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Sabato 13 febbraio incontro a Pordenone. Parlerà Laura M. Puppini su Porzus e se …

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AVVISO, IN QUESTO MODO  DATO CHE PARE SIA SPARITA DAL SITO LA VOCE EVENTI, CHE

SABATO 13 FEBBRAIO

PARLERO’

A PORDENONE 

ALLE ORE 17.30

PRESSO LA SALA EX-CONVENTO DI SAN FRANCESCO, SU:

PORZÛS… E SE FOSSE ANDATA COSÌ?

L’INCONTRO E’ ORGANIZZATO DALL’ ISTITUTO PROVINCIALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE DI PORDENONE.

LOCANDINA

LAURA MATELDA PUPPINI


Dal diario di Bolla, il Capitano Francesco De Gregori

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Vorrei presentare qui le condizioni in cui visse Bolla nel dicembre- gennaio e pochi giorni di febbraio in cui visse a Topli Uorch, come descritti nel suo diario e divisi da me per problemi. Alcuni di questi emergono anche nelle lettere Cioni – Nigris da me curate. (Cfr. L. M. Puppini, Rinaldo Cioni – Ciro Nigris: Caro amico ti scrivo… Il carteggio fra il direttore della miniera di Cludinico, personaggio di spicco della Divisione Osoppo Carnia, ed il Capo di Stato Maggiore della Divisione Garibaldi Carnia, 1944-1945, in: Storia Contemporanea in Friuli, n.44, ed. Ifsml, 2014).

Non bisogna dimenticare, leggendo queste righe, che, alla fine della Zona libera del Friuli Orientale, ove le forze partigiane erano comandate da Sasso, Mario Fantini, e Bolla, vi erano stati dissidi per come era avvenuta la ritirata o sganciamento che dir si voglia.

«Nei giorni successivi alla battaglia, si apre nella formazione un’aspra discussione sull’esito e sulla direzione della battaglia e sulle responsabilità del Comando unificato nella conduzione del ripiegamento. – scrive Luciano Patat – Soprattutto da parte osovana si rimprovera ai comandanti garibaldini di aver voluto sacrificare l’Osoppo facendola ripiegare per ultima, per permettere alle due brigate della Natisone di uscire incolumi dal rastrellamento. Gli osovani lamentano anche la mancata copertura fornita dai reparti sloveni che presidiavano le spalle […].» (Luciano Patat, Mario Fantini Sasso, ifsml, 2000, p.100).

Ma vediamo cosa narra Bolla nel suo Diario.

—-

Il diario pubblicato dall’ Ap.o. e curato da Giannino Angeli, inizia il 7 dicembre 1944 con la notizia della costituzione del Comando Gruppo Brigate Osoppo dell’Est, che viene affidato a Bolla. (Il diario di Bolla, Il diario di Bolla (Francesco de Gregori), a cura di Giannino Angeli, A.P.O. 2001, p.63). E narra tante cose, assieme a paure e preoccupazione, che Bolla diligentemente annota nel suo diario scritto come facevano allora gli ufficiali. Quello che uno si domanda, però, è dove si trovi la parte precedente, dato che una persona rigorosa come Bolla non credo avesse iniziato il suo diario dal 7 dicembre 1944. Ma questa della documentazione è altra storia.

Il clima è sfavorevole.

21 dicembre 1944: La temperatura precipita. (Il diario di Bolla, p .69).

Il 22 dicembre la temperatura continua a mantenersi rigidissima (circa -10°) rendendo sempre più disagiata e difficile la vita in montagna. (Ivi, p. 69). Il 29 dicembre la giornata è freddissima. (Ivi, p. 73). Il 10 gennaio «nevica abbondantemente, rendendo sempre più difficili i movimenti e la vita». (Ivi, p. 82).

L’11 gennaio continua a nevicare e, quando infine la nevicata termina ma il freddo continua intenso. (p. 83). Il 12 gennaio il tempo è freddissimo, il 13 gennaio è bello ma freddo, il 14 gennaio riprende a nevicare. «rendendo sempre più critica la nostra situazione – commenta Bolla – ormai nella zona ci sono 50 cm. di neve e in certi punti, dove è riportata dal vento, anche un metro». (Ivi, pp. 83-84).

Il 15 gennaio 1945 «Il maltempo e la neve continuano ad insistere». (Ivi, p.85). Il 16 gennaio ritorna il sole ma il freddo intensissimo fa gelare le tubature dell’acqua.Il 22 gennaio il tempo continua a mantenersi bello ma fa davvero freddo. Il 23 gennaio, nella serata, rincomincia a nevicare. (Ivi, p. 92).

Il 25 gennaio il tempo riprende ad essere pessimo e nevica. Il 26 gennaio continua a nevicare, rendendo sempre più difficili le attività quotidiane e di trasporto. Il 27 gennaio il cielo si fa terso ma nel pomeriggio si copre nuovamente e verso sera riprende a nevicare. (Ivi, p.96).Il 28 gennaio non nevica ma il freddo è davvero pungente ed esce un vento violento, mentre il cielo si mantiene plumbeo.

I nemici: cosacchi e sciatori tedeschi imperversano.

«Quasi giornalmente, – scrive Bolla il 15 dicembre 1944, i Cosacchi di Fedis ed Attimis fanno delle puntate verso Canebola, Clap, Porzus. Quest’ultima località viene per due volte saccheggiata dai Cosacchi di Attimis. (Ivi, p. 65).

Il 23 dicembre il Patriota Attila rientra e «dichiara di non aver potuto raggiungere la sua destinazione a causa di un rastrellamento nemico nella zona di Montaperta Musi». (Ivi, pp. 69-70).

Il 24 dicembre giunge una relazione del Comando della 6a Brigata su una puntata nemica, di parecchie centinaia di uomini, avvenuta a Musi due giorni prima. Per fortuna, nonostante la sorpresa, il comando brigata riusciva a disimpegnarsi salvando uomini e materiali, uccidendo due nemici e ferendone altri due nel corso del combattimento. (Ivi, p. 70). Il comando di detta Brigata si è spostato da Musi a Pian di Tapon. (Ivi, p.71).

Il 4 gennaio 1945 si sa che «Alle h.7 un pattuglione di 50 cosacchi circa» ha circondato l’abitato di Subit, senza nessuna conseguenza per il materiale partigiano osovano che vi si trovava né per gli abitanti. (Ivi, p. 75).  

Il 8 gennaio 1945 reparti cosacchi circondano Canalutto e l’abitazione dove dormono e lavorano l’Intendente e il Capo -Ufficio informazioni del Gruppo Brigate Est, «che riescono a stento a fuggire, salvando tutti i documenti. Contemporaneamente altri reparti cosacchi circondano il paese di Porzus, catturando tutti i giovani di Racchiuso», fra i quali vi è Alemanno, incaricato dell’Intendenza osovana, «che vive in quel luogo in borghese e con carte false». Le voci che circolano dicono che i cosacchi non lasceranno più in pace la zona e così si decide che Intendenza e Ufficio Informazioni del Gruppo Brigate debbano cambiar zona, (ma sono forse poche persone). Bolla ordina che la via di rifornimenti e collegamento per Racchiuso venga abbandonata e sostituita da quella per Forame-Subit. (Ivi, pp. 75-76). Si sa poi che i patrioti Alemanno e Gregorio erano stati torturati dai cosacchi. (Ivi, p. 95).

Il 16 gennaio i cosacchi, con una puntata a Subit, catturano 5 patrioti osovani che stavano andando in licenza illimitata. Bolla tenta di salvarli con uno stratagemma, facendo voce grossa, minacciando un attacco in forze, ben sapendo che è un bluff. Il bluff però non riesce e pare che uno dei patrioti catturati sia stato giustiziato dai cosacchi all’atto della cattura, mentre altri due sono stati fucilati in località Madonna delle Pianelle. (Ivi, p. 87 e p. 89). E parte pure Paolo/Berzanti, per recarsi alla Missione Alleata. (Ivi, p. 87).

Il 22 gennaio vengono catturati, dal presidio cosacco di Attimis, il patriota Berto, comandante del Btg. Guastatori, assieme ad uno dei suoi uomini. (Ivi, p. 92). Ma per fortuna verranno liberati il giorno seguente. (Ivi, p. 95).  

Mentre continuano le azioni partigiane.

Giunge notizia che il Btg. Guastatori ha fatto deragliare un treno nella zona di San Pelagio. (Ivi, p. 66).

Giunge notizia che la sera del 16 dicembre i guastatori del Btg. Prealpi hanno interrotto la linea ferroviaria tra Artegna e Gemona. (Ivi, 20 dicembre, p. 69).

Il 24 dicembre, vigilia del Natale, il Btg. Guastatori compie un’azione di sabotaggio nella zona di Udine, abbattendo 18 piloni d’alta tensione e distruggendo 3 caselli e 3 scambi del nuovo raccordo al bivio Trieste-Tarvisio. Inoltre pone cariche di deragliamento nella linea pontebbana, senza constatarne l’esito. (Ivi, p. 70).

Il 1° gennaio 1945, la 4^ squadra guastatori compie una riuscita azione contro il silurificio di Gemona. (Ivi, p. 75).

Il Btg. Guastatori comunica, il 24 gennaio, che il 9 del mese aveva fatto deragliare 4 vagoni vuoti e danneggiato una locomotiva, utilizzando sei cariche di esplosivo. Altre cariche poste dallo stesso battaglione, avevano fatto saltare tre tralicci ed una coppia di piloni di sostegno dell’alta tensione, bloccando il traffico ferroviario per 11 ore. (Ivi, p. 95).

I rifornimenti sono sempre più scarsi. 

Lanci.

Il 28 dicembre avviene un primo lancio sul campo predisposto dagli osovani. Patrioti e portatori borghesi raccolgono il materiale e lo smistano nei magazzini. Si recuperano 22 paracadute con: vestiario, munizioni ed armi, pacchetti per medicazione, scatolame, viveri di conforto, sigarette. (Ivi, pp. 72-73).

Il 31 dicembre viene annunciato un altro lancio, che poi non avviene. (Ivi, pp. 74-75). Il 3 gennaio viene nuovamente annunciato un lancio che non avviene. (Ivi, p. 75).

Il 22 gennaio 1945 giunge notizia di un lancio alleato avvenuto la giornata precedente. Il lancio doveva avvenire nello spazio predisposto da Bolla e dai suoi, ma invece è avvenuto a Faedis-Bellinzoia, e quanto lanciato è stato preso dai cosacchi. Può darsi, scrive Bolla, che il nemico abbia acceso fuochi per deviare il lancio, ma potrebbe trattarsi anche di imperizia dell’aviatore. (Ivi, p. 92).  

Altri problemi per i rifornimenti.

Il 6 gennaio 1945 una pattuglia mista di sloveni e garibaldini attacca, nei pressi di Racchiuso, un carro di cosacchi, uccidendo un cosacco e ferendone un altro.

Racchiuso era la via di rifornimento del gruppo osovano, che non è più praticabile. Bolla pensa si sia fatto apposta, (Ivi, pp. 76-77) ma non è dimostrabile, è solo sua ipotesi. Inoltre dimostra come il cibo fosse aspetto importantissimo allora. L’azione dei partigiani garibaldini e sloveni porta ad un rastrellamento cosacco in zona Pracchiuso e Canalutto. I cosacchi razziano «in modo feroce gli abitanti, uccidendo un giovane di Racchiuso e portando via tutti gli altri.» (Ivi, p. 7 gennaio, p. 77).  

Il 7 gennaio Bolla scrive: «Da oggi la via di rifornimento di Racchiuso cessa di esistere».

Il 14 gennaio la via di Racchiuso continua ad essere preclusa, per le puntate nemiche, sia per i rifornimenti che per avere notizie.

«Il morale degli uomini – annota Bolla- è un po’basso». Ormai si è costretti ad intaccare, con parsimonia, stringendo un po’ la cinghia, le dotazioni dei viveri dei magazzini di riserva N.1 e N.2. Ed a causa del presidio di Attimis non può funzionare neppure la via di Forame -Subit, che Bolla aveva deciso di seguire. (Ivi, pp.84-85).

Il 15 gennaio il maltempo e la neve continuano ad insistere, mentre mancano totalmente notizie e rifornimenti. (Ivi, p. 85). Viste le condizioni createsi, Bolla continua a smobilitare le Brigate e gli uomini da lui dipendenti, fino a che restano con Bolla solo una ventina di persone. (Ivi, p. 86).

Il 15 gennaio vengono pure consumate le ultime razioni di pane di riserva. Il morale è basso ed anche il livello disciplinare, annota Bolla. Ed aggiunge che anche egli non sente più in corpo l’energia consueta, e lascia correre molte cose, come non si dovrebbe fare.

Giunge notizia che la 6^ Brigata ha smobilitato seguendo gli ordini, e che la Missione Inglese è rifugiata in montagna, ma anche che la via Val Torre, per i rifornimenti, continua ad esser preclusa.

Anche in zona Resia le cose non vanno bene. Il presidio sloveno di Resia è stato attaccato e quasi distrutto da sciatori tedeschi. Ed a causa di una di queste puntate del nemico, pure il Btg. Resia ha dovuto spostarsi da Passo Tanamea a Passo Carnizza ed Uccea. (Ivi, 15 gennaio 1945, p. 86).

Il 16 gennaio ritorna il sole ma il freddo intensissimo fa gelare le tubature dell’acqua. (Ivi, p. 87).

Il pane non giunge.

Il 19 gennaio Bolla scrive che la vita permane difficile e demoralizzante. (Ivi, p. 90).

Finalmente il 22 gennaio giunge il primo pane dal forno di Forame. (Ivi, p.92).

E imperversano le spie.

Il 7 gennaio 1945 si viene a sapere che, durante il rastrellamento di Pracchiuso, i cosacchi vanno cercando 4 patrioti osovani del luogo di cui conoscono le esatte generalità, come della locazione della sede dell’Intendenza osovana e degli addetti alla stessa. (Ivi, p. 77). Bolla non ha dubbi che dette informazioni siano dovute a spie locali, di cui si preoccupava anche Cioni in Carnia.

Il 9 gennaio vengono liberati dai cosacchi tutti i giovani di Racchiuso che non erano partigiani effettivi, e trattenuti i 4 osovani. Questo è indicativo del fatto che i cosacchi sapessero chi arrestare e trattenere, pensa Bolla, e quindi che vi fossero state delle spie. Egli ritiene che le spie possano esser state delle donne di Porzus che, ad Attimis, erano state sentite gridare che era «ora di finirla col fatto che gli innocenti debbano pagare per i colpevoli» minacciando di dire ove si trovassero i partigiani onde «farli prendere tutti». (Ivi, p. 79). Ma poteva darsi, pure, che avessero parlato, minacciati, alcuni fra i giovani arrestati.

Rapporti con la popolazione.

Secondo Bolla la presenza di spie «dimostra quanto poco il popolo comprenda la nostra lotta e come si è ormai lontani da quel senso di patriottismo che pure, un giorno, era patrimonio certissimo degli Italiani». (9 genn 1945. Ivi, p. 79).

«la popolazione a causa del terrore delle rappresaglie feroci e cieche del nemico e dell’incoscienza cinica dovuta a vent’anni di dominazione fascista, diviene sempre più ostile o almeno assenteista davanti al movimento partigiano». (Ivi, p. 80).

I rapporti con i partigiani sloveni,che non appaiono sempre fra i migliori.

Il 19 dicembre giunge notizia che a Resia i reparti sloveni hanno catturato, disarmato e condotto in Slovenia un membro della Missione Inglese (ma gli alleati collaboravano con gli Sloveni! N.d.r.) e due Patrioti. (Ivi, p. 67). Ma è notizia datata, il che ci fa capire come le distanze, allora, contassero non poco, per avere informazioni, ed imprecisa: infatti i partigiani catturati sono 3, assieme a Nicola.

Anche Livio, Romano Zoffo, che comanda il btg. Resia, nel suo diario parla della cattura di tre dei suoi assieme a Nicola, della Missione alleata. Essi, che sono i partigiani Bruno, Tigre e Pronto, sono partiti da Tanamea, diretti a Resia, il 14 dicembre 1944. Ma il 16 dicembre, 2 giorni dopo, giunge notizia che i quattro sono stati arrestati dagli sloveni. (Diario inedito di Livio, presso irsml).

Ma il 26 dicembre i tre patrioti del Btg. Resia catturati dagli sloveni, unitamente a Nicola, membro della Missione Inglese, rientrano incolumi. Essi narrano di esser fuggiti, approfittando di un rastrellamento, mentre li stavano trasportando al Comando del IX Corpus. Nicola invece […] sarebbe rimasto ucciso da una pattuglia tedesca. Essi però non hanno veduto il cadavere […].» Raccontano che «Durante tutto il periodo che sono restati con gli Sloveni, hanno avuto insulti e cattivo trattamento. Sono stati disarmati e trattati come prigionieri di guerra.» (Ivi, p. 72).

L’11 gennaio Bolla viene a sapere che una pattuglia slovena ha sparato contro le sentinelle cosacche di Vedronza. In seguito a ciò sono stati sospesi i rifornimenti alla 6^ Brigata. Bolla ritiene che detta azione sia stata fatta di proposito dagli Sloveni per danneggiare le formazioni osovane, ma non è detto sia andata così. (Ivi, p. 82).

Il 17 gennaio si viene a sapere che il Btg. Sloveno locato a Platischis aveva inviato una sua pattuglia a Taipana, la quale aveva disarmato e catturato un “posto di corrispondenza” osovano, composto da tre uomini, dicendo che «i patrioti della Osoppo sono fascisti». (Ivi, p. 88).

A questo punto Bolla dà ordine che i partigiani che si sono aggregati alla territoriale di Carnizza rientrino alla sede del comando, cioè a Topli Uorch, temendo atti simili. Il fatto viene segnalato al C.l.n. alla missione alleata, al Comando della 1^Divisione Osoppo. (Ivi, p. 88).

Quindi, il 18 gennaio, Bolla, accompagnato da alcuni dei suoi, si reca, dopo aver fatto una dimostrazione di forza, cioè sparato, par di capire poi, al distaccamento sloveno di Canebola per richiedere l’immediata consegna dei tre catturati a Taipana, con relative armi ed equipaggiamento. Il Comandante Sloveno appare remissivo, secondo Bolla, e, biasimando l’accaduto, invia subito un corriere al battaglione perché restituisca gli uomini presi prigionieri. Inoltre offre a Bolla un colloquio col Comandante sloveno della zona. Bolla accetta previa restituzione degli uomini delle armi e del materiale catturati. (Ivi, p. 89). Il colloquio termina abbastanza cordialmente.

Il 20 gennaio 1945 giunge una lettera dal Btg. Sloveno di Platischis, in risposta alla protesta di Bolla per la cattura dei tre patrioti, ma è scritta in Sloveno. (Ivi, p. 90).

E sempre il 20 gennaio rientra Paolo /Berzanti, con l’ordine di cercare, per quanto possibile, di riavvicinarsi agli Sloveni ed i Garibaldini. (Ivi, p. 90). Quindi Berzanti prende nuovamente la via della pianura per una licenza di 8 giorni, mentre Enea, anziché proseguire verso la 6^ Brigata, si ferma con Bolla per sostituire Paolo/Berzanti, assente, nei colloqui d’approccio con i comandanti sloveni. (Ivi, p. 90).

Il 21 gennaio 1945 Bolla scrive che egli ed Enea si recano al distaccamento sloveno di Canebola per farsi tradurre la lettera e richiedere un colloquio con il Comandante sloveno della Zona.

Dalla lettera si viene a sapere che i tre patrioti erano stati catturati perché parlavano male delle formazioni slovene ed erano già stati trasferiti al Comando Superiore. Allora Bolla richiede un colloquio con il comandante sloveno della zona, che viene promesso.

«Il colloquio col capitano sloveno è stato abbastanza cordiale.» – scrive Bolla, il che fa capire che vi potevano essere subordinati con cui era più difficile trattare e comandanti, alla pari con Bolla, con cui era più facile parlare.

Il 25 gennaio Bolla ed Enea si recano a Canebola per accordarsi circa il progettato incontro con il Comandante sloveno di zona. Ma l’incontro, nell’immediato, risulta impossibile e Bolla invia una lettera allo stesso chiedendo un incontro a metà strada fra i due comandi. (Ivi, p. 96).

Il 30 gennaio 1945 due patrioti in servizio a Canebola vengono avvertiti dalla popolazione civile che sono ricercati da una pattuglia di sloveni. Essi riescono ad allontanarsi.

Nella notte informatori osovani avvisano che i partigiani di Canebola intendono spingersi sino alle malghe di Topli Uorch. (Ivi, p. 97).

Il 31 gennaio giunge alla sede Comando di Bolla un gruppo di 11 sloveni, a suo avviso per saggiare le forze esistenti e vedere ove si trovano gli osovani, che però se ne va poi, verso Prossenicco, senza dare alcun fastidio, a differenza di quanto era stato detto dalla popolazione o aveva pensato Bolla o qualche osovano, che aveva ipotizzato un possibile disarmo degli osovani ed una loro cattura. (Ivi, pp. 97-98).

Le condizioni di vita si fanno sempre più pesanti e Bolla decide di mandare a casa Patrioti, anche seguendo il Proclama Alexander.

Bolla, il 10 gennaio, scrive che giunge notizia (vi erano informatori che i comandanti mandavano a cercare cosa si dicesse in giro o inviati da altri comandi dipendenti) di un attacco possibile dei cosacchi in zona occupata dal gruppo Brigata per distruggere tutte le forze partigiane della zona. (Ivi, p. 79).

Bolla precisa che detta situazione sarebbe insostenibile pure «a causa dell’ambiente in cui siamo costretti a vivere ed operare che diviene ogni giorno peggiore» perché, secondo Bolla;

«la popolazione a causa del terrore delle rappresaglie feroci e cieche del nemico e dell’incoscienza cinica dovuta a vent’anni di dominazione fascista, diviene sempre più ostile o almeno assenteista davanti al movimento partigiano;

le formazioni slovene ci sono apertamente ostili perché vedono in noi il più efficace contrasto alle lor mire imperialistiche nel Veneto italianissimo e ci impedirebbero pertanto, ogni ripiegamento verso oriente;

le formazioni garibaldine ci sono apertamente ostili perché vedono in noi il più efficace contrasto alle lor mire d’instaurazione, con la forza di una dittatura rossa (non si sa da chi ipotizzata, né da che stampa. Bisogna ricordare che l’anticomunismo viscerale di Bolla, cresciuto nelle scuole militari fasciste n.d.r.);

gli Alleati, evidentemente, considerano il fronte italiano un fronte del tutto secondario e, pertanto, non intendono per ora fare azioni che provochino una diminuzione di pressione nemica verso di noi e non intendono altresì intensificare gli aiuti materiali, finora del tutto inadeguati al bisogno;

la stagione è tale da impedire i celeri movimenti, la copertura e il mascheramento, nonché la possibilità di vita fuori dei boschi e delle malghe, tutte esigenze indispensabili ad una efficace condotta della guerriglia». (10 gennaio 1945 Ivi, 10 gennaio 1945, pp. 79-80).

