Guerra vai a vedere dei miei sopra Tolvis da Grifo” questo fatto ha causato la mia tortura e la morte del compagno “Grifo” che io mi sento colpevole per ché ho ceduto dicendo che veramente 5 Battaglioni si trovavano in quella località. In realtà io tentai di salvare il resto che evidentemente non erano (tutti e cinque) in quel posto. Ritornarono alla carica ma più così non ricavarono nulla».(Raimondi Cominesi, p.71)

La sua resistenza sotto tortura ha però permesso di salvare i partigiani presenti nelle altre basi; anche “Grifo” aveva la possibilità di evacuare quella di Tolvis, ma evidentemente ha sottovalutato il pericolo. I cosacchi arriveranno a Tolvis ventiquattro ore dopo l’arresto di Foschiani, mentre Monfredda ed Avedrugno saranno sgombrate senza problemi.

Probabilmente il mese trascorso in carcere a Udine prima della fucilazione è stata un’altra tortura tra condanna a morte, rinvio dell’esecuzione, progetti di evasione e scambio di prigionieri che non vanno in porto, notizie sempre peggiori che arrivano a singhiozzo. “Guerra”, assieme al comandante garibaldino Mario Modotti “Tribuno”, sono ricordati da molti per il loro comportamento straordinario, di aiuto a tutti i detenuti sia garibaldini che osovani, di organizzazione dei contatti con l’esterno, di solidarietà. Il trucco messo in atto dagli osovani per far evadere una decina di membri del loro comando che si trovavano anch’essi in carcere (di cui per l’intervento forte dei garibaldini potranno fruire anche tre loro comandanti) mette probabilmente fine alle loro speranze di evadere o almeno posticipare l’esecuzione della pena di morte. Forse per rappresaglia contro l’evasione, forse per altri motivi “Guerra” viene fucilato assieme ad altri 28 compagni (un 29° verrà impiccato) tra cui notissimi comandanti partigiani comunisti come Modotti, il 9 aprile 1945, una ventina di giorni prima della ritirata definitiva dei tedeschi dal Friuli Il 2 aprile, di fronte alla certezza che la pena sarebbe stata eseguita perché “Franco” (Modesti) gli aveva scritto che il partito non poteva fare più niente, scrive tra l’altro «Sono orgoglioso di morire per la mia patria libera e indipendente» e di vergognarsi per «avere fatto troppo poco per la causa».(Raimondi Cominesi p.78)

Cosa avrebbe potuto fare un uomo così di più per il suo paese e per la causa? Stando a Conedera, il colonnello Emilio Grossi, ufficiale degli Alpini lombardo aggregato alla Garibaldi nei Servizi di Informazione ed autore nel dopoguerra di dichiarazioni a volte sconcertanti (Un esempio: ha dichiarato di aver celebrato come comandante partigiano il matrimonio “fasullo” – la Resistenza riteneva però il matrimonio celebrato da un comandante quale ufficiale di stato civile della Italia liberata, perfettamente legale – tra il comandante Mirko e Katia perché obbligato con le armi. Vedi: Conedera p.169 che non cita però l’archivio dove è possibile reperire la fonte) avrebbe scritto a mano su un foglio in cui ricordava le «giuste leggi di guerra» contro i traditori, che Mario era «reo confesso» di tradimento (Messaggero Veneto 1 ottobre 2015). Non so che giuste leggi avesse in mente Grossi (e sarebbe interessante capire il tragitto di questo documento). Le direttive del CVL sono state molte, assolutamente severe ad esempio contro chi trattava con il nemico alle spalle degli alleati, cosa che hanno fatto alcuni comandanti della Osoppo senza conseguenze. Sono stati giustiziati dalle formazioni alcuni ex partigiani passati armi e bagagli al servizio dei tedeschi, come in questa regione il noto “Bleki”, o “Falce” ed altri. Non so se è vero, come afferma Conedera (che non cita dove è possibile reperire la fonte), che Grossi abbia sostenuto di avere casualmente incrociato Guerra sulla piazza di Colza mentre i cosacchi lo portavano via (Conedera, p. 154). Guerra avrebbe chiesto tre volte aiuto a Grossi, che gli avrebbe dato l’assurdo consiglio di scappare perché i cosacchi che lo scortavano erano vecchi e non avrebbero potuto inseguirlo: i cosacchi forse erano vecchi ma sicuramente armati.
Grossi in ogni modo rischiava la vita per combattere chi usava sistematicamente la tortura e occupava militarmente la nostra terra. Consigli sbagliati o rigidità a senso unico si possono anche valutare all’interno di questo contesto. Conedera no. Sarebbe bello leggere qualche riga sua di critica anche contro chi ha torturato ed ucciso Mario Foschiani, non solo insolenze sul comandante partigiano “traditore”. Resto pazientemente in attesa.

Marco Puppini

L’immagine che correda l ‘articolo è tratta da: www.anpigiovaniudine.org.

L’acqua è bene collettivo, non statale o regionale, Dio ce l’ha data: teniamocela!

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Ieri l’altro sera mi sono recata al caffè Linussio, per fare due passi e bere un tè, ed ho approfittato per leggere il Messaggero Veneto. Titolo a lettere “cubitali”: «Montagna e acqua, la nuova legge sul gestore unico tutela le comunità». Sottotitolo: «La presidente Serracchiani difende la fusione tra Cafc e Carniacque: è l’unica soluzione possibile. La Regione pensa ai bacini specifici e a relazioni rafforzate con i territori che presentano fragilità». (Cristian Rigo, “Montagna e acqua, la nuova legge sul gestore unico tutela le comunità”, in: Messaggero Veneto, 10 ottobre 2015). L’articolo, firmato da Cristian Rigo, riferisce, secondo me, solo una serie di parole, pronunciate dalla Presidente della Regione Autonoma F. – VG., dal contenuto generico, senza che la stessa si discosti dalla confluenza di Carniacque, anticipata a fine 2016, in Cafc.. Come vengano così tutelate le comunità locali, solo il Messaggero Veneto lo sa.
Ma dico io, come si fa ad approvare di regalare la nostra acqua residua (la prima l’ha di fatto “svenduta” altro governo, quello Mussolini, alla Sade, essendo il suo presidente, Giuseppe Volpi di Misurata, anche Ministro fascista dell’Industria, Sade che riporta, in questi giorni, alla tragedia del Vajont), alla Società per azioni Cafc, cioè Consorzio Aquedotto Friuli Centrale, e poi magari ad Hera così? E che fine ha fatto il referendum? (Cfr. «Confindustria chiede al Governo Renzi di cancellare l’esito del referendum sull’ acqua e sui servizi pubblici» e «Petizione del Forum italiano dei movimenti per l’acqua: «Il governo Renzi vuole la privatizzazione dell’acqua: fermiamolo!», riportati dal sito: http://www.acquabenecomune.org/, che si invita a visitare, in: Laura M Puppini, “L’acqua non si vende: un problema locale e nazionale. Firma la petizione del Forum”, in: www.nonsolocarnia.info, a cui si rimanda).

E dato che la Regione Friuli – VG. è nata proprio per mediare fra legislazione nazionale ed iniziative locali, perché non propone una legge per il trasferimento del servizio idrico nuovamente ai comuni, od ad un consorzio pubblico degli stessi, mantenendo Carniacque fino alla fine del 2017, così da poter studiare ed approntare un sistema di gestione consociata pubblica dei rubinetti carnici?
«Nelle prossime settimane – ha detto la Serracchiani, che ha la delega alle Politiche della montagna – presenteremo una norma di legge sul governo del servizio idrico integrato, al cui interno vi saranno specifici obblighi contrattuali a carico del gestore del servizio. In particolare saranno previste forme di partecipazione in bacini montani specifici con un importante riconoscimento di potestà a quei territori e a quelle comunità. Per le aree montane con particolari fragilità o dispersioni ci sarà una norma contrattuale che prevederà bacini territoriali nei quali le comunità avranno una relazione rafforzata con il gestore». (Cristian Rigo, op. cit.).

Ma, tra l’altro, perché ed a che titolo, mi chiedo io la dott. Debora Serracchiani, non proprietaria della acque, dovrebbe studiare clausole contrattuali, per un bene nostro?

A me, poi, quando sento parlare, nello specifico, di ignote norme contrattuali, tutte da scrivere, viene in mente, la dichiarazione del presidente di Carniacque, Fabrizio Luches,all’incontro di Lauco del 9 ottobre 2015, relativamente ai problemi, successivi alla presa in carico del depuratore consortile di Tolmezzo, in quanto il gestore precedente non aveva fatto gli interventi manutentivi richiesti negli ultimi due anni. Quelli erano scritti ma non sono stati rispettati. E se è vero che scripta manent, è anche vero che l’Italia è piena di scritti, leggi, interpretazioni, carte dei servizi … ma fra questo e la loro applicazione ci sta di mezzo, spesso, il mare, e si ha il sospetto che talvolta valga, a livello nazionale, più un patto mai visto in forma scritta, fra due, quello detto del Nazareno, che altro. Ma naturalmente posso errare, e correggetemi se del caso, e ciò vale per l’articolo intero.

Confesso che da vecchia sono stanca di boutades tanto per convincere, e certi frettolosi consensi, chissà perché, mi ricordano la favola, bellissima e molto educativa del Mago di Oz.

Egli viveva nel paese di Oz, che governava da anni, non eletto, ma dopo esservi capitato, ed aveva fama, anche fra i suoi sudditi, di essere potentissimo. Ma quattro strani personaggi: una bambina, un leone codardo, uno spaventapasseri, un omino di latta, svelarono la verità, togliendo il paravento che lo copriva: egli non era altro che un omino, vecchio e calvo, senza potere alcuno, che era riuscito a costruire, con mille espedienti, la sua immagine, dotando, pure, tutti i suoi sudditi di occhiali verdi, che non si potevano mai togliere, e che consentivano di vedere, tutto e sempre, come il mago di Oz voleva essi vedessero.

Ma per tornare a Carniacque e Cafc, da orgogliosamente carnica, mi chiedo: che direbbero Michele Gortani, Angelo Ermano, Bruno Lepre, mio padre Geremia Puppini, Aulo Magrini, Ottavio Mecchia, tanto per citare alcuni, di questa svendita della gestione dell’acqua potabile, bene primario e collettivo? Chiediamocelo.

L’insediamento di Micene fu costruito davanti alla sorgente, che difendeva strenuamente, e posta alle spalle; a Tolmezzo una porta intera dava accesso alla stessa; quando i tedeschi vollero uccidere, in Carnia, più partigiani in un colpo solo, avvelenarono la sorgente che pensavano avrebbero utilizzato; Enrico di Luincis, detto anche di Carnia, dovette capitolare perché l’esercito di Nicolò di Lussemburgo, patriaca di Aquileia, che assediava il suo castello, riuscì ad impedire il rifornimento idrico.

Ma non esistono alternative per Carniacque, si legge. Se non si cercano, se non si vogliono, certamente no.

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Nel lontano 1911, più precisamente il 16 aprile 2011, si teneva a Tolmezzo, presso la sala della Comunità Montana, un convegno intitolato: «L’esperienza della Provincia Autonoma di Trento nella gestione delle risorse idriche», promosso dai Comuni di Cercivento, Forni Avoltri e Ligosullo, che gestiscono in proprio il servizio idrico, mentre la gestione per gli altri comuni della Carnia era già confluita, per volere delle amministrazioni comunali stesse, in Carniacque.
Relatori:
prof. Oreste Pisoni – sindaco di Calavino (Trento)
ing. G. Battista Gatti – responsabile dell’agenzia per la Depurazione della Provincia Autonoma di Trento;
ing. Vittorio Cristofori – responsabile del servizio utilizzazione delle acque pubbliche della Provincia Autonoma di Trento.

Presentava il definito da Francesco Brollo “populista” dott. Franceschino Barazzutti, di fatto organizzatore dell’incontro stesso, che intervenì, pure, in modo preciso ed informato.

Devo riconoscere che non ricordo vi fosse stata una gran partecipazione a detto interessantissimo e documentatissimo convegno, che si protrasse dalle 9.30 credo ad oltre le 13, e francamente non trovo grandi giustificazioni a questo fatto.

Mi ricordo pure un incontro a Cavazzo Carnico, il primo in cui sentii parlare di Carniacque spa. Era il dicembre 2010, e non era che fossi ancora molto in forma, ma rammento che allora vi era chi, in buona fede, credeva che il fatto che i comuni avessero in mano qualcosa di più del 50% delle azioni di Carniacque avrebbe scongiurato ogni pericolo di privatizzazione ed accentramento, ma io già allora intervenni sul possibile passaggio di azioni di Carniacque, essendo essa una s.p.a., e sposai la tesi di un consorzio, di natura pubblica, fra comuni.

Da allora sono passati solo 4 anni, ed all’orizzonte si profila il gestore del Medio Friuli e poi, da che mi dicono, Hera. Hera è sulla bocca di tutti, ma stranamente non dei nostri sindaci, che paiono più disinformati del Messaggero Veneto, che fra l’altro riporta la notizia del mancato rispetto, da parte di Cafc, del patto fatto con Honsell, da leggersi come premessa a futuri accordi Serracchiani /Cafc, per la Carnia, che potrebbero non venir rispettati.

«Vertice Amga-Hera: “Non è stato rispettato il patto Honsell-Cafc” – intitola il noto quotidiano locale, con riferimento a quanto accaduto ad Udine, e citando, pure, una puntata di Report. (Renato D’Argenio, “Vertice Amga-Hera: «Non è stato rispettato il patto Honsell-Cafc», in: Messaggero Veneto 20 novembre 2014). La puntata di Report citata, è quella, curata da Emanuele Bellano, che andò in onda il 16 novembre 2014, dal titolo “In buone acque”, visibile su http://www.report.rai.it/ Scrive Emanuele Bellano: «Hera è una delle più grandi municipalizzate d’Italia e gestisce luce, acqua, gas e rifiuti per 250 comuni in Emilia-Romagna, Marche, Veneto e Venezia-Giulia. La società ha sede in centro a Bologna in un’area industriale dismessa dove lavorano settecento persone. Sulla base di documenti inediti Report è in grado di documentare il livello di inquinamento presente nel suolo di quei terreni e i rischi per la salute a cui, secondo le analisi svolte da Hera stessa ma mai divulgate, i dipendenti sono sottoposti andando a lavorare lì dentro ogni giorno. L’inquinamento coinvolge anche alcune falde. Hera è anche un esempio di come vengono scelti i manager che amministrano le grandi municipalizzate dove i requisiti necessari spesso non sono le competenze». Vi prego di vedere il filmato per capire di chi si sta parlando. E Hera sarà, forse, la multiutility che gestirà, in futuro, la nostra acqua, in grazie a molti dei nostri sindaci. E non so quanto varrà poi protestare, quando il centro decisionale è lontano, quando si è mera minoranza. Infine Report dedica un altro servizio ad Hera, quello del 7 giugno 2015, sempre intitolato “In buone acque” sul mancato smaltimento del vetro presso Emiliana Rottami di San Cesario sul Panaro, che pare ben poco si interessi anche delle ordinanze del comune a difesa della salute, e sui lavori, costosissimi, di Hera per la bonifica della zona della sua sede a Bologna. ( Emanuele Bellano, In buone acque, puntata del 7 giugno 2015, in: http://www.report.rai.it/, a cui si rimanda). Quanto resterà ad Hera in tasca, da spendere per la Carnia? Chiediamocelo.
E quando hai detto sì, hai detto sì, non si può più tornare indietro.

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Ma ritorniamo a noi, alla Carnia. Dopo che Francesco Brollo, sindaco di Tolmezzo, ha bellamente accusato il dott. Franceschino Barazzutti, che si è premurato per anni di informarsi ed andare a raccogliere documenti anche in Trentino, sul loro modo di gestire il sistema idrico, di esser populista, e di rendere, con i suoi commenti, un pessimo servizio al territorio, (Tanja Ariis, Sì alla fusione di Carniacque con il Cafc, in Messaggero Veneto 6 ottobre 2015) quasi che uno ottimo lo svolgesse lui, assieme ai sindaci che hanno approvato il trasferimento di Carniacque a Cafc, l’ 8 ottobre son intervenuti, sull’argomento, Luigi Cacitti di F.I. e Sandra Savino, deputata dello stesso partito, in senso critico rispetto al confluire di Carniacque in Cafc, pur essendo dettato dalla legge, che si potrebbe, però anche chiedere di cambiare. È depauperamento della montagna, dicono, (Tanja Ariis, “Fusione Cafc – Carniacque, Savino: Serracchiani non doveva cedere”, Gino Grillo, “Cacitti: è stata svenduta la montagna” ambedue in Messaggero Veneto 8 ottobre 2015) e non so come dar loro torto, su questo aspetto specifico, anche se non sono proprio una loro fan.
Va beh, non si può negare che tizio poteva far di meglio e caio pure, non sono certo di F.I. ma il problema è di enorme spessore. Si è risposto loro il 9 ottobre 2015, attraverso il Messaggero Veneto, sentite come: non è più tempo del “fasin di besoli”. (Tanja Ariis, Tutti d’accordo sulla fusione con il Cafc. Unanimità dell’assemblea della consulta d’ambito; Ariis: solo così tuteliamo territorio e cittadini, in Messaggero Veneto, 9 ottobre 2015).
Perchè mi chiedo io, non possiamo fare da soli? Come il solito si decide non su dati ma su frasi, senza uno straccio di studio alternativo, forse senza neppure ben sapere come sta economicamente Cafc, che è una spa, senza ipotizzare un futuro. Si parla, si dichiara, ma non nel merito del problema, ma dei soggetti che hanno dichiarato, come berlusconismo e renzismo vogliono.

Stanno svendendo (non vendendo perché vendere implica qualcosa in cambio ed una trattativa, e la possibilità di non vendere) per sempre, cosa mai accaduta prima nella storia, l’acqua dei comuni carnici ad un ente esterno, del Medio Friuli, con probabilità di finire in Hera, e Francesco Brollo parla come fosse in un bar davanti ad un buon bicchiere: attacca Barazzutti, come da nuovo metodo Renzi ma vecchio assai, con parole buttate là, e dice che con Cafc “Paiarìn di mancul” come se i prezzi non variassero?

E stiamo parlando di chi gestirà l’acqua dei nostri rubinetti, mica del servizio di caterig per l’ incontro della sera, si fa per dire! E stiamo parlando di un servizio fondamentale per la vita di noi cittadini, ma che vuoi che sia … E vorremmo sapere il nostro futuro, perché il presidente di Cafc ha avvisato: se non si paga chiudono i rubinetti, li stagnano. Ricordatevelo, sindaci a favore, ricordatelo.

«Opacità della gestione, aumenti tariffari insostenibili, negazione del diritto umano all’acqua, peggioramento delle condizioni di lavoro e aumento del lavoro in appalto, scarso controllo delle amministrazioni pubbliche, diminuzione degli investimenti, erogazione dei dividendi agli azionisti tramite indebitamento, impoverimento della risorsa idrica e mancato coordinamento della gestione della risorsa. Questi sono gli effetti del processo strisciante della privatizzazione in atto in questi anni». – si legge sul Forum Italiano dei movimenti per l’acqua, in un comunicato datato 3 dicembre 2014. Inoltre mentre prima non potevano esser stagnati rubinetti, ora tale norma è stata tolta dalla Camera dei Deputati. Infine, «dopo il veto a stagnare i rubinetti, vi è stato un recente ripensamento a livello nazionale. Il 13 novembre 2014 la Camera approvava il Collegato Ambientale alla legge di stabilità dell’anno, cancellando un articolo che impediva i distacchi del servizio idrico e garantiva il diritto all’acqua tramite il minimo vitale». (Comunicato stampa del Forum Italiano del Movimenti per l’acqua. La Camera cancella il diritto all’acqua e benedice i distacchi idrici, in: acquabenecomune.org.).

A dimenticavo: ieri, 11 ottobre 2015, il Messaggero Veneto precisava che non è vero che tutti i sindaci della Carnia siano stati favorevoli al passaggio Carniacque in Cafc: Ampezzo, Cercivento e Prato Carnico hanno votato contro, Sutrio e Forni Avoltri si sono astenuti. (Tanja Ariis, Carniacque- Cafc, ancora divisioni, in: Messaggero Veneto 11 ottobre 2015). Grazie a chi ha detto no o non ha detto sì, grazie davvero.

Sul sito: www.acquabenecomune.org, si può leggere e scaricare il dossier dal titolo: “Società Multiservizi: lo strumento per privatizzare i servizi pubblici locali”, curato dal coordinamento regionale piemontese acqua pubblica, in cui si analizzano i nuovi processi di privatizzazione dei servizi pubblici locali a partire dal caso atena/iren, e pubblicato il 24 settembre 2015.
La presentazione del dossier, così recita: «Perché No a una Società per Azioni.
L’opposizione alla scelta di gestire i servizi pubblici (acqua in particolare) tramite una SpA, seppure a totale capitale pubblico, non deriva da una scelta ideologica, come ci viene superficialmente rimproverato dai nostri avversari, ma da una serie di elementi oggettivi.
Lo scopo della società commerciale, come recita il Codice Civile, è il lucro. In altre parole è costruita per estrarre valore dal processo industriale che governa. Il suo utilizzo per gestire un servizio pubblico “in house”, il cui scopo dovrebbe essere non l’estrazione di valore ma la creazione di valore, sotto forma di massimizzazione quantitativa e qualitativa del servizio, crea una contraddizione fondamentale, cambiando, nella sostanza, il ruolo dell’ente pubblico concessionario».
L’acqua è bene comune collettivo, non proprietà del Governo o della Regione, o di Carniacque! La gestione è nostra! Almeno parliamone, prima che sia troppo tardi.

Laura Matelda Puppini


Del linguaggio e dei linguaggi, delle spese, dell’oblio. Cittadini o sotàns?

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DELLE SPESE E DELLA TERZA CORSIA.

Mi spaventa questo mondo che mi si dice moderno, ma a me pare sempre più simile a quello in cui si agitavano i personaggi di Alan Ford, mi spaventa questa sanità che mi si dice moderna, ma secondo me per nulla, diventata, come a me appare, solo terreno per politici per fare cassa. Zac, un bel taglio regionale assestato qua, zac, un bel taglio statale assestato là… E chi si presta al lavoro brutale di sarta è sempre una donna, che sorride e gongola, di che non si sa … almeno questo appare dai giornali. Ma chi glielo fa fare, mi chiedo io … Mandino qualche maschietto, di quelli dietro le quinte o semi, a mostrar la faccia!Ma mancano i soldi Puppini, tu las capide o no? Potrebbe dire qualcuno. Ma dove stiamo spendendo i nostri soldi?

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In questi giorni mi sono soffermata, ancora una volta, a riflettere sulla sanità regionale e statale, che dovrebbe essere servizio, pagato con le tasse, al cittadino, mentre non si capisce cosa sia e stia diventando. L’unica cosa che si comprende, per ora, è che Renzi ed il governo hanno deciso di far cassa anche qui, come la Regione Friuli Venezia Giulia, e che noi resteremo, di fatto, con un depauperamento notevole di sanità/salute. Ed io non mi illudo: se della cosiddetta riforma Lorenzin e dei suoi tagli, che trasformano i medici in impiegati governativi, buttando a mare la professione, non si parla molto ora, non è perché siano stati archiviati, ma perché sugli stessi si tace, dato che potrebbero rovinare l’immagine di quelli al potere, e che, con il nuovo senato, lo saranno per sempre.

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E prima di parlare di tagli necessari ricordiamoci quanto ci costa la terza corsia. Messaggero Veneto del 20 aprile 2012: «Terza corsia A4. Dalla CdP 900 milioni. La Cassa Depositi e prestiti ha dato garanzie alla Regione per il Cantiere che amplierà la Venezia- Trieste. La Regione incassa un appoggio finanziario importante per garantire i cantieri della terza corsia della A 4. La Cassa depositi e prestiti ha dato ieri la disponibilità a garantire fino a 900 milioni di euro per il finanziamento dell’opera, un’ipotesi che era stata solamente sfiorata i mesi scorsi quando si programmava il sostegno finanziario soprattutto da parte delle banche.»

Questo vecchio ritaglio di giornale mi riporta a considerazioni a tinte fosche: quante “terze corsie” ci sono in Italia? Ed a fronte di soldi nostri, ivi investiti, che utile ne ricaviamo noi cittadini? E il governo ha bisogno di 4 miliardi. Bene 1,5 potevano derivare da qui, perché la terza corsia a noi del F-vg credo non interessi proprio, e tende a favorire il trasporto su gomma, quando, tra l’altro, dalle targhe dei camion, pare che lo stesso sia ben poco in mani italiche. Inoltre sempre più frequentemente, camion “bestioni”percorrono le statali, pure con qualche problema per il manto stradale, per non pagare i pedaggi, non certo a buon prezzo, di Autovie venete, che non è però una società pubblica. Dal sito di Autovie venete: www.autovie.it, si viene a sapere che essa è una società nata nel 1928, diventata pubblica nel 1950, attualmente (30 giugno 2015) con maggioranza delle azioni in mano a Friulia s.p.a., e con soci maggioritari: Regione Veneto; Infrastrutture Cis S.r.l.; Cassa Risparmio del Friuli Venezia Giulia, S.p. A., Unicredit S.p. A., altri privati ed alcuni enti pubblici. Il capitale di Autovie Venete è di 607.560.533,00 euro, capitale ben più basso dell’investimento che ora si prevede per la terza corsia: circa la metà.

La terza corsia prevede, in progetto, (cfr. Progetto terza corsia, in: http://www.autovie.it/), nel tratto compreso tra Venezia a Trieste, 2 nuovi svincoli e 7 ristrutturazioni, 2 nuovi caselli ed il miglioramento di quelli già esistenti; la riorganizzazione del nodo di interconnessione con la A 23, ( nodo di Palmanova).