A causa di queste difficoltà, Bolla decideva di alleggerire subito le Brigate 1^ e 6^ di uomini inviando tutti coloro che non erano indispensabili e che potevano trovare una sistemazione sicura in pianura in licenza illimitata, dando loro 1000 lire a testa come premio, fino a passare ad una possibile smobilitazione totale delle due Brigate, ed ordinava, pure, di occultare materiale e documenti, onde non cadessero in mano al nemico, passando da una attività operativa ad una cospirativa. (Ivi, 10 gennaio 1945, p. 81).

L’11 e 12 gennaio la 1^ E 6^ Brigata sono in smobilitazione.  

Il 13 gennaio la neve accumulatasi che varia da mezzo metro ad un metro, rende difficili i movimenti e i trasporti, tanto più che mancano sci e racchette. La via di Racchiuso continua ad essere preclusa, per le continue puntate nemiche, sia per i rifornimenti che per avere notizie.

«Il morale degli uomini – annota Bolla il 14 gennaio 1945- è un po’basso». Ormai si è costretti ad intaccare, con parsimonia, stringendo un po’ la cinghia, le dotazioni dei viveri dei magazzini di riserva N.1 e N.2. (Ivi, p. 84).

Il 19 gennaio «permane la mancanza d’acqua, di pane, di notizie, di rifornimenti». (Ivi, p. 89).

Non è inoltre possibile ripristinare la linea di comunicazione di Racchiuso, e quella di Forame non funziona ancora. (Ivi, p. 90).

Il 20 gennaio 1945 «continuano a mancare acqua, pane, e notizie e rifornimenti in genere» – scrive Bolla, e si è costretti ad acquistare bestie del posto ed ad usufruire dei viveri accantonati nei magazzini di riserva. (Ivi, p. 91).  

 Note varie.

Il 25 «la schietta allegria di tutti annulla la nostalgia delle famiglie lontane. (Ivi, p.71) Il 26 dicembre si sposta anche la Missione Inglese, cioè il tenente Taylor ed il radiotelegrafista, verso la 6a Brigata ove si trova il capo della Missione stessa. (Ivi, p. 71)

Il primo gennaio 1945 Bolla conferisce con don Lino. (Ivi, p. 74) Il 9 gennaio si sa che chi comanda a Porzus non è Bolla, perché egli scrive che una nota spia, E.Z. che si trovava in loco e poi era stata catturata, era stata interrogata, in precedenza, dal comandante a Porzus. (Ivi,p.79).

Il 20 gennaio Paolo/Berzanti scende in pianura per riposo. Il 28 gennaio giunge Centina, Comandante della 6^ Brigata.

E siamo giunti così al primo febbraio, quando gli osovani attendono un lancio … che avviene in zona Cancelier – Salandri- Forame … e da qui mi riallaccio a quanto già scritto.

Buona lettura. Laura Matelda Puppini

 L’immagine che correda l’articolo è preda da Il diario diBolla, cit. solo per questo uso.

 

 

 

Gender, sesso, diritti e dintorni. Parliamone.

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Vorrei rispondere ad una e-mail giuntami ieri sera sul problema della regolamentazione delle coppie omosessuali, riportando il mio pensiero.
Bene ha fatto il Signor x (che ha firmato le sue considerazioni ma di cui copro il nome) ad esprimere quello che pensa sull’argomento, che sia o meno condivisibile. Secondo me x, al di là del fatto che non conosce bene la vita sessuale delle coppie composte da due persone dello stesso sesso, ha espresso angosce che credo abbiano più di un seguace, guardando più all’ aspetto sessuale che a quello emotivo/relazionale, affettivo. Ma questa società bada solo a quello, ai suoi miti ed ai suoi riti, tanto che un paio di giorni fa, se ben ricordo, un articolista del Messaggero Veneto, scrivendo di una Signora scomparsa dopo aver dato i suoi soldi ad un giovane, ha scritto che la stessa, insegnante alle superiori e persona di tutto rispetto, non si era sposata perchè era brutta. Oddio, ho pensato, che cazzate scrive questo? E così il Messaggero Veneto è finito in fondo alla classifica dei giornali da acquistare. (Altri si trovano fra quelli da non acquistare affatto).
Comunque anch’io non sono favorevole a questa trovata artificiosa del gender, ritenendo che la natura abbia fatto gli elementi delle specie animali divisi in maschi e femmine, ed all’unione bellissima fra maschio e femmina, e così fra uomo e donna, ed alla danza che precede l’accoppiamento, che per la natura ha fini procreativi e di mantenimento della specie, ha dato importanza notevole, come ad alcuni aspetti esteriori in funzione attrattiva: vedi la ruota del pavone. Pertanto questa del gender mi pare una stupidaggine spaventosa, del nuovo tecnicismo burocratico, e persisterò a non voler esser paragonata ad un sostantivo o ad un articolo di genere femminile o maschile (e si ricade sempre lì). Infatti io mi sento una persona di sesso femminile, e sono orgogliosa di esserlo, credo fermamente che mio marito sia di sesso maschile, e sono sicura che la passione che trascinò uno fra le braccia dell’altro ebbe come fine anche di avere quei figli tanto amati. Se poi uno o l’altro vogliono esprimere da adulti consenzienti il loro amore ed affetto in altro modo, affari loro. Ma la coppia base è maschio femmina, è coppia sessuale. Inoltre non vedo neppure, in questa società frenetica, molte coppie eterosessuali andare mano nella mano, e ho visto andarci amiche ma anche amici, così, senza che vi fosse altro. Se poi due anziani vogliono prendersi per mano, che male c’è? Questo per restare nei limiti della coppia umana, altro è la perversione.
  
Mi ha invece impensierito quella folla al family day, essere umano contro essere umano, assembramento che sa di fondamentalismo, di intromissione della santa romana chiesa negli affari dello stato, di qui comando io. Non sono interessata particolarmente al problema del cosiddetto “matrimonio gay”, ma ad altri aspetti della vita italiana, e credo che sarebbe opportuno smetterla di parlarne ossessivamente e lasciar decantare il problema almeno sulla stampa e media, dopo che ce lo hanno propinato per mesi e mesi, forse da un paio di anni. Non nego che anche a me da un po’ fastidio vedere foto e foto solo di donne con abito da sposa o uomini in abito elegante che si scambiano l’anello, senza altre foto che bilancino e rappresentino la varietà della realtà esistente. Si regolamenti come in Europa e stop. Tanto non saranno migliaia di casi, ed i cattolici si tranquillizzino la coppia classica non è in pericolo. Ma credo che un bimbo possa vivere anche con due persone dello stesso sesso, se esse sanno donargli quell’affetto e cura di cui necessita, e se biologicamente non serve che qualcuno ci ricordi che la coppia è fatta da un uomo ed una donna, come natura vuole, non si deve mitizzare la famiglia classica, che spesso cova sotto la cenere mille contraddizioni, di cui sono vittime anche i bambini che vivono al suo interno. I dati dei pedofili nostrani, in viaggio di piacere, si fa per dire, nel sud est asiatico ed altri luoghi di miseria, pubblicati su un vecchio numero di Left fanno inorridire, e spesso si tratta di buoni padri di famiglia timorati di Dio, e magari praticanti, come lo erano i nazisti. Inoltre il numero di minori profughi scomparsi anche in Italia, dati pubblicati sempre su Left, fanno spaventare anche perchè concretamente si teme siano stati avviati alla prostituzione od al prelievo di organi.

Ma pare non si voglia parlare delle perversioni nostrane, preferendo chiacchierare di gender e dintorni. E termino dicendo che sono sacrosantamente convinta che chi vive con altra persona dello stesso sesso debba godere di alcuni vantaggi economici derivanti dalla convivenza. ma in Italia vi sono molti conviventi anche eterosessuali.

Laura Matelda Puppini

L’immagine del pavone è tratta, solo per questo uso, da: www.meteoweb.eu

 

Domani a Pordenone su Porzus e se … ore 17.00

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Domani parlerò alle 17.00 non 17.30. Scusatemi per errore. Laura Matelda Puppini

Storia del Memoriale Italiano ad Auschwitz: dal sito Unesco all’Ipercoop di Firenze?

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Oggi sono andata alla cerimonia in ricordo di quei giovani morti sul fronte greco albanese, senza sapere perchè. Ogni tanto bisogna commemorare, pensare, riflettere. Qualcuno, non ricordo chi, ha parlato dei monumenti in memoria che debbono diventare pietre vive, i nomi incisi che devono diventare ricordo di persone “in carne ed ossa” che hanno sofferto, che hanno perso la vita. E da ciò è scaturito questo mio articolo, relativo al Memoriale Italiano di Auschwitz,  sradicato e cancellato assieme alla memoria ed alla storia. Ma bisogna ricordare, per non compiere gli stessi errori, diceva qualcuno stamane, e come non dargli ragione?

 

Nel lontano 1947, quando la memoria di ciò che era realmente accaduto ad Auschwitz ed in Polonia a causa dei nazisti era vivissima, il parlamento polacco deliberò la creazione di un museo – memoriale, che comprendesse l’area dei campi Auschwitz I e Auschwitz II. Nel 1979 il sito venne dichiarato patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Nel 2007 la denominazione iniziale del museo: “Auschwitz Concentration Camp” venne, su richiesta del governo polacco, modificata  ufficialmente in “Auschwitz Birkenau – German Nazi Concentration and Extermination Camp (1940-1945)”. (https://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_concentramento_di_Auschwitz).

Fin dall’inizio degli anni Settanta, l’Associazione Nazionale Ex-Deportati (ANED) avviò una riflessione circa la necessità di un memoriale, sollecitando lo studio di architettura milanese BBPR per la sua progettazione ed iniziando una capillare raccolta di fondi per la sua realizzazione. Il 24 aprile 1971, durante una riunione del Comité International d’Auschwitz, Emilio Foa, rappresentante italiano e membro dell’ANED di Roma, comunicò l’assenso ricevuto dal Ministero dell’Arte e della Cultura polacco al “progetto di allestire un’esposizione nazionale italiana ad Auschwitz” e nel febbraio del 1972 la realizzazione del Memoriale venne posta nell’agenda delle cose da fare. Quindi, nel 1975, lo studio progettista presentò un primo progetto, e nell’estate 1978 venne creato un “comitato operativo” finalizzato alla sua realizzazione, composto da Gianfranco Maris, Dario Segre, Bruno Vasari, Lodovico Belgioioso, Emilio Foa, Teo Ducci e Primo Levi. A quest’ ultimo venne affidato il compito di redigere un testo-base” relativo agli intendimenti del Memoriale. Il 13 novembre del 1978, in una seconda riunione del comitato, il testo prodotto da Primo Levi venne approvato all’unanimità, e si decise che il memoriale italiano avrebbe dovuto essere un luogo di raccoglimento e di ricordo.
Nell’estate del 1979 l’opera risultava terminata e l’Aned provvide al suo trasferimento ad Auschwitz, assieme agli operai incaricati del suo montaggio. I lavori si protrassero fino alla fine del mese di ottobre. Infine il 13 aprile 1980 il memoriale veniva inaugurato con una solenne cerimonia. (https://it.wikipedia.org/wiki/Memoriale_italiano_di_Auschwitz).

Poi l’oblio.

E così si giunse al 2008. Ma a trent’anni dalla sua ideazione, si veniva a sapere che il memoriale versava in stato d’abbandono ed era stato oggetto di pesanti critiche e di un’azione legislativa che, all’inizio del 2008, ne aveva messo in discussione la sua stessa esistenza.  L’Aned si era subito mossa per difendere sul piano giuridico l’opera di sua proprietà, mentre l’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea si adoperò immediatamente per  coinvolgere la Scuola di Restauro dell’Accademia di Brera e i sindacati edili di CGIL, CISL, UIL (Lazio, Lombardia, Nazionale) per un’azione di sensibilizzazione sull’argomento, anche attraverso una petizione. (Ivi). Nel settembre il Cantiere Blocco 21 si trasferiva ad Auschwitz e, grazie al lavoro di 32 allievi della Scuola di Restauro di Brera, compiva i rilievi necessari, puliva l’opera, allestiva una mostra itinerante, ed elaborava un progetto di conservazione e integrazione del memoriale, detto Progetto Glossa, che veniva approvato dall’Aned e presentato alle autorità italiane. Benché la petizione avesse raccolto pure firme di importanti studiosi italiani e stranieri, il Cantiere Blocco 21 non riuscì a smuovere l’attenzione collettiva. (Ivi e “L’Accademia di Brera restaurerà il Memorial italiano di Auschwitz”, in: http://www.deportati.it/news/brera_080508.html).

 

Il 30 marzo 2014, il consiglio nazionale dell’Aned, dopo due giorni di incontri, pubblicava il seguente appello:

« Il Memoriale italiano collocato nel Blocco 21 di Auschwitz, è in pericolo: dal luglio 2011, per decisione unilaterale della Direzione del Museo, è chiuso al pubblico, inaccessibile persino agli studiosi.

La direzione del Museo, sostenuta dal governo polacco e dal Consiglio internazionale di Auschwitz, ritiene che l’installazione italiana non corrisponda più alle linee guida emanate dal Museo negli ultimi anni, che richiedono allestimenti di taglio pedagogico-illustrativo, mentre quella italiana è un’opera d’arte, un’installazione che, ripromettendosi di comunicare un orrore non altrimenti descrivibile, parla appunto con il linguaggio dell’arte.
In assenza di una iniziativa delle istituzioni pubbliche italiane, l’Aned ideò, progettò, realizzò, finanziò (con mezzi propri e attraverso una sottoscrizione pubblica) e alla fine trasportò dall’Italia alla Polonia e allestì il Memoriale, alla cui progettazione e realizzazione avevano lavorato personalità della cultura italiana del calibro di Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Primo Levi, Pupino Samonà, Nelo Risi, Luigi Nono, al fianco degli ex deportati allora al vertice dell’Aned, a cominciare da Gianfranco Maris, Teo Ducci e diversi altri. L’inaugurazione avvenne nella primavera del 1980, alla presenza di decine di ex deportati giunti dall’Italia, di rappresentanti delle Comunità ebraiche italiane e del ministro Marcora in rappresentanza del governo.

A giudizio dell’ANED, proprietaria dell’opera, il Memoriale Italiano di Auschwitz, dopo un necessario intervento di restauro e con opportune istallazioni illustrative, starebbe magnificamente lì dove è sempre stato, testimonianza della cultura e dell’arte nazionali, a ricordo di tutte le deportate e di tutti i deportati uccisi nei Lager nazisti. Ma la direzione del Museo, il consiglio delle personalità internazionali che la affiancano, il governo polacco, quello italiano e numerose organizzazioni ebraiche internazionali sostengono che quell’installazione dovrebbe essere rimossa per lasciare spazio a una documentazione puntuale della sola Shoah italiana.
Dopo aver cercato a lungo di resistere a questa impostazione, e dopo aver cercato di persuadere le autorità italiane e polacche del valore dell’opera, dando prova di moderazione e di realismo Aned si è piegata obtorto collo a questa richiesta che non condivide, e si è detta disponibile a trasferire l’opera nel nostro paese, in una località significativa per la storia della deportazione italiana, così da lasciare spazio a un nuovo allestimento italiano nel Blocco 21 di Auschwitz.

Da diversi anni, però, tutti i tentativi esperiti per individuare una soluzione sono falliti. Nessun Comune italiano, tra quelli interpellati, si è detto per ora disponibile a ospitare il Memoriale, a causa degli alti costi del trasferimento e della difficoltà di reperire l’area necessaria. Dal canto loro i Governi che si sono succeduti in questi anni hanno negato di avere le risorse utili a salvare un’opera che per oltre trent’anni ha onorato la memoria della deportazione e la cultura italiana nel mondo.
Da Auschwitz intanto si moltiplicano le pressioni a fare in fretta, pena l’assegnazione dello spazio fin qui occupato dall’Italia a un altro paese.

Aned fa dunque appello al Governo, alle istituzioni, alle forze politiche e culturali, affinché concorrano a reperire le risorse e gli spazi necessari per una degna conclusione di questa vicenda che è spiacevolissima e offensiva per tutti i superstiti dei Campi e i familiari dei Caduti. Dalle dichiarazioni occorre passare ai fatti. È in primo luogo compito del Governo, del Ministero dei Beni artistici e delle attività culturali proporre in tempi stretti una soluzione concreta e praticabile e mettere a disposizione le risorse per realizzarla, se non vogliono assumersi la responsabilità della perdita di una presenza italiana ad Auschwitz e della distruzione di un bene culturale di assoluto valore.
Aned si impegna fin d’ora:
•    a raccogliere la documentazione sull’opera del Memoriale attraverso ogni mezzo possibile (foto, istallazioni, video, eccetera).
•    a sostenere una campagna di informazione nazionale  e europea sul problema, evidenziando che il Memoriale è la prima opera d’arte multimediale europea.
•    a ottenere attraverso il Governo italiano, nel malaugurato caso si fosse costretti a rimuovere l’opera del Memoriale italiano dal luogo in cui è sorta, l’assicurazione dal Governo polacco che lo spazio del Blocco 21 rimanga nella disponibilità dell’Italia per la memoria della sua deportazione.

Il Consiglio Nazionale dell’Aned.   Bologna, 30 marzo 2014». (http://www.deportati.it/news/appello-aned-il-memoriale-italiano-ad-auschwitz-in-pericolo.html).

Il 27 gennaio 2015, compariva su storiastoriepn.it, un articolo dal titolo: “Il Memoriale italiano ad Auschwitz non va rimosso. Interrogazione a Renzi, Gentiloni, Franceschini”,in cui si ribadiva che il Memoriale italiano ad Auschwitz non andava rimosso perchè «è opera d’arte e documento storico che deve restare dov’è, quale testimonianza del nostro Paese nel campo di sterminio nazista nella Polonia occupata», e si riferiva dell’interrogazione posta dalla deputata Serena Pellegrino e da altri 50 parlamentari a Renzi, Gentiloni e Franceschini perchè si attivassero per il Mantenimento del Memoriale ad Auschwitz.
«I motivi ideologici e politici che hanno portato alla censura e alla chiusura del Memoriale e che spingono verso la sua rimozione, sono anacronistici ed inammissibili: con essi si cancellano i dati incontrovertibili di cui il Memoriale stesso è un documento. Il suo significato artistico e storico impone che esso rimanga nel luogo dove è stato creato: Auschwitz non è in alcun modo paragonabile alla periferia di Firenze, dove si è suggerito di trasferire l’installazione». – dichiarava Pellegrino, che sottolineava, pure, come la rimozione del Memoriale comportasse «una violazione dei diritti umani, del diritto Internazionale, del diritto di proprietà intellettuale e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nonché una violazione della Convenzione internazionale per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale dell’UNESCO e un crimine di distruzione di beni culturali ed artistici». (Il Memoriale italiano ad Auschwitz non va rimosso. Interrogazione a Renzi, Gentiloni, Franceschini”, in. storiastorepn.it).

Il 18 ottobre 2015,  sul sito storiastoriepn.it compariva un articolo intitolato: “Appello per il Memoriale Italiano ad Auschwitz”, in cui si leggeva che: «È in atto un pericoloso processo di manipolazione e distruzione dei campi di sterminio nazisti, disseminati in Germania, in Austria e in Europa, ciascuno dei quali rappresenta un monumento alla memoria ma le cui tracce vengono distrutte, erose, vendute, inglobate in aree verdi o urbane. Questo succede ovunque, ad esempio, nel Campo di Gusen o a Jacenovac ma anche ad Auschwitz dove l’annunciato trasferimento del Memoriale Italiano a Firenze potrebbe significare la sua dissoluzione. Al pari delle azioni belliche che mirano alla demolizione di mausolei ed antichi monumenti, anche le manipolazioni storico-politiche come la “deportazione” del nostro Memoriale, possono disintegrare la memoria delle vittime del Nazifascismo e della Shoà […]». (Gherush92 Committee for Human Rights, Appello per il Memorile italiano ad Auschwitz, in:http://www.storiastoriepn.it/). Inoltre in detto articolo si precisava che il Memoriale ricordava pure l’Armata Rossa che liberò Auschwitz, e gli italiani, donne e uomini ebrei, rom, omosessuali, dissidenti politici, deportati nei campi di concentramento nazisti, e si chiedeva l’adesione ad un appello da inviare a Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Marino Tomasz Orłowski, Ambasciatore della Repubblica di Polonia in Italia, per salvare l’opera e la sua collocazione in quel contesto naturale per cui era stata pensata, in quanto il suo trasferimento altrove avrebbe significato, di fatto,  la distruzione dell’opera.(Ivi).

Infine, il il 3 gennaio 2016, il finale: sempre su storiastoriepn.it compariva un articolo dal titolo: “Deportati, liberatori e falce e martello fuori da Auschwitz. lo scempio è compiuto”, ove con scarne parole si informavano i lettori che: «Nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa, il memoriale italiano che ricorda tutti i deportati italiani, l’antifascismo, la resistenza e i liberatori, è stato rimosso dal blocco 21 di Auschwitz per motivi revisionisti e negazionisti e forse sarà ricollocato accanto all’Ipercoop di Firenze. Vergogna ai responsabili di questa offesa». Si ricordava, inoltre, che gli architetti progettisti erano stati partigiani del movimento liberalsocialista “Giustizia e Libertà”. (Deportati, liberatori e falce e martello fuori da Auschwitz. lo scempio è compiuto, in: storiastoriepn.it).

Dove andrà a finire il Memoriale Italiano e dove è ora? Che dire dei nostri politici, del nostro Governo e del Partito della Nazione ma anche di altri, che pare proprio non abbiano mosso un dito per salvare un’opera d’arte italiana collocata in un contesto preciso, e che ricorda morti italiani? Chiediamocelo. Al prossimo scempio od alla prossima puntata di questo.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

Pensiero politico, cittadinanza, riforme, sanità. Dove andremo a finire?

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Inizio questo nuovo articolo di riflessioni sulle riforme sanitarie Lorenzin e Telesca partendo da un’ osservazione metodologica.

Innanzitutto un sistema democratico non darebbe in mano modifiche epocali in un settore così importante come la sanità, da cui dipende la salute della popolazione di uno stato, ad una persona sola o due, forse nel caso Lorenzin con qualche consigliere non ben noto ai più, ed una ricerca del Sacro Cuore di Gesù, università cattolica privata, senza altro dato, senza uno studio di conoscenza e fattibilità, insomma pare proprio sul nulla, rischiando di far precipitare gli italiani indigenti in una carenza di salute notevole che può portare a morte. Inoltre in uno stato democratico ed europeo nessuno dovrebbe poter mettere mano in un settore così delicato senza un corposo studio preliminare, senza conoscere problematiche varie che incidono sul diritto alla salute come distanze, mezzi di trasporto pubblici, burocrazia, ecc. ecc. intasamenti di centri maggiori, e via dicendo. Basti pensare, per quanto riguarda la trasmissione dati per via informatica, che io ho visto il pronto soccorso di Tolmezzo con computer in tilt e così la caserma dei carabinieri, forse per motivi legati alla rete o che ne so.

Invece la conoscenza del sistema sanitario attuale, le sue criticità reali, le possibilità aggregative anche di spesa, le potenzialità del sistema misto pubblico- privato, il confronto con altri amministratori locali, sindacati, operatori sanitari sul territorio non pare abbiano fatto parte delle premesse alla riforma, ammesso che della stessa, nei termini in cui è stata proposta e parzialmente attuata, si sentisse il bisogno, e che porti a reali benefici e non a risparmi neppure ancora valutabili, che passino sulla pelle dei cittadini non parlamentari, perché quelli hanno tutto gratis, come i loro familiari.