In febbraio 2015 la situazione, per la terza corsia, si presentava così: «I lavori per la realizzazione della Terza corsia di marcia sull’autostrada Trieste-Venezia, suddivisi in 4 lotti esecutivi, sono stati completati nel novembre 2014. (…). La sezione aperta al traffico ha una lunghezza di 18,5 km. La prossima sezione destinata ad essere messa in cantiere (nel 2017) è quella compresa tra Portogruaro (Venezia) e Palmanova (Udine), già affidata dal 2010 al raggruppamento di imprese formato da Pizzarotti e Rizzani De Eccher.
In dicembre, il Cda del concessionario Autovie Venete ha approvato il nuovo piano finanziario. In esso sono inquadrati un totale di 1.428 milioni di investimenti per i lotti rimanenti, mentre 558 sono stati già spesi per la realizzazione del primo lotto della Terza corsia, il nuovo casello di Meolo e la A34 Villesse-Gorizia. All’interno del documento sono state individuate delle opere prioritarie da completare entro il 2022, principalmente le porzioni della Terza corsia comprese tra Portogruaro e Palmanova (mentre le rimanenti, fino al completamento dell’opera, sono state rinviate al 2031), con una copertura finanziaria necessaria di circa 740 milioni di euro, di cui 440 garantiti da risorse della società e risorse statali, mentre i rimanenti 300 dovranno essere ottenuti attraverso un piano di finanziamento da siglare con le banche. (…).
La concessione in capo ad Autovie Venete è in scadenza nel marzo 2017. La società spera di ottenere un rinnovo e a tal fine sono allo studio ipotesi di fusione con altre concessionarie come Cav (titolare della A4 Padova-Venezia) e A4 Holding (concessionaria della A4 Brescia-Padova e della A31), società, quest’ultima, che peraltro ha già visto scadere la propria concessione e si trova attualmente in regime speciale di proroga. Per qualunque operazione di questo genere servirà anche il benestare dell’UE, che prevede in queste circostanze una gara europea per l’individuazione del nuovo concessionario.
Con la Legge di Stabilità 2014 il Governo ha deciso lo stanziamento di 130 milioni di euro per la prosecuzione dei lavori, suddivisi in due tranche di 30 milioni nel 2014 e 100 nel 2015.
A settembre 2013 il concessionario Autovie Venete ha ottenuto anche un prestito oneroso da Cassa Depositi e Prestiti di 150 milioni, slegato rispetto a quanto stanziato in Legge di Stabilità.L’opera è stata inserita tra quelle comprese nella cosiddetta “Legge Obiettivo” (Legge 443/01) a seguito dell’intesa Stato – Regione Friuli Venezia Giulia del settembre 2002. Nel marzo del 2005 ha poi conseguito il parere favorevole del CIPE.
(Terza corsia A4 Trieste – Venezia e Raccordo Villesse – Gorizia. Tipo infrastruttura: Progetti viari / Ultimo aggiornamento: 24/02/2015, in: http://www.otinordest.it/it-it/infrastrutture/progetti-viari/terza-corsia-a4-trieste—venezia-e-raccordo-villesse—gorizia/avanzamento-progetto).

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E noi cittadini? Non è previsto nè lo era, che su spese del genere fossimo ascoltati, né ci hanno chiesto se fosse preferibile mantenere gli ospedali di Gemona, Cividale ecc. tutto come prima della riforma Marcolongo-Telesca,  che potrebbe anche, alla fin fine, costare di meno,  permettendo la continuità territoriale sanitaria/ sociale, che  fare rivoluzioni epocali, per togliere servizi di prossimità e favorire, almeno pare, il polo udinese, costosissimo, per nuova sede ecc. ed indebitato, ove eccellenze possono andar via a causa della richiesta, fatta loro, di lavoro burocratico e non medico. (Alessandra Ceschia, Brusini lascia l’ospedale: qui non si può lavorare. Udine, dopo quarant’anni di carriera l’oculista conosciuto in tutto il mondo, ora primario, se ne va. «Mi è stato chiesto di fare il dirigente, ma io voglio solo operare i pazienti», in: Messaggero Veneto, 22 ottobre, 2015).

SANITÀ E LINGUAGGIO.

L’aspetto del linguaggio, poi, che non è secondario in quanto apre a scenari diversi, anche organizzativi, non è di poco conto, come la comunicazione fra chi gestisce la salute attraverso la sanità e le persone che ora subiscono quest’ ultima. Infatti a me pare, e mi scuso subito per detta impressione, di esser non più una cittadina, ma una sottomessa a tutto ciò che politica vuole.

Giorni fa parlavo di sanità con una persona, che credo informata sui fatti, e mi pareva di sentire tutte le possibili risposte che avrebbe dato, secondo me, il mero politico di turno. Infine io ho capito che decide Teleschissima, e mi perdoni l’assessore questo termine che non vuol esser dispregiativo, ma solo mostrare la potenza di questo incarico esterno regionale, prima amministrativo all’università di Udine, poi al Santa Maria Hospitale … sulle nostre vite. Per dir la verità mi pare che, a livello sanitario, noi cittadini siamo al “O cussì o gloti”, dato che dall’assessore Telesca, pleni potenziaria, tranne che voletemi bene, e io so di fare bene, ne sono fermamente convinta, (noi sempre meno) attraverso il Messaggero Veneto, a noi popolo, non ha detto nulla, sempre che io sappia,  quasi che la sanità, da cui dipende la salute, non fosse cosa nostra… che ha creato, con il dirigente Adriano Marcolongo, partendo dal mero taglio di posti letto, una  riforma moloch senza uno straccio di indagine, senza sapere le esigenze della popolazione. Ma mi scuso subito per queste considerazioni, che non vogliono esser offensive, che potrebbero esser sbagliate, e chiedo, se erro, di correggermi.

Inoltre quando noi pazienti, noi gente comune, parliamo di sanità  parliamo di medici, patologie, diagnosi, difficoltà ad usufruire dei servizi, parliamo di problemi come  il da me definito  “turismo sanitario” provinciale, regalatoci dalla regione grazie al cup provinciale, e mi sento rispondere in termini di atto aziendale, steso dai vertici, che dopo esser passato al vaglio dei politici, verrà attuato.

Oddio, penso, mi devo esser persa un pezzo sulla democrazia moderna! Ma si sa che i vecchi, come me, “subiscono le ingiurie degli anni, e non sanno distinguere il vero dai sogni” – come giustamente canta Guccini, e forse io non capisco la sanità moderna e sogno, data la non giovane età, una sanità che risponda ai bisogni di salute della popolazione regionale ed italiana.

Ma Puppini c’è il medico di base … potrebbe arguire qualcuno, medico che ha un contratto con il ssn, in semi – libera porfessione, che può venire a visitare il paziente che sta male, se visita prenotata dopo le 10 del mattino, entro le 13 del giorno seguente, che può visitare solo su appuntamento, che ha solo le mani come mezzo diagnostico, e via dicendo. Inoltre il medico di base non necessariamente è quello di fiducia, e può esser quello che in quel momento è assegnato al paese o è uno della lista, che legge vuole si debba scegliere. E si può cambiare, ecc. ecc. Ci manca solo che non possa neppure prescrivere se non quello che decide il governo! Migrate figli e nipoti, migrate!

E sconsolata mi chiedo: ma come si fa a programmare senza conoscere le esigenze della popolazione di riferimento? Ma poi mi ricordo che non esiste un polo di riferimento, perché ora, noi della montagna, andiamo dalle Alpi al mare, a causa della centralizzazione provinciale del cup, che ha posto tutti gli ambulatori, da Lignano a Tarvisio, in un unico calderone, e li mescola, come nella miglior sabba, con il risultato che spesso gli udinesi invadono i nostri ambulatori e noi andiamo a Palmanova,  con grossissime difficoltà per pazienti e medici.

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Sento che l’aas3 prevede la trasformazione dell’ospedale di Gemona in polo riabilitativo, un po’ per tutti, anche infartuati, e che l’ospedale di Tolmezzo sarà per acuti, cioè funzionale al pronto soccorso … che i casi gravissimi li manda a Udine …
Chiedo di visionare l’atto aziendale, sentendomi una specie di ufo nel chiederlo. Ma poi scopro che esso esiste, come il progetto per Gemona, sul sito aas3, ed è scaricabile in pdf.

Nel leggere quest’ultimo, mi immagino futuri scenari se il San Michele verrà trasformato in un poli- riabilitativo. Vedremo fratturati, infartuati e varia umanità sperimentare le proprie capacità residue, ed evitare l’Alzheimer‎, cercando ogni escamotage per sopravvivere alle mille peripezie burocratiche (che la sanità sempre più elargisce loro ed elargirà, concentrando i “da riabilitare” senza nome in un unico polo), gettarsi in macchina perigliosamente, fra camion, traffico, caldo soffocante e su un asfalto reso rovente d’estate, viscido e ghiacciato d’inverno, e con un occhio all’orologio, per fare riabilitazione?

Metteranno delle auto, delle corriere, per il trasporto – mi dice qualcuno. A nostre spese, penso, e con orari, stanchezza, ecc. Io spesso fra, metti vicino carte, vedi della prescrizione ecc. sono giunta a visite sfinita, e con la sola voglia di tornarmene a riposare a casa.

E i fisioterapisti sul territorio? – chiedo alla persona che dovrebbe esser informata sui fatti. Ma di ciò, come di altri problemi pratici, ( per esempio ruolo dei volontari, di cui uno di loro mi parlava ieri) non vi è traccia nell’atto aziendale, per quello che ho potuto capire, che prevede solo l’organizzazione burocratica dirigenziale, fra l’altro non si sa svolta da chi. E la mente mi corre a L. ed ad un’altra, carniche, appena uscite dall’ospedale di Tolmezzo con un nuovo pezzo di aorta, messo ad Udine, che dovrebbero stare tranquille, non fare quasi nulla, ecc. ecc. Ci sarà un riabilitatore per loro a casa?

Infine mi chiedo come gli urologi in forze a Gemona potranno fare, se ho ben compreso, senza essere Superman o aumentare di molte unità, 1000 operazioni l’anno, oltre quelle ambulatoriali, tra l’altro operando anche a Tolmezzo gli acuti, ed andando sino a Codroipo a far ambulatorio, ma in ogni caso. Significa fare circa 3 operazioni al giorno, dato che il sabato e domenica non si opera.

Forse costava di meno lasciar tutto come prima e si sarebbero evitati all’utenza l’angoscia e nuovi problemi, che a me vengono talvolta narrati da terzi. Ma spesso non ho una risposta per loro, anche se la cerco.

Ma cosa vuoi che sia … Scrivo questo per discuterne, per farlo presente ai vertici, non certo come mera critica, per l’attenzione dimostrata, attraverso questionario, dall’aas3 al parere dell’utenza, e per cercare una via di dialogo, pensando al piccolo Andrea, mio nipote, ed ai miei figli. E se erro, per cortesia, correggetemi, e non intendo offender nessuno, ma non so esprimermi che nel modo che ho utilizzato, per esporre quanto penso. Ed in  fondo sono una madre ed una nonna …

Laura Matelda Puppini

Migranti e lavoratori CoopCa: un unico scenario.

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Leggo sul Messaggero Veneto odierno, della maratona psicofisica per far approvare una legge, di cui non si sa quasi praticamente nulla, sull’accoglienza dei migranti.  (d.p.e., Legge sugli immigrati, La maratona i aula fra polemiche e “fughe”, in: Messaggero Veneto, 29 ottobre 2015).  «Come volevasi dimostrare, hanno aspettato l’ultimo momento – penso –  con il risultato di allarmare maggiormente la popolazione».

Non mi si dica che il problema dei migranti è nuovo, non mi si dica che non si poteva affrontare prima, e non so come si possa negare che i vertici europei se ne siano “andati in ferie” invece di discuterne in modo articolato ed organizzato.  “Tranquilli” – diceva Torrenti –  “Tranquilli” – ripete ancor’oggi l’assessore alla cultura – non si sa bene su che base.  Questa “politica regionale”, a me pare una politica del “training autogeno”, che punta sull’auto – convincimento dell’individuo, che non gli accadrà nulla, qualsiasi cosa succeda, ed una politica che punta all’acquisizione di spirito di rassegnazione. Cittadini o Sotàns? A voi la risposta.

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Al ritorno dalla Germania, il 18 di settembre 2015, parlavo, dopo il valico di Coccau, con un italiano, che mi diceva che l’Italia è totalmente impreparata a dare risposte al problema di coloro che si affacciano alla frontiera. Come dargli torto?

E poi, secondo me, continuiamo a comportarci come fossimo la Germania, non guardando la realtà di recessione economica reale, la precarietà dei giovani, la limitazione dei diritti primari come la salute, con leggi e riforme dettate dal dio denaro, cioè dalla finanza. Non siamo la Germania, siamo la Grecia prima di Tsipras, con una corruzione di non poco conto, come rilevato dalla stampa.
E non sappiamo cosa realmente pensi di fare o stia facendo la Germania, per i migranti. E rimando al mio precedente, dal titolo “Migration. Europa, un gigante dai piedi di argilla”, ed alla mia esperienza.

Leggo, pure, un paio di esiti della maratona psicofisica dei consiglieri regionali sui migranti, e mi paiono, come il solito, parole vuote. Non una indicazione di come i migranti saranno distribuiti sul territorio, di dove potranno alloggiare, di come alimentarli, di quali malattie potrebbero essere portatori, di quali scuole potranno accogliere i loro bambini, (sperando siano dotati di documenti), senza mediatori culturali, mentre i nostri potrebbero esserne esclusi per un vaccino. Inoltre i migranti potrebbero avere una non corretta percezione di cosa possono pretendere da noi, in un’Italia ormai languente anche in democrazia, e con milioni di poveri reali, che i ricchi politici, a 12.000 euro netti  il mese, come i ricchissimi manager, non pare vedano. Ma forse  basta chiudersi occhi ed orecchie, sorvolare l’ennesimo articolo che talora compare sui quotidiani relativamente alle italiche povertà, ed hoplà, il gioco è fatto.

Comunque, per quanto riguarda i migranti, ha certamente ragione Miniti nel dire che il problema è sovranazionale e tali dovrebbero essere le decisioni, (Minniti: niente allarmismi, ma l’attenzione è massima, in: Messaggero Veneto, 29 ottobre 2015) ma ormai chi ha eretto muri li ha eretti e tutto si è giocato in quella notte in cui si è concesso ad ogni stato di decidere nel merito come meglio desiderava. Ed abbiamo visto come.

90.000 persone sono entrate in Slovenia – si legge oggi sul Messaggero Veneto – e la tensione fra  Slovenia e  Croazia, (che non  permette ai migranti di sostare sul suo territorio) va crescendo. Anche l’ Austria è ai limiti, e lo era già un mese fa, ed i pattugliamenti, i mezzi – blocchi confinari per non dire che il confine è chiuso ecc. pare si susseguano. (Domenico Pecile, Profughi. Roma chiede altre caserme al Fvg, in Messaggero Veneto, 29 ottobre 2015). Del resto come fare a non comprendere sloveni ed austriaci, quando desiderano avere sul loro territorio un afflusso pianificato? Non si capisce, invece, la Merkel, che afferma che darà asilo solo a coloro che hanno lo status di rifugiato, quasi, in questa enorme massa di spinta, si riuscisse ad isolarne i soggetti che vi appartengono. Ma i politici, ancor di più ora, pare vivano nell’altra metà dell’emisfero, si fa per dire. Pensano alle nozze gay, (e, francamente, non ne possiamo più di sentirne parlare), che sono un problema per la chiesa, non per noi, pensionati, disoccupati ecc …
Sempre sullo stesso articolo, per ritornare al dunque, si legge, pure, che la Germania accusa l’Austria di far passare il confine tedesco a migranti di notte, e fra accuse, controaccuse, smentite, sembra che non si sia capito ancora come intervenire, insieme, per quella che appare la più grande migrazione dalla seconda guerra mondiale. Gli unici che hanno deciso sono quelli che hanno recintato tutto con filo spinato, mentre pare che altri li vogliano seguire. Per quanto riguarda le ex- caserme, (riferimento ivi) sarebbe importante trovare una formula per il loro utilizzo, ma non passandole ai comuni. Infatti come potrebbero controllarle e renderle agibili? Infatti non ci si illuda: ad un nome può corrispondere, di fatto, una serie di edifici, in stato penoso.
Inoltre una volta concentrati i migranti in strutture, come si pensa di procedere, prima che le situazioni diventino esplosive? Mistero.

Orfana di Est Journal, che non mi manda più le sue news, non si sa perché, cerco ragguagli su cosa sta accadendo realmente sulla rotta dei Balcani, digitando su internet il suo nome, ma pare assopito sull’argomento. Penso, sperando di errare, che i politici si augurino, che, piano piano ci abitueremo ad ogni situazione.

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Entro alla Coop-ca, in “sbaraccamento” grazie, pare e pure, a pessimi amministratori.
Raggiunta la cassa, chiedo ad una cassiera se vi siano novità sul loro futuro. È ormai per me quasi un rito il chiederlo, è per me quasi un’abitudine sentirmi rispondere che non vi è nulla di nuovo. Vorrei leggere sul Messaggero Veneto o su il Gazzettino, per par condicio, che il Consiglio Regionale ha dedicato una “maratona” si fa per dire, anche a quelle centinaia di lavoratori della Coop-Ca che perderanno il posto, ed a quelli della Evraz Palini di San Giorgio di Nogaro, che lo stanno rischiando definitivamente; vorrei leggere sul Messaggero Veneto o su il Gazzettino che la Regione sta pensando anche alla loro sopravvivenza, oltre che ai loro diritti, e che si sta occupando pure dell’indotto carnico che viveva intorno a Coop-Ca. In fin dei conti, da che mondo è mondo, si pensa prima ai propri familiari, poi agli altri. E comunque per pensare agli altri vi sono stati mesi e mesi, se un anno fa compariva, in data 29 dicembre 2014, un articolo, in cui si riferiva della richiesta della “Rete diritti e cittadinanza” a Serracchiani, di una legge sull’accoglienza. (La “rete diritti e cittadinanza” alla Serracchiani: Serve subito una legge sull’accoglienza, in Messaggero Veneto, 29 dicembre 2014). Comunque, al di là di tutto, servirebbe che la “Rete diritti e cittadinanza” pensasse anche un po’ a noi, cittadini italiani – rifletto fra me e me …

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Pensando alla Coop-Ca, mi viene in mente Vittorio Cella ed il suo tentativo, con altri, di gestire le acque carniche in proprio per la produzione di energia elettrica, fallito a causa del fascismo. Questa storia, unica, gloriosa, antica, sta chiusa nei volumi dell’archivio storico della Coop-ca, da cui l’ho attinta per il mio “Cooperare per vivere. Vittorio Cella e le cooperative carniche, 1906- 1938” scritto nel lontano 1988.
Che fine farà detto archivio? Me lo chiedono in tanti, ma non so che rispondere … È tutto in mano ai liquidatori … od al liquidatore, non lo so. C’è qualcuno che può ragguagliarmi?
E chiudo con la solita frase, che mi distingue: questa è la mia opinione, senza offesa per nessuno, e se erro correggetemi, ma nel caso specifico aggiungo: guardatevi bene dal definirmi della Lega Nord, perché non lo sono. Cerco solo di esprimere ciò che penso e ciò che mi viene detto.

Laura Matelda Puppini

Ancora su Francesco De Pinedo il trasvolatore di continenti ed oceani, the Lord of distances ed Italo Balbo: come la politica fa la differenza.

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Non volevo più scrivere una riga su Francesco De Pinedo, ma dopo la lettera della sig. ra Maria Croatto al Messaggero Veneto, pubblicata il 23 luglio 2015, e dopo aver letto l’interessantissima e documentata biografia di Ovidio Ferrante, intitolata: Francesco De Pinedo. In volo su tre oceani. Mursia ed., 2005, che consiglio vivamente a chi volesse approfondire l’argomento, mi sento quasi costretta a farlo.

Sembra che il mio compito sia quello di regalare nuovamente alla storia esperienze e personaggi dimenticati e cancellati dal regime fascista e/o dal dopoguerra: Vittorio Cella ed i pionieri delle Carniche, Romano Marchetti nella complessità del suo pensiero, Romano Zoffo, il comandante osovano Livio, operai comunisti o socialisti che credettero in un miglioramento delle condizioni di vita per tutti, partigiani osovani e garibaldini carnici, vecchi comunisti, come Vittorio Pezzetta, le donne che pure lottarono, qui, contro i tedeschi.

Ed ora tocca a Francesco De Pinedo, fattomi conoscere da Romano Marchetti, che da giovanissimo ne seguiva, entusiasta, le gesta, ed il cui spessore è ben rappresentato nel testo scritto da Ovidio Ferrante, ufficiale dell’aeronautica Militare e direttore del Museo Storico dell’Aeronautica di Vigna di Valle, nonché cultore di studi e ricerche sulla storia dell’aviazione.

Così egli introduce Francesco De Pinedo: «Personaggio simbolo di un’epoca, pilota di idrovolanti senza eguali nella storia del volo, trasvolatore di continenti e di oceani, Francesco De Pinedo è rimasto a lungo confinato nel limbo di una “damnatio memoriae” imputabile più ad una disattenzione mirata degli uomini che all’inesorabile fluire del tempo. Sulla sua vita e sulle sue imprese è stato scritto molto poco e senza mai fare cenno agli eventi che, a partire dal 1929, dettero una drammatica svolta alla sua esistenza. Da qui l’ esigenza di colmare una lacuna nella storia dell’aeronautica […]». (Ovidio Ferrante, op. cit., p. 1).

Chi era Francesco De Pinedo.

Nato in una famiglia nobile di origini spagnole e legata alla marina, giunta a Napoli a seguito del Borboni, Francesco De Pinedo, Franz per gli amici, nato nella città partenopea il 16 febbraio 1890, fu educato alla disciplina ed alla dedizione allo studio, fino a vedersi negata, persino, l’esperienza della bicicletta, nuovo mezzo che molto lo attirava, o del violino. Egli considerò sempre l’eleganza nel vestire e la prestanza fisica aspetti a cui dare particolare attenzione; a scuola e durante la vita militare non accettò di esser superato da chi fosse meno preparato di lui o, peggio con peggio, si avvalesse di raccomandazioni “spintarelle” ed aiuti di vario genere.
Bravo pittore, si diplomò presso il liceo classico brillantemente, e, durante l’ultimo anno, frequentò, pure, liberi corsi di diritto coloniale, di lingua  giapponese e di lingua inglese, di politica commerciale presso l’Istituto Orientale di Napoli. Si dedicò, inoltre, al canottaggio, alla vela ed al nuoto.

Grazie all’eccellente preparazione scolastica ed alla prestanza fisica, vinse il concorso per l’ammissione, come allievo, all’Accademia Navale di Livorno, che frequentò con senso di disciplina ed ottimi risultati, fino a diventare ufficiale di marina. (Ivi, pp. 1 -18). Dopo il primo anno di Accademia firmò l’arruolamento volontario come marinaio per sei anni, nel corso della frequenza partecipò a tre crociere che gli fecero conoscere il mondo e l’oceano, lo abituarono a scrivere il diario di bordo giornaliero, gli permisero, per caso, di ammirare, in America, Wright in volo.

Partecipò, quindi, ad alcune azioni nella guerra di Libia, anche come comandante di un gruppo di fanti marinai, ed alla prima guerra mondiale come ufficiale di marina, con utilizzo in diversi compiti. Nel 1917 chiese di essere ammesso alla scuola di volo di Taranto, che si stava riorganizzando, con il desiderio di diventare aviatore di marina. (Ivi,pp.19-31).
Già durate la frequenza del corso di pilotaggio dimostrò le sue doti particolari come pilota, che mise in luce ed affinò, pure, nelle successive azioni di guerra alla guida di idrovolanti, azioni che gli valsero tre medaglie d’argento al Valor Militare. La perizia tecnica acquisita e personale, la serenità ma anche freddezza con cui sapeva superare difficoltà anche impreviste, furono aspetti che permisero la riuscita delle sue imprese aeree. Infatti egli fu il primo italiano ad attraversare, con idrovolante, tre oceani, e se ciò gli portò, in un primo momento gloria, poi invece fu causa, forse, di invidia.

Le transvolate oceaniche.

Comunque torniamo alle sue imprese aeree. Nel 1923, con il grado di capitano di corvetta, entrò a far parte dell’appena costituita arma aeronautica; il 23 febbr. 1924 fu nominato capo di stato maggiore del comando generale dell’aeronautica, ed il 10 marzo Promosso tenente colonnello. La rapida carriera, che lo portava ai vertici dell’arma, non lo distolse da un’intensa attività di volo. In quello stesso anno De Pinedo effettuò le crociere Brindisi – Istanbul-Brindisi e Sesto Calende-Olanda-Roma.
Nel 1925 compì la grande trasvolata dall’Italia all’Australia con ritorno attraverso il Giappone a bordo in un idrovolante Savoia-Marchetti S 16 ter, da lui battezzato “Gennariello”. Il raid ebbe inizio il 20 aprile a Sesto Calende e terminò il 7 novembre, dopo che furono coperti 55.000 km di volo. Due giorni dopo la conclusione di questa impresa Francesco De Pinedo fu promosso colonnello; fu inoltre insignito della croce di cavaliere dell’Ordine militare di Savoia.

Nel 1927 compì la sua più celebre impresa, effettuando con il secondo pilota C. Del Prete e il motorista Vitale Zacchetti la trasvolata dall’Europa alle due Americhe e ritorno. L’impresa iniziò il 13 febbraio dall’idroscalo di Elmas (Cagliari) e si concluse ad Ostia (Roma) il 16 giugno, dopo 43.820 km di volo per complessive 279 ore e 40 minuti, e moltissimi contrattempi. (Giuseppe Sircana, Francesco De Pinedo, in: http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-de-pinedo_%28Dizionario_Biografico%29/). Questo secondo volo fu voluto e seguito anche dal Governo Italiano, che intervenne un paio di volte per modificare la rotta ed abbreviare i tempi per il rientro, desiderando sfruttarlo a fini propagandistici per il regime.
Sia la prima impresa che la doppia trasvolata dell’Atlantico, furono seguite con entusiasmo dalla stampa italiana ed estera e portarono migliaia di ammiratori nei porti e nelle città dei continenti toccati.

Nella seconda impresa De Pinedo volò, per primo, sopra la foresta amazzonica, e riuscì, grazie all’aiuto di una persona che ivi viveva, ad ammarare su di un fiume ai suoi margini; pilotò per un tratto senza vedere nulla ed utilizzando solo la bussola per orientarsi; incontrò spesso problemi meteorologici imprevisti, fra cui tempeste e bonaccia; collaudò l’aereo, notandone anche i limiti; visse per ore e giorni fra “mare e cielo” come intitola Ferrante il capitolo dedicato alle due imprese.
Nel frattempo, in Italia, si seguiva con trepidazione le sue gesta: i giornalisti non sapevano ad un certo punto più che facesse, non c’era una comunicazione radio perfetta, e men che meno esistevano comunicati ansa, non c’erano satelliti a informare e spiare. Ed anche a livello geografico le transvolate di De Pinedo portarono nuove informazioni ed arricchirono di nuove conoscenze, verificate in loco.
Il rientro di De Pinedo in Italia fu un trionfo di folla e per il regime. Era il 1927, da lì a due anni Francesco De Pinedo avrebbe dovuto lasciare l’Italia. I fatti si susseguirono a ritmo serrato, ed ebbero come protagonisti: Francesco De Pinedo, Italo Balbo e con lui personaggi che tramarono nell’ombra, forse dell’Aeronautica, “invidiosi e farabutti” come lo stesso De Pinedo lì definì, (Ivi, p. 165), e prepararono alla crociera del decennale, l’impresa coreografica, che avrebbe dato lustro a Balbo, cancellando l’eroe delle trasvolate oceaniche, “The Lord of distances”. Italo Balbo, però, prima di far in modo, assieme ad altri, che De Pinedo uscisse dalla scena, aveva bisogno di far strutturare l’arma dal generale napoletano, che organizzò e guidò la prima crociera, che organizzò ma non comandò la seconda, ove iniziò ad esser emarginato, fino ad accuse infondate, ed alle sue forzate dimissioni “volontarie”. 

Il generale De Pinedo.

Riassumo qui dal volume di Ovidio Ferrante, cosa accadde a Francesco De Pinedo dal 1928 al 1933, anno della sua morte.
Già dal 1927-28 «Balbo, che nutriva amicizia e stima per De Pinedo, forse cominciò (…) a provare un larvato timore che, in un futuro non lontano, questi potesse diventare un pericoloso concorrente al vertice della Regia Aeronautica. Lo inquietava anche una certa assiduità con cui frequentava la famiglia reale […]. » (Ovidio Ferrante, op. cit., p. 122).
Spenti i riflettori sul volo transoceanico del luglio 1927, Francesco De Pinedo fu impegnato in un lungo tour che lo portò in giro per la penisola, sia per partecipare a cerimonie in suo onore, sia per visitare informalmente basi ed insediamenti aeronautici.
Nel dicembre 1928 fu nominato generale e sostituì il generale Ercole Capuzzo al comando della Terza Zona Aerea Territoriale.
In questa sua nuova veste, De Pinedo cercò di snellire, per quanto in suo potere, i tortuosi canali burocratici che rallentavano l’attività operativa dei reparti; regolamentò il potere decisionale e cercò di obbligare alle osservazioni da porre per via gerarchica e sottoscritte, non anonime e da far pervenire per vie secondarie in alto loco, come era in uso; utilizzò la visita improvvisa ai reparti per verificarne l’efficienza, punendo quando si trattasse, in particolare, di negligenze ed indiscipline nel volo, pretese dagli ufficiali subalterni correttezza nell’abito e non familiarità in pubblico, e forse, in questo suo essere veramente un generale, si inimicò più di qualche persona di un ambiente ove i sussurri pare superassero le grida, e non potevano non giungere alle orecchie dell’allora sottosegretario dell’Aeronautica, il quadrunviro Italo Balbo. (Ivi, p. 124).
Quest’ ultimo aveva un’idea diversa quella di De Pinedo sull’aviazione, che doveva esser accentrata nelle mani dei militari e non contemplare aviazioni civili e commerciali come corpi scissi, riteneva il tempo dei voli individuali terminato, e viveva Francesco De Pinedo, Amedeo Mecozzi, Alessandro Guidoni ed Umberto Nobile come personaggi molto difficili da gestire e da far piegare ai suoi ordini, tanto che li definì i «quattro chiodi della mia Croce». (Ivi, p. 125 e p. 135).

Quelle due Crociere di massa sul Mediterraneo studiate, organizzate predisposte, da Francesco De Pinedo.

Per mostrare le forza e la compattezza dell’aviazione italiana, Italao Balbo preannunciò la realizzazione della “Crociera del Mediterraneo Occidentale” che sarebbe stata portata a termine da più decine di idrovolanti a tappe, coprendo il tragitto da Orbetello, in Sardegna, alla Spagna.
Italo Balbo affidò a Francesco De Pinedo lo studio, la pianificazione, l’organizzazione dell’impresa, in ogni suo minimo dettaglio, compresa la preparazione degli equipaggi, e quindi lo pose al comando della brigata in fase esecutiva, non potendolo fare di persona, perché privo, ancora, di grado militare adeguato e di sufficiente esperienza.  (Ivi, p. 127).
Il successo dell’impresa fu attribuito sia ad Italo Balbo sia a Francesco De Pinedo, ma da quel momento le sorti dell’aviatore napoletano presero altro corso.
Non si sa in modo preciso cosa causò la frattura fra Balbo e De Pinedo, forse il timore, da parte del primo e di altri, che il secondo potesse assumere velocemente posizioni ancora maggiori di potere, o forse vi contribuì quella “stagione dei veleni” che allora attraversò la Regia Aeronautica. Certo è che l’individualismo di De Pinedo non piaceva a Balbo, ma è anche certo che Francesco De Pinedo non poteva nemmeno pensare lontanamente di avversare Italo Balbo, il quadrunviro che Mussolini viveva come suo secondo, e quindi con un fortissimo potere politico, e che aveva chi gli riferiva ogni pettegolezzo da corridoio. (Ivi, pp.130-131). E De Pinedo rimase certamente male per la sua nomina a Capo di Stato maggiore facente funzioni, e non effettivo, e per il diniego di Balbo a permettergli un nuovo volo solitario sulle Americhe, finanziato coi i fondi donatigli per un secondo idrovolante dagli italo Americani. Ma « non mancarono […] “sussurri e grida” sapientemente alimentati dall’imbattibile “capacità di intrigo della burocrazia romana”.» (Ivi, p. 132).

Intanto Balbo comunicava a De Pinedo, ignaro di cosa lo avrebbe atteso nel futuro, il suo desiderio di compiere una seconda Crociera di massa nel Mediterraneo, che volgesse ad Oriente, e toccasse nazioni che gravitavano nell’orbita dell’industria aeronautica italiana, e lo investiva della progettazione e della buona riuscita dell’evento. (Ivi, p. 133). Mentre egli preparava, con la solita sua precisione, questa nuova crociera nei minimi particolari, fu nominato “generale di divisione aerea a scelta assoluta”, e ciò gli creò, nell’ ambiente, ulteriori nemici.
E mentre si preparavano le ultime fasi del volo, qualcuno suggerì a Balbo, vedendo un certo suo raffreddamento verso De Pinedo, che per far volare uno stormo di aerei bastava porre al comando un colonnello, senza disturbare un generale. E fu l’inizio della fine per Francesco De Pinedo.

Pur potendo fare molte obiezioni a questa idea, partendo dal fatto che non trattavasi di stormo ed in volo normale, Italo Balbo decise di dare il comando dell’impresa al colonnello Aldo Pellegrini, relegando De Pinedo, generale, al ruolo di mero organizzatore e supervisore della crociera.
A ciò si aggiunse un nuovo duro attacco da parte di Balbo stesso, agli aviatori solitari, che passò come “Il discorso delle primedonne” e che fu pronunciato pochi giorni prima della partenza per la seconda crociera di massa. « (…). E’ difficile sottoporre alla normale disciplina di una Forza Armata come l’Aeronautica i grandi campioni che hanno raggiunto un successo personale d’eccezione … la stessa intensa ed universale curiosità popolare, l’interesse che il mondo polarizza intorno ad un solo individuo la facile rivincita della vanità fanno sì che siano difficilmente comandabili, dopo una grande prova, quegli uomini che l’abbiano comandata e vinta: d’ altra parte troppo facilmente si dimentica che per ognuno di questi sforzi, compiuti da valorosi dell’ Arma Aerea, occorre l’opera lunga ed assidua di decine e decine di altri uomini, non meno volonterosi e degni di plauso». (Ivi, p. 135). Il discorso fu letto immediatamente come un attacco velato a Francesco De Pinedo, un voler cancellare la sua grandezza, a fronte della “grandezza della massa”.

Comunque fosse, la Crociera Aerea del Mediterraneo Orientale prese il via nel maggio 1928, come previsto, solenni furono anche le accoglienze dei sovietici agli aviatori italiani, ma….molti problemi pratici furono risolti da De Pinedo, anche con presenza e lavoro personale, come d’abitudine per lui.

Ma, nonostante ciò, non vennero rispettate le priorità nei cerimoniali ad Istanbul, Odessa, Atene, ove il generale De Pinedo non fu nemmeno inserito tra le autorità nel galà offerto dall’ambasciata italiana; inspiegabilmente, al rientro il Duce parlò di Crociera da lui stesso ideata e «sapientemente organizzata dai Comandi Superiori» (Ivi, p. 137), e se nella realtà la realizzazione dell’impresa si doveva, per la gran parte a Francesco De Pinedo, il suo nome comparve solo marginalmente sulla stampa dell’epoca «opportunamente indottrinata». (Ivi, p. 138).

Le accuse infondate al generale Francesco De Pinedo e la sua “volontaria” rinuncia ad ogni incarico.

I fatti si sussegono incanzanti. La macchinazione ai danni di De Pinedo era stata ordita da tempo ma si aspettava, per attuarla, il termine della seconda crociera del Mediterraneo, che era stata segnata da continue incomprensioni, ripicche, screzi tra Balbo e De Pinedo, ormai diventati di pubblico dominio. (Ivi, p. 140).

Siamo nell’ estate del 1929. De Pinedo, che è un nobile, parte per una vacanza con i Principi d’Assia, in Svizzera.
Lì viene improvvisamente raggiunto dal colonnello Gennaro Tedeschini Lalli, che gli porta una lettera urgentissima di Italo Balbo, per cui lo stesso vuole immediata risposta, onde riferirne al Duce.
Italo Blabo chiede improvvisamente conto, a Francesco De Pinedo, di una ingente somma che lo stesso aveva ricevuto dagli italo americani per l’acquisto di un secondo idrovolante Santa Maria, quando il primo era andato a fuoco, poi non utilizzati. La somma è congelata, a nome di Francesco De Pinedo a cui è stata consegnata come dono personale, in una banca, neppure un dollaro è stato utilizzato.
Inoltre l’ambasciatore d’Italia negli States, Giacomo De Martino ed altri, che hanno fatto da intermediari e consegnato la somma, sono al corrente di quanto, ma vedremo che, a precisa domanda, pare che nessuno se ne ricordi più.
Inoltre pare come minimo inverosimile che il Governo italiano non fosse al corrente di detta somma dal momento che era stata consegnata nel corso di un pubblico banchetto, “alla luce del sole”.

«Dal contenuto della lettera- scrive Ovidio Ferrante- si arguisce che Balbo, di certo a conoscenza di com’erano andate le cose, aveva messo insieme pezzi della storia con il preciso intento di addebitare a De Pinedo un comportamento poco chiaro sulla destinazione finale della somma raccolta, giocando sulla confusione creata, proprio negli Stati Uniti, sulla stessa». (Ivi, p. 142).
Il problema era stato originato dal Direttore del Quotidiano “Il Progresso Americano” che aveva precisato, in un primo momento, che, qualora il governo italiano avesse ricusato la cifra per pagare un nuovo idrovolante, i sottoscrittori avrebbero potuto ritirare la loro quota e devolverla ad un’Opera Pia.

Ma poi la raccolta era continuata anche dopo che il Governo italiano aveva fornito a De Pinedo il secondo Santa Maria, già approntato nel caso ce ne fosse stato bisogno, ed alla fine la cifra, pari a 32.902,00 dollari, era stata offerta, come si usava allora fare, a De Pinedo come dono personale. E comunque dagli U.S.A. non era giunta domanda alcuna, da parte di sottoscrittori, di devolvere le loro quote ad opere pie.

Ma il Governo ed Primo Ministro Mussolini, che sapevano tutto di tutti, si dichiarano all’ oscuro dei fatti.

In particolare Giacomo De Martino, ambasciatore, non vuole sottoscrivere dichiarazione alcuna: « Tu sai che tipo è – scrive a De Pinedo il capitano di fregata Alberto Lais, addetto militare a Washington – ha cominciato a tirarsi indietro, a cancellare, ridurre, finalmente ha dichiarato che lui non ricordava niente, non sapeva niente, non poteva dichiarare niente». (Ivi, p. 144).
Si giungerà infine al paradosso che l’ambasciatore chiederà spiegazioni, unendosi a Balbo, su materia, pare proprio, a lui ben nota. Ma qualcuno pensa si tratti di un “affare politico”.

La storia montata ad arte, sfruttava sia l’interesse di alcuni italo americani a convogliare l’ ingente somma verso qualche Opere Pia, sia il desiderio di alcuni di screditare Francesco De Pinedo agli occhi dell’ Aeronautica, tramite “le illazioni ed i pettegolezzi” che inevitabilmente sarebbero seguiti alla lettera inviata da Italo Balbo.
Invano De Pinedo si difese dimostrando a Balbo, con più missive in risposta a quella giunta in Svizzera, la sua correttezza, rilevata anche da Lais, ma invano. «Le spiegazioni date a Balbo non sortirono l’ effetto sperato e De Pinedo non tardò ad accorgersi che, nel volgere di pochi giorni, le cose stavano precipitando in modo irreparabile e il suo destino era irrimediabilmente segnato». (Ivi, p. 147).
Invano De Pinedo ricorse a Mussolini, scrivendogli il progressivo deteriorarsi del rapporto con Italo Balbo: «l’ultimo fatto avvenuto [la storia dei dollari] mi toglie ogni speranza; senza un trattamento amichevole di S.E. Balbo, la mia opera sarebbe vana … e nella  spiacevole situazioen reciproca che si è determinata,, mi sarebbe anche impossibile lavorare con serenità di spirito». (Ivi, p. 147).
Nel frattempo, intorno a De Pinedo, tranne un paio di amici, si fa il vuoto.

Infine il generale Francesco De Pinedo rassegna, il 22 agosto 1929, le dimissioni da Sottocapo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, nelle mani di Italo Balbo, non senza precisare lo stato non certo di efficienza delle forze aeree, soprattutto per la «mancanza di un efficiente pensiero militare di vertice», essendo l’Aeronautica, a suo avviso, governata «sulla base del colpo di mano e dell’improvvisazione». (Ivi, pp. 148-149). Ed ancora: «mentre i discorsi tenuti da S.E. Balbo all’estero sono tali da far sentire come la nostra politica ha la necessità di appoggiarsi ad una forza militare effettivamente solida, le condizioni della nostra Aeronautica son invece tali da far prevedere gravi delusioni al momento del bisogno. (Ivi, p.149).

Con tempismo ritenuto eccezionale, il 25 agosto 1929 Balbo comunicava a De Pinedo, per ordine di Benito Mussolini, che le sue dimissioni volontarie erano state accettate, di dare le consegne al generale Giuseppe Valle, di depositare presso il suo Gabinetto i famosi 32.902, 39 dollari ricevuti al tempo del doppio volo sull’ Oceano Atlantico, che volentieri Francesco De Pinedo avrebbe voluto spendere per un altro idrovolante per altra impresa, che però era stata vietata da Italo Balbo. (Ivi, p. 149).

Infine lo stesso, dopo aver scritto a Francesco De Pinedo che avrebbe dovuto incassare la somma, essendo un militare, con il permesso del ministero, che così pareva nulla sapesse, ordinava al noto aviatore e preparatore delle due crociere del mediterraneo di destinare l’ ingente somma metà all’Ospedale Italiano di New York, metà all’Opera di Loreto, per orfani di aviatori.
Invano Francesco De Pinedo inviò a Italo Balbo un preciso e circostanziato pro- memoria su detta somma di denaro, come l’avesse ricevuta ed ricevuta ed ogni particolare in merito, infine, come ordinatogli, versò la somma alle due opere pie, e fece pervenire, pure, al Duce tramite Arnaldo Mussolini, a cui esternò tutta la sua amarezza per l’accaduto, una somma personale, pari a 224.000,00 lire, frutto di sottoscrizioni da parte di giornali ai tempi del primo volo sul “Gennariello”, da utilizzarsi per la “Raestauratio Aerari” , rinunciando a tutte le somme giunte come dono personale al “Lord of distances” ed al signore dei cieli.

Pare così che lentamente si volesse far sparire dal ricordo della gente De Pinedo e le sue imprese , e che «il desiderio del Ministro», cioè di Balbo, diventato Ministro dell’Aeronautica, di toglierli le somme ricevute in dono personale, avessero posto fine a qualsiasi successiva impresa nei cieli.

L’esilio e la morte.

La via per l’esilio all’estero di De Pinedo era certa. Il Duce gli chiese ove volesse esser mandato, ed egli scelse il continente Americano. Così, il 19 dicembre 10929, Francesco De Pinedo lasciava l’Italia, salutato da molti, sul transatlantico Conte Verde in partenza per il Sud America dal porto di Genova.
Giunse a Buenos Aires, nuova sede di lavoro, profondamente amareggiato e con un caldo soffocante. L’ambientamento fu più difficile del previsto, il lavoro di addetto militare aeronautico, sedentario, la sensazione di esser sorvegliato nella vita pubblica e privata presente. Inoltre gli fu negata la possibilità di varcare i confini dell’Argentina, per recarsi all’estero. In sintesi Francesco De Pinedo era caduto in disgrazia presso il fascismo. (Ivi, pp. 155- 158 e p. 165).

Inoltre venne diffusa, da parte dei “soliti ben informati” la notizia che Francesco De Pinedo era stato inviato in Argentina a causa della simpatia del trasvolatore per la principessa Giovanna, promessa, poi, al re Boris III di Bulgaria, nonostante la Regina in persona avesse assicurato che non aveva motivo alcuno di risentimento verso il generale De Pinedo, in sintesi che egli si era sempre comportato correttamente. (Ivi, p. 160).

Che Francesco De Pinedo fosse caduto in disgrazia, lo dimostrano due fatti, che pure ci mostrano il clima che si viveva in quegli anni.

Dal 22 al 30 maggio del 1932 si svolgeva, a Roma, organizzato dal Reale Aereo Club d’Italia, il primo Convegno Internazionale degli Aviatori Transoceanici, «il cui grande patron era Balbo che, l’ anno prima, aveva compiuto la trasvolata dell’Atlantico Meridionale, da Orbetello a Rio De Janeiro, alla testa di uno stormo di idrovolanti S 55 TA». (Ivi, p. 164-165).
Il successo dell’impresa era stato notevole, proiettando Balbo nel Gotha dei trasvolatori. L’invito a partecipare al Convegno fu inviato per tempo a tutti trasvolatori dell’Atlantico italiani e stranieri, e l’adesione allo stesso doveva giungere entro il 15 marzo. Ma di fatto l’invito giunse a De Pinedo solo il 20 maggio 1932, due giorni prima dell’inizio, essendo stato inviato solo il 27 aprile 1932, impedendogli di parteciparvi.  E come non bastasse, egli ricevette, pure, un richiamo dal comitato organizzatore. (Ivi, p. 164).

L’assenza al Convegno di De Pinedo non passò inosservata. Allora «Unico aviatore vivente al mondo ad aver trasvolato, all’ epoca, sia l’Atlantico del Nord sia quello del Sud , oltre all’Oceano Indiano e all’Oceano Pacifico», certamente egli avrebbe catalizzato l’attenzione dei partecipanti, «rischiando di far passare in seconda linea la Crociera Aerea del Sud Atlantico, e con essa Balbo ed i suoi compagni». (Ivi, pp. 164- 165).

Inoltre se vi fosse stato qualche prestigioso riconoscimento, sarebbe stato quasi sicuramente dato a lui, e sarebbe poi stato difficilissimo estrometterlo dall’aeronautica, come avvenne qualche tempo dopo.
Nel settembre dello stesso anno, infatti, gli fu comunicato che non aveva i requisiti per passare al grado superiore nell’Aeronautica, di cui era Ministro Balbo, cioè a quello di Generale di Squadra. Quindi, il 1° ottobre gli giunse la comunicazione di esser stato passato all’ausiliaria, e due giorni dopo quella di cessazione dell’incarico di addetto militare, per cui si trovava a Buenos Aires. Così egli si trattenne in Argentina solo fino ai primi giorni di novembre, pensando però ad una nuova avventura nei cieli: un volo in tre segmenti diversi che lo avrebbe portato da Buenos Aires a Sidney, da Sidney a Capetown e da Capetown a Buenos Aires. E aveva scelto, credo non senza intenzionalità, di svolgere l’impresa parallelamente alla Crociera Aerea del Decennale, di cui già si sentiva parlare. Ma non era così facile attuare questo progetto.
Non era facile, infatti, trovare chi coprisse le spese, calcolate in oltre 110.000 dollari, essendo fra l’altro gli Stati Uniti in fase recessiva; nell’Aereonautica italiana vi era stata una svolta che portava in primo piano piloti preparati secondo tecniche di avanguardia, il che rischiava di far passare per obsoleta una sua nuova impresa solitaria, che forse non avrebbe incontrato più il gusto del pubblico. Ed  ormai erano state superate distanze di 7.000 – 8.000 chilometri senza scalo, ed i lunghi percorsi erano diventati frequenti. (Ivi, p. 167). Così una impresa come quella che aveva studiato non avrebbe aggiunto nulla alla sua fama. L’unica possibilità di successo sarebbe stata nella percorrenza di una lunghissima distanza senza scalo. Però ci voleva un veivolo che, alleggerito di ogni superfluo, potesse caricare molto carburante. Ed egli pensò di poter realizzare questo sogno con la Bellanca Aeronautical Corporation. Ma andò, invece, verso la morte.
«Un sorriso, una alzata di spalle» furono la risposta ai familiari, che cercavano di dissuaderlo. (Ivi, p.171).
Raggiunta New York, dopo una serie di contrattempi, saputo che il tempo era favorevole, Francesco De Pinedo decise di partire al mattino del 2 settembre 1933. Quel volo significava molto per lui: voleva infatti dimostrare a se stesso che non era invecchiato e che poteva stupire ancora.
Alle 5 del mattino, i meccanici fecero uscire dall’hangar il Santa Lucia ed iniziarono a rifornirlo di carburante. Quindi De Pinedo, accompagnato dall’ingegnere Ugo Veniero D’Annunzio, figlio di Gabriele, e suo amico, lo raggiunse. 
Salito sull’aereo, salutò D’ Annunzio e alle 7 del mattino iniziò il decollo. «Percorsi due terzi della pista, il veivolo, con un guizzo, staccò il ruotino di coda da terra, dando per alcuni attimi, l’impressione che stesse per decollare. Iniziò invece ad imbardare sulla destra e dopo un vano tentativo di rimettersi in linea, riprese a sbandare nuovamente andando a finire, senza più controllo, contro una cancellata della recinzione. Tre violente esplosioni, una dopo l’altra, lacerarono l’ aria già calda del mattino, accompagnate da lunghe lingue di fuoco […].» (Ivi, pp. 182-183). Le tre tonnellate di carburante ridussero il Santa Lucia in una informe ed annerita carcassa metallica, ove Francesco De Pinedo trovò la sua fine.

La notizia della morte di De Pinedo giunse al ministero dell’aereonautica dopo sei o sette ore. Alla notizia Balbo apparve turbato e volle esser lasciato solo, del resto, al suo rientro dalla Crociera del Decennale, aveva egli stesso colto un chiaro mutamento dell’atteggiamento di Mussolini nei suoi confronti. Balbo capì che la enorme popolarità che aveva ottenuto con le sue Crociere, avevano allarmato ed impensierito il Duce.  Ed anche per lui l’allontanamento dall’Italia, con la scusa del governatorato libico, fu segnato.
A notte inoltrata, la notizia della morte di De Pinedo iniziò a girare per la capitale italiana, ma stranamente, nessuno avvisò dell’accaduto la famiglia. Il pomeriggio del giorno seguente, i quotidiani riportarono, in prima pagina, servizi sull’accaduto dagli States. Così accadde che il fratello di Francesco De Pinedo apprendesse la notizia della sua morte da “Il Giornale d’Italia”. Per fortuna gli anziani genitori ebbero il tempo di esser preparati a conoscere l’accaduto. (Ivi, pp. 187-194).

I giornali neworkesi furono concordi nel ritenere la causa dell’incidente una manovra dell’aviatore per evitare degli spettatori spintisi troppo sulla pista; tutti i giornali statunitensi uscirono con servizi che ricordavano l’eroe dei voli transoceanici, the “Lord of distances”, quelli della comunità italo- americana uscirono listati a lutto, migliaia di sovrani, capi di stato, autorità, piloti, ma anche semplici cittadini manifestarono il loro cordoglio per la morte del grande aviatore, i primi a vegliare la salma, avvolta nelle bandiere italiana e statunitense, furono due marinai di Napoli. Il 10 settembre, la celebrazione delle esequie solenni, a New York, fu imponente, ed a De Pinedo furono resi i massimi onori per un militare, seguendo un rigido cerimoniale. Una folla immensa accorse a salutarlo per l’ultima volta, e otto aerei  militari solcarono il cielo, lasciando vuoto il posto per il “missing man” l’aviatore caduto, come da protocollo.
Quindi la bara prese posto sul transatlantico Vulcania e raggiunse l’Italia. Ma qui lo scenario fu ben diverso.
I vertici dell’Aeronautica, cioè Balbo ed i suoi, optarono per una cerimonia privata con la sola presenza di amici e familiari, e la tumulazione al cimitero del Verano, scelta che fu ritenuta un ultimo affronto dalla famiglia. Arturo De Pinedo comunicò a Galeazzo Ciano che la famiglia era in grado di pagare funerali privati, e che se tali dovevano essere, lo sarebbero stati totalmente. A questo punto intervenne Mussolini che decretò i funerali di Stato, da organizzarsi da parte dell’Aeronautica. (187-194).
Ma quando la Vulcania giunse al molo di Bevetello, nessun aereo fu fatto alzare in volo per scortare il feretro sul suolo italico. Appena sbarcato il corpo di Francesco De Pinedo fu trasportato a Roma, alla chiesa di Santa Maria degli Angeli, ove furono notate le corone del Re e di Mussolini, ma non quella di Balbo, e, nonostante la presenza del picchetto d’onore in alta uniforme, anche davanti alla chiesa, le esequie non ebbero neppure lontanamente il tono solenne e marziale di quelle statunitensi, benchè vi  partecipasse una gran folla. ( Ivi, pp. 194-198).