Si è andato perdendo, secondo me, nella visione meramente aziendalistica, sponsorizzatrice di singoli personaggi, “caciara” per dirla con un termine romanesco, nei 20 anni berlusconiani, il senso dello Stato, del significato del politico eletto al servizio dei cittadini e non della sponsorizzazione della propria immagine, di ciò che è lecito o meno, di ciò che significa agire pagando con i soldi del popolo, mentre pare che il capitale statale che deve coprire la spesa per i servizi ai cittadini in primo luogo, si sia trasformato in capitale personale del governo o del premier e dei ministri, in una situazione in cui il governo tende sempre più a togliere la divisione dei poteri, nata da chi ben sapeva cosa fosse una dittatura, ed ad avocare a sé anche il potere legislativo parlamentare bicamerale, mettendo mano alla Costituzione.
A livello regionale, per quanto riguarda il Fvg, correvano gli anni 2003-2008 quando, dopo due legislature postdemocristiane, con frequenti cambi di giunta, il centro sinistra espresse una candidatura per la presidenza della Regione legata all’alta industria, convergendo sul nome di Riccardo Illy, industriale del caffè, maestro di sci, noto nei salotti della sinistra, per due legislature sindaco di Trieste, e per breve periodo deputato. (Otello Bosari, I 50 anni della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Alba ed., prima ristampa 2015, pp. 150-151). La sua candidatura, frutto di un’intesa fra più forze politiche, fu un successo ed ottenne il 52,3% dei voti. (Ivi, p.151).
Illy parve ai più un leader energico ed adeguato ai tempi, un candidato che prometteva stabilità, novità efficienza, dopo un periodo di instabilità.
Ma la Presidenza Illy portò con sé i limiti dell’essere Illy un industriale. Il primo problema fu la sua tendenza a sostenere, anche nei fatti, «una teoria dell’autonomia della giunta rispetto al consiglio» in quanto solo la giunta rispondeva di fronte ai tribunali di ciò che si decideva. Così si giunse ad una impostazione di governo che prevedeva la preminenza dell’esecutivo di cui, in base alla nuova legge elettorale, entravano a far parte anche “esterni” cioè esponenti non consiglieri. (Ivi, p. 153).
Debora Serracchiani, ha fatto propria tale impostazione fino quasi all’estremo limite. Infatti, se non erro,  su 9 assessori 6 risultano incarichi esterni, e quindi non eletti ma scelti dalla Presidente, e posti in assessorati delicati: Loredana Panariti, assessore a lavoro, formazione, istruzione, pari opportunità politiche giovanili, ricerca università; Paolo Panotin, assessore alle autonomie locali e coordinamento delle riforme, comparto unico, sistemi informativi, caccia e risorse ittiche, delegato alla protezione civile, Francesco Peroni, assessore alle finanze, patrimonio, coordinamento e programmazione politiche economiche e comunitarie, Mariagrazia Santoro, assessore alle infrastrutture e territorio, Maria Sandra Telesca, assessore alla salute, integrazione socio-sanitaria, politiche sociali e famiglia, e Gianni Torrenti assessore alla cultura, sport e solidarietà.
Questo aspetto, in aggiunta al potere dato alla giunta e tolto al consiglio regionale, a mio avviso, ha portato ad un sistema di governo regionale che poco  ha a che fare con la democrazia, molto con l’oligarchia. E siamo, in pendant con il governo ed il partito della Nazione, anche in regione, che lo si voglia o meno, siamo all’uomo solo al comando, indipendentemente dal sesso. Inoltre dobbiamo pagare gli incarichi esterni, che rispondono solo a chi ha loro dato mandato, e cioè a Debora Serracchiani, oltre i consiglieri eletti, e non si sa neppure quanto. Sappiamo chi sono, ma ben poco che esperienza abbiano, e pare che ce ne stiamo rendendo conto giorno dopo giorno.

Questa impostazione vertical-decisionista, che ai tempi della presidenza regionale Illy, venne motivata con la declamata impossibilità ad agire a causa di veti interni ed incrociati, non tiene conto però dei contenuti di ciò che si deve decidere, puntando solo all’azione per far passare qualcosa, indipendentemente dal suo valore, come anche nel governo Renzi, portando a perdita di democrazia, scollamento dalla popolazione, tendenza all’autoritarismo ed alla sponsorizzazione dell’immagine individuale, in sintesi al personalismo invece che ai contenuti della politica.
Così scrive Bosari, rispetto ad Illy: «Nel quinquennio Illy non viene fatto niente per costruire qualcosa […] sulla frattura di analisi, di opinioni e di indirizzi, che si era manifestata nello schieramento avverso alle elezioni del 2003. Questo può esser letto come risultato di un governo regionale senza concezione politica vera, pensato soltanto come amministrazione, illuso di essere in grado di tenere un rapporto diretto con l’elettorato senza mediazioni né con i partiti né di una qualche articolazione territoriale nella quale verificare i propri indirizzi». (Ivi, p.156). Mancò allora e manca oggi, al governo regionale, quell’«intenzione di mediare con la politica degli altri» (Ivi, p. 157) che porta direttamente e senza scorciatoie al Partito unico o della Nazione che dir si voglia, con l’opposizione estromessa anche al suo interno, e che volge a pericolosi scenari per la democrazia.

Riccardo Illy aveva però previsto un consiglio delle autonomie locali come organo di consultazione, ma ormai pare che le autonomie locali non esistano più configurandosi spesso i comuni come espressione del potere o del partito dominante ed incapaci di produrre un pensiero autonomo rappresentativo, articolato, basato sulla conoscenza. Inoltre le Uti, come forme aggregative di cui si ascolta solo il Presidente, limiterebbero ulteriormente ed in modo definitivo qualsiasi consiglio delle autonomie. Riccardo Illy aveva in mente un sistema regione che guardava ad una Europa ben diversa da quella odierna, in un contesto mondiale differente, multietnico e garantista nelle differenze storiche e culturali nel Friuli Venzia Giulia, basato sulla sovranità popolare. (Ivi, p. 159).
Ma ora i tempi sono mutati e la situazione regionale e statale appaiono mutate.
Ora il potere generale e regionale appaiono configurarsi come in mano a poche persone anche non elette che agiscono, senza riferimento alcuno a studi di settore, progettazione, programmazione, approccio sistemico, in nome di un “virtuosismo” che pare configurarsi nel togliere diritti ai cittadini subissandoli di doveri derivati da scelte verticistiche sempre più scollegate dal territorio, dal paese, da noi italiani, e nel pressappochismo decisionale che sta mandando in tilt i servizi, lo stato, le regioni, i comuni e l’Italia intera. E mi si scusi per questa mia visione delle cose, e se erro vi prego di correggermi. Si può sempre non aver ben compreso.
Ma lasciando discorsi generali, riprendo a parlare di un aspetto particolare ed importantissimo: desidero infatti soffermarmi ancora una volta sulla poco assennata, per i limiti già accennati della politica odierna, riforma della sanità della regione Fvg e dello stato, che pare camminino come fossero entità autonome, portando i cittadini a subire le imposizioni dell’una e dell’altra, senza sapere dove si andrà a finire.
Quello che si evidenzia nella riforma Telesca, ancora una volta, è la mancanza di studi di fattibilità, sulla base della conoscenza dei problemi e della situazione reale regionale ed italiana dei servizi, guardando anche ai modelli europei, la mancanza di confronto con sindacati e associazioni di categoria, e dibattito politico con i partiti anche all’opposizione, la mancanza di collegamento con lo stato, di cui la regione fa parte, il decisionismo e l’imposizione metodologici, la mancanza di ascolto di comitati e popolazione. Il “qui comando io”, pare il messaggio portato dall’assessore, anche se magari non era sua intenzione che lo fosse.
Per esempio il già contestatissimo piano emergenze in Friuli è scaturito, pare, da un incontro ad Udine fra Debora Serracchiani, l’assessore Maria Sandra Telesca e Pier Polo Benetollo, direttore generale aas3. (Sanità, vertice Regione-AAS n.3: “Col piano emergenze risposte alle criticità pregresse”, in http://news.rsn.it/44009-2/, 5 gennaio 2016).
Una volta approvato chi lo toglie più? – penso. “Se non vi sta bene fatevelo far star bene” – pare il messaggio dato attraverso questo modus operandi ove i cittadini, gli operatori nel settore, i sindacati, le associazioni per la difesa dei diritti e dei consumatori, da codacons (che aveva fatto proprio ed inviato all’assessore Telesca senza avere né riscontro né risposta il mio primo testo sulla riforma della sanità) a cittadinanzattiva, fondata da Giovanni Moro, figlio di Aldo, ed altri ecc. ecc. non contano nulla.
Così la montagna ed i territori marginali potrebbero pagare, con i propri ammalati, vecchi e poveri, una dissennata politica accentratrice che potrebbe mandare in tilt il Santa Maria della Misericordia stesso, che pare stia tanto a cuore all’assessore. «Ghe pensi mi … no grazie», penso io, che sto in montagna come i miei avi, ed ho a cuore la montagna ed i territori marginali, e che ritengo che il diritto di uno discende da quello di tutti.

La riforma statale di Lorenzin non si discosta nel metodo da quella Telesca, ma oltretutto impedisce, come già scritto, di esercitare la propria professione in scienza e coscienza ai medici, come sostenuto pure dallo Snami, secondo sindacato dei medici, (Appropriatezza. Lo strappo Snami: “Macché apertura. Lorenzin tolga il decreto o si dimetta”. E poi su incontro giovedì: “Solo un teatrino. Noi fuori dall’Intersindacale” in: http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=36406), mentre il Ministero della salute, messo alle strette dai medici, si impegna a fare ciò che doveva fare prima, ma con una controparte lacerata, cioè almeno un incontro con un minimo delle parti in causa, forse per non averle contro. (Appropriatezza. Il decreto va avanti ma sarà riscritto. Sanzioni sospese fino a nuovo accordo in Stato Regioni. Lorenzin: “Rimuoveremo tutti gli ostacoli e nessun super ticket sulla ricetta” Sarà attivato un tavolo con Ministero, Regioni, Fnomceo e Società scientifiche per semplificare ed eventualmente riformulare i criteri di appropriatezza ed erogabilità delle prestazioni. Non ci sarà nessun super ticket. Dopo le polemiche per non essere stati convocati direttamente i sindacati non vanno all’incontro. Ma il ministro si impegna a incontrarli in vista dello sciopero, in: http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=36350).

Credo comunque che sia condivisibile quanto scrive Riccardo Cassi della Federazione CIMO-FESMED, relativamente alla visione della classe medica da parte dei politici al governo «Le controparti pubbliche, […] continuano […] a guardare al medico solo come a un “dirigente pubblico”, al quale si possono applicare norme e sanzioni anche su decisioni che riguardano esclusivamente […] la sfera professionale (come se questa fosse marginale ed accessoria rispetto alla funzione gestionale)».( Riccardo Cassi, La questione medica e la sfida dei sindacati, in: http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=36409).
Mi si creda questo procedere caotico ed improvvisato in sanità implica anche una questione etica e teorica più di quanto sembri. E scrivo e penso così per vari motivi ma anche perché mi pare non si sia neppure studiata bene, qui come là, la parte etico-normativa relativa alla sanità/salute pubblica. Per esempio pare proprio che il medico di base, che un tempo, anche quando io ero bambina, aveva un piccolo personale laboratorio analisi collegato al suo ambulatorio, sia e resti in una posizione fra lavoro autonomo e privato, fra azienda sanitaria e stato, e che questa sua collocazione debba essere discussa, prima di altro.

Inoltre potrebbe accadere che, per mantenere le specialistiche udinesi, per esempio il centro trapianti o la chirurgia neurologica , che servono la nazione e quindi dovrebbero esser finanziate con soldi nazionali ed operare in sinergia con i centri di regioni contigue, con condivisioni anche di spesa, si tolgono di fatto il pronto soccorso e la medicina gemonesi, che servono utenza locale, con ripercussioni su vari settori economici e sulla vita e salute delle persone, e intasamento degli altri pronto soccorso provinciali. Un cittadino scriveva pochi giorni fa sul suo profilo facebook privato: « […] sono entrato alle 20 in pronto soccorso di Tolmezzo ora è l’una di notte e sono ancora in sala di attesa!!!! Il brutto è che non sono solo ma con tantissima gente tra cui una vecchietta di più di 80 anni ferma con me da oltre 5 ore in attesa, siamo venuti a sapere che in tutto l’ospedale c’è un solo medico!!! Ora mi domando ma perché sto pagando ancora le tasse???? (…)».
Io ho atteso l’anno scorso anche di più. E mi pare che la notte il medico di pronto soccorso a Tolmezzo debba intervenire anche nei reparti. Quanto sono lontani i politici ed i dirigenti, penso leggendo, da questa realtà! Ma bisogna anche dire che i limiti di sanità, ospedali e medici, circolano solo in modo privato, e spesso con toni emotivi, ma questa è altra storia.

E sperando di non finire come in Toscana, dove ormai pare che tutto sia possibile e dove qualcuno, finalmente, si rivolge ad un pm, a causa del testo sulla riforma sanitaria pubblicato sul bollettino della regione che secondo cinque stelle è diverso da quello licenziato in aula, (David Evangelisti, Toscana, riforma sanità: testo diverso da quello approvato. M5s: “Esposto a pm”. Pd: “È un normale coordinamento” in: Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2016) mentre pochi mesi fa si potevano ancora leggere notizie su appalti gonfiati in sanità, anche se la notizia è datata e per fortuna venuta alla luce (Sanità Lombardia, “appalti gonfiati all’ospedale di Gallarate”. Sei denunciati, in: Il Fatto Quotidiano 17 luglio 2015) Gino Strada continua a sostenere che la sanità deve essere gratuita per tutti, che si devono tagliare i profitti, semmai, che dieci milioni di italiani non possono permettersi un’assistenza adeguata, e che servono ospedali e non aziende. (“Sanità, Gino Strada: “Gratuita e per tutti”. “Costa troppo? Tagliamo i profitti”, in: Il Fatto Quotidiano, 28 luglio 2015). Come non dargli ragione?
Comunque rinvio ai miei precedenti stesso argomento ed all’intervento di Gianni Borghi all’ incontro con Maria Sandra Telesca, che pare volesse, allora, glissare qualsiasi confronto con i comitati gemonesi che pur, se ascoltati, qualcosa hanno ed avrebbero da dire. Ma forse il “Ghe pensi mi”, non implica confronto alcuno.
Voglio però aggiungere che credo che gli assessori regionali pensino di operare bene, senza avere grande esperienza, ed avendo vissuto 20 anni sotto Berlusconi.

Scrivo quanto per esprimere, come riesco, le mie considerazioni in modo documentato, senza voler offendere alcuno, scusandomi subito se qualcuno si sentisse offeso, e se erro correggetemi.

Laura Matelda Puppini

L’immagine è presa dal sito veritaedemocrazia.blogspot.com, solo per questo uso. Laura Matelda Puppini

Su quel documento appena pubblicato dal Messaggero Veneto che si dice proveniente da La Farnesina … note critiche.

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Ho visto l’ immagine, pubblicata sul Messaggero Veneto in data 13 febbraio 2016,  di un documento a cui il quotidiano locale e non solo danno notevole valore, e mi sono posta molte domande.

Detto documento proviene, secondo il noto quotidiano locale, dalla Farnesina, cioè dalla sede del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Ora la Farnesina ha un archivio storico, ma relativo a Documentazione Storico Diplomatica, come si evince da: “Farnesina. Documentazione Storico Diplomatica – Archivio Storico Diplomatico, in: http://www.esteri.it/mae/it/ministero/servizi/uapdsd/storico_diplom.
Non capisco quindi come questo documento possa essere finito lì, non avendo come oggetto aspetti diplomatici o di politica estera, ma una ipotesi di assassinio, direi di strage locale. Infatti, «l’Archivio Storico Diplomatico (sezione III), si occupa della conservazione, del riordinamento e dell’inventariazione della documentazione storico diplomatica prodotta sia dagli Uffici centrali del Ministero sia dalle Rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero e ne assicura l’accessibilità nei limiti della consultabilità. Conserva inoltre gli originali degli atti internazionali». (Ivi).

Per poter accedere all’archivio e consultare i documenti, nonché chiederne fotocopia, esiste una prassi definita. Per accedere ai servizi della Sala Studio dell’Archivio Storico Diplomatico è necessario registrarsi al portale. All’atto della registrazione gli utenti devono allegare copia in dei seguenti documenti:
documento di identità;
lettera di presentazione del professore universitario o dell’ente che commissiona la ricerca.

Vorrei sapere quale professore universitario o quale ente ha commissionato la ricerca e per quale motivo. Inoltre mi chiedo l’oggetto della ricerca, cioè cosa andavano a cercare alla Farnesina i ricercatori, ed in particolare il professore universitario o l’ente inviante e perché chi ha messo a posto l’archivio, dato che le carte non ordinate non sono consultabili, non ha avvisato subito le autorità di polizia del contenuto del documento, se non lo riteneva una informativa o una semplice nota sul “si dice” o una parte di una pratica archiviata e quidi senza seguito? Inoltre l’inviante, se sapeva già dell’esistenza del documento, perché non ha avvertito nessuno, visto il contenuto, tranne il signor Urizio? A parte il fatto che qualcuno dice che non sia ricerca recente. 

Comunque in quale sezione dell’archivio si trovava il documento?

Ma passiamo al documento.

Non posso entrare nel merito della autenticità dello stesso, comunque pare proprio fuori posto, perché non è relativo a rapporti con l’estero.
Infatti una immagine fotografica o fotocopia non danno informazioni certe su carta, timbri, inchiostro, ecc. relativi al documento. Inoltre il documento in questione ha tre cancellature fatte con sostanza nera, che dovrebbe essere, vista la data, inchiostro ma dall’immagine così riprodotta potrebbe essere anche pennarello o che ne so. Sotto pare si vedano le parole cancellate relative alla zona ove dovrebbero esser sepolti i cadaveri e alla popolazione che sostiene di conoscere il fatto, in sintesi alla fonte ed al luogo il che non è poco, è tutto. Perché sono state cancellate e da chi? Se si tratta di un documento ufficiale è gravissimo, e su fatti così gravi non si possono fare illazioni. Inoltre allora si cancellava il più delle volte un errore di battitura con la stessa macchina da scrivere, e se il documento avesse avuto valore ufficiale le cancellature sarebbero state firmate a lato dallo stesore del documento per approvazione.
A me quindi pare una informazione scritta così, senza seguito, dopo forse brevi indagini, di cui l’ente ricercatore o l’università inviante avrebbero dovuto sincerarsi.

Analizzando il documento si nota che vi è scritto: Oggetto: Trasmissione notizie “ERMETE”. La missiva è poi inviata all’Ufficio informazioni – 3^ sezione (non si sa di chi). L’intestazione è “Ufficio Informazioni – Nucleo stralcio 1^ sezione gruppo speciale”. Da una mia velocissima ricerca i nuclei stralcio appartengono all’ E.I., agli alpini, ma non sono un’ esperta in materia.
Ma in particolare “ERMETE” chi è? Sarebbe importante saperlo.

Sui contenuti poi ci sarebbero molte osservazioni da fare.

Bisognerebbe come prima cosa verificare altre fonti. Un caso così grave non può avere solo una fonte, perché pare allora una bufala, cioè un’ informazione falsa.
800 cadaveri puzzano, ed anche 200 perdio, attirano animali ecc. ecc. e poi dove potrebbero trovarsi? Si parla di foiba e fossa comune, ma dove? A Rosazzo che non è sul Carso? E chi sarebbero stati i morti e quando sarebbero stati uccisi? In fosse comuni credo siano stati gettati anche militari morti nella prima guerra mondiale, tanto che vi è un monumento al milite ignoto. E come si fa a sapere con certezza che furono Vanni e Sasso senza neppure processo? E quando sarebbero stati in zona? E avrebbero fatto un eccidio di tali proporzioni senza esser fermati essendo in due? Forse se lo sono chiesti anche coloro che, credo proprio intelligentemente, hanno archiviato il documento, che non si sa se avesse allegati o pratica relativa.

Ho scritto queste righe per approfondiere il dibattito e per far capire come non basti trovare un “documento” …

Laura Matelda Puppini

Sulla guerra e contro la guerra, per la pace, ai margini di un convegno al centro Balducci.

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Ho ascoltato ieri un interessante incontro al Centro Balducci di Zugliano, promosso dalla Regione Friuli-Venezia Giulia ed altri, intitolato: “Conoscere e spiegare le guerre dei nostri giorni” non certo per giustificarle, ma per comprendere come esse siano sempre e comunque contro l’uomo e come si debba operare per la pace.

Basterebbe prendere dei libri di storia che parlano, sin dai periodi antichi, di tempi di pace e prosperità, basterebbe chiedersi perché i Celti adorassero una dea, Maave, servita da sacerdotesse, che avevano il compito di eseguire rituali codificati per garantire pace e prosperità al paese, e perché venerassero una dea, Sheela, con cui ritenevano che il re si accoppiasse per trarne pace, prosperità e fertilità per il suo popolo (Cfr. Maureen Concannon, La femmina sacra, Sheela la dea dei Celti, ed. Arkeios, 2006, in: https://books.google.it/), basterebbe chiedersi il perché dell’Ara Pacis a Roma, per domandarci, nel 2016, perché “mille” guerre siano ancora in corso con il loro bagaglio di violenza, morte, distruzione orrore, terrore e povertà. Forse però sarebbe preferibile domandarci a chi giovino dette guerre, che ormai meritano un atlante, e con quale logica persistano a mantenersi, evitando di pensare che abbiano una finalità umanitaria, il che si è dimostrato nei secoli assurdo, o la finalità di portare la democrazia in terra altrui, per analogo motivo. Non volevamo portare forse la democrazia in Iraq? Ma poi? E forse, come diceva qualcuno ieri, non è possibile che il disfacimento del vecchio esercito iracheno, fortemente voluto dagli Usa, abbia alimentato l’Isis?

Ogni guerra presuppone un “uno” contro un “altro”, ogni guerra attuale, come molte in precedenza, implica questioni dette di onore, e di difesa da … trae origine da scelte imposte, da cupidigia, da potere, da problemi di confini, e comporta una mancata politica di dialogo: è muro contro muro, ove nessun muro è di gomma.
E si parla ancora di guerra, di guerre, di conflitti, mentre le grandi religioni parlano di pace. Il concetto di pace «è uno dei concetti più antichi e profondi in senso antropologico» – si legge in: https://it.wikipedia.org/wiki/Pace.
E ivi si legge anche: «La radice della parola Islam è “silm”, il cui significato è pace. Il Corano descrive la sua via come la via della pace […]. Secondo il Corano, uno dei nomi di Allah è As-Salam, che significa pace, e la società ideale è Dar as-Salam, la dimora della pace (10:25).»
“Pacem in terris” intitolava la sua famosa enciclica papa Giovanni XXIII°, chiarendo sin dai primi punti che la pace è l’«anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi», e che «ogni essere umano è persona […]; e soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili». (Lettera enciclica “Pacem in terris”, del sommo pontefice Giovanni pp. XXIII, ai venerabili Fratelli Patriarchi, Primati Arcivescovi Vescovi e agli altri ordinari locali, che sono in pace e comunione con la sede apostolica, al clero e ai fedeli di tutto il mondo, nonché a tutti gli uomini di buona volontà: sulla pace fra tutte le genti, nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà, in: http://w2.vatican.va/content/john-xxiii/it/encyclicals/documents/hf_j-xxiii_enc_11041963_pacem.html). E così continua: «Ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; ed ha quindi il diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. Ogni essere umano ha il diritto al rispetto della sua persona; alla buona riputazione; alla libertà nella ricerca del vero, nella manifestazione del pensiero e nella sua diffusione, nel coltivare l’arte, entro i limiti consentiti dall’ordine morale e dal bene comune; e ha il diritto all’obiettività nella informazione. Scaturisce pure dalla natura umana il diritto di partecipare ai beni della cultura, e quindi il diritto ad un’istruzione […]». (Ivi). Ma il Papa si sofferma pure sul diritto al lavoro, e sulle condizioni di lavoro non lesive della sanità fisica e del buon costume, e non intralcianti lo sviluppo integrale degli esseri umani in formazione; e, per quanto concerne le donne, sottolinea il diritto a condizioni di lavoro conciliabili con le loro esigenze e con i loro doveri di spose e di madri. (Ivi).

Come non vedere una continuità fra quanto scritto nella carta costituzionale ed i contenuti di detta enciclica, che parla pure, del diritto di riunione ed associazione, del diritto di emigrazione ed immigrazione, dell’appartenenza di ciascuno alla famiglia umana ed alla comunità mondiale, con stessi diritti e doveri?
Il concetto di riconciliazione, poi, appartiene anche all’ebraismo. Ed in preparazione al Natale, il 30 novembre 2003, Papa Giovanni Paolo II così si esprimeva, all’Angelus : «Ha grande bisogno di questa pace il mondo! Penso in modo speciale con profondo dolore agli ultimi episodi di violenza in Medio Oriente e nel Continente africano, come pure a quelli che la cronaca quotidiana registra in tante altre parti della Terra. Rinnovo il mio appello ai responsabili delle grandi religioni: uniamo le forze nel predicare la non-violenza, il perdono e la riconciliazione! “Beati i miti, perché erediteranno la terra”». (Mt 5,5). (http://www.peacelink.it/paxchristi/a/2505.html).

Ma le guerre hanno come base ora motivi di sicurezza, potrebbe argomentare qualcuno.
Sicurezza … che sicurezza cercano i cittadini? – si chiedeva ieri, se non erro, Roberto Savio, uno dei due fondatori, nel lontano 1964, di “Inter press service”, un’ «agenzia di stampa internazionale specializzata in notizie ed analisi indipendenti sugli eventi e i processi legati allo sviluppo economico, sociale e politico». (https://it.wikipedia.org/wiki/Inter_press_service). Sicurezza derivata da fiducia incondizionata in qualcuno? Secondo Roberto Savio no, i cittadini del mondo cercano una sicurezza globale, che presuppone l’avere una abitazione, un lavoro, un reddito sicuro, sanità, scuola ed istruzione, che non possono derivare dalla sicurezza militare, l’unica presa in considerazione, ora come ora.
E non richiama questo pensiero la “Pacem in terris”  di Papa Giovanni XXIII°?
Forse se i francesi invece di spendere miliardi di euro in sicurezza dessero 1000 euro al mese ad ogni ragazzo musulmano della periferia di Parigi, in cambio di un lavoro, otterrebbero risultati migliori, affermava ieri il noto giornalista. E secondo me aveva ragione. Ma ad ascoltarlo c’erano 200 persone del F-vg, non gli strateghi ed i politici che decidono, sicuri di sé, delle nostre ed altrui vite.
Le sfide per la cittadinanza del futuro non appartengono agli eserciti ma al ripensare società, lavoro e dignità in un mondo ove il 52% dell’attività manuale viene ormai svolta da robot, appartengono al garantire ancora quei diritti che paiono esser sempre più limitati anche in nome della cosiddetta “sicurezza interna”. “La Francia rinuncia alla convenzione europea dei diritti dell’uomo. La sospensione sarà in vigore nei prossimi tre mesi e riguarderà diversi diritti fondamentali come quello a un equo processo e alla libertà d’espressione, si intitola un articolo di Davide Maria Vavassori,in: http://www.tpi.it/mondo/francia/francia-rinuncia-convenzione-europea-dei-diritti-uomo). Ed io mi chiedo se, con detto risultato, l’Isis non abbia ottenuto moltissimo, cioè di incidere sulla vita di tutti, magari con un solo attentato, come a Parigi.

Ma ritorniamo alle guerre. Nel solo 2014, la spesa militare mondiale è stata stimata intorno ai 1776 miliardi di dollari, presentando una caduta marginale dello 0,4% in termini reali se comparata a quella del 2013, ma non discostandosi molto da quella del 2011, ove raggiunse il picco massimo: in sintesi oscillando lievemente intorno ad una media. (Debora Capalbo, La spesa militare mondiale nel 2014, in: Paper IRIAD, Supplemento al n° 5/2015 del Sistema informativo a schede (SIS) Mensile dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo ISSN 2385-2984, in: http://www.archiviodisarmo.it/index.php/it/banca-dati-disarmonline-categoria-spese-militari/finish/243/3566, p. 2). In testa alla classifica, per spese militari, nel 2014, erano sempre gli Usa, seguiti da Cina, Russia, Arabia Saudita, mentre l’Italia occupava il dodicesimo posto; la spesa militare in Europa era cresciuta dello 0,6%, raggiungendo 386 miliardi di dollari, la spesa militare in Medio Oriente era aumentata a dismisura, raggiungendo i 196 bilioni di dollari. (Ivi, p.3 e pp. 5-6. Per altri dati si rimanda all’interessantissimo articolo).

Ma ciò non ha portato ad un aumento di sicurezza globale, ma ad una “sicurezza umana ridotta”, sempre secondo il giornalista Savio, e concordo con lui. In Europa manca sempre più il lavoro; in Italia la precarietà e la povertà fanno sentire il loro peso sempre maggiore, mentre la situazione creatasi va erodendo la classe media. «Non ci sono soldi, dovete fare sacrifici» – ci si sente dire. Ma ci sono per le armi e le guerre. Basterebbe che il 10% della spesa militare fosse devoluta per la sicurezza umana, precisava Savio ieri, ma non vedo perché solo una fettina così piccola.
I nostri ragazzi stanno perdendo sempre più diritti, se riusciranno in qualche modo a lavorare andranno in pensione a 66-68 anni, se tutto va bene, con 400 o 500 euro al mese, mentre le banche continueranno ad aiutare chi già possiede, non chi non vede futuro. E la sperequazione sociale aumenterà, il lavoro tenderà, come tende, a perdere, in crescendo, tutele, facendo balenare alla mente il concetto di schiavizzazione del lavoro stesso. A questo si opponeva Marx, ma per carità non scriviamo il suo nome.
Eppure, forse, guardava, in un certo senso anche lui a quella dignità della persona che ora sembra distrutta.
E siamo nuovamente a “pane e lavoro” quasi che ideali, pensiero, testi valoriali papali e costituzione italiana fossero spariti di colpo, assieme ad anni di storia.

Cui prodest? Ai ricchi della terra, che vogliono tutto possedere, ma che nulla riusciranno a vendere se pochi guadagnano. Ieri non ho sentito parlare di stagnazione del mercato, di mancanza di circolazione del denaro, ma questo sta accadendo, e sarebbero buoni motivi per “pensare alternativo” rispetto all’oggi, in economia, ricordando il New Deal americano. (Cfr. Laura Matelda Puppini, Negli anni ’30, il New Deal fece uscire gli U.S.A. da una crisi senza precedenti. E noi come usciremo dalla crisi?, 7 agosto 2015, in: www.nonsolocarnia.info).
Magari se si iniziasse a pensare un modo di impiegare i giovani, di sostenere le politiche per la famiglia, prendendo i soldi dove ci sono, e cioè quelli per le spese militari, si potrebbe portare una ventata di speranza anche in questo paese.
«Mamma siamo una generazione perduta» – mi disse un giorno, anni fa, mia figlia, che lo aveva letto su non so su quale quotidiano. «Chi è quello che scrive così?» e «Perché vogliono che lo siate», pensai io, ma non ricordo cosa risposi.

Ritornano in Italia gli industriali emigrati in Cina, forse perché non c’è più mercato, l’aria è irrespirabile almeno a Pechino, i fiumi inquinati, «Il processo di industrializzazione della Cina, se ha consentito il miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone, ha al contempo comportato lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e un elevato innalzamento dei livelli di inquinamento, con conseguenti implicazioni ambientali e sociali (malattie, migrazioni di massa, ecc.). Un problema di difficile soluzione, che, per il contributo della Cina all’innalzamento della temperatura del pianeta, coinvolge l’umanità intera» – si legge sulla scheda di presentazione del volume di Alessandro Gobbicchi, La Cina e la questione ambientale, Franco Angeli ed., 2012, in: http://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?CodiceLibro=1460.74), ma non mancano certo articoli attuali sull’argomento, come, per esempio: “”Cina, apocalisse smog nel nord-est. Mai così alti i livelli di inquinamento”, in: http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-11-10/, o “Pechino, secondo allarme rosso per l’inquinamento. Durerà da domani a martedì”, in: http://www.repubblica.it/ambiente/2015/12/18/news/ ed altri.
Inoltre il mercato potrebbe tendere ad essere saturo e si inizia ad investire, almeno pare, anche in Cina, maggiormente in servizi che in materie prime. (“Per l’economia cinese il peggio deve ancora arrivare”, in: The economist, Regno Unito, in: http://www.internazionale.it/notizie/2016/01/20/cina-economia-rallentamento). Oppure i cinesi non sono più così tolleranti su vari aspetti, anche se pare, da quanto ascoltato ieri, che pensino che all’economia non serva la democrazia. Insomma per ora io non ho ben capito perché gli industriali siano rientrati quando qui non vi è mercato, nel vero senso della parola, per nessuno, anche perché il costo dei servizi sta aumentando.
Ma anche l’informazione presenta dei limiti, e bisogna distinguere, come diceva ieri l’assessore Federico Pirone, i suoni dal chiacchiericcio, affinando la capacità all’ascolto.
E pure sulla questione ambientale il Papa, in questo caso Francesco I, si è chiaramente espresso nella sua enciclica “Laudato si’». Ma nessuno ascolta o legge, e poi è cosa di “ieri”, già vecchia. A me non pare proprio datata, anzi, ma i media hanno bisogno di novità, e ora ci tediano con canguri ed altre trovate, con i mal di pancia del Pd, ora partito della Nazione, ed altre quisquiglie, con la “solita” corruzione che, come qualcuno diceva ieri, è in aumento anche a livello mondiale, e per arginare la quale nessuno pensa di intervenire in modo serio, con le “solite” alleanze di potere, con le “solite” ultime improvvisate decisioni sui migranti. Ma cosa vuoi che sia … ormai pare che la nuova era viaggi sull’improvvisazione più che sull’analisi.

Qualora non si cambi il modo di pensare economia, politica e vita, ritornando pure ad un discorso valoriale, anche in Italia il futuro si carica di tinte fosche. E Matteo Renzi ed il suo governo non paiono avere buone capacità di valutazione di come operare per il vero benessere del paese.
In questa impostazione della società italiana, voluta da Berlusconi prima, accelerata da Renzi poi, i cittadini tendono sempre più a non avere una partecipazione attiva nella vita dello stato, di cui stanno perdendo il senso, a sposare il nichilismo, l’indifferenza, l’assuefazione.
Questi aspetti tendono a portare a far vivere anche le guerre come “fuori da sé” ed a non prender più posizione verso le stesse, a modificare la morale, ed a puntare all’individualismo.

Le guerre sono causate, diceva ieri il generale Fabio Mini, da diversi fattori. Vi sono guerre per la sopravvivenza, per il potere, per gli spazi ed i territori, per il predominio di una religione, vi sono guerre, ora, per i “global commons” i beni comuni e le risorse internazionali e sovranazionali, che dovrebbero esser beni di tutti, ma stanno diventando di pochi, che se li stanno accaparrando. Inoltre la prima vittima della guerra è la verità, ha aggiunto, e la guerra porta con sé paura, ipocrisia, menzogna, individualismo, “noi” contro “loro”. Vi sono anche paesi che fanno, nelle guerre, da pedine per altri, detti paesi “proxy”, intermediari, dietro cui si muovono ben altri attori e scenari.
Dalla guerra per bande si è passati a quella lineare, simmetrica, per poi passare alla guerra dinamica, e ritornare ancora a quella per bande, create sulla base di interessi comuni, o sposare quella asimmetrica. Inoltre da ogni guerra mondiale è uscito un nuovo ordine mondiale.
Siamo alla terza guerra mondiale? No secondo il generale, ma si ricerca un nuovo assetto di potere, non ancora prevedibile. Invece sta aumentando la paura, e vanno cancellandosi, qui come là, sempre più i diritti civili, che sono quelli a cui si riferiva anche Giovanni XXIII°, e che permettono all’uomo di vivere con dignità speranza e visione di un futuro migliore, di pace, prosperità e fertilità.
Non si può servire sia Dio che mammona. Bisogna scegliere. Al di là delle parole, cosa stanno scegliendo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, Italia ed Europa, e non solo?

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: concorso “un poster per la pace”, in: http://portalegiovani.comune.re.it/?p=17440. La locandina dell’ incontro è visionabile digitando il titolo da me riportato e “centro Balducci”. Ieri è stato assicurato che la ripresa verrà posta on line, ma dura ore. Se ho errato il nome dell’autore di qualche riflessione riportata qui dall’incontro mi scuso subito e chiedo di correggermi. Laura Matelda Puppini


Laura e Marco Puppini sull’amministrazione di concentrazione repubblicana a Tolmezzo dopo la Liberazione.

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Nel lontano 1978, io e mio fratello Marco iniziammo ad interessarci all’Amministrazione di Concentrazione Repubblicana di Tolmezzo, uscita dalle elezioni amministrative del 1946, detta anche “Amministrazione Pesce”, caduta nel dimenticatoio per l’opposizione che ebbe da parte democristiana e non solo. Era di sinistra, ed allora tutto ciò che era di sinistra doveva esser boicottato, almeno così pare. Nuovi assetti politici venivano pensati, la guerra fredda era già incominciata, e si temevano inesistenti pericoli rossi che armarono altre Gladio e Gladio. (Cfr. Giacomo Pacini, “Le altre Gladio” Einaudi ed. 2014, e Ferdinando Imposimato, La repubblica delle stragi impunite, Newton Compton ed. 2012).

Sindaco di questa Amministrazione, eletta dal popolo, fu Livio Pesce nato a Tolmezzo il 2 marzo 1908. Persona intraprendente, diciottenne si recò a lavorare a Puerta Pit, in Guadalupa, pagandosi il viaggio facendo il barman sulla nave. Ma contrasse la malaria e dovette rientrare. Quindi si stabilì definitivamente a Tolmezzo, e sposò un’insegnante. Durante la seconda guerra mondiale e poi, gestì un negozio di alimentari in piazza xx settembre a Tolmezzo, locato in casa Paschini, che fu pure oggetto di un attentato. Infatti qualcuno sparò sulle vetrate di cristallo del negozio, frantumandole, non si sa se per motivi politici o concorrenziali e di invidia per la sua configurazione moderna. Fu partigiano garibaldino operativo sul terreno, con nome di battaglia Maso, ed alla fine della guerra rischiò di morire per aver cercato di andare incontro agli alleati con Gaetano Bardini e don Primo Sabbadini. Infatti l’auto su cui viaggiavano, probabilmente in seguito ad una delazione, fu intercettata a Stazione per la Carnia ed i tre furono presi prigionieri ed internati in un carcere austriaco ove rimasero diversi giorni, con il terrore di essere fucilati, finché non furono liberati dai partigiani austriaci.

Non risulta che si sia mai iscritto al P.C.I., professando, invece, nel pensiero e nell’azione, idee socialiste. Durante la resistenza, nel 1944, si spostò da Tolmezzo, ove viveva in una bella casa in zona via della fabbrica nei pressi di villa Lequio, a Muina, in casa Spinotti. Rientrato in Tolmezzo, trovò la sua casa, ammobiliata, occupata da altra famiglia e dovette riparare nell’abitazione sopra il negozio, che la figlia ricorda come vecchia ed in non buono stato, senza bagno e con un gabinetto esterno.

Nel primo dopoguerra fece parte, con Bruno Lepre, Romano Marchetti e Paolo Micoli del gruppo di studio, voluto dal C.L.N. della Carnia, per la stesura di una bozza di statuto per una Comunità Carnica e sostenne il Circolo di Cultura. Eletto nelle amministrative del 1946, divenne sindaco di Tolmezzo, e cercò di migliorare le condizioni di vita della popolazione, stremata dalla lunga guerra e dall’occupazione nazista e cosacca. Suo è il cosiddetto “borgo Pesce”, a Tolmezzo. È ricordato pure per il tentativo di rispondere alla disoccupazione dilagante con il progetto “Carnici in Paraguay”, di cui fece parte attiva anche Terenzio Zoffi, il comandante osovano Bruno, fallito per problemi sopravvenuti nel paese che doveva ospitare la comunità della Carnia. Fortemente osteggiato nel periodo in cui fu sindaco, anche attraverso una campagna denigratoria di stampa, Livio Pesce lasciò il capoluogo carnico nel 1953, spostandosi ad Udine. Invalido, morì a Cividale del Friuli il 31 maggio 1995. (Fonti: Marchetti Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, Informazioni tramite colloquio telefonico con la figlia di Livio Pesce, Lidia Pesce in Lodolo, in data 31 luglio 2015, inviate poi alla stessa per verifica).

Dopo che l’articolo fu pubblicato, su Qualestoria, n.3, novembre 1979, lo inviai a Livio Pesce, che mi spedì alcune precisazioni, una foto che lo ritrae con il Presidente del Paraguay poi deposto, e una copia del suo passaporto, che qui doverosamente pubblico, non avendolo potuto fare prima.

Ringrazio sentitamente l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste ed il suo direttore, Roberto Spazzali, per avermi concesso di pubblicare l’articolo sul mio sito.

Per sfogliare l’articolo porsi al margine inferiore sinistro guardando della prima pagina e poi procedere con le frecce. Buona lettura. Laura Matelda Puppini

Divagando su quanto scrive il Messaggero Veneto sulla ricerca di quanto affermato nel documento dall’archivio della Farnesina.

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Leggo sul Messaggero Veneto gli ultimi articoli sulla foiba o fossa comune di Rosazzo, citata in un documento, di cui mi sono già occupata (Cfr. Laura Matelda Puppini, Su quel documento appena pubblicato dal Messaggero Veneto che si dice proveniente da La Farnesina … note critiche, in:www.nonsolocarnia.info),  datato 12 ottobre 1945, che afferma vi fossero dai 200 agli 800 cadaveri in detto luogo, non specificando di chi ed a che periodo preciso risalenti, ed accusando due persone di detto eccidio, e mi sto chiedendo che cosa sappiamo di nuovo rispetto all’ 11 febbraio 2016. Infatti il luogo era cancellato sul documento ma pareva si vedesse comunque, e  non voglio neppure pensare che il giornale diretto da Tommaso Cerno pubblichi un documento cancellato da chi è andato a fotografarlo all’archivio del Ministero degli Esteri, che prima pareva fossero Salimbeni Lorenzo assieme ad altro, di cui non ricordo il nome, poi il signor Urizio, presidente della sezione di Gorizia della Lega Nazionale, associazione che «vive e lavora nella difesa dell’italianità di Trieste e di tutta la Venezia Giulia» (http://www.leganazionale.it/) e che umanamente non so che cosa possa fare ora per perseguire il fine propostosi. Ma può essere limite mio.

Inoltre ora per il Messaggero Veneto la fossa di 800 cadaveri o forse 200, ma potrebbero essere anche 500, 400, ecc. ecc., si trova a Poggiobello di Manzano, (Davide Vicedomini, La fossa è a Poggiobello, in Messaggero Veneto 26 febbraio 2016). E pare che almeno per questa zona vi sia il figlio di un testimone, Renato Paoluzzi, che però parla di una casa ove andava a giocare da bambino, in mezzo al bosco, ma non ritrovata in questi giorni, essendo egli andato a cercarla, ove secondo il genitore, non registrato, e quindi per quel che ricorda il figlio, avvenivano cose atroci e avvennero degli omicidi, ma non secondo lui fatti da partigiani, ma da criminali comuni, che rubavano e non erano eroi, par di capire. Ma non sa nulla della fossa comune. Parla invece di un camion pieno di formaggi per i tedeschi fatto scomparire e di due fascisti, uccisi dietro casa sua, di cui nulla seppe più sua madre, e di persone che sparivano genericamente. (Davide Vicedomini, Il figlio del testimone: “Così venivano uccisi nella vecchia cjasate” in Messaggero Veneto, 26 febbraio 2016).  Non sarà che magari i genitori del Paoluzzi vennero influenzati anche da quello che si narrava, in epoca post bellica, sui cattivi comunisti e partigiani garibaldini, e che poteva circolare in ambienti parrocchiali, mi chiedo, o aderivano al fascismo? Sarebbe interessante saperlo, ma non possiamo domandarglielo.

Riferendomi invece alla evidenziazione del luogo, sperando che il Messaggero Veneto non abbia seguito solo il signor Paoluzzi, che io, lettrice del quotidiano locale per lo specifico, non so se aderisca ad un partito dell’estrema destra, come Simone Lansotti, (giovane segretario della sezione udinese di La Fiamma Tricolore, come da: http://salmestefano.myblog.it/2009/01/13/la-fiamma-tricolore-elegge-il-segretario-cittadino-di-udine/, cosa che evita di dire quando firma le sue lettere), mi chiedo chi abbia fornito ulteriori notizie al quotidiano locale, sperando che i sindaci non si mettano,come pare quello di Premariacco,  a fare gli investigatori in proprio, (Davide Vicedomini, La fossa, op. cit.) essendo in corso un’inchiesta della Procura della Repubblica. (Corno di Rosazzo, Foibe, la Procura apre un’indagine sulla fossa comune. Secondo alcuni documenti emersi nelle scorse settimane, nel 1945 potrebbero essere stati sepolti tra i 200 e gli 800 cadaveri, in Messaggero Veneto, 18 febbraio 2016).

Preciso inoltre che, pur comparendo sul documento pubblicato dal Messaggero Veneto il timbro del Maggiore Lo Faso, egli non firmò detto documento ma fu firmato per lui da altro che pare fosse, dalla firma in calce, il maggiore Bonelli.
Faccio presente in ogni caso che sinora trattasi solo di un documento pasticciato, che non si sa come si trovasse alla Farnesina né perchè, e che non si sono visti né documenti al plurale né dossier. E su detto documento rimando al mio: Laura Matelda Puppini, Su quel documento appena pubblicato dal Messaggero Veneto che si dice proveniente da La Farnesina … note critiche, in: www.nonsolocarnia.info.
«Per ora non c’è certezza né che ci sia stato un reato né chi sia l’autore», spiega il Procuratore capo di Udine Antonio De Nicolo che ha avviato un’investigazione preliminare insieme con il Procuratore aggiunto Raffaele Tito «sulla base di alcune notizie di stampa» – come si legge sempre in: Corno di Rosazzo, Foibe, la Procura apre un’indagine, op, cit., 18 febbraio 2016, e secondo me siamo ancora a questo punto.