Il 28 marzo 1934, nel corso della cerimona per il dodicesimo anno dalla fondazione della Regia Aeronautica, Mussolini appuntò sul petto del padre di De Pinedo la medaglia d’oro al Valore Aeronautico per il figlio. (Ivi, p. 199).
«Osannato ed avversato, idolatrato e contestato […], De Pinedo non fu indenne dal girovagare della fortuna – scrive il suo biografo Ferrante – […] dalle gelosie dalle invidie […]. (…). Lui che sapeva prevedere e padroneggiare le insidie del vento e del mare […] non fu altrettanto accorto […] a guardasi dalle imboscate che i suoi antagonisti gli andavano preparando acquattati dietro le scrivanie, sgusciando e celandosi negli angusti meandri degli uffici, delle segreterie, e degli ambulacri dei palazzi del potere.» (ivi, p. 202).
Così egli iniziò ad entrare, dopo la sua morte, in quella damnatio memoriae, che è da imputarsi «più ad una disattenzione mirata che all’ inesorabile fluire del tempo», da cui Ovidio Ferrante lo ha tolto, ma per me Romano Marchetti, che seguiva le sue vicende, con ammirazione. Anche per questo, grazie Romano.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è la scannerizzazione della copertina del volume di Ovidio Ferrante, “Francesco De Pinedo. In volo su tre oceani”, Mursia editore, 2005, da cui ho preso queste note biografiche, ed a cui rimando. Laura Matelda Puppini

Per quei morti della prima mondiale. Cosa dovremmo ricordare e “celebrare” il 4 novembre?

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Se vogliamo ricordare i morti, per cosa non si sa, della prima guerra mondiale, per farne oggetto di una riflessione sulla guerre anche attuali, sulla inutilità delle stesse, con il loro bagaglio di morte, distruzione, sofferenze, certamente non posso essere che favorevole, come non mi vede contraria una preghiera per quei ragazzi che si affacciavano alla vita e furono falcidiati da chi li mandò al fronte.
Ma mi sento anche di proporre all’attenzione alcune righe di Andrea Valcic, su cosa dovremmo “celebrare” (Andrea Valcic, Quattro novembre, cosa dovrebbe celebrare il Friuli?, in : Il Gazzettino, 3 novembre 2013).

«Le prime avvisaglie di quanto accadrà il prossimo anno relativamente al centenario della Grande Guerra, – scrive Valcic nel novembre 2013 – si erano già avute a livello regionale quando, pur di fronte alla tragica situazione finanziaria e ai tagli decisi dal governo, come punto fermo erano rimasti i finanziamenti destinati a quelle manifestazioni. Gli scorsi giorni una conferma da parte del Comune di Udine che ha nominato un apposito comitato tecnico scientifico, composto da 13 persone, per organizzare e coordinare gli eventi. Credo che la domanda sia legittima: cosa andremo a celebrare, cosa dovranno ricordare i friulani? Forse fratelli contro fratelli […]? Forse le migliaia di famiglie costrette […] esuli dopo Caporetto? Forse l’ economia di queste terre, distrutta prima che dalle rovine belliche, dal venir meno del suo naturale retroterra mercantile ed occupazionale europeo? (…).»

O Gorizia tu sei maledetta, cantavano quei fanti, e di Marco Candido, di Rigolato, morto per cause belliche, ricordiamo solo che fu soldato, null’altro.

«Così Papa Benedetto XV°, salito al soglio pontificio il 3 settembre 1914, scriveva nell’Enciclica “Ad beatissimi apostolorum”, datata 1 novembre dello stesso anno :

«Sembrano davvero giunti quei giorni, dei quali Gesù Cristo predisse: “Sentirete parlare di guerre e di rumori di guerre … Infatti si solleverà popolo contro popolo, e regno contro regno”. Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto, e non v’è quasi altro pensiero che occupi ora le menti. Nazioni grandi e fiorentissime sono là sui campi di battaglia. Qual meraviglia perciò, se ben fornite, come sono, di quegli orribili mezzi che il progresso dell’arte militare ha inventati, si azzuffano in gigantesche carneficine? Nessun limite alle rovine, nessuno alle stragi: ogni giorno la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e feriti. E chi direbbe che tali genti, l’una contro l’altra armata, discendano da uno stesso progenitore, che sian tutte della stessa natura, e parti tutte d’una medesima società umana? Chi li ravviserebbe fratelli, figli di un unico Padre, che è nei Cieli? E intanto, mentre da una parte e dall’altra si combatte con eserciti sterminati, le nazioni, le famiglie, gli individui gemono nei dolori e nelle miserie, funeste compagne della guerra; si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e degli orfani; languiscono, per le interrotte comunicazioni, i commerci, i campi sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore, tutti nel lutto». (Papa Benedetto XV°, “Ad beatissimi apostolorum”, lettera enciclica ai venerabili fratelli patriarchi primati arcivescovi vescovi e agli altri ordinari locali che sono in pace e comunione con la sede apostolica, Dato a Roma, presso San Pietro, il 1° novembre 1914, festa di Ognissanti, anno primo del Nostro Pontificato. (www.vatican.va/…xv/…/hf_ben-xv_enc_01111914 , citata anche in: Laura Matelda Puppini, O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, e non solo, la prima guerra mondiale, detta “La Grande Guerra, capitolo secondo, La guerra non bisogna neppure iniziarla …, paragrafo: Sentirete parlare di guerre e di rumori di guerre…, pagine non numerate, pubblicato il 14 marzo 2014 su: http://www.storiastoriepn.it/ .

Né possiamo dimenticare l’uso ideologico che il fascismo fece dei morti nella Grande Guerra, che fu solo una immane tragedia ed un’inutile strage.

«L’edificazione dei sacrari militari della Prima guerra mondiale, salvo rare ed isolate eccezioni, fu pianificata e portata a compimento sotto lo stretto e vigile controllo del regime fascista, e la supervisione di Mussolini in persona, che provvide a delineare un preciso quadro normativo che vincolasse rigidamente ogni iniziativa progettuale in tal senso alle esigenze del disegno strategico dello Stato fascista.
Si trattava, in sostanza, da parte dello stesso fascismo di autocelebrare la propria vittoria sui nemici politici e la conseguente presa di potere alla guida della Nazione attraverso l’esaltazione della guerra vittoriosa e di coloro che vi erano morti per portare a compimento con il loro sangue l’opera di unificazione dell’Italia con quella che venne interpretata come l’ultima e definitiva guerra d’indipendenza nazionale. Per queste ragioni i sacrari dovevano prendere il posto sia degli ossari tradizionali sia dei monumenti ai caduti sia, infine, degli stessi cimiteri di guerra: spazi nuovi per una nuova Italia militarizzata, guerriera e fascista.
Pressoché tutti i sacrari italiani sorgono negli stessi luoghi del territorio nazionale ove si svolse il primo conflitto mondiale: il «teatro di guerra» subì una metamorfosi e si trasfigurò in «architettura del silenzio» carica di significati, che ancor oggi connota e storicizza quel paesaggio, facendo di esso il luogo della memoria privilegiato dal regime. Fondata su una poetica ricca di implicazioni simboliche, che danno vita a una nuova retorica della morte, a una nuova epica, a nuovi miti e nuovi riti, l’architettura dei sacrari non rinnega ma rielabora e riutilizza per i propri scopi i simboli funebri della religione cattolica, riuscendo a far convivere il culto della morte e della resurrezione con quello vitalistico della stirpe.
Furono il Veneto, il Friuli – Venzia Giulia, il Trentino – Alto Adige, (le Tre Venezie) ad accogliere questa «architettura necessaria», come la preconizzò e la definì Margherita Sarfatti fin dal 1923.
La realizzazione della maggior parte dei sacrari di guerra in Italia si colloca nell’arco temporale che va dal 1931 – anno nel quale fu emanata la prima legge organica in materia di sepoltura e onoranza dei caduti – al 1939». (https://it.wikipedia.org/wiki/Sacrari_militari_della_prima_guerra_mondiale_in_Italia).

Per pensare e riflettere, e contro ogni guerra. Via le guerre dal mondo.

E rimando, ancora, al mio: «O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, e non solo, la prima guerra mondiale, detta “La Grande Guerra”», in quattro capitoli, per ora in: http://www.storiastoriepn.it/, che spero qualcuno mi aiuti a pubblicare in cartaceo, in modo da parlarne insieme.

Laura Matelda Puppini.

L’immagine che correda l’articolo rappresenta il foglio di congedo temporaneo di Marco Candido soldato, che fa parte del fondo di proprietà del dott. Alido Candido.

Su Maria Kratter nata Valentinotti, e sull’azione garibaldina a Sappada.

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Un lettore di www.nonsolocarnia.info ha commentato il discorso dell’onorevole Serena Pellegrino scrivendo che una donna, secondo lui uccisa dai partigiani, Maria Kratter Valentinotti, era purtroppo la sorella di Stefen Valentinotti, antifascista ed antinazista, ucciso il 24 ottobre 1944 a Brandenburgo Görden (vicino a Berlino).
Ho risposto che detto commento non era comprensibile nel contesto dei morti della Val But e malga Pramosio, per ricordare i quali, uccisi da SS, corpo in cui militavano anche italiani e friulani, e da repubblichini, l’onorevole aveva tenuto il suo discorso. E ho invitato l’autore del commento a dire cosa volesse comunicarci. Ho anche detto che non sapevo nulla di Maria Kratter Valentinotti.

Ma, incuriosita, sono andata a cercare chi fosse e chi fosse suo fratello, sul quale, però non ho trovato nulla. Digitando il nome Maria Kratter Valentinotti, mi sono imbattuta in un’immagine, che pare quella del ricordino, post mortem, ritrovabile in: sterbebilder.schwemberger.at/picture.php?/109949.

Così recita, per quanto sono riuscita a tradurre, dato che non conosco tedesco, il testo:  «In ricordo dell’adorata Signora Maria Kratter nata Valentinotti, nata il 1° luglio 1894 a Bolzano, morta il 26 luglio 1944 a Sappada».  E sono sicura che la Signora Maria Kratter Valentinotti è morta il 26 luglio 1944, perché, con e-mail privata, me lo ha confermato il comune di Sappada, a cui mi ero rivolta per chiedere verifica (e- mail datata 30 ottobre 2015, della sig.ra M. Grazia Kratter dell’Ufficio servizi demografici del comune di Sappada).

Digitando Maria Kratter Valentinotti, si trova, però anche un articolo pubblicato in: http://blog.libero.it/ANPICADORE/5669817.html?ssonc=1089132507 di Walter Musizza e Giovanni De Donà, “I drammatici avvenimenti del 27 e 28 luglio 1944, tra attacchi partigiani e ritorsioni naziste. 60 anni fa gli eccidi di Sappada. La delicata posizione del paese cadorino sotto l’influenza della resistenza carnica”, datato 16 ottobre 2008.

Gli autori paiono non accorgersi che hanno intitolato l’articolo: 27 e 28 luglio 1944, (o chi ha editato lo ha fatto, non gli autori?) ma parlano, poi, del 26 luglio 1944. Essi affermano che l’azione partigiana, affidata al btg. Carnico, garibaldino, comandato da Italo Cristofoli, Aso, (il che non è vero perché secondo Mario Candotti in tale data detto btg. era comandato da lui, che sostituiva Tredici, ferito, ed in quei giorni si trovava in altra zona operativa, come da Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa, ifsml, 1986,pp.169-170) portata contro la caserma della Feldgendarmerie di Sappada, avvenne il 26 luglio 1944, partì da Ovaro ( fonte? n.d.r.) e che «Finalmente il presidio, dopo una lunga sparatoria, si arrese ed i superstiti furono incolonnati ed avviati verso Cima Sappada, mentre un gruppo di partigiani iniziava a saccheggiare alcune abitazioni della borgata “Bach” ed un altro arrestava alcune persone iscritte in un’apposita lista di proscrizione: tra queste figuravano Pio Solero, Gabriele Kratter, il Podestà Fasil, Luigi Cecconi ed altri ancora. Dopo aver devastato alcune case, verso sera i partigiani tornarono a Cima Sappada, presso l’albergo “Alle Alpi”: qui uccisero il vice Comandante della Gendarmeria e, come recita il “Registro dei Morti” della Parrocchia di Sappada, “massacrarono” la signora Maria Valentinotti di 50 anni, accusata di essere la cuoca abituale della Gendarmeria».
Fonti? Il registro dei morti della Parrocchia di Sappada e racconti locali, di chi non si sa. Inoltre non si sa cosa intendisi per Registro dei morti. Esiste infatti un registro di anagrafe parrocchiale, che io sappia. Inoltre anche se esistesse tale “Registro” in che pagina si trova il riferimento alla signora Valentinotti, da che sacerdote è stato scritto, e quando?

Comunque questo testo compare su un sito Anpi, anche se gli autori non paiono, nel caso specifico,  essere dei grandi esperti in ricerca storica. Dei due autori sopraccitati ho trovato solo questo: «Quest’anno a ricevere il Pelmo d’Oro per la cultura alpina sarà il goriziano Walter Musizza, docente di lettere in pensione e da sempre appassionato frequentatore delle montagne del Cadore, cui ha dedicato molti libri, per lo più incentrati sugli eventi risorgimentali e sulla Grande guerra. Insieme al cadorino Giovanni De Donà, che condividerà con lui il premio, Musizza ha contribuito in questi ultimi 30 anni alla riscoperta degli impianti fortificatori tra Passo della Mauria e Val Zoldana, partecipando direttamente a vari progetti Interreg, mirati proprio alla valorizzazione del patrimonio storico della Grande guerra. Tra le sue pubblicazioni vanno ricordate pure quelle dedicate a Carducci e alla Regina Margherita, nonché alla Resistenza in Cadore, cui si aggiungono due mostre curate nel 2011 per il 150° dell’Unità a Pieve ed Auronzo di Cadore. La consegna del premio avverrà a Longarone sabato 27». (Il Piccolo, 6 luglio 2013). Leggendo quanto mi auguro che abbiano operato con più scientificità e rigore in altri loro scritti.

In ogni caso, visti i legami ipotizzati anche da Gianni Conedera (Gianni Conedera, “L’ultima verità”, Andrea Moro ed., 2005, p. 49), non si sa su che fonti, fra l’azione di un gruppo di partigiani del btg. Friuli, comandato da Italo Cristofoli, Aso, a Sappada, che in detta azione trovò la morte, e la fine di Maria Valentinotti,  ho iniziato una mia breve e veloce ricerca, di cui qui riferisco. Ma certamente una ricerca approfondita dovrebbe cercare e prendere in esame altre fonti archivistiche, per es. quelle del comune e parrocchia di Sappada, vedere se vi sia documentazione presso l’ifsml o anpi Ud, o a Belluno,  ecc…

Preciso, infine, che dall’elenco dei garibaldini carnici ed operativi in Carnia da me approntato ed ancora inedito, e dalla saggistica da me consultata (cfr. bibliografia in Marchetti Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), “Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano”, Ifsml e Kappa Vu ed., 2013 e Laura Matelda Puppini, “Rinaldo Cioni – Ciro Nigris: Caro amico ti scrivo … Il carteggio fra il direttore della miniera di Cludinico, personaggio di spicco della Divisione Osoppo Carnia ed il Capo di Stato Maggiore della Divisione Garibaldi Carnia, 1944-1945”, in Storia Contemporanea in Friuli, n.44, 2014), non risultano partigiani slavi operativi in Carnia tranne Mirko.Vi operò invece il btg. Stalin, composto da russi fuggiti da campi di prigionia.

Il primo problema che si pone, qui, è: quando avvenne l’azione partigiana contro la caserma di Sappada?

Il 27 luglio 1944, per alcune fonti:

Mautino Ferdinando, (a cura di), Guerra di popolo, storia delle formazioni garibaldine friulane, – Un manoscritto del 1945 – 1946, Feltrinelli, 1981, p. 81. e “Diario Storico della Divisione Garibaldi Carnia, in http://www.carnialibera1944.it/documenti/divisione_garibaldi_carnia/diario_divisionegaribaldi_2.html.
In ambedue si può leggere: « 27.7.44 – (Brigata Friuli) Sappada. Il compagno Aso organizza l’attacco al presidio tedesco; mancata la sorpresa per la denuncia di alcuni delatori si conduce l’attacco in forza e dopo un combattimento accanito, durante il quale si riesce a portarsi fin sotto (“dentro” in Diario Divisione Garibaldi Carnia) la caserma, il presidio si arrende. Il compagno Aso cade. Perdite nemiche: un maresciallo e tre soldati tedeschi morti; Nove tedeschi prigionieri». Solo in diario Diario Divisione Garibaldi Carnia: «Bottino: due mitragliatori, due mitra, numerosi fucili e munizioni abbondanti, grande quantità di equipaggiamento».

Scheda: Cristofoli Italo, in: AA.VV., Caduti, Dispersi e Vittime Civili dei Comuni della Regione Friuli-Venezia Giulia nella seconda guerra mondiale, Udine, Ifsml, provincia di Udine, 2 tomi, 1987, p.694. Ivi si legge che Italo Cristofoli, coniugato, muratore, figlio di Antonio Cristofoli e di Perini Teresa, era nato a Prato Carnico il 24 novembre 1901. Partigiano garibaldino, nome di battaglia Aso, morì a Sappada il 27 luglio 1944, contro forze tedesche.

Osvaldo Fabian, (Osvaldo Fabian, diario inedito, in Archivio Giorgio Ferigo, fotocopia del 2 agosto 1983) riporta che salutò l’amico il 27 luglio 1944. (errando in battitura 1943), ad Ovaro.

Mario Candotti, in «Lotta partigiana tra Meduno Arzino Tagliamento, in Storia Contemporanea in Friuli, n.12, 1981, nell’elenco finale dei partigiani nominati nello studio, pone la morte di Aso il 27 luglio 1944.

Giovanni Angelo Colonnello, in: «Guerra di Liberazione, Friuli – Venezia Giulia – zone jugoslave», ed. Friuli, 1965, per il ventennale della liberazione, p. 74 e p. 212, pone l’azione e la morte di Aso il 27 luglio 1944.

Chi riporta che l’azione partigiana, ove morì Aso, avvenne il 26 luglio 1944?

La lapide che ricorda Italo Cristofoli, al cimitero di Prato Carnico riporta tale data per la sua morte.

Il comune di Prato Carnico. La signora Manuela Solari mi scrive, il 3 novembre 2015, su domanda, che per l’ufficio stato civile del Comune di Prato Carnico, Cristofoli Italo, nato il 24/11/1901 a Prato Carnico, è deceduto il 26/7/1944 a Sappada (atto di morte n. 12-II-C/1945 reg. Prato Carnico).

Giancarlo Franceschinis, in Osvaldo Fabian, Affinchè resti memoria, Kappa Vu ed. 1999, p. 135. Ora bisogna ricordare che esistono almeno 3 copie, non identiche fra loro, del diario di Osvaldo Fabian, ed una quarta edita, che io sappia avendola posseduta e perduta in un’alluvione forse nel 1991, e citata pure da Massimo Dubini nella sua tesi di laurea, copia per ora introvabile. Ma le copie potrebbero essere 5 se quella presso l’Anpi di Udine fosse ancora diversa da quelle note.
Solo se l’azione partigiana avvenne il 26 luglio (in momenti così difficili vi potevano esser stati errori di comunicazione o trascrizione in una data sia dall’una che dall’altra parte) allora la morte della signora Maria Valentinotti in Kratter sarebbe potuta avvenire nel corso dell’azione partigiana, o come sua conseguenza, ma bisognerebbe almeno capire quando avvenne l’attacco, cosa non comprensibile con questi dati.

Vi sono poi più versioni dell’accaduto, tutte però senza fonti rigorose.

Una è la versione di Angelo Sartor, di Sappada, (“Diario di guerra 1940-1945”, Comune di Sappada, Plodar Gemande n.4, documento informativo 22/12/2006, numero 2007, in: https://myportal.regione.veneto.it/), prima milite dell’R.S.I., poi nascostosi nei boschi, (mai partigiano) quindi lavoratore per la Wehrmacht a Termine di Cadore, ed infine, finito prima nel campo di concentramento di Bolzano,quindi in quello di Allach – Succursale di Dachau – gestito dalla Todt (http://www.lager.it/campi_detenzione.html.) non Allagh.(Angelo Sartor, op. cit., p.17).
Da quanto si comprende, però, anche Sartor riporta quanto udito perché all’epoca dell’attacco partigiano alla caserma di Sappada, pare si trovasse o a Lorenzago in servizio come milite della R.S.I., o nei boschi. (Ivi, p. 17).

« Nel frattempo venne attaccata la caserma a Sappada dai partigiani venuti da Forni Avoltri. In tale azione venne ucciso il comandante tedesco, la cuoca loro a Cima Sappada; nel combattimento morì anche un partigiano.
In quel giorno fu arrestato Cecconi Luigi, segretario della sezione fascista di Sappada, unitamente al Podestà Fasil a Cima Sappada; fu presa e portata con loro la moglie del pittore Pio Solero e lì devastavano e rubavano in casa sua. (…). I tre prigionieri Cecconi, il Podestà e la moglie del pittore furono portati nelle vicinanze di Prato Carnico. Dopo un paio di giorni il Podestà fu lasciato libero ma Cecconi Luigi e la moglie del pittore furono fucilati.
La fucilazione della donna era subordinata alle invettive che rivolgeva ai partigiani e ce ne erano anche di slavi e lei tedesca, nata a Monaco di Baviera, ha creato il fatto». (Angelo Sartor, op. cit. , pp. 17-18). Angelo Sartor, però è fonte orale non diretta, se trovasi altrove, e non cita altri a sostegno del suo racconto.

Gianni Conedera ricostruisce, pure, gli avvenimenti di Sappada, in L’Ultima Verità, op. cit., pp. 49-54, e cita, pure, a p. 51, Maria Valentinotti.
Egli scrive che la battaglia iniziò circa alle ore 19 del 26 luglio e durò 20 minuti, e che dopo la resa del presidio, «Furono tutti arrestati e condotti a Cima Sappada. Tra loro c’erano il Vice Maister (Non ho trovato Maister. Vi è un errore di battitura? Meister? Master? Che significa, dato che non lo so, in questo contesto? n.d.r.) e la cuoca della Gendarmeria, Maria Valentinotti di anni 50, originaria di Gries in Provincia di Bolzano. Questi due verranno uccisi a Cima Sappada, prima del rientro dei partigiani in Carnia.» Fonti? Ignote. Secondo lui, la moglie del pittore Solero, Maria Treichl Rosenwald, il cui figlio era amico di Italo Balbo, (Ivi, p. 53), all’epoca già morto in Libia da 4 anni, fu presa dai partigiani prima dell’azione. (Ivi, p. 49). Se la sarebbero portata dietro? Fonti?

Secondo una versione di Giancarlo Franceschinis, Checo, l’inizio dell’azione era prevista per le 17 (Osvaldo Fabian, Affinchè, op. cit., p. 136), per Conedera iniziò alle 19, per diario di Franceschinis in Osvado Fabian, diario inedito, p. 138, l’azione era prevista per le 19.25 circa.

Secondo Giovanni Angelo Colonnello,  il 26 luglio si svolse l’azione di Stramiz, il giorno dopo «venuta a mancare anche qui la sorpresa si attacca frontalmente il presidio tedesco di Sappada. È Italo Cristofoli (Aso) da Prato Carnico che comanda alcune forze del btg. Friuli. Il combattimento è accanito, e soltanto dopo che i partigiani si sono portati dietro la caserma il presidio si arrende. Sul terreno, morti, un maresciallo, tre soldati, e un partigiano Aso, colpito in pieno petto. Bottino: 2 mitragliatrici, 2 mitra, numerosi fucili, ingente munizionamento ed equipaggiamento; presi 9 prigionieri». ( Giovanni Angelo Colonnello, op. cit., p. 212).

In ogni caso la Signora Valentinotti avrebbe potuto solo trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Infatti da dove Gianni Conedera, che potrebbe aver influenzato altri, trae le informazioni sull’azione di Sappada, per la quale cita solo la figlia di Cecconi, e sul fatto che Maria Valentinotti fu uccisa a Cima Sappada, assieme al “Vice Maister”? (Gianni Conedera, op. cit. p.51). E che faceva sulla finestra o sulla porta, la figlia di Luigi Cecconi, mentre si sparava? Ed altrimenti da dove vide gli accadimenti che narra? E come fa a dimostrare quello che narra?
Quando il narratore è uno solo, è importante incrociare le fonti.

Secondo Giancarlo Franceschinis, che afferma di esser stato presente all’azione, e può darsi, ma io non ho trovato l’elenco dei partecipanti, «Alcuni compagni entrarono subito nella villa e scovarono in cucina una donna di Sappada che il Comando Brigata già ci aveva indicato come informatrice e delatrice, moglie del pittore locale Pio Solero». (Osvaldo Fabian, Affinchè resti, op. cit., p.140).
«Dopo la conquista di Sappada il sergente tedesco e la donna spia Solero vennero poi giustiziati dal reparto garibaldino al rientro nella Zona Libera, gli altri invece furono liberati: il paese pochi giorni dopo fu rioccupato dai tedeschi che vi istallarono una decuplicata guarnigione che si fortificò e noi non potemmo impedirlo per l’assoluta penuria di armi e munizioni». (Ivi, p. 141).

E dato che ci siamo: su Luigi Cecconi.

Luigi Cecconi, che era stato, secondo Gianni Conedera, Podestà e segretario del PNF, ma nel luglio 1944 non lo era più, (Gianni Conedra,op. cit., didascalia immagine a p. 51), morì sempre secondo lui, il 31 luglio 1944, fucilato dai partigiani nei pressi di Pradumbli. (Ivi). Fonte?

Su Luigi Cecconi, scrive anche Pier Arrigo Carnier, in: Interventi critici sul filmato “Carnia 1944 Il sangue degli innocenti – (di D. Ariis), in: http://pierarrigocarnierstoricoegiornalista.blogspot.it/2013/08/v-behaviorurldefaultvmlo.html, ove si può leggere:

«A fronte del paese dove ci trovavamo, alla destra del fiume Pesarina che scorre circa due,
trecento metri più sotto, stava dirimpettaio Pradumbli noto paese di anarchici dove, come io sapevo, il commissario della Garibaldi, diciamo di un battaglione della stessa, teneva in quel periodo la sua sede mobile acquartierato in un piccolo locale pubblico che funzionava da bar e trattoria. Lo gestiva allora una giovane simpatica donna, “M.” che ben conoscevo, nota perché mai la sua presenza mancava nelle balere della valle che anch’io frequentavo. Passando al fatto dell’uccisione, una delle tante, va detto che in quel periodo era in atto un programma di pulizia politica, che stava nelle regole della lotta partigiana comunista della Garibaldi con l’eliminazione di civili oppositori, collaboratori o fiancheggiatori dei fascisti o dei tedeschi sul terreno, o presunti tali. La vittima del giorno era Luigi Cecconi, podestà di Sappada, fucilato sulla destra del fiume ed ivi sepolto. Ai familiari come io seppi avendo in seguito, nel corso di mie ricerche, preso contatti con gli stessi (aveva moglie e cinque figli), con cinica finzione fu fatto credere, fino al tardo autunno, ch’egli fosse tenuto prigioniero, tant’è che gli stessi, tramite i partigiani, ritiravano la sua biancheria e gli facevano tenere il cambio. (…). Detto in breve a carico del Cecconi, come capo di imputazione per l’avvenuta condanna capitale, stava l’accusa di avere rifondato, nel comune di Sappada, la sezione del partito fascista sotto il nuovo nome di partito fascista repubblicano. Anni dopo, allorché mi capitava di passare per Pradumbi, perché di là passava la mulattiera che portava alle malghe, mi fermavo a salutare “M.” la barista locandiera. Tornammo più volte sul caso Cecconi. Lei diceva : “Lo fece fucilare laggiù prima del ponte e seppellire là in una buca scavata nella ghiaia, quel pover’uomo che implorava salvezza, padre di cinque figli. Sono stata male per un pezzo e ogni volta che mi ricordo sento pena, ma allora era così. Lui, il commissario, girava qui dentro nervoso con delle carte in mano, fazzolettone rosso al collo e spesso mano sulla pistola per darsi aria da guerriero “. Poi sarcasticamente “M.” aggiungeva :” Lo sai benissimo che il commissario era molto conosciuto nella valle di Gorto ed anche qui in val Pesarina era considerato una brava persona ma resta il fatto che eliminò quel bravuomo, podestà di Sappada, un vero galantuomo come tutti seppero essendosi sparsa la voce”.
“Del resto tu lo conoscevi bene il commissario così come conoscevi tutti gli altri del suo contorno: Ivo Toniutti (Ivan) Stefani Odino, detto il “Didi” ed altri ancora che si aggiravano qui dentro nel locale. Poco tempo dopo però morì anche lui, il commissario, si vede che era destino !”
E a questa frase ricordo che un vecchio, che stava seduto nel bar e aveva sentito i nostri discorsi, aggiunse :” Dio ha la mano lunga !”
Già allora io mi chiedevo ed oggi pure me lo chiedo come si spiega che si possa uccidere un uomo semplicemente perché fascista o perché aveva rifondato il partito, cosa a quel tempo normale nel clima della costituita Repubblica Sociale per cui considero quell’uccisione un crimine.
Una seconda vittima pure prelevata a Sappada ed uccisa lì in val Pesarina, fu la signora Maria Teresa Treichl Rosenwald, moglie del noto pittore cadorino Pio Solero. A fine luglio 1944, partigiani carnici della Garibaldi, dopo aver devastato la casa del pittore fracassando mobili ed asportato oggetti di valore, prelevarono la signora Maria Teresa viennese, che poi uccisero sospettata di essere una spia tedesca, abbandonandone il corpo senza sepoltura in una sterpaglia. Pio Solero,ex ufficiale degli alpini, valoroso combattente nella prima guerra mondiale ed amico di mio padre, […], affranto dalla perdita della moglie e con la casa invivibile in quanto devastata, si rifugiò, assieme ai due figli, a Cortina d’Ampezzo dove trovò generosa assistenza e riprese l’ attività di pittore».

Con tutto il rispetto per Pier Arrigo Carnier, quali sono le sue fonti? Senza fonti egli esprime solo sue opinioni, suoi pensieri, null’altro. Inoltre non pare che la moglie del pittore fosse viennese, tanto per dirne una, ed in guerra non vale il principio del: “Tiene famiglia”. Molti allora, pure tra quelli morti nei campi di sterminio nazisti, “Tenevano famiglia”. Le informazioni sulla biancheria, ecc. non si sa da dove provengono, e dovrebbero venir verificate. Come si fa infatti ad asserire, come fa Carnier, che: « Ai familiari come io seppi avendo in seguito, nel corso di mie ricerche, preso contatti con gli stessi (aveva moglie e cinque figli), con cinica finzione fu fatto credere, fino al tardo autunno, ch’egli fosse tenuto prigioniero, tant’è che gli stessi, tramite i partigiani, ritiravano la sua biancheria e gli facevano tenere il cambio»?

Fonti? E chi erano i partigiani che avrebbero svolto questo compito? E fino a quando? Inoltre il biglietto pubblicato da Gianni Conedera, a p. 54 del suo L’ Ultima verità, op. cit., a p. 54, non dimostra nulla di quello che egli vorrebbe significasse. Infatti non si sa se fosse indirizzato alla figlia di Pio Solero, non ha elementi identificativi per dire che provenisse dalla Brigata Garibaldi Carnia, non vi è perizia calligrafica a supporto che trattasi della scrittura di Ivan, non siamo neppure sicuri che Ivan abbia partecipato all’azione di Sappada, e quindi potrebbe, fra l’altro, non aver saputo nulla della moglie di Pio Solero, tanto per porre alcune osservazioni su detta fonte.

Ma continuiamo.

Dove si trovava la sede del Presidio tedesco a Sappada?

Secondo una versione del diario di Checo, l’avv. Giancarlo Franceschinis, esso, da quanto noto ad Aso prima di partire, si trovava accasermato «in una villa un po’ isolata, in una curva». (Diario inedito di Osvaldo Fabian, op. cit., p. 137). Nell’edizione del diario di Osvald Fabian, pubblicata da Kappa Vu, op. cit. a p. 135 si può leggere che: «Il presidio tedesco di Sappada è accasermato in una villa un po’isolata sull’ultima curva e controcurva della statale prima del rettilineo in discesa che porta al centro ed è posta su di un terrapieno». Gianni Conedera, nel suo “L’ultima verità”, a p. 49 scrive che detta caserma «era insediata in borgata Bach, in uno stabile di proprietà di un certo Piller Ubaldo, adibito a caserma (ora hotel Bladen) […].» Però non si sa da dove derivi questa certezza.

Sui processi partigiani.

È chiaro che, all’epoca dei fatti e della morte di Maria Kratter Valentinotti, indipendentemente dalla sua causa, si era in guerra, e che il nemico, per i partigiani, era rappresentato da tedeschi, fascisti/repubblichini allora detti repubblicani, (Renato Del Din, tanto per fare un esempio, morì in seguito ad un’azione contro la Caserma della Miliza Confinaria) , e cosacchi.
E come ogni esercito, anche quello partigiano di Liberazione, temeva, oltre i nemici, i traditori, e le spie. (Cfr., Laura Matelda Puppini, Caro amico ti scrivo …, in Storia Contemporanea in Friuli, n.44, 2014). E se si prendeva una persona sospettata di essere una spia, o un traditore, ma anche un partigiano che avesse commesso un grave reato, quale per es. il furto, lo si sottoponeva a processo e quindi, o lo si liberava o lo si giustiziava. Infatti come fa ben notare Giorgio Gurisatti, n.b. Ivo, della Osoppo, nel suo “Nel verde è la speranza”, narrando la vicenda ed il processo del cuoco “Tamuk”: « […] va detto che le motivazioni per giungere a una sentenza capitale erano anche plausibili, nel contesto di emergenza in cui ci trovavamo: la difficoltà da parte nostra di tenere prigionieri, (…), il pericolo, in caso di fuga, di delazione nei confronti di compaesani,e così via. Tutte cose che apparivano abbastanza ovvie a tutti noi.» (Giorgio Gurisatti, n.b. Ivo, “Nel verde la speranza”, ed. A.P.O., 2003, p.71). Tamuk fu sottoposto a processo da parte dei partigiani osovani, e, dopo le parole dell’accusa e della difesa, la giuria passò ai voti. Otto partigiani ritennero Tamuk colpevole e quindi punibile con la pena di morte, 2 ritennero che la difesa avesse ragione. La votazione fu ripetuta, dando lo stesso esito. (Ivi, p. 72). Non era piacevole, da quanto riportato ivi, giustiziare una persona, ma i partigiani non avevano plotone di esecuzione, non avrebbero potuto neppure permetterselo, data la penuria di munizioni. Comunque Gurisatti, nel suo testo, parla di altri che avrebbero eseguito la sentenza, come vi fosse stato delegato più di un partigiano. Anche nel caso di Tamuk gli fu fatta scavare la fossa, e quindi fu fucilato. Gurisatti ammette che non era facile abituarsi a questi aspetti della Resistenza, dettati dalle circostanze. Fu poi chiamato a processo nel dopoguerra dai parenti del cuoco, ma seppe rispondere in modo adeguato. (Ivi, p.73, e nota 7 sempre p. 73). E credo che questa storia possa rappresentarne anche altre.

Ora può darsi, perché non ho visto fonti degne di tale nome, che Luigi Cecconi, la moglie del pittore Pio Solero, e Maria Kratter Valentinotti siano stati giudicati come spie o il Cecconi per fatti a lui attribuiti nel periodo fascista, e giustiziati, dopo processo partigiano. Ma non ci sono prove per affermarlo con certezza. Inoltre, mi pare che, anche a livello ipotetico, fra i tre il caso di Maria Kratter nata Valentinotti, sia il meno chiaro nelle motivazioni. Inoltre se l’azione partigiana avvenne il 27 luglio 1944, non si spiega come essa possa aver generato la sua morte, avvenuta il 26.
Il fatto poi, che relativamente ad un morto uno possa, all’osteria, dire che in fin dei conti era una brava persona è possibile. Ma una persona può asserire che uno era una brava persona “ pa no impaciasi” come magari imparato in tempo di guerra, o assentire ad uno che glielo domanda quasi con tono affermativo. Sono meccanismi psicologici noti nella comunicazione interpersonale, che un intervistatore deve tener presenti.

Infine sia Luigi Cecconi che Maria Valentinotti (sic, non anche Kratter, come del resto in Gianni Conedera), si trovano, (non si sa perché per la seconda, si può ipotizzare perchè per il primo), nell’elenco dei caduti dell’R.S.I.
In: Caduti R.S.I. http://www.inilossum.eu/cadutiRsi, si leggono, infatti, sia il nome di: Maria Valentinotti, civile, cuoca, di anni 50, fucilata il 26 luglio 1944, a Sappada, provincia di Belluno, sia quello di Luigi Cecconi, Civile, Pod Sappada, di anni 45, fucilato il 31/7/ 1944, Sappada Belluno.
Ed a questo punto mi chiedo: che legami con l’R.S.I. aveva Maria Kratter nata Valentinotti, per finire in questo elenco?

Considerazioni finali.

A parte il fatto che non sappiamo se l’azione partigiana si svolse il 26 o il 27 luglio 1944, pare che le narrazioni di chi scrive siano piuttosto imprecise, e si passa da “Eccidi” a 2 morti con processo partigiano. Poi c’è chi dice che i partigiani bruciarono case e saccheggiarono, chi no …  Inoltre parlare, come riportato nel titolo dell’articolo di Walter Musizza e Giovanni De Donà, op. cit., di : “ eccidi di Sappada” è proprio fuorviante e non rispondente al vero.

Bisogna ricordare che nel periodo della guerra di Liberazione esisteva anche il C.I.N.P.R.O. (Centro Informazioni Provinciale) creato per volere degli Alleati e del C.L.N. Provinciale, che, nei suoi bollettini, segnalava possibili spie, delatori, traditori, da processare ed eventualmente eliminare, se ritenuti colpevoli, ed una di queste fu la famosa Edda Turchetti, morta a Topli Uorch (erroneamente Porzûs) il 7 febbraio 1945, uccisa da un gruppo di garibaldini comandati da Giacca.

Inoltre per limiti delle fonti orali, rimando ai miei: Laura Matelda Puppini, Lu ha dit lui, lu ha dit iei. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica. La storia di pochi la storia di tanti”, in: http://www.storiastoriepn.it, e Laura Matelda Puppini, lettera sulle fonti orali al Messaggero Veneto, pubblicata il 28 dicembre 2013.

Speravo di sapere qualcosa di certo su Maria Kratter nata Valentinotti, ma non l’ho trovato, tranne i dati anagrafici.  Pensavo di sapere qualcosa sull’azione di Sappada, ma non ho capito quando avvenne, e ritengo plausibile, per il suo svolgersi, le scarne note dell’Ufficio Storico delle divisioni garibaldine, in Ferdinando Mautino Guerra di Popolo, op. cit., nel Diario della Divisione Garibaldi Carnia, op. cit., ed in Giovanni Angelo Colonnello, op. cit.

Per quanto riguarda Luigi Cecconi e la moglie del pittore Solero, potrebbero esser stati processati dai partigiani, e, dopo sentenza a loro avversa, giustiziati, ma mancano fonti certe, motivazioni ecc.

Forse se si iniziasse a studiare il fascismo ed i suoi metodi, ed il ruolo di certi fascisti in Carnia o nei paesi carnici, si potrebbe capire di più, anche sul perché alcuni vennero ritenuti colpevoli dai partigiani o dal Cinpro, di reati, ed uccisi. Ma forse si è già persa questa possibilità, non lo so.

Non ho trovato nulla su Stefen Valentinotti. Ho invece trovato notizie sulla Brandenburg-Görden Prison, ma non vi sono per ora collegamenti fra il Valentinotti, citato dal commentatore, e da me per ora non reperito, e detta prigione.

Prego chi ha commentato e gli altri di precisare le loro fonti.

Senza offesa per nessuno, dopo aver perso sull’argomento, volontariamente, per cercare di saperne di più, un sacco del mio tempo, mi sento di dire che  così non si può andare avanti nell’informazione sulla e divulgazione della storia, secondo me.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è tratta da Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa, naia guerra resistenza, Del Bianco ed. 1986.

Firma contro raduni di fascisti italiani a Madrid!

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Raduno fasciata a Madrid, con il tacito assenso dell’ambasciata italiana. Questa la notizia giunge dell’associazione AltraItalia di Barcellona, ed è ripresa da siti come la pagina web della Falange Española (http://lafalange.com.es/?p=9000) ed il sito della Fundación Francisco Franco (http://www.fnff.es/Actividades_15_s.htm),.

Quando ho letto queste righe di Marco Puppini, vicepresidente dell’Aicvas (Associazione italiana combattenti volontari antifascisti volontari in Spagna)  ho pensato di aver capito male. Era possibile che  l’ambasciatore in Spagna della Repubblica Italiana avesse  dato il suo tacito assenso a manifestazioni di nostalgici nostrani (italiani) in Spagna in onore del fascista Corpo Truppe Volontarie, che ha combattuto in Spagna per sostenere Franco? Eppure pareva di sì.

Marco mi pregava, pure,  di porre su www.nonsolocarnia.info la richiesta ai lettori di firmare, su change.org, la petizione: https://www.change.org/p/sig-pietro-sebastiani-ambasciatore-d-italia-in-spagna-la-repubblica-italiana-%C3%A8-nata-dall-antifascismo?#petition-letter e  lo faccio volentieri.
La petizione è stata lanciata dagli amici dell’associazione AltraItalia di Barcellona che raccoglie studenti e lavoratori italiani emigrati.

Il fatto è stato reso noto anche da Giuseppe Aragno sul suo sito con questo articolo:

«Raduno fascista a Madrid patrocinato dall’ambasciata italiana? Mattarella lo sa?

03/11/2015 di giuseppearagno
L’articolo 87 della Costituzione non consente dubbi: il comando delle forze Armate spetta al Presidente della Repubblica, ma è onestamente impossibile credere che Sergio Mattarella sia al corrente della stravagante e pericolosa iniziativa del Consolato d’Italia a Madrid, della quale qualcosa saprà tutt’al più l’Ambasciata. In tutta sincerità, tuttavia, non è facile nemmeno anche solo immaginare che ambasciatori e consoli del nostro Paese si muovano così, senza informare il Ministero degli Affari Esteri. Molto difficile, forse impossibile, è pensare che le Forze Armate Italiane possano fare quel che gli pare, senza mettere al corrente il ministro della difesa. E come credere, infine, che Gentiloni e Pinotti, così attenti a questioni se non altro formali di democrazia, abbiano autorizzato una iniziativa che costituisce un autentico ceffone alla Spagna democratica, alle radici antifasciste della Repubblica e al sistema di valori che l’ha ispirata? Questo, senza contare il buon senso, che dovrebbe caratterizzare il lavoro della diplomazia e l’azione politica di ogni governo.
Da qualsiasi parte lo guardi, l’annuncio dell’ANCIS, l’Associazione Nazionale Combattenti Italiani di Spagna è una patata bollente per tutti e non fa onore a nessuno: né alla festa delle Forze Armate repubblicane, né alla nostra diplomazia, né al Governo Renzi, che non può lasciar passare iniziative decisamente improvvide. Cosa accada in questi giorni a Madrid, ci vuole davvero poco a dirlo. Molto più complicato sarebbe invece spiegarlo, se, malauguratamente, non si trattasse di un equivoco, di qualcuno che millanta crediti o, più semplicemente, di una stupida menzogna.
A dar retta al sito ufficiale dell’ANCIS, cui fa ottima compagnia quello della “Falange” – espressione dell’estrema destra spagnola – il 5 novembre, presso la sede del Consolato d’Italia a Madrid, al n. 3 di Calle Augustin de Betancour, i nostalgici dell’Italia fascista, reduci e complici del macello franchista, se ce ne sono di sopravvissuti, i loro familiari e con ogni probabilità esponenti della nostra peggiore destra, festeggeranno le Forze Armate dell’Italia Repubblicana e ricorderanno di fatto quelle fasciste e franchiste. E sì, fasciste e franchiste, come rammenta La Falange a chi soffre di vuoti di memoria, accennando alla fraternità di armi e di spirito “en la Cruzada de Liberación Nacional del 1936/39”. Insomma, i “crociati” fascisti e falangisti assieme, ufficialmente ospiti della nostra sede diplomatica.
Sul destino degli uomini dopo la vita ognuno ha diritto di pensarla come vuole, ma non occorre certo essere medium, per sentire lo sdegno dei fratelli Rosselli ammazzati a coltellate in un bosco, perché portarono in Spagna l’Italia che lottava per la dignità, la libertà e la democrazia. Quell’Italia che ambasciatori e consoli non hanno alcun diritto di ignorare o calpestare, inserendo tra i loro gli ospiti d’onore i “legionari” di Mussolini o chi per essi, protagonisti diretti o discendenti e rappresentanti di quei piloti che ci coprirono di vergogna, partecipando ai primi bombardamenti terroristici della storia, colpendo l’inerme Barcellona, bombardando persino le scuole e partecipando alla terribile distruzione di Guernica. Come criminali e pirati, avevano cancellato dalle ali dei loro velivoli i segni distintivi dell’Italia, il nostro Paese aggressore. Un Paese ben diverso da quello che rappresenta ufficialmente in Spagna il corpo diplomatico della repubblica.
Per questa inaccettabile escursione estera dell’ANCIS, sono previste – la citazione è testuale – “convivialità con i camerati spagnoli”. Non è dato sapere se e in quale veste – ufficiosa o addirittura ufficiale – saranno presenti anche esponenti politici o diplomatici della Repubblica Italiana. Quella repubblica che, sino a prova contraria, con i “camerati” falangisti e con i rappresentanti dei nostri volontari fascisti non può e non deve avere alcun rapporto, meno che mai “conviviale”, perché non glielo consente la Costituzione nata anche dal sangue dei combattenti di Spagna. Quelli antifascisti, naturalmente. E sarebbe bene che qualcuno lo ricordasse alle nostre rappresentanze diplomatiche all’estero, perché mai come stavolta è terribilmente vero: chi tace acconsente”.

(Uscito su Agoravox e Fuoriregistro il 4 novembre 2015 col titolo Raduno fascista a Madrid patrocinato dall’ambasciata italiana? Mattarella lo sa?)

PERTANTO INVITO I LETTORI E CHI LO DESIDERI A FIRMARE IMMEDIATAMENTE LA PETIZIONE SU CHANGE. ORG. di cui ripeto il riferimento.

https://www.change.org/p/sig-pietro-sebastiani-ambasciatore-d-italia-in-spagna-la-repubblica-italiana-%C3%A8-nata-dall-antifascismo?#petition-letter

Pongo queste righe sul mio sito/ blog  perché credo fermamente nell’antifascismo che deve essere il motore dell’agire repubblicano in Italia, e perché gli ambasciatori, da che so, sono pagati con i nostri soldi di cittadini.

 Laura Matelda Puppini

Flavio Schiava: Demografia e salute in Alto Friuli. Introduzione di Laura M. Puppini

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Il dott. Flavio Schiava mi ha gentilmente fornito questa sua ricerca, questi suoi grafici che parlano di distanze, problemi noti e difficoltà dell’utenza in ambito socio/sanitario, ancora validi anche se alcuni dati potrebbero risultare non recenti. Nella montagna le distanze contano, ed i trasporti pubblici pure, e se forse nascono ora più bambini di anni fa, è anche vero che, raggiunta una certa età, essi sono pronti per emigrare;  e siamo sempre più vecchi in montagna.
Che fare? Accentrare tutti in città o rendere la vita in montagna sostenibile ed anche valore? Togliere pronto soccorsi o lasciarli efficienti come prima della riforma, senza puntare ogni carta sul polo udinese? Togliere i piccoli ospedali, optando per il grande centro specialistico, ove gli anziani si possono sentire abbandonati, fuori casa e soli, senza il sostegno dei parenti, anche per patologie ove non serve il grande centro o sostenere una sanità decentrata?  Ovviamente io sono per il mantenimento dell’ospedale di Gemona e dei piccoli ospedali, per il potenziamento dei poliambulatori di vallata e per la territorializzazione di alcuni servizi. Perchè non mandare il fisioterapista a domicilio, invece che accentrare ogni servizio fisiatrico? Perchè togliere la medicina di Gemona? E l’elisoccorso non risolve il problema dell’intasamento del pronto soccorso udinese, costa, e deve atterrare anche ove si trova la persona da soccorrere, aspetto che implica che spesso vi giunga prima un’ambulanza.
Inoltre il fatto che, come pare stia accadendo a Gemona, si punti all’intervento di primo soccorso infermieristico, sempre per via del risparmio, mi sembra pericoloso per la salute dei pazienti e rischia di far esercitare ad infermieri la funzione medica. E, sinora, non ho visto che accordi regionali con i medici di base possano risolvere i problemi, come si augura l’assessore Telesca. Così infatti si legge sull’articolo di Paolo Mosanghini:  “I medici di famiglia revocano lo sciopero” , in: Messaggero Veneto, 29 giugno 2011: «È servita la mediazione del governatore Renzo Tondo per congelare la  protesta che avrebbe portato domani e venerdì allo sciopero dei mille medici di famiglia del Friuli Venezia Giulia. (…).  L’intervento di Tondo era stato chiesto dagli stessi medici, […].  I rappresentanti dei medici chiedono alla Regione il rinnovo dell’accordo integrativo regionale, una revisione dello stipendio base di circa diecimila euro in più l’anno. I sindacati hanno preso atto dello sforzo della Regione di arrivare a una soluzione, che si traduce nel mettere a disposizione per l’integrativo una somma complessiva di cinque milioni di euro, fermo restando quanto acquisito con gli integrativi precedenti.
È stato soprattutto sottolineato che queste risorse non servono a far fronte a rivendicazioni salariali, ma alla volontà comune di accrescere i servizi resi ai cittadini, e superando le disparità di trattamento economico tra medici. Tra gli obiettivi che sono stati indicati, vi sono in particolare la presenza di un collaboratore di studio o di un infermiere, e lo sviluppo della medicina di gruppo». Ma poi che ne è stato dei buoni propositi?
Ed anche se i medici di base assumessero un infermiere, che non è medico, ed agissero in gruppo (non si sa con che modalità) non solo  per non assumere un sostituto nei tempi di ferie o malattia, essi  mancano di strumenti diagnostici e di intervento immediato e si possono limitare ad inviare al pronto soccorso, come spesso accade, operando in scienza e coscienza, cioè non avendo alternative. Infatti non si può pensare di ritornare a cento o duecento anni fa, al medico di famiglia che gestiva come poteva ed al  meglio per i tempi, in unione con il farmacista,  fra l’altro lavorando dall’alba al tramonto, con interventi, compresi parti, pure di notte.  Ma lascio ora la parola a Flavio Schiava, alla sua preziosa ricerca ed ai suoi grafici. Laura Matelda Puppini


Sobre Tina. Due considerazioni personali al margine di un convegno su Tina Modotti.