La Procura della Repubblica, attraverso i suoi magistrati, svolge le indagini necessarie per accertare se un determinato fatto, segnalato da un cittadino o da una delle Forze di Polizia, costituisca reato e chi ne sia il responsabile. Il Pubblico Ministero conduce personalmente le indagini, servendosi della Polizia giudiziaria. Se acquisisce prove sufficienti, porta l’accusato davanti al Giudice per il processo, sostenendo il ruolo della “pubblica accusa” in contrapposizione alla “difesa” dell’imputato. Se le prove a carico della persona accusata non sono sufficienti o le prove acquisite dimostrano che l’accusato è innocente, la Procura chiede al Giudice di non procedere.
Pertanto giustamente la Procura ha affidato ai Carabinieri, con compiti pure di polizia giudiziaria, la ricerca della fossa comune, per evidenziare se almeno esista. Ma se esista e dove non si sa perché la Procura o i Carabinieri, che so onestamente lavorare, non hanno certamente avvertito il Messaggero Veneto, che non cita una dichiarazione ufficiale della Procura stessa sull’argomento, del procedere della loro indagine. 

Pertanto credo che il Messaggero Veneto faccia indagini in proprio, e si fidi di sentito dire, ma allora ci avvisi che sono solo sue congetture, onde non si faccia confusione, ed avvisi di ciò  la Procura della Repubblica.

Inoltre Antonio Comelli, di Nimis, avvocato e Presidente della Giunta della Regione Friuli Venezia Giulia, aveva combattuto nelle file della resistenza osovana nella zona, (Licio Damiani, Dieci anni fa moriva Comelli, presidente della ricostruzione, in: Messaggero Veneto, 28 giugno 2008) e mi par di ricordare aveva acquistato non so se per sé o azienda di cui curava affari o di cui era presidente o … molti terreni nella zona in questione e dintorni, prima non coltivati a vite, negli anni 60-80, per trasformarli in vigneti, che erano una sua passione, tanto da esser considerato egli  il padre della viticoltura friulana (Presidenza: Illy inaugura centro “Antonio Comelli” a Nimis, in: Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, 29 ottobre 2005). È possibile non avesse mai sentito parlare della fossa dei duecento-ottocento, e di cadaveri, secondo il Messaggero Veneto, sepolti in superfice? E’ possibile che non ne sapesse nulla Gaetano Perusini, che non abbiano lasciato traccia di una simile tragedia i preti locali?

Comunque la notizia data da Urizio al Messaggero Veneto un risultato su di me lo ha avuto. Non berrò più vino che, da che scrive il Messaggero Veneto, potrebbe esser stato prodotto da viti  cresciute su una marea di cadaveri putrescenti, un vero cimitero. Mi dispiace ma sono schizzinosa. E poi, se in una località, segnata come centro di eccidi, vi è  azienda od attività commerciale, e scrivo in generale senza voler in alcun modo offendere alcuno, siamo sicuri che dietro chi testimonia il luogo, se vi sia solo di fatto una testimonianza orale, non vi sia uno che ha avuto qualche problema con la stessa o suoi proprietari o gestori? Ora come allora, in ipotesi poteva accadere che altri motivi spingessero verso denunce e spiate, basti vedere il numero enorme di denunce dopo la prima guerra mondiale in Carnia. Per questo è preferibile che le indagini le svolga la Procura della Repubblica e che si attenda un comunicato ufficiale della stessa. Almeno io penso così. 

Sull’uso delle fonti orali nella storia e limiti delle stesse, rimando al mio Laura Matelda Puppini, Lu ha dit lui lu ha dit iei, l’uso delle fonti orali nella ricerca storica, la storia di pochi, la storia di tanti, in: storiastoriepn.it, e riprendo qui una lettera pubblicata dal Messaggero Veneto il 28 dicembre 2013: «Spesso per sostenere opinioni sulla resistenza o sulla storia del confine orientale, alcuni si richiamano alla testimonianza di una nonna o di altra persona, magari senza riportarne il nome e la data di nascita, e senza che esista, come minimo, registrazione. A lu ha dit lui a lu ha dit iei, pare sia uno dei motivi per sostenere che si è sicuri che sia andata così, e che sia andata così per tutti, generalizzando un’esperienza personale. Ma si sa che, da che mondo è mondo, esistono persone che hanno il vizio di essere “malelingue” o di interpretare fatti solo ed unicamente secondo proprie concezioni e credenze; si sa che i fatti narrati possono subire effetti distorsivi , che possono esser progressivi nel tempo, passando da “un orecchio all’altro”, o dati dal sovrapporsi di letture ed interpretazioni, o da mitizzazioni e demonizzazioni acritiche. Inoltre i fatti narrati risentono di chi è il narratore (fenomeno detto dei punti di vista) e dell’ amplificazione emotiva, che riportano a studi di psicologia; e l’intervista risente del modo di condurre la stessa da parte dell’intervistatore (con possibili errori dello stesso), e di possibili decontestualizzazioni degli eventi. Questi fenomeni sono stati studiati in sociologia ed antropologia, discipline in cui la narrazione è fonte specifica, mentre la metodologia scientifica in storia richiede anche altri strumenti di indagine e l’incrociare fonti. Senza offesa per nessuno e per precisione. Laura Matelda Puppini»

Laura Matelda Puppini

Quale politica per la montangna in questa Italia?

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Il 9 gennaio si teneva ad Alesso un incontro sul lago di Cavazzo, sulle due grosse centrali e sulle centraline carniche e friulane, con riferimento, pure, al problema della politica regionale in un settore così delicato.
Su detto incontro ha relazionato subito la stampa locale, ma forse in modo non esaustivo, e privilegiando la sequela dei politici presenti.

Esso aveva come oggetto, secondo Franceschino Barazzutti che lo introduceva, principalmente, il lago dei Tre Comuni e la sua salvaguardia, ma pure: «Il passamano delle centrali idroelettriche in Friuli», come precisava Piero Cargnelutti il 5 gennaio 2016 sul Messaggero Veneto, sottolineando che «in Friuli si produce energia ma i proventi finiscono nelle tasche di società extraregionali». (Piero Cargnelutti, Non svendete le centraline del lago dei tre comuni, in: Messaggero Veneto, 5 gennaio 2016).
Quindi Barazzutti continuava riassumendo gli aspetti salienti del passaggio di mano delle centrali e centraline carniche e friulane per la produzione di energia elettrica, mai state però, come ben precisava Cargnelutti, in possesso e sfruttamento da parte di enti od agenzie territoriali carnico/friulane. (Ivi).
Per dir la verità ai primi del Novecento, Vittorio Cella, in rappresentanza del gruppo delle cooperative carniche, ed altri avevano cercato di sfruttare, a fini energetici, le acque dei principali fiumi carnici, dopo aver creato, a livello provinciale, l’Ente Autonomo Forze Idrauliche in Friuli, proponendo un progetto globale che superasse la «proliferazione incontrollata delle piccole centraline». (Cfr. Laura (Matelda) Puppini, Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le Cooperative Carniche 1906-1938, Gli Ultimi, 1988, p. 175-192). Ma poi, quando pareva che la possibilità di iniziare i lavori per la derivazione del Tagliamento in zona Avons fosse cosa fatta, era venuto il fascismo, che aveva reso l’Ente inoperante regalando alla S.A.D.E., presieduta dal conte Giuseppe Volpi di Misurata, magnate dell’industria elettrica, Ministro dell’industria dal 1925 al 1928, presidente di Confindustria dal 1934 al 1943, promotore dell’industria di Portomarghera, e prima governatore della Tripolitania, lo sfruttamento delle acque carniche. (Ivi, p. 191).
Ma ritorniamo all’ oggi.

Con un comunicato del 28 dicembre 2015, A2A, la multiutility lombarda che controlla Edipower faceva sapere che, per effetto di un’operazione di scissione, era stato assegnato a Cellina Energy Srl tutto il nucleo udinese costituito dal complesso di impianti idroelettrici di titolarità Edipower, fatta eccezione per le due grosse centrali di Ampezzo e Somplago.
Cellina Energy Srl è interamente partecipata dalla Società Elettrica Altoatesina (Sel srl), «società creata dalle Provincia autonoma di Bolzano, che aveva una partecipazione dell’8,4% in Edipower» (Ivi). Cellina Energy Srl, a sua volta, cedeva le centraline friulane, appena acquisite, a “Edison s.p.a.”, ricevendone in cambio le quote che “Edison” aveva nelle società satellite della stessa, l’altoatesina “SelEdison s.p.a.” e “Hydros”, di Bolzano.
La nuova configurazione, che interessa anche le proprietà degli impianti friulani, è già entrata in funzione con il primo gennaio, e pare essere il frutto della volontà della società altoatesina Sel (ora sparita essendosi fusa con Azienda Energetica s.p.a. a creare Alperia s.p.a.) di rinunciare a diverse partecipazioni esterne per mantenere il controllo dell’energia locale in Sud Tirolo: «Ora le società pubbliche – ha dichiarato Arno Kompatscher, presidente della Provincia di Bolzano – potranno attuare politiche energetiche e tariffarie per i cittadini». (Ivi).
Di fronte a questa situazione, che vede ben 26 centrali friulane passare di mano in mano, i comitati carnici per l’acqua intendevano aprire la discussione sulla possibilità che la Regione si occupasse direttamente dell’energia che viene prodotta sul suo territorio ed allo stesso tempo cercasse di attuare politiche di sviluppo del settore a vantaggio degli abitanti delle zone montane.
Il problema, a mio avviso, è di rilevanza notevole. In sintesi noi abbiamo la materia prima, ma non la sfruttiamo. Quanto valga per esempio lo sfruttamento della sorgente di Fleons, a Forni Avoltri, non perché sia esempio da seguire ma per capire quanto vale ora l’acqua, è presto detto: da che si legge su L’Adige del 28 gennaio 2014 la Società Goccia di Carnia, in quella data in mano a “Avm private equity”, milanese, che stava assorbendo la Pejo da San Pellegrino, aveva chiuso il bilancio, l’anno precedente, con un attivo del 3%, 20 milioni di euro di fatturato e 140 milioni di bottiglie vendute. (Nicola Guarnieri, Acqua Pejo sposa Goccia di Carnia, in http://www.cisltn.it/…/rass…/2014/01/20140128LAdige1.pdf).

Ma per ritornare all’incontro, Franceschino Barazzutti faceva notare come in consiglio regionale fosse stato presentato, nel corso del 2015, un ordine del giorno trasversale, chiedendo un disegno di legge sulla gestione dell’energia idroelettrica, per non giungere impreparati ma competitivi al 2020, data della scadenza delle concessioni in uso per le due grandi centrali di Ampezzo e Lago dei Tre Comuni, in funzione del tentativo di raggiungere l’autonomia anche in detto importantissimo settore.
Il problema però, secondo me, è come mai la Regione Friuli Venezia Giulia non sia intervenuta nell’acquisto delle centraline, lasciando in mano a privati la gestione e lo sfruttamento anche delle ultime acque carniche e friulane. Infatti nel 2015 essa ha prodotto il “Piano regionale di tutela delle acque (PRTA)”, strumento previsto all’articolo 121 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, avente lo scopo di descrivere lo stato delle acque nella nostra Regione e di definire le misure per il raggiungimento degli obiettivi di qualità attraverso un approccio di tutela della risorsa, di garanzia del minimo deflusso vitale ed attraverso il risparmio idrico. Ma detto piano prevede pure interventi per la sostenibilità dello sfruttamento delle risorse idriche. Naturalmente il Piano doveva avere una fase attuativa. Che ne è stato?
Eppure a Tolmezzo, come in altri centri regionali, nel 2015 era stato pure previsto un incontro -convegno, svoltosi il 5 maggio 2015, con argomento: il Piano di gestione 2015 – 2021, direttiva quadro acque 2000/60/ce, per il distretto idrografico delle Alpi Orientali, ed in particolare: «l’incidenza della pressione determinata dall’uso idroelettrico sullo stato complessivo delle acque del Friuli Venezia Giulia», «La definizione dell’algoritmo di calcolo del deflusso minimo vitale in Friuli Venezia Giulia», «Le misure del Piano Regionale di Tutela delle Acque – Uso Idroelettrico», «Le misure del Piano di Gestione delle Acque per i corpi idrici in relazione all’uso idroelettrico». (http://www.regione.fvg.it/rafvg/cms/RAFVG/ambiente-territorio/pianificazione-gestione-territorio/Foglia20/). Ma poi … Ma poi?
Non si sa, infatti, perché la Regione Friuli – Venezia Giulia non abbia tentato di presentarsi come acquirente delle centraline, allo scadere delle concessioni, come suggeriva anche Enzo Marsilio, ma forse tardivamente. Vi è chi ipotizzava la mancanza di un ente preposto da crearsi all’uopo, ma vi era anche chi diceva che forse in regione non si conoscono le potenzialità del già esistente B.I.M.
Comunque ci si deve presentare preparati alle prossime scadenze del 2020-2021, in modo che la Regione F-vg, superando gli schieramenti politici, possa acquisire almeno le 5 piccole centrali della Val Meduna ed almeno una parte di quella grossa di Somplago, iniziando a trattare con Edipower e vedendo come fare sin da ora.

Nella parte conoscitiva dell’PRTA, il Tagliamento, a valle di Ospedaletto, viene considerato come corpo idrico fortemente modificato. Il piano prevede, pertanto, lo studio di azioni di mitigazione del fenomeno e una valutazione costi/benefici delle possibili alternative agli usi specifici esistenti. Una soluzione evidenziata è quella di prendere in considerazione il progetto di realizzazione di una condotta di collegamento tra il lago di Cavazzo e il sistema derivatorio Ledra – Tagliamento, per garantire il fabbisogno di acqua per fin irrigui del Consorzio Ledra-Tagliamento da un lato, ed il miglioramento degli ecosistemi acquatici del fiume Tagliamento a valle di Ospedaletto dall’altro. In detto contesto, veniva ipotizzata, pure, la realizzazione di un canale di by – pass che convogliasse direttamente le acque della centrale di Somplago all’emissario del lago di Cavazzo, come da progetto dell’ingegner Dino Franzil, (http://comitat-friul.blogspot.it/2012/10/salviamo-il-lago-di-cavazzo.html), con lo scopo di recuperare le condizioni di naturalità del lago stesso. (Progetto di piano regionale di tutela delle acque. Lago Cavazzo).

Di questo si è parlato, pure, ad Alesso, e Franceschino Barazzutti ha sostenuto con forza che si deve prima bypassare l’acqua della centrale di Somplago e poi dare risposta ai problemi del Consorzio in questione, pena l’avere un ulteriore problema. Si è inoltre ribadita l’importanza di seguire le linee dettate dalla conferenza sul clima di Parigi del 2015, modificando il piano energetico regionale che volge ancora, per esempio con la centrale a gas di Monfalcone, all’utilizzo di combustibile di origine fossile. Infine bisogna guardare ad esempi positivi già presenti sul territorio, come Secab, e tendere all’autogestione delle risorse idriche ed ambientali e loro sfruttamento. Ma per questo argomento rimando ai miei precedenti sempre su: www.nonsolocarnia.info.

PERÒ ALLA BASE DI SCELTE TERRITORIALI IMPORTANTI VI È ANCHE IL DISCORSO DELLA PROGETTUALITÀ PER L’INTERO TERRITORIO MONTANO E DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA. PARE CHE LA REGIONE F-VG E LO STATO PENSINO SOLO IN TERMINI DI TAGLI ALLA SPESA, DI FARE CASSA, E NON RIESCANO AD USCIRE DA QUESTA LOGICA, QUANDO BASTEREBBE INTERVENIRE SULL’EVASIONE FISCALE ED I MANCATI INTROITI DA LAVORO NERO E CORRUZIONE.

Ieri ho ascoltato l’incontro di presentazione del volume di Tanja Ariis, La Montagna degli Altri. Diventare montanari e inventarsi un lavoro, Andrea Moro ed., organizzata dalla Cooperativa Cramars, da sempre interessata ai problemi del lavoro in montagna, e presente con le sue iniziative sul territorio.
Sono intervenuti anche un operatore in proprio nel settore agroturistico, l’austriaco Kaspar, il gestore del campeggio di Tramonti di sotto, un grafico milanese che vive ad Oltris, ricercando la natura incontaminata, come ormai molti fanno, almeno da turisti.

Bisogna riconoscere che l’austrico Kaspar, più degli altri anche se non da solo, ha toccato i punti dolenti del vivere ed operare in montagna. Non si può vivere in montagna se i paesi si spopolano, e bisogna creare le condizioni per un “ripopolamento”.
Non basta avere un ambiente non troppo alterato dall’uomo: bisogna anche mantenerlo, sfalciando, pulendo i boschi ed i rii, pena disastri ambientali a nord come a sud. Non per nulla, penso io, sempre quei cooperatori carnici, da cui dovremmo trarre preziosi insegnamenti, crearono un “Ente Economia Montana” con scopi di sistemazione idraulico forestale dei bacini montani, di messa in valore della proprietà terriera, non certo attraverso la vendita a o lo sfruttamento da parte di ditte oltre confine, la realizzazione di piani e progetti, lo sviluppo del settore agro-alimentare e della pastorizia. Naturalmente il fascismo pose fine all’Ente. (Laura Matelda Puppini, Cooperare per vivere, cit., pp. 192-196).
Ma per tornare al presente, la burocrazia italiana pare peggiore persino di quella, però efficiente, dell’impero Austro- ungarico, le leggi sono troppe, lunghissime, interpretabili, come del resto quelle regionali.
Mio padre, Geremia Puppini, direttore didattico prima, ispettore scolastico poi, mi diceva un giorno che dopo la guerra si erano fatte poche leggi e chiare, ma poi il Paramento legiferò sempre più con il risultato di giungere ad un numero altissimo di leggi, lunghe, spesso agostane, farraginose.
Le tasse sono alte, per chi vive in montagna e “paga di più tutto” e, secondo Kaspar e non solo, si controlla, dal punto di vista fiscale, chi si mantiene con il proprio lavoro anche in zone “impossibili” e belle come la Val Aupa, in modo quasi assillante, mentre si sa di una reale evasione fiscale per miliardi.
Detassare la montagna non pare possibile secondo la Costituzione, ed allora che fare? Dare incentivi, ma in che modo ed in che tempi, con quali garanzie e per cosa?

Ed allora ritorniamo ad una proposta di “progetto montagna” che peschi da quanto già scritto attualizzando,  che veda il territorio nelle sue variabili socio-economiche complessive e nella sua richiesta di lavoro e parziale autonomia. Ma abbiamo ora le forze e le leggi per realizzarlo? Probabilmente sì ma non serve solo tacere e parlare al bar, o attendere la visita dell’assessore di turno, serve anche proporre e far tesoro dell’esperienza pregressa. Ma invece in Italia si amano le novità, senza sapere che tali non sono, ma sono il riproporsi di una vecchia e superata politica che non guarda lontano.

Ora, per esempio, pare proprio che, per salvare le banche, dall’alto del suo potere, e sicuramente con la benedizione di Renzi perchè “non si muove foglia che Renzi non voglia”, come ci ha insegnato lui stesso, la ministra Maria Elena Boschi, con decreto legge, abbia permesso la vendita anche delle prime case ipotecate per mutui già concessi, non si sa con che modalità, ricavo ecc. (Nuovo regalo alle banche: via libera all’esproprio delle case, in: http://quifinanza.it/soldi/regalo-alle-banche-via-libera-allesproprio-delle-case/57718/). «Il provvedimento del governo italiano punta ad agevolare in ogni modo le vendite forzose degli immobili da parte delle banche e si muove in parallelo alle norme che il governo ha introdotto a proposito delle garanzie di Stato sulle sofferenze bancarie». (Ivi). E «Per accelerare al massimo il recupero dei crediti inesigibili da parte degli istituti di credito, il governo ha […] cancellato l’articolo 2744 del codice civile, che vieta il cosiddetto “patto commissorio” e cioè “il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore”. Il superamento di questo divieto permette quindi alle banche di entrare direttamente in possesso dell’immobile e metterlo in vendita per soddisfare il proprio credito qualora il mutuatario sia in ritardo con il pagamento di 7 rate, anche non consecutive». (Ivi). Ma dato che il mercato immobiliare è fermo, venderanno o svenderanno? O venderanno appartamenti ambiti a poche lire ad amici o che ne so? In Italia ormai “A pensar male non si fa peccato” anzi si potrebbe esser tacciati di sano realismo.

Fermiamoli e fermateli, mandateli e mandiamoli a casa, prima che per i privilegi di pochi costringano noi italiani all’accattonaggio all’estero. No se ne può più di questo governo, che dei cittadini se ne …. Migrate ragazzi, migrate, qui è aria solo per i ricchi già noti. Questa è l’ennesima trovata, arbitraria e con abuso di decreti legge, per impoverire i cittadini, bloccare la già stagnante economia, improvvisare sulla pelle altrui, almeno secondo me. E se erro correggetemi.

Ma per ritornare alla montagna, abbiamo bisogno di servizi per operare e vivere nel nostro territorio reso sempre più marginale, in una Italia ai margini, non certo del loro accorpamento in pianura; abbiamo bisogno della garanzia di avere un servizio sanitario efficiente nelle vicinanze, non uno ulteriore privato ma accreditato ad Udine, ove una clinica convenzionata chiede di esser trasformata in ospedale hub regionale attraverso trattativa privata con l’assessore di turno, come pare dal Messaggero Veneto di domenica 28 febbraio 2016, (Giacomina Pellizzari, Terapia del dolore sospesi i ricoveri, in Messaggero Veneto 28 febbraio 2016) mentre i gemonesi chiedono da tempo che venga mantenuto il loro ospedale che serve la montagna, e la cui soppressione non si sa se dia neppure i grossi vantaggi economici sperati dall’assessore Telesca e dal dirigente Marcolongo. Ma state tranquilli, ci hanno riempito di reclame sui vantaggi della riforma sanitaria regionale, dobbiamo solo credere a quanto scritto. (Pieghevole in patinata, ed a colori dl titolo: “Nuova sanità. Come cambia? A cura della Regione Autonoma Friuli -Venezia Giulia), Fra l’altro si guardi all’estero e si vedrà che i pronto soccorso non vengono certo tagliati o ridimensionati, come credo i reparti di medicina interna, cosa che invece dovrebbe accadere per il San Michele a fine marzo, magari per mantenere con fondi regionali e non statali un reparto di eccellenza per una ventina di trapianti di cuore ed un paio di super specialistiche, gestibili con altre di regioni contermini, ed adeguatamente e prioritariamente finanziate dallo stato e da un fondo specifico interregionale, visto la tipologia dell’utenza.