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Vorrei parlare di Tina Modotti dopo aver ascoltato più racconti su di lei, vorrei parlare di una donna che decise di donare se stessa agli altri, dimenticando ori ed allori. Vorrei parlare di una donna che inseguì un ideale a cui si dedicò, vorrei parlare di una friulana emigrante, che ebbe l’occasione di conoscere persone che la aiutarono a crescere culturalmente ed a livello personale, di una operaia in filanda, che si realizzò dietro una macchina fotografica, per abbandonarla diventando infermiera, sostegno ed aiuto ai derelitti, ai poveri, alle donne, a los niños, senza pane, nel Soccorso Rosso.

Vorrei parlare di Tina Modotti, ritenuta una sovversiva, che, come tante altre donne, anche cattoliche e comuniste, si prodigò per gli altri, fra gli ammalati, a lenirne il dolore, ad ascoltarne le ultime parole, a consolare, a cercare di far guarire. E Tina, da quanto ho ascoltato ieri, si prodigò anche in raccolte per i soldati al fronte, durante la prima guerra mondiale.

Tina, potrebbe dire qualcuno, non era sposata, visse con uomini senza l’anello al dito. Per la verità molte donne hanno messo per forza quell’anello al dito:  forse anche ai tempi di Tina alcune si sposavano per volere e scelta paterna, precipitando, talvolta, in un inferno.

Quello che ho colto di Tina, ieri, ritornando con il pensiero alla sua figura, è in primo luogo la sua origine: povera, appartenente alla classe lavoratrice friulana. Una delle tante …

Probabilmente la madre si arrabattava a tirar avanti figli e famiglia, ed a rimediare qualcosa per il pranzo e la cena, il padre a cercare di occuparsi, più o meno stagionalmente. Le idee socialiste circolavano, all’epoca, fra i diseredati e gli oppressi: essi sognavano per i figli un domani migliore del loro, un “sole” nel loro “avvenire”, sognavano pane e lavoro per tutti, terra per i contadini, istruzione comune, conoscenza, tecniche, miglioramenti igienici e per la salute. Non lo sognavano solo in Mexico, non lo sognavano solo i compagni rigorosamente comunisti o socialisti: anche i poveri cattolici desideravano un futuro migliore, senza guerre, senza fame, senza freddo. Come infatti pensare che non lo sognasse Fiorello Candido, timorato di Dio, povero, emigrante in Africa, prima soldato in guerre fasciste di conquista, ed infine invalido sul lavoro senza pensione di invalidità?

Alcuni operai guardavano alla Russia sovietica come alla realizzazione dei loro ideali, senza conoscerne le difficoltà: per loro comunque in U.R.S.S. tutti mangiavano ed avevano un tetto,  pane, una camicia, dignità e lavoravano per la grandezza della loro Nazione, che stava cercando di acquisire i vantaggi del progresso tecnico e sociale. Questo vedevano i poveri nell’U.R.S.S.

Vittorio Pezzetta, comunista, diceva alla moglie che desiderava un mondo migliore, dove tutti fossero uguali, che in Italia ci sarebbero voluti cent’anni perché il socialismo prendesse piede ma che infine avrebbe trionfato. E  le diceva pure: «Se hai un bravo ragazzo e sei povero non puoi mandarlo a scuola mentre in Russia a scuola ci vanno tutti!». (Laura Matelda Puppini, intervista ad Anna De Prato Pezzetta, moglie di Vittorio Pezzetta, Tolmezzo, dicembre 2011).

E così scriveva Romano Marchetti, relativamente al comunista garibaldino Angelo Cucito, nome di battaglia  Tredici: «Entrato in confidenza con me, mesi dopo, mi disse: “…Te vedi? Un monte de roba di tutti i zeneri e la zente che se la prende quando vòl…” quando ne ha bisogno, questo era il sogno.
Credo si riferisse ad una società planetaria, unitaria ed operosa, senza possibilità di guerre e quindi con enormi possibilità di materie prime, cibo e quant’altro». (Romano Marchetti, note su Angelo Cucito, Tredici).

Questo credo sognassero molti comunisti e socialisti, compreso Lorenzo Puppini, mio nonno, cooperatore socialista e falegname, a cui fu impedita, da quanto mi si narrava, attraverso l’azione di un fascista cavazzino, una commessa che lo avrebbe aiutato a mantenere la famiglia. Ed il fascista ha nome e cognome.
Ma ritorniamo a Tina. Ragazzina deve lasciare la scuola ed andare a lavorare in filanda: la famiglia è numerosa e troppe sono le bocche da sfamare: ognuno deve dare il suo contributo.

«Ragazze poco più che bambine stanno sulle bacinelle dell’acqua bollente (la scoline), dove si immergono i bozzoli e loro immergono le mani ad agitarli e scuoterli perché si ripuliscano e lascino emergere il capo del filo (cjaveç). Un’operaia esperta (la mestre) sovrintende all’aspo (daspe), la macchina che afferra i capi e li unisce, così da fornire un filo della prevista grossezza, fino a preparare la matassa.
Va su e giù l’assistente e dispone, […]. Su tutti sovrasta il direttore che è il padreterno urlante a destra e a manca quando l’aspo non fila regolare o anche se fila regolare. Schiaffi e pedate non sono inusuali, come punizione per quella che non fa il lavoro come deve. […].
Fino alla Grande Guerra, la giornata è di dodici ore, con un quarto d’ora al mattino per la colazione e un’ora a mezzogiorno per il pranzo. Paga di ottanta centesimi al giorno, sette centesimi l’ora, agli inizi del Novecento. A casa quindici giorni per il parto, non uno di più per non farsi cacciare in tronco, ma col privilegio di poter staccare alle quattro per allattare. (…). Prima occasione di lavoro femminile retribuito vicino a casa. Prima alternativa al servire nelle case dei ricchi delle città d’Italia. Con dosi massicce di sfruttamento. Ma si organizzano anche le prime azioni sindacali e qualche sciopero». (Ivano Urli ( a cura di) La Filanda, in: http://www.picmediofriuli.it/enciclopedia/pdf/5.1.18.pdf).

In questo ambiente vive Tina Modotti adolescente: un’esperienza che forse ella ricorderà per il resto della sua vita e che potrebbe averla influenzata in alcune scelte.

A 17 anni sbarca in America, a San Francisco, seguendo la famiglia. E’ giovanissima, è bella, si impiega come sarta o nuovamente in una fabbrica tessile, ed inizia, nel tempo libero, a seguire alcune attività culturali ed a recitare nella Filodrammatica della comunità italiana, della “Little Italy”. Non credo sia stato neppure per lei facile, come per tanti e tante, abbandonare, paese, paesaggi, Europa, amicizie ed affetti, compreso lo zio Pietro, fotografo, che forse guarda, bambina, affascinata dalle possibilità del mezzo tecnico, cercando di coglierne i segreti. Non credo sia stato facile neppure per lei salire su quella nave che avrebbe solcato l’oceano verso l’ignoto, per raggiungere il padre, e cercare una vita migliore. Ma sfugge così alla prima guerra mondiale.

Quindi la fortuna la porta ad incontrare il suo primo sposo: «durante una visita all’Esposizione Internazionale Panama-Pacific conosce il poeta e pittore Roubaix del’Abrie Richey, dagli amici chiamato Robo, con cui si unisce nel 1917 e si trasferisce a Los Angeles. Entrambi amano l’arte e la poesia, dipingono tessuti con la tecnica del batik; la loro casa diventa un luogo d’incontro per artisti e intellettuali liberal».
(Tina Modotti, arte, vita, libertà, in:http://www.comitatotinamodotti.it/tina.htm). La vita di Tina Modotti è ad una svolta decisiva. Conosce personalità di spicco del mondo artistico americano, apprende, guarda, inizia a sviluppare una propria sensibilità artistica. Incomincia a parlare quasi sempre in inglese anche con i fratelli, e appare sempre più distaccata da quella Little Italy da cui aveva mosso i primi passi in U.S.A.
L’esperienza Hollywoodiana, deludente, non è che una parentesi, un tentativo non riuscito di realizzazione di se stessa: ci ha provato, non era come dicevano.

La convivenza con Robo, dal fiocco scuro come cravatta, all’uso francese, alla Lavallière «che piaceva moltissimo a pittori e socialisti» (http://www.placidasignora.com/2008/06/06/storia-della-cravatta/) dura poco. Robo muore in Mexico nel 1922 e così Tina conosce quello Stato che per molto tempo l’affascinerà, e che sarà costretta, da un decreto di espulsione, ad abbandonare.
Quindi si unisce ad Edward Weston.

«A fine luglio 1923 Tina Modotti e Edward Weston arrivano in Messico, si stabiliscono per due mesi nel sobborgo di Tacubaja e, quindi, nella capitale. Uniti da un forte amore, vivono entro il clima politico e culturale post-rivoluzionario, a contatto con i grandi pittori muralisti David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera e Clemente Orozco, che appartengono al Sindacato artisti e sono i fondatori del giornale “El Machete”, portavoce della nuova cultura e, in seguito, organo ufficiale del Partito Comunista Messicano». (Tina Modotti, arte, vita, libertà, op. cit.).

Per “El Machete”, all’interno del programma di miglioramento della vita contadina e di lotta alla povertà sia morale che materiale, Tina fotografa scuole rurali, tentativi di migliorare l’agricoltura, premi, manifestazioni, che corredano gli articoli. Era allora Presidente del Messico Álvaro Obregón, anticlericale, nato da una povera famiglia di agricoltori, eletto dal popolo. I quattro anni di presidenza di Obregón sono ricordati per le riforme agrarie messe in atto nel paese, e per l’atteggiamento amichevole nei confronti degli Stati Uniti d’America. (Álvaro Obregón, in: https://it.wikipedia.org .)

Ma le opere fotografiche a noi più note di Tina, quelle artistiche, risentono del nuovo approccio alla fotografia di Edward Weston, suo maestro. Nel 1922, durante un viaggio in Ohio, egli abbandona lo stile pittorialista, e inizia a concentrare la sua attenzione sulle forme astratte di oggetti industriali e di elementi organici. «La macchina fotografica – sostiene Weston – deve essere usata per registrare la vita e per rendere la vera sostanza, la quintessenza delle cose in sé, sia si tratti di acciaio lucido o di carne palpitante». (http://www.fondazionefotografia.org/artista/edward-weston/).
Durante il periodo messicano, egli sposta il suo interesse dal soggetto alla tecnica, ai meccanismi intrinsechi dell’apparecchio fotografico: «Se non riesco ad ottenere un negativo tecnicamente perfetto, il valore emotivo o intellettuale della fotografia per me è quasi nullo» – afferma. (Ivi).

Alla fine del 1924, Tina Modotti ed Edward Weston espongono insieme al Palacio de Minerìa alla presenza del Capo dello Stato. Ma con il passare del tempo ed il distacco da Weston, Tina incomincia a dar vita agli oggetti che fotografa, a farli “parlare” ponendoli, pure, sapientemente in relazione: e pur non dimenticando il suo maestro, forse lo supera. Le sue diventano immagini che comunicano pensieri, ideali, realtà, povertà. Di Weston sono noti ed abusati i ritratti di Tina nuda, ma potrebbero essere stati puro esercizio di forme ed estetica, come potrebbero esserlo stati  i nudi di un’ altra sua moglie, o sguardi sull’intimità personale. Non si sa perché si mettano quei nudi a rappresentare Tina,  ma nella nostra società di “bunga bunga” e “culi e tette”, forse è anche comprensibile ma non giustificabile.

Comunque, secondo me, il rapporto tra Wetson e Modotti , fotografi,  dovrebbe esser ulteriormente indagato, anche se vi si trovava già un accenno nella mostra “Edward Weston, una retrospettiva”, tenutasi a Modena, dal 14 settembre al 9 dicembre 2012, da me vistata. Nella presentazione della stessa si può leggere che: «la fotografia di Weston è l’espressione di una ricerca ostinata di purezza, nelle forme compositive così come nella perfezione quasi maniacale dell’immagine». (http://www.fondazionefotografia.org/mostra/edward-weston/).

Lasciato Weston, le situazioni di vita portano Tina ad impegnarsi sempre meno nella fotografia, sempre più in ambito sociale e politico. Nel 1924 lo scenario nazionale messicano muta, con la fine della presidenza di Obregón. Dal 1926 al 1929, ha luogo la rivolta dei cattolici messicani, contrari ad una politica di divisione fra Stato e Chiesa, alla requisizione dei beni ecclesiastici, alla soppressione delle scuole cattoliche e degli ordini religiosi, insomma ad una modifica in senso napoleonico ed illuminista dello stato. I “Cristeros”, combattenti in nome di Cristo Re, impugnano le armi, e si oppongono, soprattutto nel sud del paese, all’esercito regolare, creando una situazione difficilissima. (https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_Messico).

Ed in questo periodo Tina si avvicina sempre più al Partito Comunista, in cui milita, conosce lo scrittore John Dos Passos e l’attrice Dolores Del Rio, entra in amicizia con la pittrice Frida Kahlo e continua anche la sua attività artistica: sue fotografie vengono pubblicate nelle riviste Forma, New Masses, Horizonte. ( (Tina Modotti, arte, vita, libertà, op. cit.).

Nel settembre del 1928, Tina diviene la compagna di Julio Antonio Mella, giovane rivoluzionario cubano, che muore al suo fianco, nel gennaio 1929, ucciso dai sicari del dittatore di Cuba Gerardo Machado, mentre tenta di organizzare una rivoluzione a carattere socialista ma anche nazionalista. Ed il 1929 è pure l’anno dell’ ultima mostra fotografica di Tina, che ha rifiutato l’incarico di fotografa ufficiale del Museo Nazionale Messicano. Il 3 dicembre 1929 si inaugura, presso l’Università Autonoma di Città del Messico, «una rassegna delle sue opere, che si trasforma in atto rivoluzionario per il contenuto e la qualità delle fotografie e per l’infuocata presentazione tenuta dal pittore Siqueiros. La rivista Mexican Folkways pubblica il manifesto “Sobre la fotografia” firmato da Tina Modotti». (Ivi).

Forse la morte del suo compagno Julio Antonio Mella, tanto amato, forse il più amato, fra le sue braccia, mostrandole la ferocia della realtà, ha fatto scattare qualcosa in Tina, che muta ancora una volta.
Ma non basta. Nel febbraio 1930 il Partito Comunista messicano viene messo fuorilegge, e la stampa inizia una campagna contro Tina Modotti, diffamandola. Infine viene incarcerata come sospettata di aver collaborato ad un attentato contro il nuovo capo dello Stato messicano, Pasqual Ortiz Rubio, ed espulsa dal Messico. Anche se avesse voluto continuare a fotografare, non so se avrebbe potuto farlo. Per la società non è più la famosa fotografa, è una “reproba” non vergine ma senza anello al dito, che si fa fotografare nuda, è una sospettata di terrorismo di stato, anche se scarcerata poi, è una esiliata.

La storia successiva di Tina, sempre più coinvolta nella vita del Partito Comunista internazionale, è storia di spostamenti al fianco di Vittorio Vidali, suo nuovo compagno, che pare proprio la viva come una moglie un po’ brontolona, è storia che vede Tina in Urss, in  Germania ed in Spagna con Soccorso Rosso, ove si prodiga verso i bimbi, i malati, i poveri.

La Modotti entra in Spagna nel 1933, con passaporto falso, per operare in Soccorso Rosso. Ella inizia la sua opera in Asturia, ove si dedica, in primo luogo, a sostenere donne e bimbi durante gli scioperi e le lotte degli operai delle miniere.
Infatti nel gennaio 1933 i minatori, fortemente sindacalizzati, avevano incominciato  uno sciopero generale promosso dalla centrale sindacale anarchica, la Confederación Nacional de Trabajadores. Fra varie vicende, essi, che volevano una società socialista, riuscirono a prendere il potere il 5 ottobre 1934, per perderlo subito,  il 18 ottobre, essendo state inviate, contro di loro, truppe governative, guidate dai generali Goded e Franco.
In queste fasi di lotta, o quando i loro uomini venivano incarcerati o morivano, donne con bambini restavano spesso senza di che mangiare, senza nulla ed il Soccorso Rosso aveva il compito di sostenere, aiutare, sorreggere. Era finanziato anche dall’Urss? Certamente, ma forse la Chiesa guarda al colore dei propri benefattori? Ed in ogni caso Soccorso Rosso era comunista. Perchè l’Unione delle Repubbliche Socialiste  Sovietiche non avrebbe dovuto sostenerlo?
Poi troviamo Tina infermiera al fonte spagnolo. Ella cura, sostiene, aiuta, consola, rincuora, come tante donne dei paesi friulani, forse come aveva visto fare ad Udine. Vede morire, soffrire, restare mutilati giovani e compagni accorsi al fronte per difendere la democrazia ed urlare il loro antifascismo, padri di famiglia ed operai, gente comune, come quella della sua famiglia. Vede  il pianto dei bimbi ed il coraggio delle donne a Madrid, Valencia, Alicante, Barcellona, accompagna nella notte spose madri e niños fuori da Malaga, dopo la vittoria dei franchisti appoggiati, pure, dalle camice nere guidate dal generale Roatta,  nel 1937.

Spesso si ritiene che coloro che aderirono al socialismo e comunismo fossero dei filo Urss contro l’America, la democrazia ed il progresso, ed in particolare contro la chiesa. Ma questa lettura è artificiosa.

Molti dei nostri comunisti e socialisti, friulani, volevano, allora, secondo me, spesso solo “pane e lavoro” ed un mondo migliore per figli e nipoti. Si racconta, per esempio e se ben ricordo, come  alcuni capi, se non erro islandesi,  avessero chiesto ai missionari cristiani se il loro Dio sarebbe stato in grado di migliorare le condizioni di vita della popolazione, nel qual caso ben venisse a sostituire i precedenti dei.

Ma ritornando a Tina, la ritroviamo infine, nel 1942, stremata dalla fatica e dal dolore, a Città del Messico, ove il suo cuore cede, nella notte, su di un taxi. Poi la damnatio memoriae, ed infine la riscoperta, grazie a pochi volonterosi, ed in particolare a Riccardo Toffoletti.

La sua figura è stata letta in molti modi, ed esiste più di una biografia su di lei. La sua vita si presta, pure, ad esser interpretata, romanticamente,  come “Un’avventura di libertà e di solitudine” e così si intitola un articolo a lei dedicato (Paolo Medeossi, Un’avventura di libertà e di solitudine, in  Messaggero Veneto, 13 novembre 2012), ma anche a discutibilissime operazioni come il progetto artistico espositivo di Maravee Eros, incentrato sulla figura di Tina, presentato nel castello di Susans nell’ ottobre 2012, attaccato pure dal giornalista di “Repubblica” Michele Smargiassi, che intitolò il suo pezzo: “Tina playmate tuo malgrado”. Egli trovava: «riduttiva e semplicistica», la versione glamour che l’ iniziativa friulana aveva scelto per valorizzare la figura di Tina Modotti, e pure adatta ad alimentare «un mito voyeristico, pruriginoso e del tutto privo di fondamento» della figura storica della nota fotografa friulana, trasformata in icona erotica. (Melania Lunazzi, L’ icona prêt-à-porter e il diritto all’ interpretazione, in Messaggero Veneto, 13 novembre 2012).

Quei nudi di Watson alla sua compagna di vita pesano ancora, come pesò, nel 1971, il tentativo di farla conoscere da parte di Vittorio Vidali.

Per quanto mi riguarda, ho incontrato Tina Modotti attraverso Riccardo Toffoletti. Quindi  la visita alla mostra organizzata, su di lei ad Udine, nei primi anni Novanta, e l’acquisto di “Tina Modotti, perché non muore il fuoco”. E lessi, guardai, imparai. Quindi  iniziai a mostrare a mia figlia le fotografie scattate dalla Modotti, iniziai ad accostarla alla foto d’autore, e Riccardo Toffoletti la invitò personalmente a Roma, alla mostra su Tina, che fece accorrere molte personalità del mondo romano. E quando penso alla Modotti, non so perchè, mi viene in mente quella frase: «Perchè non muore il fuoco».

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: Tina Modotti, arte, vita, libertà, in: http://www.comitatotinamodotti.it/tina.htm. Il convegno a cui faccio riferimento nel titolo è quello tenutosi ad Udine il 19 e 20 novembre 2015, ““Tina Modotti nella storia del Novecento”. SI INVITA I LETTORI A VISITARE LA MOSTRA DEDICATA A TINA MODOTTI A CASA CAVAZZINI AD UDINE. Laura Matelda Puppini.

Lettera aperta a Regione e Sindaci della Carnia sulla gestione del sistema idrico. Proposta di un consorzio pubblico.

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Lettera aperta e propositiva a Debora Serracchiani, Sergio Bolzonello, Giunta e Consiglio Regionale, Sindaci della Carnia, resa nota ai carnici attraverso www.nonsolocarnia.info.

OGGETTO: CREAZIONE DI UN CONSORZIO PUBBLICO FRA I COMUNI CARNICI PER LA GESTIONE PUBBLICA DELL’ACQUA E SE POSSIBLE ANCHE DEI RIFIUTI.

Gentilissimi, chi vi scrive è Laura Matelda Puppini, una cittadina di Tolmezzo, di Italia, d’Europa, del mondo, carnica come albero genealogico, che si è impegnata in prima persona, nelle strade, fra la gente, per invitare ad andare a votare per il referendum che voleva l’acqua, bene comune vitale, dono di Dio per la vita, pubblica, non in mano ad s.p.a..

Scrivo questo in premessa perché l’oggetto di questa mia è relativo alla proposta di una soluzione alternativa alla confluenza di Carniacque in Cafc, vista dalla presidente della Giunta Regionale, avv. Debora Serracchiani, come l’unica possibile, cioè la creazione di un consorzio pubblico fra i comuni, non s.p.a..

PERCHE’ NO AD UNA S.P.A. CHE GESTISCA IL SISTEMA IDRICO.

L’opposizione alla scelta di gestire i servizi pubblici (acqua in particolare) tramite una Spa, seppure a totale capitale pubblico, non deriva da una scelta ideologica, ma da una serie di elementi oggettivi.

Una società a livello ragionieristico e di diritto, è un soggetto esercente attività di impresa: essa può essere costituita da un unico soggetto o da più soggetti (persone fisiche e/o giuridiche) riuniti in una società detta collettiva. (https://it.wikipedia.org/wiki/Società_(diritto). «La società può far debiti per finanziare le sue attività, e i creditori della società sono garantiti principalmente dal patrimonio della società, soprattutto da quella parte che è cristallizzata nel capitale sociale».
(http://www.dirittoprivatoinrete.it/societa/spa/i_patrimoni_destinati_ad_un_uno.htm).
«Lo scopo per così dire “tipico” della società è quello delineato dall’art. 2247 c.c., solitamente detto “scopo di lucro” e consiste nel destinare ai soci gli utili ricavati dall’attività economica oggetto della società stessa». (Gli scopi delle società, in: www.StudioCataldi.it).

«Lo scopo della società commerciale, come recita il Codice Civile, è il lucro. In altre parole è costruita per estrarre valore dal processo industriale che governa. Il suo utilizzo per gestire un servizio pubblico “in house”, il cui scopo dovrebbe essere non l’estrazione di valore ma la creazione di valore, sotto forma di massimizzazione quantitativa e qualitativa del servizio, crea una contraddizione fondamentale, cambiando, nella sostanza, il ruolo dell’ente pubblico concessionario». (Presentazione del dossier: “Società Multiservizi: lo strumento per privatizzare i servizi pubblici locali”, in: www.acquabenecomune.org.).

E che le Società Multiutility siano lo strumento per privatizzare i servizi pubblici locali, è chiaro al coordinamento regionale piemontese acqua pubblica, che ha svolto lo studio “Società Multiservizi: lo strumento per privatizzare i servizi pubblici locali”in cui si analizzano i nuovi processi di privatizzazione dei servizi pubblici locali a partire dal caso atena/iren, pubblicato il 24 settembre 2015, leggibile in e scaricabile dal sito: www.acquabenecomune.org..

«Opacità della gestione, aumenti tariffari insostenibili, negazione del diritto umano all’acqua, peggioramento delle condizioni di lavoro e aumento del lavoro in appalto, scarso controllo delle amministrazioni pubbliche, diminuzione degli investimenti, erogazione dei dividendi agli azionisti tramite indebitamento, impoverimento della risorsa idrica e mancato coordinamento della gestione della risorsa. Questi sono gli effetti del processo strisciante della privatizzazione in atto in questi anni». – si legge sul Forum Italiano dei movimenti per l’acqua, in un comunicato datato 3 dicembre 2014.

Inoltre mentre prima non potevano esser stagnati rubinetti, in caso di insolvenza anche per povertà, ora tale norma è stata tolta dalla Camera dei Deputati. «Dopo il veto a stagnare i rubinetti, vi è stato un recente ripensamento a livello nazionale. Il 13 novembre 2014 la Camera approvava il Collegato Ambientale alla legge di stabilità dell’anno, cancellando un articolo che impediva i distacchi del servizio idrico e garantiva il diritto all’acqua tramite il minimo vitale». (Comunicato stampa del Forum Italiano del Movimenti per l’acqua. La Camera cancella il diritto all’acqua e benedice i distacchi idrici, in: www.acquabenecomune.org.)

Infine queste società non spendono in materia prima, che viene loro di fatto donata, ma solo guadagnano: infatti l’acqua è dono di Dio alla terra, non una produzione di società od aziende.

Ritengo, quindi, che invece di creare un sub- ambito in Cafc, terminata l’esperienza Carniacque, che già volgeva verso una multiutility, si possa realizzare un consorzio pubblico fra i comuni della Carnia che gestiscano acqua e rifiuti, sostituendo l’esperienza precedente. Così la comunità della Carnia, se le regole normative del servizio ai cittadini e gli interventi da programmare verranno ben soppesati e studiati in modo oculato, potrà dividersi spese, attraverso le bollette, ma in funzione di un vantaggio per il territorio, ed i poveri potranno godere comunque dell’acqua.