Serve banda ultralarga in montagna, serve UWB, non una chiavetta, serve ripensare il lavoro e l’imprenditoria in funzione di una economia locale legata al territorio, serve slegare, nell’agro alimentare, produzione da commercializzazione. Lo stato non può fare, come invece ha fatto, riforme epocali come quella delle ricette unicamente on-line, elettroniche, senza sapere se sia ovunque realizzabile, e sulla quale si sono espressi, relativamente ai problemi che comporterebbe per la Carnia ma anche per alcune realtà della bassa friulana, sia il presidente dell’ordine dei medici di Udine dott. Maurizio Rocco che il dott. Luigi Conte, segretario generale della Federazione Nazionale dell’Ordine dei medici. (Ricetta elettronica la via ma senza la banda larga i medici non ce la fanno, in Messaggero Veneto, 28 febbraio 2016).

Bisogna che i politici siano preparati, educati, formati alla politica, e non copino solo i modelli avuti ed in atto, cioè quelli riferibili ai governi Berlusconi e Renzi; che ripensino a che significa ricoprire una carica politica al servizio del cittadino elettore, che facciano in modo che nessuno si senta solo davanti al comune, alla provincia alla regione, ma invece pare che la solitudine, davanti alle istituzioni, sia caratteristica montana. Vai a chiedere e non trovi risposte, diceva uno sabato, o devi andarci mille volte o … Non serve, secondo me, perdere tanto tempo prezioso e sottratto ad altro per le fisse delle U.T.I. , come fossero problema di vita o di morte, di efficienza o meno, di risparmio o meno: che siano tali non è provato ed esistono anche i problemi di attaccamento alla comunità non solo quelli degli “euro sonanti”. Si può spendere meglio meno e bene. Doniamo acqua, gratis, che è nostra a ditta esterna e dovremo pagarle le bollette imposte, sperando di avere soldi per farlo creando capitale loro con lo sfruttamento di un bene nostro. Non utilizziamo le risorse locali, ci lasciamo irretire dal discorso della centralizzazione per il bene del paese, inseguiamo, a livello politico, ancora una volta il modello dominante, caratterizzato dall’improvvisazione e dalla “voglia di fare” senza pensare. Fermiamoci a pensare, e dopo agiamo ma su un programma attuativo, senza dividerci in filo governativi e non, almeno su alcuni temi economici che implicano un discorso di cittadinanza attiva, non di sottomissione al padrone. E chiediamo con forza a chi ci rappresenta cosa vogliamo. Si può fare insieme, in montagna, non si può fare da soli.

Lo sfalcio ed alcuni servizi ambientali, per esempio, possono esser affidati ad una cooperativa fatta da giovani locali, prendendo ad esempio la Cooperativa Cadore Scs, munita di mezzi adeguati, superando “una famiglia una falciatrice”, ma anche studiando forme di co- working tanto per dirne una. E rimando al mio: “Montagna, imprenditorialità, cooperazione: con l’anpi a Paluzza”, in: www.nonsolocarnia.info.
Bisogna scegliere forme di turismo sostenibile, non i desiderata di tutti, si deve pensare a brevi tragitti a piedi in forma di marcia non competitiva, portando le famiglie sul territorio, bisogna investire in tutela e manutenzione dell’ambiente e delle sue ricchezze anche artistiche o legate alla storia materiale, in forma comune, bisogna promuovere, pure, lo sport in forma piacevole e non solo agonistico competitiva, bisogna ricordarsi che la Carnia fu terra di cultura ed economia, e fu la culla del gruppo delle Cooperative Carniche, e ben venga nuovamente, come organo deliberante non più commissariato la Comunità Montana. E si guardi anche ai vicini all’estero: a forme già sperimentate di economia montana ed a come si sono risolti problemi comuni. Ma bisogna anche leggere, informarsi, viaggiare, studiare, come ci insegna quella Comunità Carnica che, nel lontano 1953, mandò Romano Marchetti, mio padre, Alessandro Tarlao albergatore, l’ispettore forestale Filaferro, in Svizzera, a vedere come si rispondeva ad alcune tematiche della montagna. Altrimenti a che serve l’Europa se non ad impoverirci togliendoci tutto ed a farsi maledire?

E rimando ai precedenti sempre su www.nonsolocarnia.info:

“Lettera aperta a Regione e Sindaci della Carnia sulla gestione del sistema idrico. Proposta di un consorzio pubblico”.  – “Carnia. Verso altre forme di turismo possibile che coniughino arte e paesaggio”.  – “Montagna, imprenditorialità, cooperazione: con l’anpi a Paluzza”. –  “Negli anni ’30, il New Deal fece uscire gli U.S.A. da una crisi senza precedenti. E noi come usciremo dalla crisi?” –  “Quali proposte per il futuro della Carnia e della montagna friulana? A margine degli Stati generali per la montagna, recentissimi…”. –  “Anziani ed informatizzazione”. – “Anziani in aumento: quale assistenza, quali problemi ed oneri? Chiediamocelo”.  – “Ancora sulla riforma della sanità, sulle criticità comuni, su quel laboratorio analisi, piano emergenze, proposte per il San Michele di cui nulla si sa, e sulle parole che seguono a parole….”. –  “Aspettando Robin Hood …..quei poveri che aumentano sempre di più… anche in Friuli”. – “Messaggero Veneto del 25 marzo: il dott. Pietro De Antoni sul San Michele di Gemona. Ospedali: destini legati in Alto Friuli”. – “Da Franco D’ Orlando: sulla Riforma Autonomie locali e il manifesto della montagna 2013”. –  “Su quei comuni che paiono troppo piccoli… almeno in Italia”. –  “Economia, finanza, speculazione, democrazia, costituzione e servizi”. –  “Quei tribunali minori che resteranno per sempre chiusi”. –  “Note sulla riforma sanitaria in Friuli Venezia Giulia”. E rimando sempre al mio: “Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le cooperative carniche, 1906-1938, Gli Ultimi, 1988, sempre su www.nonsolocarnia.info.

In questo articolo, come in altri, esprimo mie opinioni, che come tali sono opinabili, senza voler offendere nessuno, e se erro correggetemi.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è stata da me scattata negli anni ’80.

Tradizioni, Santi Sepolcri e processioni per la Settimana Santa, in Canal del Ferro, Val Canale, ed altri luoghi.

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Essendo vicini alla Pasqua, ho deciso di pubblicare la terza parte della mia piccola rassegna sui riti nella settimana santa, questa volta con particolare riferimento alla Val Canale e Canal del Ferro. Pongo, in premessa, una parte, da me tradotta dal friulano, presa da un eccellente lavoro di Renzo Balzan (Edelweiss): Tradizion e usancis tal timp di Pasche Maiòr, Andrea Moro ed., 2014, che pubblico con il permesso dell’autore.

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La grande festa, in casa di Zuan, era la Pasqua. Per i bambini scoppiava la mattina della domenica quando uno o l’altro di loro, dopo lunga attesa, indossava i pantaloni nuovi o quello più grandicello metteva le scarpe, le prime grandi e con la punta “americana” che non facevano male ai piedi, tanot grandi che dovevano dirare sempre e che Tita le aveva usate anche il giorno delle nozze.
Le donne e le ragazze, invece, cominciavano Pasqua il venerdì Santo, quando toglievano pentole e ciotole, e staccavano i secchi e portavano fuori la rastrelliera della cucina sul selciato. Poi incominciavano a fregare il rame con un misto di farina e aceto e ponevano i bricchi ed i coperchi, lucenti, sui balconi.
Per Zuan, invece, prima della Resurrezione veniva la “Passione”, che iniziava il mercoledì santo, quando le campane della pieve suonavano l’inizio delle funzioni della Settimana Santa. Zuan, allora, abbandonava i suoi strumenti di lavoro, si lavava viso e mani, poi mandava a prendere la giacchetta di velluto per i giorni della festa, si pettinava i baffi, e tirava fuori dal cassetto il libro nero degli”Uffici”, vecchio, con i punti di cucitura grossi ed i fiocco rosso a tenere il segno sulla prima lamentazione del porfeta Geremia. (Balzan Renzo, Tradizione ed usanze nel tempo di Pasqua, Andrea Moro ed., 2014, p.3).

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Nella settimana Santa i bambini si recavano presso le ricche famiglie del paese a prendere le catene del focolare che poi, con gran fracasso ed allegria, trascinavano lungo le strade e gli acciottolati. Le portavano indietro pulite dalla fuliggine e lucenti, ed in cambio ricevevano qualche soldino. Durante le giornate in cui le campane tacevano, le funzioni in chiesa erano accompagnate dal suono di “scraçulis e batacui” , raganelle e pendagli, di diversa forma e grandezza.

Il venerdì santo nessuno lavorava, si pregava, e le preghiere di quella giornata avevano una virtù particolare, che veniva così descritta: «Tante stelle sono nel cielo, tante gocce sono nel mare, tanti peccati Dio ci può perdonare». Si credeva, pure, che il vino bevuto in quella giornata, si tramutasse tutto in sangue.
La sera del venerdì santo si svolgeva la tradizionale processione, accompagnata dal rumore di “scraçulis e batacui”, raganelle e pendagli. Le vie erano illuminate da stoppini imbevuti di petrolio, a cui si dava fuoco quando la processione si avvicinava. (Ivi, p. 13).

Il venerdì Santo è il giorno in cui le campane tacciono, il giorno del rumore delle raganelle, il giorno della processione della via Crucis. Durante la settimana santa si svolgevano, pure, sacre rappresentazioni e rituali di penitenza, come le flagellazioni, ora vietate.

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In alcuni paesi vengono allestiti i Sacri Sepolcri, di origine medievale. Nei Sepolcri del goriziano, e non solo, ad esser rappresentati erano soprattutto i soldati romani posti a guardiare la tomba del Signore, mentre Gesù veniva collocato disteso, coperto da un velo. La sua grandezza era sempre minore di quella delle guardie, ed intorno al Sepolcro venivano poste piante, lumini, fiori. L’usanza di costruire il Sepolcro monumentale, con assi leggere di legno, è presente anche in Carinzia ed in Slovenia (Ivi, p.62). Le famiglie, a turno, si avvicendavano nella preghiera, e nella veglia. (Ivi, p.62)»

Nel Tirolo austriaco, invece, sono gli gli altari ad esser addobbati a festa durante il Venerdì Santo della Settimana Santa, in preparazione della Pasqua, ed ad esser allestiti come Sepolcri  – ci ricorda Alessio Varisco. (Alessio Varisco, I Santi sepolcri nella settimana di Passione in Austria, in: http://www.antropologiaartesacra.it/). Infatti come precisa Bartolo Salone, «Il termine “sepolcro” viene utilizzato ancor oggi nel linguaggio popolare di alcune regioni del Sud Italia per indicare quello che più propriamente andrebbe definito come “altare” o “cappella” della reposizione. L’altare della reposizione, per intenderci, è quello “spazio” della chiesa allestito al termine della “missa in cena Domini” del Giovedì Santo destinato ad accogliere le specie eucaristiche consacrate e a conservarle fino al pomeriggio del Venerdì Santo, quando, al termine della liturgia penitenziale, verranno distribuite ai fedeli per la comunione sacramentale». (Bartolo Salone, I Sepolcri del giovedì Santo fra fede e tradizione, in: http://www.laperfettaletizia.com/2012/04/)

«Quest’opera di ingegno, talune volte una vera e propria merlettatura di fiori profumati che aumentano oltremodo la suggestione, si svolge […] in molti piccoli centri. Meticoloso e grande il lavoro che gravita intorno agli altari che consentono di ricostruire in maniera plastica -delle volte estremamente fantasiosa, ma comunque bella ed espressiva- il Santo Sepolcro. Il prototipo è il sepolcro di Gesù Cristo in Gerusalemme. (…). Tutti questi gesti -siano essi fiori intrecciati in corone o architetture riproducenti a livello mensurale o in proporzione l’edicola della Sepoltura nella Chiesa della Risurrezione gerosolimitana- esprimono non solo degli ornamenti votivi, bensì in essi è possibile scorgere la grande devozione del popolo e la grande venerazione per il Redentore, […]. Quest’usanza collezionò un ampio consenso nei tempi trascorsi ove davanti alle chiese ed alle cappelle si dava spesso seguito ad una veglia. Tale prassi con l’alternanza di guardia organizzata è ciò che accade in Austria ancora oggi presso alcune località tirolesi in cui si celebrano veglie per presidiare il Sepolcro» (Ivi.). Tale usanza, sempre secondo Varisco ebbe il suo apice «nell’età barocca, seppure sul finire del Settecento e gli inizi dell’Ottocento si giunse a bollarla come “forma di venerazione infantile” per poi -in seguito- addirittura proibirla. Fu così che andarono smarrite molte preziose opere artistiche di quell’epoca così fervida di pietà popolare, significativi esempi di devozione. La tradizione riprese nuovamente piede solamente dopo la seconda metà del XX secolo quando furono ricostruiti ed agghindati con passione nuovi altari». (Ivi). I più prestigiosi Santi Sepolcri del Tirolo sono nella chiesa: di St. Andrä a Lienz, di Patscch, di S. Valentin presso Nauders e di Laurentius a Wattens, risalenti ad un periodo fra metà 1700 e metà 1800, ed ognuno ha sue caratteristiche peculiari, descritte da Varisco. (Alessio Varisco, op cit.. Cfr. anche: Pasqua. I Santi sepolcri pasquali in: http://www.tirolo.com/eventi-primaverili).

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Per quanto riguarda l’alta Val Canale, in diverse chiese, per esempio in quelle di Pontebba, San Leopoldo, Ugovizza, Valbruna, Cjampros di Tarvisio, veniva allestito il Santo Sepolcro, (Renzo Balzan, op. cit., p.56) mentre il Canal del Ferro viene ricordato maggiormente per le Processioni del Venerdì Santo.

Ad Ovedasso, frazione di Moggio Udinese, la processione si svolgeva nelle vie del paese in orario tale da non interferire con quella che avveniva a Resiutta. Infatti il Venerdì Santo gli abitanti di Resiutta, cioè i resiuttani, salivano in processione al monte Calvario, ed erano ben visibili da Ovedasso. A chiusura della processione vi erano qui come là, dei giovani che scandivano il ritmo delle preghiere con la batule (attrezzo composto da una tavoletta percossa da un martello). Anche a Resiutta si ricordano dei ragazzi che accompagnavano con forte rumore la processione. (Antonino Danelutto, La religiosità nel Canal del Ferro: i percorsi del sacro, in: L’incerto confine, quaderno n.7 dell’Associazione della Carnia Amici dei Musei e dell’arte, 2000, p. 113). Per quanto riguarda la chiesetta costruita sul monte Calvario, si narra che vi fosse, ai tempi dei turchi, una casetta dove la ragazze andavano a ballare ed a divertirsi con gli ufficiali di quell’esercito. Alla fine della guerra, per riparare allo scandalo, la casa fu demolita ed al suo posto fu costruito l’edificio sacro. (Ivi, p. 112).

Particolare -scrive Antonino Danelutto- è tuttora la processione del Venerdì Santo che da alcuni anni prende avvio da Raccolana, mentre prima si svolgeva solo per le vie di Chiusaforte. Lungo il percorso si può ammirare una grande croce luminosa costruita sopra l’abitato di Raccolana, sul ripido pendio del monte Jame. La croce viene illuminata con 129 candele infisse nel prato sfalciato, ma originariamente venivano utilizzate le conchiglie delle chiocciole riempite di olio raccolto fra la popolazione del borgo, mentre lo stoppino era fatto di cotone per i calzetti, e resta accesa per tutta la durata della processione. Fino agli anni ’50 le processioni venivano disturbate dalle incontenibili raganelle (crâçulis) che si facevano sentire rumorosamente anche in chiesa, sovrastando quella più grande (crâçulon) in dotazione del nonzolo. Poteva poi accadere che il sacerdote avesse difficoltà in chiesa a portare a termine l’officiatura. Da note dell’ archivio parrocchiale si viene a sapere che «Una volta si inginocchiò davanti al popolo, supplicandolo di avere miglior contegno, un’altra volta il chiasso, fatto anche da donne e ragazze munite di raganelle, era così assordante che «i cantori non si capivano fra loro e il sacerdote, dopo aver interrotto più volte la predica, sospese la funzione e se ne tornò in canonica». (Antonino Danelutto, op. cit., pp. 113-114). Infine, dal 1923, si decise di far intervenire alla officiatura anche la forza pubblica, e tutto si svolse più regolarmente.
Inoltre il giorno del venerdì santo a Raccolana, i paesani, invece di salutarsi con “bondì e mandi” come sempre, si scambiavano come saluto: «Sia lodato Gesù Cristo» a cui si rispondeva: «Sempre sia lodato». (Ivi, p. 114).

Anche a Saletto, attualmente frazione di Chiusaforte, si svolgeva la tradizionale processione del Venerdì Santo., che veniva talvolta abbellita da croci luminose distese sui prati della località Cju Câli. (Ivi, p. 114).

A Dogna la processione del Venerdì Santo avveniva solo nel capoluogo. In fondo alla processione e nelle viuzze laterali, venivano posizionate grandi raganelle che disturbavano i canti e le preghiere, mentre in chiesa era ammessa una piccola raganella che aveva il compito di sostituire il campanello.
Alcuni giovani, poi, seguivano il corteo con gabbie di uccelli da richiamo, il cui canto simulava il pianto per la morte di Gesù.
Le case erano illuminate con candele e globi veneziani, dalle finestre pendevano tappeti, drappi e copriletti ricamati e venivano esposte immagini sacre.
Ai lati del percorso della processione veniva sparsa della segatura che, impregnata di petrolio, veniva accesa durante il passaggio del corteo.
«C’è ancora- scrive Danelutto – chi ricorda un vecchio falegname che abitava in paese: al passaggio della processione esponeva sulla soglia di casa una bara aperta che conteneva un crocefisso di legno». (Ivi, p. 115).
Per tutta la giornata di Venerdì Santo e fino alle 10 di Sabato, i paesani si salutavano con “Diu nus salvi”. (Ivi, p. 115).
Il Sabato Santo, dopo il suono del Gloria, gli anziani uscivano dalla chiesa ed andavano a bere alla fontana pubblica l’ “acqua nuova”. (Ivi, p. 115).

A Pontebba, invece, la Domenica delle Palme giungevano e giungono ancora in processione alla parrocchiale i fedeli di Pontafel con rametti di ulivo in mano.

E sempre a Pontebba, la processione del Venerdì Santo, fino a qualche anno fa, veniva allietata dalla banda musicale. Essa sfilava per le vie del paese tra luminarie, fuochi di artificio, palloncini alla veneziana, e veniva preceduta da un anziano che portava una pesante croce di legno, che veniva percossa con dei bastoni da due giovani vestiti con una tunica bianca. (Ivi, p. 115).

Per quanto riguarda la Val Canale, A San Leopoldo, come ad Ugovizza, si teneva una processione il Sabato Santo, detta “Processione della Resurrezione”. Durante la benedizione, a San Leopoldo, venivano sparati mortaretti a spese della chiesa. (Ivi, pp. 132-133).

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Santi sepolcri vengono costruiti anche in altre Regioni d’Italia, per esempio in Sicilia, ma da che mi narrava l’architetto Valerio Risadelli anche in Calabria, a Catanzaro, ove si fa a gara, fra più chiese, ad allestire il sepolcro più bello.
Ed infatti questo ho trovato su: catanzaroinforma del 2014. «È entrata nel vivo la celebrazione del Triduo Pasquale. Da ieri sera tantissimi catanzaresi si sono riversati nelle chiese della città per fare visita ai Santi Sepolcri esposti dopo la Messa in Cena Domini […]. Corso Mazzini è stato attraversato da migliaia di fedeli che anche quest’anno hanno voluto fare visita agli altari della reposizione – rigorosamente in numero dispari – raccogliendosi nella preghiera e nella riflessione più intima ringraziando Gesù […]. Un trionfo di colori ha caratterizzato gli addobbi allestiti dalle diverse parrocchie con tanti fiori a fare da ornamento e vasi germogliati di semi di grano come simbolo di vita». (Si rinnova il rito dei Sepolcri nelle chiese di tutta la città, 18 aprile 2014, in: http://www.catanzaroinforma.it/).

Come si presentano in Tirolo attualmente, i Santi Sepolcri lo si può evincere dall’articolo di Silvia Spada Pintarelli: I Santi Sepolcri in Tirolo, in: http://www.emscuola.org/labdocstoria/storiae/storiaeRD/StoriaE-2010-123/dossier18/pdf/Chiese3_04.pdf.

«Si tratta di costruzioni effimmere, spesso realizzate in legno sagomato e dipinto, che all’interno di un impianto architettonico che può assumere fogge diverse, rappresentano scene della Passione di Cristo, Cristo stesso deposto nel sepolcro e, dopo Pasqua, Cristo risorto. Attorniati da bocce di vetro contenenti liquidi di vari colori illuminate dal retro dalle fiamme delle candele, alle volte decorati con piante, creano un’atmosfera di grande suggestione che induce nello spettatore un forte impatto emotivo e lo coinvolge direttamente nel compianto per il Cristo morto.
L’esistenza di Santi Sepolcri è documentata già dal tardo medioevo. I più antichi erano costituiti da una cassa sopra la quale veniva deposta la statua di Cristo morto. Nella notte di Pasqua la statua veniva nascosta all’interno della cassa e sostituita con l’immagine di Cristo risorto che veniva quindi ‘assunta’ in cielo tramite una corda fissata ad un anello posto sulla sommità della testa dell’immagine stessa, e fatto sparire entro il soffitto della chiesa.
A partire dal Cinquecento, in clima controriformistico e soprattutto per impulso dei Gesuiti, il Santo Sepolcro conosce sempre maggiore diffusione, raggiungendo nel Sei e Settecento, forme molto complesse, espressione tipica del gusto barocco per la rappresentazione illusionistica e teatrale. All’interno delle cappelle laterali delle chiese, ma anche nel presbiterio, vengono allestite grandi “macchine” con architetture prospettiche, colonne utilizzate come quinte, archi, scalinate e balaustre entro le quali si inseriscono le figure della rappresentazione.
Un fondamentale modello per questo Santi Sepolcri è costituito dai disegni e progetti di Andrea Pozzo (Trento 1642 – Vienna 1709), grande architetto, pittore, decoratore e teorico dell’arte».

Certamente in moltissime regioni d’ Italia si possono reperire tradizioni simili, ma non posso certo contenerle in un articolo. Invito pertanto i lettori che volessero approfondire l’argomento, a cercare da soli qualche articolo nel merito.

Nel concludere rimando ai miei due precedenti sempre su questo sito/blog e relativi alla Carnia: Laura Matelda Puppini, Usanze della Settimana Santa in Carnia. (Ultimo aggiornamento lunedì di Pasqua 2015), Laura Matelda Puppini, Usanze della Settimana Santa in Carnia, parte seconda, in particolare a Treppo Carnico. Da Manuela Quaglia, ambedue in: www.nonsolocarnia.info.

Laura Matelda Puppini

Marco Puppini. Foibe e fosse comuni: una riflessione.

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Ai primi di novembre dell’anno passato veniva dato sulla stampa locale grande rilievo, senza in realtà mostrare nulla, ai risultati della spedizione di alcuni ricercatori sponsorizzati dalla Lega Nazionale, con l’appoggio del senatore Maran e finanziamenti, a quanto pare, del comune di Gorizia presso l’archivio del Ministero Affari Esteri. Stando ai titoli, i fortunati e tenaci ricercatori (così erano stati dipinti) avevano trovato in quell’archivio un elenco nominativo di 1.023 deportati, o infoibati, del comune di Gorizia. Oltre al suddetto elenco i ricercatori avrebbero fotocopiato un migliaio di documenti in grado di offrire la verità definitiva su quanto avvenuto a Gorizia al termine della seconda guerra mondiale. Un impresa dal momento che, se le cose non sono cambiate da quando io frequentavo quell’archivio, ogni ricercatore deve arrangiarsi a fare le copie da se inserendo gli spiccioli in un numero piuttosto ridotto di macchine. Il 20 novembre Clara Morassi Stanta, presidente del Comitato dei Congiunti dei Deportati in Jugoslavia, chiedeva due settimane di tempo per incrociare i dati in possesso del Comitato stesso con i nuovi forniti dal gruppo di ricercatori, e rendere pubblici i risultati. Dal canto suo Urizio, presidente della Lega Nazionale di Gorizia, arrivava a supporre di dover integrare con molti altri nomi il lapidario dedicato ai 665 goriziani deportati a fine guerra dai partigiani jugoslavi che non avevano fatto ritorno.

Siamo ormai ai primi di marzo 2016 e non abbiamo ancora visto nulla. Da ignorante in tema di foibe, ho l’impressione che l’elenco non sia molto differente da quello di 1.048 deportati fornito nel marzo 2006 da Natasa Nemec, allora direttrice del Museo di Nova Gorica, al sindaco di Gorizia ed alla stessa Clara Morassi. Elenco che comprende sia persone decedute in deportazione che deportati rientrati a casa dopo un periodo più o meno lungo, che si è rivelato piuttosto impreciso. Elenco scaricabile da Internet (esiste un .pdf della lega nazionale). Se così fosse, i finanziamenti del comune di Gorizia per la trasferta romana dei “fortunati ricercatori” sarebbe stato denaro perso e lo scoop non sarebbe tale.
Non mi pare pertanto il momento di integrare e correggere al rialzo il lapidario dei 665 deportati come aveva suggerito il presidente della Lega Nazionale. Piuttosto, bisogna iniziare a correggerlo al ribasso. Certo, il nome di Ugo Scarpin, che viveva a Gorizia ma che era anche segnalato sul lapidario come scomparso in deportazione, è stato cancellato. Bisognerà però cancellare anche i nomi delle Guardie di Finanza segnalate che non furono in realtà infoibate (Di Bartolomeo – Sancimino, Dal primo colpo di fucile all’ultima frontiera. La Guardia di Finanza a Gorizia e provincia: una storia lunga un secolo, 2015) il centinaio circa di nomi che Giuseppe Lorenzon ha indicato come membri di formazioni collaborazioniste uccisi durante la guerra dai partigiani (e che pertanto non c’entrano niente con le deportazioni del maggio 1945), i nomi di partigiani e carabinieri uccisi dai tedeschi ed inseriti comunque nel lapidario (sempre segnalati da Lorenzon), mentre dubbi giustificati possono essere sollevati anche per una parte dei circa duecento nomi privi di dati che possano consentire una verifica.

Chiedere la verità (che significa fare anche pedanti riscontri nome per nome) non vuol dire essere “negazionisti”, termine insultante e denigratorio che vuole mettere sullo stesso piano chi nega la Shoah e chi vuole indagare sulle foibe (o sui campi di detenzione jugoslavi) senza prendere per oro colato la “vulgata” della Lega Nazionale. Che arresti indiscriminati ci furono anche a Gorizia è evidente, lo hanno riconosciuto esponenti del Partito Comunista Jugoslavo già a partire dal 6 maggio in polemica con l’operato dell’OZNA (vedi Pupo – Spazzali, Foibe, Milano, B.Mondadori, 2003, doc. 13 pp. 83 – 85). In seguito, sappiamo che Boris Kraigher si impegnò per far liberare alcuni antifascisti (tra cui a Trieste i due Schiffrer) che sapeva essere in carcere (C. Schiffrer, Antifascista a Trieste, a cura di Elio Apih, Udine, Del Bianco 1996, pp. 52 – 54). Mi pare giusto che bisogni fare il massimo di chiarezza su questi fatti, e mi pare giusto mettere in evidenza l’insieme di speculazioni politiche e strumentalizzazioni che hanno accompagnato sin qui questo processo di chiarimento.

Il 10 febbraio 2016, Giorno del Ricordo, il presidente della Lega Nazionale di Gorizia ha presentato con uguale e martellante pubblicità garantita dalle colonne del “Messaggero Veneto” un documento su una presunta fossa comune che dovrebbe contenere dai 200 agli 800 cadaveri. uccisi dalla Garibaldi – Natisone. Anche in questo caso aspettiamo i risultati. Che in data odierna mancano, mentre Urizio ha già segnalato un’altro “mattatoio” (titolone de “Il Messaggero Veneto” 3 marzo 2016) dove i partigiani avrebbero ucciso, Chi avrebbero ucciso i partigiani? Dai vari aggiustamenti effettuati nel corso del tempo dagli autori dei vari articoli pare di capire che uccidessero vittime innocenti in luogo delle spie che ritenevano di eliminare.
Penso che l’interesse vitale dei partigiani fosse eliminare le spie autentiche e non lasciarle operare impunemente. Ma se anche fosse come supposto dai giornalisti del “Messaggero”, vuol dire che ci sono state persone che hanno, per odio o per interesse (le spie venivano pagate) rivelato identità e residenze di altri italiani, sapendo che questi italiani (che combattevano contro i nazisti occupatori) ed i loro familiari sarebbero stati arrestati, torturati ed uccisi. E che l’hanno fatta franca, hanno lasciato che qualcun’altro morisse al loro posto ed hanno vissuto con noi per lunghi anni nel dopoguerra, senza pagare per quanto avevano fatto, probabilmente morendo senza mai avere liberato la loro coscienza (argomento caro ad Urizio). Un buon tema di ricerca per chi si occupa di queste cose.

Marco Puppini

Da Urizio ad Alfano, nel merito di un documento e di una fossa cimitero nello stesso citata, ma non ancora trovata.

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Ho intitolato così queste due righe, perché si tratta sempre del documento dalla Farnesina, sulla presunta fossa di Rosazzo, datato 13 ottobre 1945, dove si dovrebbero trovare da 200 ad 800 cadaveri di morti ammazzati uccisi da Sasso e Vanni, su cui, secondo il Messaggero Veneto, ora si chiede indaghi Angelino Alfano, Ministro degli Interni (Davide Vicedomini, Vogliamo la verità sulla fossa, il popolo del web si mobilita, in: Messaggero Veneto, 5 marzo 2016), se ho ben capito.
E riprendo, mentre penso alla Pasqua cristiana ed al suo significato, dal mio primo articolo sul documento, alcune considerazioni, per ribadirle perché mi pare non vi sia nulla di nuovo, tranne questo passaggio possibile e voluto dai sottoscrittori di una petizione, di detto documento da Urizio ad Angelino Alfano, che sta al Viminale.

Ho visto l’immagine, pubblicata sul Messaggero Veneto in data 13 febbraio 2016, di un documento a cui il quotidiano locale e non solo danno notevole valore, e mi sono posta molte domande.
Detto documento proviene, secondo il noto quotidiano locale, dalla Farnesina, cioè dalla sede del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Ora la Farnesina ha un archivio storico, ma relativo a Documentazione Storico Diplomatica. Come mai è finito lì? E si trovava tra altri documenti, e se sì quali? Era un si dice fra si dice? Io di altri documenti non so, forse perché non leggo Il Piccolo, ed in ogni caso non ho visto immagine se non di quello sui presunti cadaveri di Rosazzo. Il Messaggero ha detto che secondo Urizio della Lega Nazionale per l’ italianità di Trieste esistono altri documenti pare nel merito. Spero almeno siano stati forniti non a Torrenti, come sembrava dal noto quotidiano, ( Davide Vicedomini, “Fossa a Rosazzo: Regione in campo in cerca della verità” in: Messaggero Veneto del 29 febbraio 2016. Cfr. anche mio commento il primo marzo, nel merito, a mio: Divagando su quanto scrive il Messaggero Veneto sulla ricerca di quanto affermato nel documento dall’archivio della Farnesina) ma alla Procura della Repubblica che sta indagando, giustamente, nel merito.
E mi chiedo pure: si trovava detto documento forse informativa, tra altre informative poi archiviate? Si è accertato che non fossero già state fatte indagini sui suoi contenuti?
Non posso entrare nel merito della autenticità del documento: infatti una immagine fotografica o fotocopia non danno informazioni certe su carta, timbri, inchiostro, ecc. relativi al documento. Inoltre il documento in questione ha tre cancellature fatte con sostanza nera, che dovrebbe essere, vista la data, inchiostro ma dall’immagine così riprodotta potrebbe essere anche pennarello o che ne so. Sotto pare si vedano le parole cancellate relative alla zona ove dovrebbero esser sepolti i cadaveri e alla popolazione che sostiene di conoscere il fatto, in sintesi alla fonte ed al luogo il che non è poco. Perché sono state cancellate e da chi? Se si tratta di un documento ufficiale è gravissimo, e su fatti così gravi non si possono fare illazioni. Comunque pare proprio fuori posto, perché non è relativo a rapporti con l’estero.

Poi bisognerebbe, come prima cosa, verificare altre fonti, anche tedesche, perchè i tedeschi non erano privi di informatori, e vi era l ‘OZAK. Un caso così grave non può avere solo una fonte, perché pare allora una bufala, cioè un’informazione falsa.
800 cadaveri puzzano, ed anche 200 perdio, attirano animali ecc. ecc. e poi dove potrebbero trovarsi? Si parla di foiba e fossa comune, ma dove? A Rosazzo che non è sul Carso? E chi sarebbero stati i morti e quando sarebbero stati uccisi? In fosse comuni credo siano stati gettati anche militari morti nella prima guerra mondiale, italiani, austriaci, tanto che vi è un monumento al milite ignoto. E come si fa a sapere con certezza che furono Vanni e Sasso senza neppure processo? E quando sarebbero stati in zona? E avrebbero fatto un eccidio di tali proporzioni senza esser fermati essendo in due? In sintesi ed in friulano, «Nissun a i vares dat un croc ju pal cjaf?» Forse se lo sono chiesti anche coloro che, credo proprio intelligentemente, hanno archiviato il documento, che non si sa se avesse allegati o pratica relativa.
Correttamente il Procuratore della Repubblica ha aperto, dopo la pubblicazione da parte del Messaggero Veneto della immagine del documento, una indagine, affidata ai carabinieri.
Ma ora pare, dal Messaggero Veneto, che Urizio si sia messo in proprio e voglia fare lui, a che titolo non si sa, indagini con i carabinieri, (Davide Vicedomini, Vogliamo la verità sulla fossa, op. cit.) che è ovvio che non lavoreranno per indagare per un privato. Ci mancherebbe che fossimo giunti anche a questo! E quindi, dato che io ho massima stima dell’arma, se fossi nel Messaggero Veneto una notizia del genere non l’avrei mai pubblicata.

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Ci mancherebbe poi che il Ministro dell’Interno che sta al Viminale, non ritenesse corretto il procedere della Procura della Repubblica su fatto così grave ed aprisse indagini parallele, perché questo significherebbe screditare la Procura ed il dott. De Nicolo, persona rispettabilissima, che io sappia.
Pertanto, nonostante tanto vociare, tante urla pare da parte del Presidente della società privata Lega Nazionale per l’italianità di Trieste, ora che Trieste da decenni è italiana, e la gran cassa mediatica del noto quotidiano locale, siamo ancora alla immagine del documento, alla verifica da parte di chi di dovere della sua autenticità e dei suoi contenuti, su cui nulla si sa, ed al desiderio di molti di conoscere la verità. Poi anche se si trovasse un solo corpo umano bisognerebbe vedere a che epoca risale, che non sia della prima guerra mondiale ecc. ma per collegare ritrovamenti al documento si dovrebbero reperire un numero da 200 ad 800 resti umani ecc. ecc.. Bisognerebbe poi, qualora il numero dei morti ed il luogo fossero accertati, credo procedere contro Vanni e Sasso, stando al documento, ma pure contro ignoti, ma non è materia mia, perché è materia della procura della repubblica. Ma so che, non potendo esserci, in Italia, condanna senza processo, come in altri paesi non democratici, per dire che uno è colpevole di un delitto bisogna ci sia processo e, secondo me, sapere come minimo da chi veniva l’informazione, cioè chi è Ermete. Anzi se qualcuno lo sa è pregato di scrivermelo. Gli sarei infinitamente grata. Comunque per processare uno non basta un’informativa.
Infine se un documento narra un fatto narra quello, e non si possono fare voli pindarici sullo stesso con riflessioni, aggiunte ecc., e questo modo di procedere va a disonore, secondo me, del modo in cui si sta comportando il Messaggero Veneto, che non so più se definire, nello specifico, cioè relativamente a detto documento, un organo di corretta informazione.

Una seria riflessione documentata, come prevede pure la legge istitutiva del giorno del ricordo sulla storia del confine detto da noi e per noi orientale, in quell’ottica europea e mondiale che ne furono il contesto, e studiando la sua evoluzione nel tempo credo si imponga. Infatti è inutile soprassedere sul fatto che la seconda guerra mondiale fu mondiale, che la storia del confine ad est è storia che ha le sue radici nella storia precedente, e che Hitler sognava un nuovo ordine europeo. Ma mi pare che alcuni studiosi, da che ho compreso da quanto riferito da mio fratello sul convegno di Milano, lo stiano facendo. Poi si può certamente riservare una pagina sui libri di storia anche a detto argomento, ma scientificamente studiato, non emotivamente vissuto. Io credo nelle istituzioni e nel lavoro dei carabinieri, al servizio della Procura della Repubblica, e se scrivo ancora sul documento, essendo ben più interessata alla Settimana Santa, tradizioni e riflessioni, è per precisare gli articoli nel merito che si susseguono sul noto quotidiano locale. Comunque io credo che il signor Urizio dovrebbe ringraziare il Messaggero Veneto per la visibilità continua che ha dato e sta dando alla sua persona. Forse si deve guadagnare un posto per le prossime elezioni? – penso mentre sto stirando la biancheria.  Perché ormai ci hanno insegnato che ora in genere funziona così. E se erro su questa ultima considerazione, correggetemi.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda questa mia riflessione è quella del documento come diffuso da il Messaggero Veneto. Laura Matelda Puppini

8 marzo 2016. Festa della donna. Contro il cosiddetto “utero in affitto”.

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Quando ho iniziato a riflettere su cosa significhi realmente “utero in affitto” mi sono chiesta, per prima cosa, chi sia stato a definire l’acquisto di una donna, di una gestazione, di un bimbo appena fuoriuscito dalla pancia della mamma “utero in affitto”.
Oddio, ho pensato, questo è stato sicuramente un maschietto.

Per chi non lo sappia la gravidanza per la madre non è una passeggiata, e comporta cambiamenti fisici non di poco conto, così come il parto. Se poi l’unico fine di detta fatica che dura, volenti o nolenti, 9 mesi, è il guadagno, beh, io non riesco a pensare, in questo caso, positivo.
Posso capire che una donna si trovi in grossa difficoltà economica, e che quindi scelga di perdere dignità ed affetto per denaro, per esempio prostituendosi o prestandosi ad una gravidanza vista come affare economico. Ma ciò mi porta e dovrebbe portare noi tutti a pensare a come risolvere l’antico problema di “pane e lavoro” per tutti, non a ritenere forme di corpo e conseguentemente di dignità in vendita come soluzioni.

Io ve lo dico subito: per me più vendere la vagina e magari qualche altro orifizio per soldi, con la finalità che al maschietto si rizzi e che eiaculi (e scusatemi la franchezza), più vendere il corpo per una gravidanza is the same, è la stessa cosa dal punto di vista morale. Solo che le due possibilità implicano problemi diversi. In particolare la seconda pone anche qualche problema per il nascituro.

Siamo mammiferi, e le madri nel mondo animale in cui viviamo curano i loro cuccioli, li leccano appena nati, li allattano, li difendono, li educano, li stringono a sé. E vi è un legame stretto, anche nel mondo umano, fra madre e figlio, in particolare se figlio voluto: noi donne non siamo fabbriche di embrioni-feti- nati, da vendere. Se proprio una coppia vuole un bimbo può adottarne uno, non sarà per metà suo ma potrà accudirlo, crescerlo, amarlo ugualmente.
Ma quello di scegliere la futura madre, come un tempo si sceglieva la giovane schiava, che doveva avere tutto a posto, dall’età alla dentatura al resto, per avere un figlio, per poi passare alla fecondazione ed infine al mantenimento della donna durante la gestazione sino alla nascita dell’acquistato, per poi dimenticarla, beh, questo no. Forse non sono abbastanza neoliberista da sostenere che tutto è asservito al denaro, come lo era ai tempi antichi, e come si sta tentando di fare ora, forse ho una idea della madre che è quella descritta nelle parole della bellissima Ave Maria cantata da Fabrizio De Andrè: «Ave Maria adesso che sei donna/ave alle donne come te Maria/femmine un giorno per un nuovo amore/povero o ricco umile o Messia/Femmine un giorno e poi madri per sempre/ nella stagione che stagioni non sente».
Forse credo ancora ai figli come frutto dell’amore.

Infine ci sono già abbastanza bimbi ed adolescenti che risentono di problemi vari fra i loro genitori o che cercano, adottati, la madre naturale o il padre se non sanno chi sia, non andiamo a cercare di aumentare tale popolazione di angosciati.

E chiudo dicendo che ogni desiderio di chi ha la cifra per soddisfarlo non è un diritto automaticamente, che con “gender” e dintorni non ci si può distaccare dal mondo naturale da cui dipendiamo, e che se due possono esser soddisfatti da un bimbo acquistato e per metà proprio, non so quanto lo possa essere la donna che ha portato in grembo il bimbo sapendolo mai suo, quali vissuti psichiatrici le provochi questo fatto, ma cosa volete che sia: nel mondo neoliberista, che sembra in tutto e per tutto quello dei vecchi oligarchi e tiranni, ci sono solo i problemi di chi può comperare tutto.
Nel pensare così si vede che sono matusa, mi adatto poco al nuovo ed a ciò che fa tendenza? Vi garantisco che non me ne importa nulla. Io penso così.

Scrivo questo oggi, 8 marzo, festa della donna, che ricorda, da un lato le conquiste politiche, sociali ed economiche delle donne, dall’altro le discriminazioni e le violenze da loro subite nella storia.

W le donne, persone amanti madri, mai uteri e vagine e corpo in vendita.  

8 marzo 2016.

Laura Matelda Puppini


Divagando sulle dichiarazioni odierne di Luca Urizio al Messaggero Veneto

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Dopo aver preparato la cena, fatto ginnastica, constatato che, nonostante i miei sforzi, non sono dimagrita neppure un etto, ed avendo già stirato le mutande, in attesa di “Chi l’ha visto”, leggo distrattamente l’articolo di Guido Surza che raccoglie le dichiarazioni di quello che appare il nuovo idolo del Messaggero Veneto, Urizio, (Guido Surza, Lavoro di notte per riscrivere la storia, in Messaggero Veneto, 9 marzo 2016) a cui il giornale ha dedicato, dal giorno del ricordo 10 febbraio 2016, più righe che a qualsiasi politico locale od associazione culturale. La prima cosa che mi viene alla mente è che rispetto a questo che pare l’ “Uomo della Provvidenza” nella storia,  imprenditore e consulente, speriamo non nel settore di propaganda di aziende vinicole del goriziano in alternativa a quelle di Rosazzo e dintorni, e che usa per fini personali lo staff del Pd capitanato da tale Maran, solo per compilare una domanda on line seguendo le istruzioni dell’archivio della Farnesina,  le mie quotidiane attività che comprendono pure ore ed ore di studio in solitudine, e di analisi dei documenti fotografati all’ifsml ed in altri luoghi devono parere nulla.

Egli pare poi, si ritenga un perseguitato politico, sempre stando al Messaggero Veneto, e dichiara di aver avuto qualche graffio sulla macchina, secondo lui sicuramente fatto da giovani ideologizzati, ma sono sue congetture. Anche a me sono successe delle disavventure ed a molti accadono, sia di destra che di centro che di sinistra, qui come là, ma non hanno la grancassa del Messaggero Veneto. Mi ricordo come si trovò la macchina, un mattino, un mio amico a Trieste, che non faceva politica. Anche a me i soliti che si fanno passare per quelli dell’Enel suonano il campanello talvolta, come qualche monello, e così qualcuno può sbagliare numero al telefono. In ogni caso si può presentare denuncia contro ignoti se del caso. Ma forse il signor Urizio pensa, fa, disfa da solo e non crede nell’arma dei Carabinieri.
Soprassiedo poi, su quanto afferma sugli storici: cosa volete, chi si sente l’Uomo della Provvidenza ben poco considera il prossimo. Oddio Gortani Michele, perché hai studiato ed analizzato tanto, prima di scrivere, affermare, asserire, oddio voi, studiosi di altri tempi, perché avete letto studiato, imparato epistemologia e metodologia nelle scienze? Geremia Puppini perché ci hai insegnato a procedere con pazienza, rigore, metodo negli studi?

È l’onda emozionale che lo porta avanti – dichiara alla stampa. Perché non si ferma a pensare, pure? In amore è preferibile esser trascinati dall’onda emotiva, non nello studio, anche se un po’ di passione per la materia per cui si perdono ore ed ore di vita serve. Non per nulla in Germania quando un giovane si presenta per un lavoro, la prima cosa che gli chiedono è perché desidera impegnarsi in quell’attività.

Inoltre è vero che il dopoguerra lo hanno non scritto signor Urizio ma costruito i vincitori, qualche mese prima della fine della guerra, per esempio Churchill e Stalin nell’ottobre 1944 a Mosca, quando definirono le rispettive aree di influenza dopo la vittoria, che sapevano imminente, ed in generale gli Alleati. E non scrissero credetemi la storia, la fecero.
Per quanto riguarda i documenti esistono documenti falsi, documenti informativi veri ma con contenuto non vero, ed in genere, metodologicamente, si usa incrociare le fonti.
Mi dispiace sinceramente invece, che il signor Urizio abbia perso la moglie, non è bello, credo, restare soli.

Inoltre non capisco  la frase: «devo ringraziare lo staff del Pd e Alessandro Maran, la verità non ha colore».
Perché, secondo lui o chi l’ha scritta, prima che arrivassero Urizio ed il Pd, tutti gli studiosi erano venduti a visioni ideologizzate? Io almeno ho capito così.
Questa affermazione è disgustosa, indimostrabile, ed offensiva, ed il Messaggero Veneto avrebbe fatto bene a non pubblicarla affatto.
Mi scusi signor Urizio, io non ce l’ho personalmente con lei, e posso capire che desideri impegnarsi in altro dopo la perdita della signora, ma non mi piace il suo modo di procedere in storia, e anche ora scrivo perché ho letto il Messaggero Veneto che riportava l’intervista a Lei.