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E CHE ACCADRÀ A CHI NON HA I SOLDI PER PAGARE LA BOLLETTA, CHE POTREBBE AUMENTARE SEMPRE PIÙ?

Inoltre Cafc pare non rispetti i patti fatti (Renato D’Argenio, “Vertice Amga-Hera: «Non è stato rispettato il patto Honsell-Cafc», in: Messaggero Veneto 20 novembre 2014); e piomba i rubinetti dell’utenza. «Nel 2013 – riferisce il presidente – abbiamo effettuato 1.082 piombature, lo scorso anno 1.200”. Si tratta di azioni estreme che anche il Cafc fa a malincuore. “Prima di agire – aggiunge ancora Gomboso – ci confrontiamo con le assistenti sociali dei singoli Comuni. Se in un appartamento vivono anziani, minori o disoccupati anziché piombare l’utenza installiamo i riduttori di pressioni per garantire il minimo vitale». (Giacomina Pellizzari, Bollette dell’acqua non pagate, il Cafc taglia 1.200 contatori. Le piombature sono in aumento anche se in molti casi viene garantito il minimo vitale. Il presidente Gomboso: l’insoluto è pari al 10% ed è coperto da chi versa regolarmente, in: Messaggero Veneto, 19 giugno 2015). Mi chiedo fra l ‘altro perché le assistenti pagate dai comuni dovrebbero lavorare per la s.p.a. Cafc, e su ordine di chi, e pure se Cafc sappia cosa accade, a monte, se si riduce la pressione di un tubo.

A questo punto mi domando cosa ci dobbiamo aspettare in Carnia, dopo la fusione, se la vecchietta di una frazioncina di montagna, e non solo, non riuscirà a pagare. Solo il pensare a rubinetti che si vanno ad aprire per non veder uscire una goccia fa impazzire … figurarsi averli in casa, o vedere gocciolare l’acqua, se va bene. E poi senza acqua o con poca le ripercussioni sulla salute paiono inevitabili.
E non ci si illuda: una s.p.a. non privilegia gl investimenti su un territorio ampio e poco abitato, avendo utenza con alta densità abitativa, concentrata, come per es. quella della città di Udine e dintorni. Inoltre l’A.T.O., ha previsto un piano di investimenti definito “faraonico”, senza chiarire dove trovare i soldi per gli stessi, e dovendo, in sintesi, ricorrere alla fin fine, ad alzare a dismisura le bollette.
Ho sentito che in Carnia molte condutture sono buone, gli operai dei comuni conoscono il territorio, reti e sorgenti, e potrebbero intervenire se del caso.

«Nel momento in cui l’acqua cessa di essere considerata una risorsa fondamentale per la vita, trasformandosi in un bene di consumo, diviene oggetto delle dinamiche finanziarie. La struttura dell’ambito territoriale ottimale pensata in prima istanza per razionalizzare l’erogazione dei servizi idrici, in un sistema di libero mercato si è trasformata in una nicchia impenetrabile alla concorrenza. Non è infatti economicamente efficace che una pluralità di operatori insistano sul medesimo territorio; di conseguenza, per ritagliarsi una fetta di mercato, le aziende si fondono con lo scopo di ottenere il controllo di più ATO possibili, all’interno dei quali operare in veste di sostanziale monopolio. È utopia credere che le aziende siano spinte a ridurre le tariffe senza una reale concorrenza, come è altrettanto utopistico pensare che questo obiettivo venga prima di quello di aumentare i profitti, soprattutto per quelle aziende che sono quotate in borsa. La capacità di un’azienda di investire, e di conseguenza di migliorare il servizio, è subordinata alla condizione di soddisfare i requisiti richiesti dal mercato, in modo da creare capitali da reinvestire»- scrive Erika Gramaglia. (Erika Gramaglia,“Acqua, fra diritto e mercato. Il percorso legislativo della privatizzazione dell’acqua” in: Paginauno n. 4, ottobre – novembre 2007).

Infine ad Udine, per esempio, Cacf ha applicato aumenti tariffari rispetto la precedente gestione. (Giacomina Pellizzari, Bollette dell’acqua, è caos tariffe: aumenti da marzo. Udine, il servizio Cafc costa agli ex utenti Amga il 30% in più. Prima fatturazione invariata, rincari diluiti nel tempo, in: Messaggero Veneto, 1 febbraio 2014), ed ha già previsto aumenti nel tempo per il futuro. Infatti il presidente Gomboso ha dichiarato che le bollette Cafc aumenteranno in sette anni del 30%, in previsione, e si giungerà a tariffa unica entro il 2020. E così ha affermato: «Stimiamo aumenti annui del 3, 4% in grado di garantire gli investimenti legati al piano d’Ambito che, per il 2014, sarà approvato la prossima settimana dalla Consulta d’Ambito». (Giacomina Pellizzari, Cafc, l’acqua rincara: in sette anni previsti aumenti del 30%, in Messaggero Veneto, 16 maggio 2015).

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• MA LA MAGGIORANZA DEI SINDACI CARNICI HA GIÀ DATO MANDATO, PER LA CONFLUENZA DI CARNIACQUE IN CAFC. COME SI POTREBBE OVVIARE.

«L’ anno 2015 il giorno 5 del mese di ottobre, alle ore 17.30, nella Sala Convegni della Comunità Montana della Carnia – a seguito della convocazione disposta dal Sindaco del Comune di Tolmezzo con nota 22.9.2015, si è riunita l ‘Assemblea della ZTO della Carnia. (…). Il Presidente illustra i punti all’ordine del giorno:
1 – Determinazioni inerenti la società Carniacque s.p.a.
2- Affidamento del servizio idrico integrato a CAFC Spa.

(…). Visto l’esito della votazione l’Assemblea delle ZTO approva la proposta di deliberazione denominata: Affidamento del servizio idrico integrato a CAFC Spa, quale gestore unico sull’intero ambito territoriale ottimale, dando mandato al rappresentante della ZTO ad esprimere parere favorevole in sede di assemblea d’ambito.» ( Verbale assemblea ZTO della Carnia, tenutasi il 5 ottobre 2015)».
La scelta, basata su due documenti pervenuti ai comuni il 3 ottobre 2015, pare invero frettolosa, e dettata maggiormente dal deficit di Carniacque, che non può chiedere aiuto alle banche perché in fase di scioglimento, che da altro.

Così, come ora sempre più spesso accade in Italia, forse si decide senza aver soppesato il problema ed essersi informati, pensando di fare in tal modo il bene pubblico. Io credo che sarebbe stata buona cosa non precipitarsi, e studiare prima problemi di tale levatura per il territorio, e far decidere i Consigli comunali in materia.

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• MA ORA PASSO A CONFERMARE LA MIA PROPOSTA.

Potrebbe ancora intervenire la Regione Friuli – Venezia Giulia, con norma adeguata, visto il suo ruolo legislativo di mediazione tra esigenze locali e normativa nazionale, permettendo LA CREAZIONE DI UN CONSORZIO PUBBLICO FRA I 28 COMUNI DELLA CARNIA PER LA GESTIONE IN PROPRIO IN PARTICOLARE DELL’ ACQUA E POSSIBILMENTE ANCHE DEI RIFIUTI. Per la gestione di questi ultimi rimando all’ esperienza di affidamento a cooperativa fatta da gente del luogo, a Cappanori, in Toscana, ove hanno assunto, a tempo indeterminato, per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti differenziati, giovani locali, senza lavoro. E più il cittadino differenzia meno paga. (Jenner Melletti, Nella città a rifiuti zero. “Ricicliamo tutto. Qui l’immondizia è oro”. A Cappanori in Toscana, dove la differenziata supera l’ 80 per cento, in: La Repubblica, 23 giugno 2013).

Inoltre il territorio della Carnia ha molti comuni sotto i mille abitanti e per essi credo sia ancora possibile gestire l’acqua in proprio.

«I comuni montani sotto i 1000 abitanti possono gestire in economia- senza dover ricorrere a società partecipate,- il servizio idrico integrato. Lo ha chiarito il Ministero dell’ambiente in una nota del 26 gennaio 2012.

Secondo il Ministero, sulla scorta di analoga interpretazione della sezione abruzzese della Corte dei Conti, ai sensi dell’art. 148, comma 5, Dlgs 152/2006,per i comuni montani sotto i 1000 abitanti, il ricorso alla gestione diretta del servizio idrico integrato è possibile, a patto che gestiscano l’intero servizio idrico e previa valutazione della convenienza economica della gestione diretta, nonché con il consenso della Autorità d’ambito competente». Inoltre l’articolo precisa che la sentenza 325/2010 della Corte Costituzionale ha sancito che la stessa norma comunitaria stabilisce che gli stati membri possano prevedere, in via eccezionale, per alcuni casi determinati, la gestione diretta del servizio. (Francesco Petrucci, Servizio idrico. Ammessa per i Comuni montani la gestione in economia, in : http://www.reteambiente.it/news/16148/servizio-idrico-ammessa-per-comuni-montani-la-ges/).

Invio perché cerchiate di valutare questa proposta. Inoltre i Comuni potrebbero garantire così ai poveri l’acqua necessaria, senza ricorrere a soluzioni aborrenti a livello morale e di coscienza, come stagnare i rubinetti, e riportando il discorso dell’acqua a bene comune del territorio e non bene da regalare per fare cassa, attraverso un sistema perverso.

Scusandomi per il disturbo, senza volontà di offendere alcuno ma solo propositiva, porgo distinti saluti, sperando vogliate tener conto di questa mia. Laura Matelda Puppini.  ( seguono dati identificativi qui omessi n.d.r.).

Carnici che scrissero la storia della democrazia: Mario Candotti, ufficiale, partigiano, educatore e storico. In memoria.

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Nel trentesimo della morte, molto opportunamente l’Ana di Pordenone e di Ampezzo hanno ricordato Mario Candotti, di Ampezzo, poi emigrato a Pordenone. (Giovanni Martinis, Ampezzo. Gli alpini pordenonesi e ampezzani ricordano Mario Candotti nel 30° della morte, in: Carnia alpina, 15 ottobre 2015, p. 37). Avrebbero potuto farlo pure assieme all’Anpi, dico io, ma sarà per la prossima volta.
Voglio anch’io ricordare Mario Candotti, riproponendo, dopo le righe da me scritte come biografia, in Marchetti Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, pp. 382-383), le parole scritte da Romano Marchetti, l’osovano Cino Da Monte, dopo la sua morte e pubblicate su Nort, giornale della Carnia e della montagna friulana, n. 8, gennaio/febbraio 1986, p.7.

Di chi si parla. Scheda biografica di Mario Candotti.

Mario Candotti, ufficiale e comandante partigiano, nomi di battaglia Barbatoni (riportato anche come Barba Toni),  Mario, (secondo Romano Marchetti anche Candioli), nacque ad Ampezzo (Udine) il 16 ottobre 1915. Chiamato alle armi nel 1939, prese parte, come ufficiale di artiglieria della Divisione Alpina Julia, alle operazioni di guerra sul fronte greco – albanese e su quello russo, da cui riuscì ad uscire vivo, portando a casa pure molti dei suoi soldati. L’8 settembre 1943 si trovava a Nimis, in transito verso Montespino di Gorizia, ove avrebbe dovuto esser impiegato contro i partigiani dell’esercito di Liberazione Jugoslavo ed apprese, dalla gente del luogo, dell’avvenuto armistizio. Nei giorni successivi continuò la ridda di notizie finché, già raggiunto dall’ordine di sgombero, decise di portarsi in bicicletta ad Ampezzo. Ed ad Ampezzo incontrò, il 15 aprile 1944, i partigiani garibaldini comandati da Tredici. Nel giugno 1944 entrò a far parte del btg. Carnico della Divisione Garibaldi – Friuli, che comandò dopo il 23 luglio dello stesso anno. Successivamente, dal novembre del 1944, rivestì la carica di comandante della Divisione Garibaldi Carnia Nassivera, di cui fu Capo di Stato Maggiore il suo amico Ciro Nigris, Marco. Non apertamente comunista, come precisa nel suo diario, nel dopoguerra insegnò, in un primo tempo, come maestro elementare, diventando, poi, direttore didattico ed infine ispettore scolastico a Spilimbergo. Morì a Pordenone l’11 maggio 1985, a causa di un incidente stradale. E’ autore di diversi articoli sul periodo della resistenza. Il suo diario fu pubblicato, postumo, in un primo tempo, nell’ottobre – novembre 1985, a puntate sul quotidiano “Il Piccolo”, edizione del Friuli Venezia Giulia, in un secondo tempo come volume: Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa, naia, guerra, resistenza, ed. I.F.S.M.L., 1986». (Scheda di Laura Matelda Puppini, in Romano Marchetti, op. cit., pp. 382-383. Per una scheda più approfondita, consiglio quella pubblicata in: www.anapncentro.it/StorieVecchiAlpini/CandottiMario.htm).

Così ricordava Romano Marchetti, partigiano osovano, l’amico partigiano garibaldino dopo la sua morte. (Romano Marchetti, a cura di Laura Matelda Puppini, ivi solo L. Puppini , Mario Candotti “Barba Toni”, comandante partigiano, insegnate, storico, in Nort, op. cit., p.7).

Romano Marchetti: «Mario Candotti “Barba Toni”, comandante partigiano, insegnante, storico».

Al telefono la voce triste di Ciro Nigris: «Mario Candotti è morto, Barba Toni è morto, travolto da una macchina.
Due giorni dopo, in una luminosa giornata di maggio, Ciro rievoca, nel cimitero di Ampezzo, l’esemplarità e la vita eroica di Mario, combattente, insegnante, storico. Davanti a lui la bara: sotto i brevi scalini di marmo il popolo di Ampezzo e molti pordenonesi immobili, ad ascoltare, sentire. Tra loro Andrea, Gianna, molti garibaldini ed osovani convenuti per dare l’ultimo saluto al compagno di lotta. Chi rimediti sulle parole di Andrea nel duomo pordenonese o su quelle di Marco che rievoca la figura di Barba Toni, chi ripensa agli incontri avuti con lui, giunge, a ritroso, a molti quadri di cui Candotti fu massimo attore.

La guerra è finita da tempo: egli è maestro a Forni di Sotto. Il paese è tutto un cantiere di ricostruzione: le affumicate macerie, retaggio della rappresaglia nazista, non hanno più la forza di scoraggiare la gente. Soltanto la sera un po’ di relax: circondato dai suoi paesani più o meno autorevoli, Mario non si fa pregare a lungo ed inizia a suonare, con trasporto e sensibilità la sua fisarmonica. Motivi tradizionali onesti e ladins, talvolta allegri, talvolta dolenti, riempiono gli animi. Ha imparato a suonare da ragazzo, forse quando, piccolo commesso di negozio presso i Pezza ad Ampezzo, allora qualificato centro turistico, si adoperava come suonatore nella banda comunale esprimendo così, nel relax, con il piacere per l’espressione più amata, l’attaccamento al proprio paese. Forse prima ancora. Che soffocasse così l’amarezza di aver lasciato lo studio?

Ma non si era arreso ed in segreto qualcosa faceva. Penso si fosse confidato con il vecchio maestro Benedetti, che lo ricorda come il miglior allievo, che commosso si era deciso, dopo aver spolverato le sue vecchie cognizioni, di fargli ripetizioni gratuite di latino.

La musica, comunque, sembra quasi il motivo di fondo della vita di Candotti. Quella sera, a Forni di Sotto, mentre suona, credo rievochi allo stesso tempo lo strano periodo di ansiosa calma che seguì l’8 settembre, quando, dopo lo sbandamento generale, aveva istituito ad Ampezzo, non ancora capitale della Repubblica partigiana, una scuola di musica dai molti allievi che talvolta lo costringevano ad esibirsi in serate danzanti nei vari paesi del mandamento ora soppresso.

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Il mio ricordo arretra ancora: va al funerale di Tita, Battista Candotti, assassinato dai fascisti senza ragione, a cui Mario partecipò come tanti altri, all’abbracciamento di Forni di Sotto, alla scelta da lui fatta di prendere la via della montagna, al suo crescere da semplice partigiano a comandante di compagnia prima, brigata e divisione poi, alle frequenti e fruttuose azioni, da lui dirette, contro la ferrovia pontebbana, nodo vitale per le truppe tedesche in Italia.
E sono ancora le note del Gloria, suonato dalla fisarmonica di Barba Toni, che sanciscono, dopo il suo preziosissimo intervento all’albergo Nord di Ovaro, di ridosso alla tragedia autunnale dell’invasione cosacca, l’unificazione del Comando Brigata Garibaldi/Osoppo-Carnia.

Due mesi dopo la scena è molto diversa: ecco il miracoloso salvataggio di Andrea e Gianna. Il primo, con sette denti scardinati in un tremendo ruzzolone da una motocicletta senza freni mentre infuria la battaglia di Tramonti, la seconda con i piedi semi-congelati dal freddo. Mario li aveva condotti tra le maglie nemiche sino ad un rifugio sicuro sul Pura, alimentando Lizzero tramite un culmo d’erba fistoloso così sottile da poter passare tra le bende ma di sufficiente calibro per consentire ai fagioli sciolti in acqua, o forse altro, rimediato non si sa come, di pervenire alla sua bocca e ripristinando a Gianna la circolazione, grazie ad un estenuante massaggio con la neve, praticato sui piedi già avvolti da stracci (gli scarponi servivano di più ad un combattente garibaldino). In questo caso Mario si era certamente servito dell’esperienza russa e di quella accumunata come alpinista e boscaiolo nell’ impresa del padre.

Si dice che proprio lui, tenente di artiglieria, abbia salvato i suoi a Nowo Georgewskji, dirigendo la ritirata di quel gruppo di larve umane barcollanti, distrutte dalla fame, dal sonno, dalla fatica e dal gelo, gettate qua e là dal tuonare delle artiglierie e dal crepitare delle mitraglie in quella tragica notte, con l’intero paese ridotto ad un cumulo di macerie, ed i carri armati che turbinavano come potrebbe testimoniare mio fratello, Baldo Marchetti, che rammenta: «fratello cordialissimo come sempre, Mario mi accolse, illuminandosi, pochi minuti prima della mezzanotte, passata la quale secondo l’ ordine, doveva rientrare; si frugò anche nelle tasche per dare a me ed agli uomini che mi seguivano in quell’incubo interminabile della ritirata, in Russia, della cioccolata e del cognac, rimediati non so come: furono preziosi per la nostra vita. Poi risalì sul camion, e noi dietro, faticosamente».
Di ciò furono testimoni anche Lampo e Lupo, che nulla obiettò su quanto riferito in proposito da Giovanni Bergagnini in “Nie Ponimaiu”.

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Risalendo i ricordi, lo vedo comandare la pattuglia di osservazione e collegamento presso il battaglione Gemona, sul Golico. Sono appena arrivato, pulito pulito, con altri complementi ufficiali dall’Italia, a sostituire morti e feriti. Il tenente Candotti è là, all’entrata della caverna che ospita il comando del Btg. Gemona: sorride, quasi quasi, nel sentir parlare un dialetto simile a quello di Ampezzo. Ci presentiamo: Giovanni Del Negro, maestro, di Paularo, Tomasin di Subit, maestro pure lui, Romano Marchetti, di Tolmezzo.
Mario fa un gesto fuggevole al suo attendente, mentre con qualche battuta umoristica tenta di coprire gli schianti delle bombe da mortaio greche. Quest’ultimo estrae furtivamente dalla tasca una leggera camicia metallica, una di quelle delle bombe a mano Balilla, color rosso. Non c’è alpino, laggiù, che ne difetti: protegge le sigarette dall’umidità.

È questa certamente un’esperienza istruttiva per chi, come me, borghese, da un lustro non aveva avuto il piacere di conoscere tali bombe, nemmeno durate l’ultimo addestramento.
Parigi val bene una messa”, con buona pace della gerarchia di quel tempo, che pretendeva una concezione quasi religiosa del “dovere” e verso le armi.

È bene chiarire che nelle scuole allievi ufficiali di allora la disciplina era praticamente ferrea, e che scienza ed industria marciavano su binari ben distinti. Il più sprovveduto dei soldati poteva verificare come, ai fini della vittoria, non risultasse importante dar peso ad ordini dalla conseguenza pratica nulla o quasi.

Guardando dall’alto alla nostra vicenda, non si può evitare di pensare ad Eraclito ed al suo “Il demone dell’uomo è il suo destino”, se ci si sofferma sulle prove che Mario Candotti dovette affrontare.
Un grosso scontro, in ambito morale, fece stravolgere l’indirizzo che Candotti aveva scelto per sé.
Seminarista, all’esame più importante, quello che lo doveva introdurre allo studio della teologia, fu colto da un’epistassi incontenibile, che lo portò ai limiti della resistenza e sofferenza.
Per più di un anno, dopo il fatto, continuò a portare la veste, ed a dedicarsi, quando il male non glielo impediva, ai bimbi ed ai giovani studenti del collegio salesiano di Tolmezzo. E pur debole ancora, impacciato nella tonaca, si lanciava nelle acque rapide del Lumiei a salvare un giovane amico. Ma infine anche Mario deve cedere: la vita dello studente collegiale non è adatta a lui.

Interviene il padre, rude boscaiolo fra i suoi boscaioli, lo strappa dagli studi e lo costringe alla vita stressante ma sana della montagna. Formaggio, ricotta, polenta, carne, fagioli, diventano gli alimenti base della sua dieta. In montagna non muore, anzi, rinasce, diventa una dura roccia. Così a 22, 23 anni il fato finisce per strappargli la tonaca, ma non la volontà di fare l’educatore.

Rinato fisicamente, supera a Trieste l’esame magistrale, e si iscrive alla Facoltà di Lingue a Venezia. Supera anche l’esame di maturità scientifica. Ma fa a tempo a superare solo qualche esame che Lucca lo chiama: così diventa allievo ufficiale di artiglieria. Prima che inizi la seconda guerra mondiale è in Grecia: è il 1940, Mario ha quasi 25 anni.
Qualche mese dopo ecco il nostro incontro sulla bocca della caverna: egli sorride ai paesani un po’ stralunati dall’inconsueto ruolo di apprendisti guerrieri.
Lo ritroviamo quindi in Russia ed infine a trascorrere il tremendo inverno 44/45 nel gelo e nella neve sulle alte quote dei monti del saurano e dell’ampezzano.

Possiamo affermare, senza tema di smentita, che molti garibaldini, giovani e non, devono esser grati anche a lui se superarono quell’inverno in montagna, e si deve anche alla sua azione di comando il merito di quella resistenza invernale durante la quale si prepararono le basi per la vittoria in arrivo.
E fu Barba Toni, aiutato da altri, per esempio da Ape, Marco, Augusto, che resse la Garibaldi/Carnia con efficienza e semplicità.

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Mario era nato nel 1915, anno in cui il padre, per la prima volta, era stato messo in ginocchio da fatti più grandi di lui. (Si rialzerà questa ed altre due volte). In Bosnia era titolare di un’impresa boschiva con una quarantina di dipendenti, e costruiva fascere per formaggi ed anche di dimensioni maggiori, che venivano usate in Tunisia e Turchia per colture pregiate in roti e giardini.
Aveva dovuto abbandonare tutto e fuggire con l’avvento della guerra, e sotto questi tristi segni Mario Candotti aveva visto la luce. Molto giovarono certamente, alla sua cultura, l’aver studiato a Torino, fuori dalla Carnia, ed aver frequentato, a Lucca, l’ambiente toscano.
E prima di concludere due parole ancora sul suo recente impegno come storico: collaborò attivamente con l’Istituto Friulano per la Storia del movimento di Liberazione: il contributo da lui fornito è di notevole importanza e qualità.

In Mario Candotti, Barba Toni, Candioli, la norma di vita furono la fedeltà e coerenza con il proprio cristianesimo, con il marxismo dei carissimi amici, con lo spirito ed il sentimento alpini anche quando la guerra manifestò maggior durezza come nei giorni che seguirono la Liberazione.
Questa vita, mi pare, suona ad ammonimento all’attuale società nel suo insieme, che non sembra notare il crescere delle ingiustizie sociali e pare andar sciogliendosi in un baillame rumoroso ed irresponsabile, quando non sanguinario, che mette in primo piano l’arricchimento a spese degli altri e tiene in così poco conto valori fondamentali come quell’onestà, coerenza, semplicità, altruismo, di cui Candotti fu portatore. Per questa strana conclusione verrà forse un ghigno ironico ed il tacito commento: «buoni per la prossima, sempre definita sacrosanta guerra». Anche se non difensiva? Pure se di forma del tutto nuova? Anche se con imperscrutabili confini sempre mutati?» Romano Marchetti ( A cura di Laura Matelda Puppini).

Nota 1. Persone descritte da Romano Marchetti con il solo nome di battaglia: Tredici: Angelo Cucito, garibaldino; Marco: Ciro Nigris, garibaldino ; Andrea:  Mario Lizzero, garibaldino; Gianna: Fidalma Garosi, garibaldina;  Lampo: Vittorio Della Schiava, di Salino di Paularo, poi partigiano osovano; Lupo: Giovanni De Mattia di Sutrio, poi partigiano osovano;  Ape: Tranquillo De Caneva, garibaldino;  Augusto: Carlo Bellina, garibaldino.

 Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è un particolare di una fotografia che fa parte del fondo fotografico Candotti Mario Barbatoni,  di proprietà dell’ Ifsml.

Per quei lavoratori della CoopCa … E un saluto alla grande cooperativa, simbolo della Carnia e dei suo ideali socialisti, che muore.

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Vorrei definire una giornata di lutto, quella che ha visto la fine della Cooperativa Carnica, il suo simbolo ammainarsi, come una bandiera ormai inutile. Brilla ancora, illuminata, quella scritta ad Amaro, ma stringe il cuore vederla. È giornata di tristezza, ma anche di riflessione. Se errori e leggerezze sono state fatte da amministratori, paghino essi. Siamo stanchi, noi italiani, di vedere spesso persone e personalità che i giornali e forse anche la magistratura ci hanno narrato non essere intonsi, restare sulla breccia, sogghignando. Siamo stanchi. «Almeno qui – mi narrava un giovane italiano che vive in Germania – le persone che commettono reati finanziari vanno in galera». E in Italia? Chiediamocelo. Ho sessantaquattro anni … ne ho lette … di storie varie. Leggevo l’Espresso fin da ragazza, lo comperava mio zio Umberto, il fratello di mia madre, ma veniva nascosto a casa mia perché alcune immagini erano considerate poco adatte, per usare un eufemismo, e se non erro erano immagini di ragazze ben poco vestite o forse per nulla. Ma io lo leggevo comunque, al riparo del sottoscala, ben poco interessata alle fotografie, e ne discutevo, poi, con mio zio i contenuti. Così, quando un docente al liceo diede un tema relativo al fatto del giorno, pensando che tutti trattassero della morte di un astronauta, io sola scrissi del crollo del Banco di Sicilia. Ho letto poi stampa varia, ho ritagliato articoli, che riportano  al terrorismo nostrano, alla crisi della Parmalat e di altre aziende … a scandali e  non solo, sono stata per anni l’ unica donna del gruppo “Gli Ultimi”.
Ma è ancora più importante, ora, pensare ai lavoratori della CoopCa, con molti sogni lasciati nel cassetto, con forse soldi investiti come soci che non vedranno mai più, con l’angoscia che sale. Io posso solo scrivere a loro favore, ma vorrei che la Regione si riunisse per chi perde il posto di lavoro e cercasse delle soluzioni subito. Mi pare che in Italia si attenda sempre l’ultimo momento, e in ambito politico si parli troppo spesso di beghe politico partitiche, di nomine, ecc.  che ormai interessano poco o nulla ai più…

Non facciamoci vaccinare contro l’indignazione che talvolta ci coglie. Non lasciatevi prendere dallo sconforto, lavoratori della CoopCa che non sapete se domani avrete uno stipendio, mandate i vostri nomi alla Regione Fvg ed ai comuni, attraverso i sindacati, e chiedete che pensino anche a voi, cittadini reali, in difficoltà. I sindacati facciano un’altra grande manifestazione, e questa in piazza a Tolmezzo, se nulla si muove. Si crei quindi una specie di banca dati che incroci domanda ed offerta, e si pensi concretamente a quelle famiglie magari con bimbi, senza futuro. Sia presente anche la Chiesa, in funzione di sostegno ma anche propositiva. Smettiamola tutti di perderci in problemi inesistenti, e la politica inizi ad affrontare quelli reali, come fecero Vittorio Cella e Riccardo Spinotti, che, sulla base del loro ideale e pure della loro appartenenza politica, profusero il loro impegno per sostenere la classe lavoratrice e darle dignità, pane e lavoro. E chi difese Vittorio Cella, al primo tentativo di farlo saltare,  fu Michele Gortani, non certo socialista. Ricordiamocelo. Ma chi rischia di perdere il posto di lavoro deve accettare anche qualifiche inferiori, basta che siano dignitose.  In Italia le condizioni di lavoro stanno peggiorando sempre più e quella che viene a mancare è la dignità del lavoratore, che  rischia di perdere anche i più elementari diritti. E gli abitanti della Carnia dimostino, concretamente, una volta tanto, la loro vicinanza a queste persone, che magari vedevano tutti i giorni, invece di pensare, magari  ” E mah … “.

Ricordare l’impegno sociale di chi ci ha preceduto, serve, poi, anche a chiederci che impegno sociale vogliamo profondere noi, ed a chiederlo a chi occupa un posto in Comune, in Regione e nello Stato, che dovrebbe essere al servizio del popolo, se siamo in democrazia.

DUE ARTICOLI DELLA NOSTRA COSTITUZIONE, NATA DALLA RESISTENZA,  NON SONO  STATI CANCELLATI O MODIFICATI E SONO IL PRIMO ED IL QUARTO: L’ITALIA È UNA  REPUBBLICA DEMOCRATICA FONDATA SUL LAVORO, E “LA REPUBBLICA RICONOSCE A TUTTI I CITTADINI IL DIRITTO AL LAVORO E PROMUOVE LE CONDIZIONI CHE RENDANO EFFETTIVO QUESTO DIRITTO”.  CHIEDIAMO CHE VENGANO APPLICATI PER TUTTI.

Laura Matelda Puppini

Da cittadini a sotàns? Fra Renzi, Poletti, il taylorismo, e la schiavitù, per ora di stranieri.

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Leggo, con vera sorpresa ed indignazione, la proposta di Giuliano Poletti, secondo wikipedia perito agrario, presidente nazionale Legacoop, ex- P.c.i., mio coetaneo, ora Ministro del lavoro e delle politiche sociali, detto anche, correntemente, del  Welfare, nel governo Renzi, di uscire dal pagamento orario del lavoro. (Salvatore Cannavò, L’ultima di Poletti: l’ora di lavoro è roba vecchia, in: Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2015).

Forse il Ministro, udite, udite,  del Welfare (e notate che welfare significa benessere) pensa di reintrodurre la paga del lavoratore sulla base del numero di unità prodotte? Perché o si paga ad orario o a prodotto, non conosco altro modo. Andremo a finire in Italia con tutti paragonati, per contratto, (ammesso che il Governo non ci tolga anche questo), ai vecchi venditori porta a porta, con le peggiori condizioni del settore commercio, quasi nuovi “Vu cumprà”, si fa per dire?
Vuole detto Ministro, precarizzare ancor di più il lavoro giovanile, per far risparmiare i potenti industriali della Leopolda,  amati “dall’uomo solo al comando”, definizione utilizzata per Matteo Renzi (Marco Damilano, La storica notte del terremoto Matteo Renzi Un uomo solo al comando, in: L’Espresso, 26 maggio 2014) e da me condivisa, per contrarre ancor di più il mercato, condurre inesorabilmente verso una stagnazione recessiva stabile, peggiorare la vita del popolo italiano, già indecorosa per moltissimi, limitare ancor di più le famiglie e la possibilità di far figli, ecc., far aumentare il disagio sociale, la stanchezza, e l’ angoscia della mancata stabilità economica, che volge alla malattia mentale ed a condizioni di vita pessime?

E dato che si parla di lavoro, mi sto chiedendo che idea abbia dell’organizzazione del lavoro Matteo Renzi. Ha mai letto i testi sul taylorismo e sui limiti dello stesso? Date le sue scelte, dovrebbe conoscere detto modello organizzativo del lavoro, che ebbe origine alla fine del 1800, e iniziò ad esser applicato ai primi del Novecento, negli U.S.A., in un preciso momento storico, quando iniziarono a svilupparsi le grandi fabbriche con produzione di massa e con la comparsa dell’operaio generico. (Cfr. Antonio Grisolia, Critiche al taylorismo/fordismo, in: http://www.tesionline.it/v2/appunto-sub.jsp?p=3&id=477).

  • IL TAYLORISMO ED IL FORDISMO.

Frederick Winslow Taylor, ingegnere meccanico, alla fine Ottocento, iniziò a studiare, da imprenditore, il modo migliore, a suo avviso, per gestire il lavoro in fabbrica. La sua ipotesi consisteva essenzialmente nel supporre l’esistenza di un “unico miglior modo” (“one best way”) per compiere una qualsiasi operazione produttiva. Pertanto approntò un metodo che prevedeva lo studio accurato dei singoli movimenti del lavoratore per poter ottimizzare il tempo di lavoro, programmando l’esatta serie dei movimenti ed il tempo necessario per svolgere ciascuno di essi, ed una possibile via per compierli in modo più veloce. Inoltre la sua organizzazione del lavoro prevedeva alcune figure basilari come: l’addetto agli ordini di lavoro e ai cicli; l’addetto alle schede di istruzione; l’addetto ai tempi e ai costi; il caposquadra; l’addetto alla velocità di esecuzione;l’ addetto alla manutenzione; l’ispettore; l’addetto ai rapporti disciplinari.
La strada tracciata da Taylor venne applicata e sviluppata da Henry Ford,che la attuò, per primo, in un’industria, la casa automobilistica Ford, con una concezione dei rapporti di organizzazione nota come fordismo. (Da: https://it.wikipedia.org/wiki/Frederick_Taylor).

«Con l’andar del tempo il termine taylorismo ha assunto un significato più vasto e ha preso a indicare tutti gli aspetti di un lavoro, sia manuale che impiegatizio, organizzato secondo criteri ripetitivi, parcellari e standardizzati, dove la mancanza di discrezionalità e di contenuti intelligenti è vista come una condizione necessaria per ottenere una resa produttiva più intensa e uniforme. In questo senso l’uso comune del termine taylorismo ha un significato intrinsecamente ambivalente, perché evoca l’idea che l’efficienza non possa essere ottenuta che a prezzo della ripetitività normalmente imposta per via gerarchico-burocratica. (…). Verso la fine del XIX secolo il progresso tecnico consentiva ormai una produzione di massa. Macchinari sempre più veloci e potenti permettevano di progredire lungo due dimensioni tipiche dell’industria moderna: la standardizzazione dei prodotti e dei processi produttivi e la specializzazione delle macchine utensili. Le cosiddette macchine polivalenti universali manovrate da operai di mestiere, che avevano trionfato per tutto il XIX secolo, lasciavano sempre più spazio alle macchine specializzate e monovalenti […].» (http://www.treccani.it/enciclopedia/taylorismo).
Questa evoluzione tecnica poneva le basi per un profondo cambiamento del lavoro operaio: i lavoratori specializzati servivano sempre meno lasciando il posto a operai dequalificati, che avevano il semplice compito di caricare e scaricare i pezzi sulle macchine, mentre la manutenzione di queste veniva affidata a ristrette squadre di operai specializzati. Questa rivoluzione consentì di aumentare enormemente la produzione, ma anche di ridurre il costo del lavoro, data la minore qualificazione professionale degli addetti alle macchine. (Ivi).

Il progresso tecnologico si accompagnava a un altro importante fenomeno, la progressiva crescita delle dimensioni quantitative delle fabbriche. (…). Negli stabilimenti troppo grandi per poter essere controllati direttamente dal padrone, tutto il potere era delegato ai capireparto, scelti più con il criterio della fedeltà che con quello della competenza». (http://www.treccani.it/enciclopedia/taylorismo).
Daniel Nelson parla di “impero dei capireparto”, il cui potere, secondo Sanford M. Jacoby, veniva attuato attraverso “controllo stretto, abuso, irriverenza e minacce”. «La nota dominante del drive system era di ispirare nell’operaio reverenza e paura del management, e quindi trarre vantaggio da quella paura per ottenere una maggiore produzione». (http://www.treccani.it/enciclopedia/taylorismo)

«Oltre allo strapotere dei capireparto, molto diffusa nelle fabbriche era la figura dei ‘contrattisti’, operai qualificati che lavoravano nelle officine con il duplice ruolo di dipendenti e di piccoli imprenditori. Stabilita una paga globale del contrattista per un certo periodo, questi assumeva altro personale – compresi propri familiari – a cui pagava parte del salario globale ottenuto dall’impresa. Si sviluppava così un sistema doppio di sfruttamento, dell’impresa nei confronti dei contrattisti e di questi ultimi nei confronti dei propri collaboratori. Toccava dunque anche ai contrattisti escogitare soluzioni tecniche e organizzative per abbassare i costi». (Ivi). Vuole proporre nuovi contrattisti, il Ministro Poletti? Spero proprio di no.

I risultati di detti metodi di lavoro si fecero ben presto sentire sul «capitale umano»: la stanchezza provocava un numero maggiore di errori; il controllo e la tempistica creavano ansia e paradossalmente sbagli, la paura di sbagliare ne creava ulteriori, la demotivazione e ripetitività portavano a disaffezione, le malattie aumentarono, fino ai numerosi licenziamenti anche volontari, con impossibilità di lavorare e mantenere la famiglia. La critica umanistica mise in risalto la mancanza totale di attenzione verso il fattore umano, nei suoi aspetti fisiologici e psicologici, la trascuranza degli effetti alienanti e frustranti sulla psiche dovuti a lavori privi di contenuto e intelligenza parcellizzati e standardizzati, monotoni. Le condizioni di vita  peggioravano, il cottimo sfiniva. Grazie a ricerche ed esperimenti in fabbrica, gli studiosi Mayo e Dikson sottolinearono come la produttività di impresa aumentasse se venivano cambiate delle peculiarità del taylorismo in favore delle risorse umane, ad esempio creando relazioni amichevoli tra lavoratori, favorendo i gruppi informali, mutando le forme di supervisione del lavoratore, introducendo pause lavorative ed incentivi economici legati alla produttività di gruppo. (Antonio Grisolia, op. cit.).
Che vuol fare il Governo Renzi? Tornare alla fine Ottocento, primi Novecento?

  • IL TOYOTISMO.

Quindi si giunse al toyotismo, metodo applicato presso la giapponese Toyota, basato sul principio del “Just in time” ovvero sulla concezione di produrre nel momento stesso in cui arriva la domanda, evitando di creare scorte eccessive, che implicano maggiori spazi, maggiori movimenti di materiali e un numero maggiore di lavoratori, più apparati informativi e tecnologici. (https://it.wikipedia.org/wiki/Toyota_Production_System). Il toyotismo giapponese caratterizzò l’industria sino agli anni ’80, ed era attento ad alcuni aspetti relativi al lavoro di gruppo, rispetto al taylorismo. Nel toyotismo l’opinione di gruppo viene considerata della massima importanza ed impedisce al singolo di violare le norme di comportamento, tese al raggiungimento degli obiettivi, ma implicache  il lavoratore licenziato riceva l’ostracismo dei compagni che vedono compromessi i loro obiettivi produttivi. (Cfr. Massimo Remondini, L’organizzazione del lavoro dal taylorismo al toyotismo,
http://web.tiscali.it/remondini/massimo/organizzazione_lavoro.htm). In sintesi al ludibrio del caporeparto si sostituisce quello ben più potente del gruppo, del microcosmo sociale.
Il toyotismo, inoltre, rimane sempre legato ad una razionalizzazione dei movimenti produttivi dei lavoratori, e funzionale alla produzione necessaria ed indispensabile, in base alla richiesta di mercato.

  • IL SISTEMA  “WAL MART”.

«Il sistema Wal-Mart rappresenta – secondo Mario Sacchi  – il prodotto della più perfetta combinazione di taylorismo, fordismo e toyotismo e perciò della più “razionale” spremitura del lavoro vivo finora realizzata.
Dal taylorismo Wall-Mart ha preso la parcellizzazione estrema dei compiti di lavoro e l’ossessione per la misurazione dei tempi delle singole operazioni lavorative. Dal toyotismo ha preso e implementato il principio dello just in time, che utilizza per tagliare gli sprechi di tempo, di scorte di magazzino e di personale. Dal toyotismo e dal fordismo ha preso l’assoluta ostilità per il sindacato, bandito in ognuno dei suoi stabilimenti. Negli ipermercati Wal-Mart i salari medi sono di 11.700 dollari l’anno, di 2.000 dollari inferiori alla soglia di povertà e del 25% inferiori ai salari medi degli altri ipermercati; non pochi tra i lavoratori della Wal-Mart sono costretti a ricorrere ai buoni pasto per mangiare e agli ostelli per i poveri per dormire, il 72% dei lavoratori non ha assistenza sanitaria, e i lavoratori che l’hanno devono pagare 75 dollari al mese per un’assicurazione che non rimborsa le spese per i medicinali, in una situazione dove è si obbligati a scegliere “se mangiare o curare i figli”. Per non dire che più del 50% dei lavoratori è impiegato part-time e il turnover è al 40%, così da tagliare i costi della pensione e la sanità per la gran parte dei lavoratori; in 31 stati degli USA Wal-Mart è stato denunciato per non aver pagato gli straordinari ai propri dipendenti: gli addetti alle pulizie degli stabilimenti Wal-Mart sono spesso lavoratori immigrati senza permesso di soggiorno, chiusi a chiave nello stabilimento durante il turno di notte e impossibilitati a uscire anche se malati; i manager sono istruiti a contrastare l’organizzazione sindacale al punto che quando un piccolo reparto del Texas è riuscito a organizzarsi sindacalmente, Wal-Mart ha chiuso l’intero supermercato: o che sono circa 30.000 gli agenti incaricati di sorvegliare e pedinare i lavoratori dei grandi magazzini per assicurarsi che nessuno abbia contatti con il sindacato. Turni folli, straordinari non pagati repressione sistematica è questa la filosofia che ispira il sistema Wal-Mart.
Ma Wal-Mart non applica i principi tayloristi, fordisti e toyotisti solo nei suoi ipermercati. Wal-Mart impone indirettamente gli stessi principi anche nelle fabbriche dei suoi fornitori. Wal-Mart impone ai propri fornitori di ridurre di continuo i prezzi di vendita della loro merce. Attraverso la politica dei prezzi bassi Wal-Mart diffonde così i principi tayloristi, fordisti e toyotisti nelle fabbriche di tutto il mondo, ove il capitale industriale, in modo particolare quello delle piccole e piccolissime imprese è costretto a tagliare il costo del lavoro al fine di rimanere sulla non piccola sezione di mercato controllata dal Wal-Mart». (Mario Sacchi, L’organizzazione del lavoro capitalista e il malessere dei lavoratori, in: http://www.webalice.it/mario.gangarossa/sottolebandieredelmarxismo_identita/2010_05
Sono queste le teorie sull’organizzazione del lavoro sposate da Matteo Renzi, dal suo governo, dal Partito Democratico, trasformatosi di botto nel «Partito della nazione, partito Leopolda o semplicemente ‘Partito Democratico new look’»? (http://www.huffingtonpost.it/2014/10/21/matteo-renzi-partito-nazione_n_6022820.html) Ma allora, il governo che funzione ha, rispetto ai cittadini? Di trasformarli in Sotans? Di aiutare quelli della Leopolda? Non lo so. Chiediamocelo.

  • PROBLEMI ATTUALI DI CITTADINI E FAMIGLIE DOVUTI ALL’ ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO E LORO RISVOLTI SOCIALI.

Prendo la riflessione su questi aspetti da: “Comitato delle Pari Opportunità – Università Cattolica Sacro Cuore, Lavorare sul lavoro, La definizione del Sé tra famiglia, lavoro e buone pratiche aziendali,
Intervento di S. E. Mons. Claudio Giuliadori, Assistente Ecclesiastico Generale UCSC,Presidente della Commissione Episcopale per la Cultura e le Comunicazioni Sociali, in: Famiglia e lavoro nella dottrina della Chiesa, in: www.unicatt.it/Intervento_-_Lavorare_sul_lavoro_2-X-2014.docx).
Così  scrive Mons. Claudio Giuliadori: «Volendo […] dare un piccolo apporto ai lavori mi permetto di presentare alcune riflessioni che spero possano essere utili al confronto odierno nella prospettiva delineata dal suggestivo titolo “Lavorare sul lavoro. La definizione del sé tra famiglia, lavoro e buone pratiche aziendali”. Vorrei subito evidenziare come questo tema sia di grande attualità sia per le difficoltà che stiamo vivendo a livello sociale nel nostro Paese proprio sul versante della famiglia e del lavoro sia per il cammino ecclesiale che ci vede prossimi all’apertura del Sinodo dei Vescovi sul tema della famiglia […].Anche se la pubblicistica ha dato voce solo ad alcuni aspetti legati alla disciplina ecclesiastica di fronte a situazioni particolari, in realtà il Sinodo vuole essere un momento di riflessione, di verifica e di progettazione su tutti gli aspetti della vita familiare inclusa la dimensione sociale, come si evince dallo stesso Instrumentum Laboris che non tralascia di toccare anche alcune questioni sociali, tra cui anche il rapporto tra lavoro e famiglia. Ben due paragrafi sono dedicati alla questione dell’incidenza dell’attività lavorativa sulla famiglia. In questi due passaggi, brevi ma quanto mai densi, troviamo elencate tutte le principali problematiche che emergono all’interno di questa relazione essenziale per la vita delle persone ma non facile da armonizzare. Può essere utile rileggerli […]. (…).

Nelle risposte è unanime il riferimento all’impatto dell’attività lavorativa sugli equilibri familiari. In primo luogo, si registra la difficoltà di organizzare la vita familiare comune nel contesto di una incidenza dominante del lavoro, che esige dalla famiglia sempre più flessibilità. I ritmi di lavoro sono intensi e in certi casi estenuanti; gli orari spesso troppo lunghi, talvolta si estendono anche alla domenica: tutto questo ostacola la possibilità di stare insieme. A causa di una vita sempre più convulsa, i momenti di pace ed intimità familiare diventano rari. In alcune aree geografiche, viene evidenziato il prezzo pagato dalla famiglia alla crescita e allo sviluppo economico, cui si aggiunge la ripercussione ben più vasta degli effetti prodotti dalla crisi economica e dall’instabilità del mercato del lavoro. La crescente precarietà lavorativa, unitamente alla crescita della disoccupazione e alla conseguente necessità di spostamenti sempre più lunghi per lavorare, hanno ricadute pesanti sulla vita familiare, producendo tra l’altro un allentamento delle relazioni, un progressivo isolamento delle persone con conseguente crescita di ansia. (Sinodo Straordinario, Instrumentum laboris, nn. 70-71).
(…).
Al cuore della Rerum novarum di Leone XIII, pubblicata nel 1891, troviamo infatti proprio il tema del rapporto tra capitale e lavoro ma declinato a partire dal bene primario e superiore della famiglia. Leone XIII in modo profetico, parla di salario legato alle necessità personali e della famiglia (cf nn. 9-11.35). Una società che non ama la vita e la famiglia e non lavora per esse, promuovendo un sistema davvero basato sulla sussidiarietà, è una società che in realtà ha in odio se stessa e costruisce, inesorabilmente, giorno dopo giorno, la sua estinzione. (…). Il crollo demografico che pesa come un macigno sul futuro dell’Italia – e che tanto incide anche sul sistema economico -, non è una fatalità, come ben dimostrato dalle scelte di tanti altri paesi europei, ma l’esito di precise e ottuse scelte politiche, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro e nel sistema dei servizi. (…).
Per superare la mentalità individualista, oggi diffusa, si richiede un concreto impegno di solidarietà e di carità, il quale inizia all’interno della famiglia col mutuo sostegno degli sposi e, poi, con la cura che le generazioni si prendono l’una dell’altra. In tal modo la famiglia si qualifica come comunità di lavoro e di solidarietà. Accade, però, che quando la famiglia decide di corrispondere pienamente alla propria vocazione, si può trovare priva dell’appoggio necessario da parte dello Stato e non dispone di risorse sufficienti. È urgente promuovere non solo politiche per la famiglia, ma anche politiche sociali, che abbiano come principale obiettivo la famiglia stessa, aiutandola, mediante l’assegnazione di adeguate risorse e di efficienti strumenti di sostegno, sia nell’educazione dei figli sia nella cura degli anziani, evitando il loro allontanamento dal nucleo familiare e rinsaldando i rapporti tra le generazioni.
La famiglia, quindi, non può restare estranea all’organizzazione del lavoro e della vita sociale. Deve rientrare, sotto molteplici punti di vista, tra i criteri che guidano le scelte politiche, economiche e sociali del Paese. Questo attendono milioni di famiglie in Italia e questo è quanto si richiede, non da oggi, ai politici, agli imprenditori, ai sindacati e a tutte le forze sociali più sensibili e responsabili». Come non condividere? 

  • ED INTANTO IN ITALIA …

E per rendersi conto di come siamo caduti in basso, e come siamo lontani dalla salvaguardia delle persone e dei nuclei familiari, basta leggere il sito di Radio Studio Nord o il Messaggero Veneto del 28 novembre 2015, che ci informano come possa capitare che manchi persino benzina sufficiente ai mezzi di soccorso dell’ospedale di Gemona, al momento della ricarica delle tessere, tanto che alcuni operatori hanno anticipato in proprio, (“Tessere carburanti a secco, gli operatori anticipano i pieni di benzina per i mezzi”, in:http://news.rsn.it/41411-2/) mentre Matteo Renzi si è fatto approntare un nuovo aereo di rappresentanza, e vola qui e là …( Paola Saliani, Voli di Stato: per il nuovo aereo di Renzi spenderemo 75 milioni più che per gli asili nido, in Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2015). Pensiamo a quale democrazia si prospetta, a quale diritto al lavoro ed a farsi una famiglia, pensiamoci.

E per terminare leggiamo che succede già in Italia a lavoratori stranieri, schiavizzati, ed a donne usate nel lavoro ed abusate, coercitivamente, nel corpo, se vogliono guadagnare qualcosa in condizioni non oltre il pessimo. Tutti gli adulti dovrebbero leggere l’ ultimo numero di Left, e quegli articoli: Marco Omizzolo, Due volte schiave del padrone caporale, Raffaele Lupoli, Depistaggi o negazionismo?, Marco Omizzolo, Ritmi infernali e nessuno scrupolo, “Subiscono veri e propri ricatti sessuali”, Donatella Coccoli, Maremma che rete di sfruttatori, Ilaria Giupponi, Perché dico no alla manodopera irregolare, Ilaria Giupponi, Non possiamo abbandonarli, (Gli articoli sono pubblicati in: Left, 28 novembre 2015, pp. 23-33).  Se si vuole accondiscendere solo ai padroni, senza mediazione sociale ed sindacale, noi italiani possiamo finire così. Migrate, giovani, migrate, unitevi ai siriani nella ricerca di un mondo migliore, qui “potrebbe non tirar aria buona”. 

Preciso che sto cercando solo di capire che vuole fare questo Governo, che teorie lo muovano, ammesso che ne abbia, che posso errare e che non intendo offendere nessuno, ma solo esprimere il mio parere, come posso e riesco, in scienza e coscienza.

Laura Matelda Puppini

L’immagine è stata presa, solo per questo uso, da: http://www.panorama.it/cultura/libri/vita-charlie-chaplin-immagini/. Non è evidenziato che si debba richiedere permesso per uso di questo tipo, precisando la fonte. Laura Matelda Puppini

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