Naturalmente queste sono solo considerazioni nel merito di quanto pubblicato oggi dal noto quotidiano locale, e non intendo offendere nessuno, ma non credo neppure si debba sempre tacere. Ed io che ho speso anni ed anni in studi, come credo tanti altri, con ben poca visibilità mediatica, mi sono sentita veramente amareggiata da come considerano gli storici e quindi anche me, il Messaggero Veneto, i politici, questa Lega Nazionale per l’italianità di Trieste e tanti altri che leggono il noto quotidiano locale. Mi pare invece molto interessante quanto detto da Alberto Buvoli sia sulle informative sia sui volumi a cura dell’ i.f.s.m.l., “Caduti, dispersi e vittime civili dei comuni della regione Friuli-Venezia Giulia nella seconda guerra mondiale”, che sono costati ore ed ore di lavoro certosino, una fatica immane, ed in generale.

Ed in ogni caso: chi sarebbero tutti questi mostri che nascosero documenti, impedirono la verità ecc. ecc. signor Urizio?

Domani, da che ho capito, la Procura inizierà, stando al Messaggero Veneto di oggi, a cercare, nei modi che reputa e se del caso, con personale scelto dal Procuratore, il luogo “fossa, foiba, o cimitero in superfice”, per vedere se esista o meno. Naturalmente morirono nella seconda guerra mondiale anche partigiani, civili, tedeschi, collaborazionisti, cosacchi ecc. ecc. ammazzati. Si era in guerra. E forse anche i tedeschi buttavano in fosse comuni, anfratti, le loro vittime, o seppelivano in superfice, altra tecnica usata anche nella prima guerra mondiale. Insomma non vedo che si sappia nulla di nuovo, sinora, tranne che è stato reperito un documento archiviato, in cui contenuto è tutto da dimostrare.

Laura Matelda Puppini

Dalla montagna perduta alla montagna risorsa.

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Queste considerazioni sono tratte dallo studio del gruppo di lavoro del Trentino school Management e Centro Europa Ricerche composto da: Gianfranco Cerea, Stefano Fantacone, Petya Garalova, Mauro Marcantoni e Antonio Preiti, (a cura di Gianfranco Cerea e Mauro Marcantoni), intitolato: La montagna perduta. Come la pianura ha condizionato lo sviluppo italiano, Franco Angeli ed., suggeritomi ed inviatomi da Paolo Iussa, già sindaco di Enemonzo, che sentitamente ringrazio. Inoltre ho riportato qui il discorso tenuto il 9 febbraio 2016, da Pietro Grasso al Senato in occasione della presentazione del Rapporto “La montagna perduta – come la pianura ha condizionato lo sviluppo umano”.

Rileggere la montagna con occhi diversi.

Rileggere la montagna e le politiche per la stessa, è impresa non di poco conto, «in quanto l’immagine consolidata della montagna quale spazio residuale deve essere ribaltata, considerando che il territorio nazionale, in realtà, è prevalentemente montuoso e che tale condizione non comporta solo problemi e difficoltà, ma offre anche una quantità di risorse e di opportunità da individuare e cogliere a pieno», con il sostegno dell’innovazione delle politiche pubbliche, e ristabilendo il legame vitale tra popolazione e territorio montano.» (Bruno Zanon, Presentazione. Uno sguardo contemporaneo sulla montagna, p.7).

«Perché la montagna è un problema? Sicuramente vi sono delle differenze di condizioni di vita, di lavoro, di dotazioni civili rispetto ai territori di pianura e alle città maggiori. Ma questo è l’esito, relativamente recente, del confronto tra sistemi economici e sociali entro un quadro orientato di politiche pubbliche […]. In breve, il nostro sguardo sui territori di montagna è segnato dalle esperienze e dai valori della modernità, dalla consuetudine con le dinamiche proprie dell’età industriale e con gli effetti della concentrazione delle attività e delle persone nelle aree urbane. Sembra ovvio, quindi, qualificare la montagna con gli attributi della debolezza, della marginalità, dell’arretratezza. Certamente si tratta di un territorio “fragile”, dal punto di vista idrogeologico, economico e sociale, ma esso presenta, allo stesso tempo, un patrimonio di valori e risorse che, nella società e nell’economia contemporanee, non può essere assolutamente sottovalutato. (Ivi, p.8).

La modernità ha cambiato nel profondo il nostro rapporto con il territorio

«La modernità ha cambiato nel profondo il nostro rapporto con il territorio, vale a dire lo spazio attrezzato dalle comunità per vivere e abitare e, ancora prima, ha alterato il nostro rapporto con la terra. Per millenni l’uomo ha vissuto in uno stretto rapporto con il suolo fertile che gli forniva di che vivere, e questo ha comportato che le forme del popolamento fossero prevalentemente diffuse, mentre le città erano le eccezioni. È noto che da qualche anno la maggior parte della popolazione mondiale vive ormai nelle città, secondo un processo che nei paesi della prima industrializzazione è ormai consolidato.

L’urbanesimo ha ribaltato il rapporto millenario che richiedeva, da parte delle singole persone e delle comunità, la cura e la responsabilità di un tratto di suolo che forniva cibo e materiali utili per la sussistenza. Tali pratiche hanno richiesto l’elaborazione di conoscenze per interpretare le condizioni dei luoghi, individuare i materiali utili, incrementare la fertilità dei suoli, selezionare specie vegetali e animali. L’esito, non secondario, è consistito in un legame profondo con i luoghi, testimoniato dal senso di appartenenza e dai legami identitari. Il rapporto stretto con la terra ha richiesto inoltre l’elaborazione di regole per riconoscere i diritti di proprietà e per definire le modalità di uso delle risorse e dei luoghi, in particolare quando questi erano condivisi. Insomma, ritroviamo in tali relazioni le radici profonde della nostra società, della nostra cultura, della nostra economia. (Ivi, pp. 8-9).

In questo quadro, la montagna è stata per secoli uno spazio pienamente integrato con il resto del territorio e della società. (…). Inoltre, un territorio montano, caratterizzato da condizioni diverse entro distanze relativamente brevi, consentiva una agevole integrazione di prodotti e di culture differenti. Per non parlare dei vantaggi assicurati dal controllo dei corridoi di transito e delle posizioni strategiche dal punto di vista militare. (Ivi, p. 9).

Certamente vivere in montagna è sempre stata una sfida, che è stata vinta dagli individui e dalle comunità elaborando conoscenze e competenze appropriate e costruendo sistemi sociali ed economici basati sulla responsabilità nei confronti di un ambiente delicato e fragile e sulla solidarietà. I principi della sostenibilità li ritroviamo tutti, nella storia delle comunità alpine, preoccupate che i figli e i nipoti potessero trarre dalle risorse locali condizioni di vita analoghe – o migliori – di quelle delle generazioni attive.

Nel breve volgere di un paio di secoli la diffusione dell’economia industriale ha modificato questo quadro, affermando principi di concentrazione, di mobilità di persone e merci su grandi distanze, consentendo lo scambio delle conoscenze, delle esperienze e delle merci tra continenti diversi. La produzione industriale ha richiesto la concentrazione delle attività e delle persone nelle fabbriche, secondo una logica di economia di scala che ha riguardato anche altre attività, dai servizi pubblici alla produzione di beni immateriali. (Ivi, p. 9).

Le condizioni attuali della nostra società consentono di porre in una prospettiva diversa il problema

Le condizioni attuali della nostra società, ormai pienamente post-industriale, consentono di porre in una prospettiva diversa il problema e di assumere una nuova ottica, partendo dal riconoscimento della complessità dei processi territoriali in corso e della ricchezza delle risorse e dei valori delle aree montane. La fase attuale vede infatti, in modo esteso, fenomeni contradditori di concentrazione e di diffusione, di conservazione del ruolo della produzione di beni materiali e di incremento enorme del peso dei beni e dei servizi immateriali.

Gli esiti di questi cambiamenti li vediamo tutti i giorni nella forma del territorio metropolitano e siamo ormai abituati a misurare le distanze in ore di percorrenza, più che in chilometri, alla mobilità quotidiana dai luoghi di residenza a quelli del lavoro, del commercio e dello svago, a utilizzare beni prodotti nei quattro angoli del mondo.
I processi di contrazione demografica e di crescita hanno interessato in modo variegato anche le aree di pianura e i centri urbani con cicli di crescita, di suburbanizzazione, di declino delle aree urbane centrali, di ricollocazione delle funzioni produttive. (…). La differenza è che nei contesti urbani appare ovvio promuovere grandi progetti di riqualificazione e di rigenerazione urbana, sia dal punto di vista urbanistico che da quello economico-sociale. (Ivi, p. 10).

Per contro, uno sguardo attento ai territori di montagna evidenzia come non manchino certo casi importanti di sviluppo, di innovazione, di crescita. (…).
La prospettiva per la montagna non è certo quindi quella della conservazione, ma quella di una nuova progettualità, tenendo conto della ricchezza dei materiali e delle conoscenze a disposizione. Il compito tuttavia è impegnativo, in quanto si deve elaborare una visione attorno alla quale costruire un ampio consenso, tradurre le intenzioni in azioni, aggiornare regole giuridiche e procedure amministrative. Non si deve partire da zero, però, in questo percorso. (…).
Il caso del Trentino, in particolare, appare di grande rilievo. Qui, a partire dagli anni ’60 del ’900 è stato costruito un percorso di modernizzazione basato su alcuni principi eterodossi, in particolare il rifiuto della concentrazione urbana e della industrializzazione come uniche prospettive di crescita economica e di riscatto sociale. (Ivi, p. 11)

Lo sguardo contemporaneo sulla montagna può quindi partire dalla consapevolezza che si possono tracciare percorsi diversi da quelli dell’abbandono, purché si sappiano distinguere i problemi e i vincoli dalle risorse e dalle opportunità. Del resto, è ormai senso comune collocare nell’elenco dei valori collettivi la qualità dell’ambiente, la biodiversità, la molteplicità delle produzioni agricole, la varietà delle forme insediative e del patrimonio storico-culturale, così come diamo per scontato che siano risorse i panorami alpini, i sentieri di montagna, le vette dolomitiche, la neve e il freddo dell’inverno che consentono di praticare gli sport invernali.
Non si tratta, però di assegnare alla montagna il compito di riserva di valori naturali e sociali per compensare il degrado inevitabile dei contesti urbani. Come afferma Paolo Pombeni, non possiamo pensare alla montagna come ad un “Arcadia”, ma dobbiamo considerarla un “bene comune”. Ed è quello che viene affermato da documenti autorevoli, dalla Convenzione delle Alpi, al riconoscimento europeo di molte zone naturalistiche, alla individuazione delle Dolomiti quale “patrimonio dell’umanità” da parte dell’Unesco. (Ivi, p. 12).

Riconquistare un bagaglio prezioso di competenze e conoscenze creatosi nei secoli

Tali riconoscimenti comportano visibilità di parti importanti della montagna e assegnano alle comunità locali responsabilità di governo di beni di rilievo sovralocale. E questo riguarda un altro campo di risorse, quelle riguardanti le conoscenze e le competenze delle comunità di montagna. La vita in un territorio articolato e complesso ha non solo stimolato l’approfondimento delle condizioni di una natura straordinaria, ma ha richiesto l’elaborazione di una varietà di modelli insediativi che intrecciano capacità di adattamento alle condizioni del sito, tecniche agronomiche e costruttive appropriate, forme sociali ed economiche peculiari e, soprattutto, modelli amministrativi basati sull’autogoverno. Da questo quadro emerge il ruolo della cultura della responsabilità e della solidarietà. (Ivi, p. 12).

Lo spopolamento non dipende solo dall’ orografia ma anche dalle politiche pubbliche.

Lo spopolamento della montagna non è inesorabile… non dipende semplicemente dall’orografia, ma dipende dalle politiche, e precisamente dalle politiche pubbliche.
La montagna, territorio delle differenze e delle autonomie, può giocare un ruolo cruciale nella prospettiva di ripensamento del sistema di gestione dei beni comuni, dei servizi pubblici, delle attrezzature collettive, contribuendo a fornire risposte alla domanda estesa di nuove forme di governo dei territori e della cosa pubblica. La responsabilità locale da un lato e l’attivazione di reti di solidarietà e di cooperazione, dall’altro, appaiono le prospettive per consentire di integrare luoghi e persone, attività e sistemi economici, nodi e reti. I compiti si collocano quindi a livelli diversi e riguardano temi differenti. Sicuramente la formazione gioca un ruolo determinante. (Ivi, p. 13).

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Il 9 febbraio 2016, veniva presentato al Presidente del Senato, Pietro Grasso, il rapporto “La montagna perduta – come la pianura ha condizionato lo sviluppo umano”, ed egli così allora si esprimeva:

«Cari amici, gentili ospiti,
è per me un grande piacere ospitare in Senato la presentazione del Rapporto di ricerca:”La montagna perduta. Come la pianura ha condizionato lo sviluppo italiano”, occasione che ci permette oggi di riflettere insieme su una materia di straordinaria attualità non solo per l’Italia.
Ringrazio gli autori del rapporto e i relatori che a breve ci illustreranno i risultati di questa pubblicazione, frutto di una analisi puntuale e precisa che denota non solo una conoscenza approfondita della materia ma una nuova ed attuale consapevolezza che vuole restituire alla montagna un ruolo necessariamente primario e non più residuale.

Una nuova visone motivata non solo da ragioni ambientali ma anche da quell’insieme di valori che la montagna rappresenta, di affetti, di ricordi, di paesaggi, di storie. In una parola, si vuole e si deve preservare “l’anima” della montagna che il rapporto descrive in ogni suo aspetto.
La montagna svolge un ruolo fondamentale per la salute ecologica del mondo e il benessere delle persone, ma è stata a lungo abbandonata. L’avere trascurato questo habitat ha avuto ripercussioni non solo sulle comunità che vi abitano, ma sta avendo ricadute negative su molti aspetti del pianeta. Il territorio è estremamente fragile anche a causa degli effetti negativi dei cambiamenti climatici. Lo dimostrano i fenomeni sempre più frequenti di inondazioni, frane e valanghe. Le montagne si spopolano sempre di più in quanto molti sono costretti a migrare verso le città perché le opportunità diventano sempre più scarse e le risorse sono poco valorizzate. Le dimensioni demografiche dei comuni sono sempre più ridotte, l’età media della popolazione è cresciuta e alcune zone sono ormai da tempo abbandonate stante anche la mancanza di infrastrutture adeguate per le comunicazioni materiali, di carattere ferroviario e stradale. Ne sono un esempio, come si legge nel rapporto, le tante borgate completamente morte, che spesso si incontrano percorrendo le strade dei territori montani. Quale e quanta la ricchezza perduta!

Oggi bisogna attivarsi e recuperare questo immenso patrimonio e sensibilizzare sia le istituzioni sia la società civile ad un maggiore impegno per lo sviluppo sostenibile, in particolare nei confronti dei giovani in quanto saranno loro i futuri attori e fruitori dell’ecosistema mondiale. E’ sbagliato pensare alla montagna come ad un territorio a vocazione esclusivamente agricola o turistica perché anche nelle zone montane ci sono distretti produttivi e industriali molto importanti per l’economia del Paese. Ci sono risorse e opportunità da riconoscere e valorizzare nell’interesse dell’intero Paese e tra queste la montagna è certamente custode di risorse naturali, ambientali, paesaggistiche e culturali irripetibili. Queste risorse rappresentano senza dubbio un investimento per accrescere la competitività del Paese.

Si può ridurre l’impatto dei disastri ambientali approntando strategie di adattamento che riducano gli effetti negativi dei fenomeni naturali gestendo il territorio in modo più responsabile. Bisogna lavorare accanto alle comunità locali, dare loro maggiori strumenti, migliorare le loro condizioni di vita. Occorre fornire alle popolazioni montane il sostegno e i mezzi finanziari.

La montagna è un nodo strategico dell’economia verde e una risorsa su cui puntare per lo sviluppo del sistema paese. In una società che vede avanzare sempre di più una crisi idrica ed energetica, la tutela dell’ecosistema montano deve essere rispettata con adeguate politiche pubbliche che siano in grado di superare quelle condizioni di svantaggio che limitano quelle enormi e ancora non completamente sfruttate potenzialità. Grazie e buon lavoro».

(Presentazione del Rapporto “La montagna perduta – come la pianura ha condizionato lo sviluppo umano” Discorso pronunciato dal Presidente del Senato, Pietro Grasso, nella Sala Zuccari del Senato, 9 febbraio 2016, in: https://www.senato.it/4171?atto_presidente=394).

DISCUTIAMO ANCHE NOI DI QUESTI TEMI, DIVULGHIAMOLI E PORTIAMOLI NELLE SEDI DELLA PROGETTUALITÀ POLITICA PUBBLICA.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è stata da me scattata negli anni novanta. Laura Matelda Puppini

La Zona Libera del Friuli Orientale ed il Comando Unico Bolla – Sasso.

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Ripropongo qui un’articolo da me scritto e pubblicato su storiastoriepn.it il 30 ottobre 2014, con qualche aggiunta, per far capire l’esperienza che accomunò, nel comando unico, Bolla (Francesco De Gregori),  e Sasso (Mario Fantini), gli uomini della I^ Brigata Osoppo e quelli della Divisione Garibaldi Natisone, e riprendere il discorso sul contesto in cui si svolse la strage di Topli Uorch. 

«Un lettore di “La Storia Le Storie” […] teme che il non aver dato rilievo alcuno alla Zona Libera del Friuli Orientale sul numero monografico di Patria Indipendente, speciale 70° liberazione, Semi di Costituzione, settembre 2014, sia dovuto al desiderio, almeno così par di capire, di gettare nell’oblio la sua storia. Ma non credo proprio sia così.
Semplicemente le esperienze di governo civile, che maturarono in alcune Zone Libere, si prestano maggiormente ad analisi approfondite nel quadro di un discorso sui “Semi di Costituzione”, centrato sulla valorizzazione delle forme di governo civile date ad alcune Zone Libere, diventate “Repubbliche Partigiane”.
Infatti non di regni si trattava, né di dittature, ma di un’espressione democratica di governo civile dei C.L.N. ove sedevano i rappresentanti dei 5 partiti principali italiani, ed era forma di governo repubblicana. Inoltre quella del Friuli Orientale non è la sola Zona Libera a non avere un articolo approfondito sul numero della rivista in oggetto. Comunque alla Zona Libera del Friuli Orientale è stato dedicato un intero convegno, che si è svolto il 26 settembre 2014 a Cividale del Friuli ed il 27 settembre 2014 a Tarcento […].

Pare strano, invece, che il volume: AA.VV. ( a cura di Carlo Vallauri), Le Repubbliche partigiane, esperienze di autogoverno democratico, Laterza, 2013, non riporti la Zona Libera del Friuli Orientale, o almeno non vi accenni, […] .
Inoltre le problematiche da me evidenziate per le Zone Libere in Italia sul mio: “Zone Libere, Repubbliche, partecipazione. Prime prove generali di nuove istituzioni”, in cui cito anche la Zona Libera del Friuli Orientale, accomunarono le zone libere. (Laura Matelda Puppini, Zone Libere, Repubbliche, partecipazione. Prime prove generali di nuove istituzioni, Patria Indipendente, speciale 70° liberazione, Semi di Costituzione. La bella storia delle Repubbliche partigiane, settembre, 2014, pp. 28-29).
Comunque, pur non essendo la Zona Libera del Friuli Orientale oggetto di miei studi specifici, ma avendo ascoltato il convegno e letto due volumi in proposito, cercherò qui di accontentare il lettore […], scrivendo quello che ho compreso.

La Zona Libera del Friuli Orientale raggiunse la sua massima estensione il 1° settembre 1944, con la liberazione di Nimis. Essa era delimitata da un lato dai Musi e dalla vallata del Torre, con il comune di Lusevera, e quindi, da nord a nord- est, dalla catena delle Prealpi Giulie con il comune di Taipana ed alcune frazioni di Attimis e di Faedis, e la frazione di Masarolis, in comune di Torreano di Cividale.
Ad ovest, andando verso sud, c’erano le frazioni del comune di Tarcento: Ciseriis e Sedilis e poi Ramandolo ai piedi del Bernadia e Uziut sulla Bernadia, ambedue frazioni di Nimis.
A sud si trovava la parte piana del comune di Attimis, alcune frazioni di Povoletto come Magredis, Marsure, Savorgnano del Torre e la parte piana del Comune di Faedis; a sud-est si trovava la parte piana del comune di Torreano di Cividale; ad est, in senso longitudinale, si trovavano tutte le sue frazioni. (Giovanni Padoan (Vanni), Abbiamo lottato insieme. Partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Del Bianco ed. Ud. 1966, p. 134). La Zona Libera vera e propria comprendeva sei comuni: Torreano di Cividale, Faedis, Attimis, Nimis, Lusevera, Taipana, tre frazioni di Povoletto, due di Tarcento, ed aveva 20.871 abitanti. A ridosso, da un lato, si trovava la zona definita dai tedeschi Bandengebiet, zona non sotto controllo partigiano, ma secondo i tedeschi pericolosa perché percorsa da bande partigiane, che vi facevano incursioni (spiegazione telefonica del dott. Flavio Fabbroni dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione a Laura Matelda Puppini in data 30 ottobre 2014), che arrivava sino alle porte di Udine e cioè sino a Viale Vât e comprendeva i comuni di Tarcento, Tricesimo, Reana del Roiale, Povoletto, Remanzacco, Moimacco, Premariacco, Corno di Rosazzo, Pradamano, Buttrio, Manzano, San Giovanni al Natisone, frazioni di Cividale e tutti i comuni delle Valli del Natisone e della vallata dello Judrio. Quivi la Zona Libera del Friuli Orientale si saldava con la Zona Libera Slovena del Collio, ove stanziava anche il btg. Mazzini della Garibaldi Natisone e più tardi il btg. Gregoratti. (Giovanni Padoan (Vanni), op.cit. pp. 134-135).

Inoltre nella Zona Libera del Friuli Orientale si trovava pure la Missione Inglese guidata dal maggiore Vincent Hadley Tucker, che contribuì alla difesa della Zona Libera, (Ivi, p. 146), ed un battaglione del IX° Korpus, alle dipendenze della Garibaldi Natisone, in base agli accordi del 7 maggio 1944, stipulati sul Collio, con cui pare proprio l’Osoppo non volesse aver nulla a che fare. (Ivi, p.128-129).

Uno dei primi problemi che il Comando Unico Garibaldi-Osoppo, comandante Sasso (Mario Fantini) vice-comandante Bolla (Francesco De Gregori), dovette affrontare, fu l’afflusso di nuove reclute nelle file partigiane sia garibaldine che osovane, che pose non pochi problemi organizzativi, come accadde, del resto, nelle altre esperienze simili. E come nelle altre Zone Libere, si cercò di dare, al più presto, una risposta ai problemi dell’approvvigionamento delle derrate alimentari, qui anche con il tacito consenso dei proprietari terrieri, e di creare un servizio sanitario. Infine si organizzarono feste, con giochi e balli, invisi ai sacerdoti, e manifestazioni, con la partecipazione popolare. (Giannino Angeli, Zona Libera Orientale Nimis – Attimis – Faedis, A.P.O., Udine, 2005, p. 50).
E si crearono anche qui i C.L.N. locali che, assieme ad un comitato militare, formato da 2 osovani e 2 garibaldini, prepararono le elezioni delle giunte comunali, ove si svolsero.
Queste ebbero luogo a Nimis, con grande partecipazione popolare, ed ad Attimis. Al voto furono chiamati solo i capo-famiglia maschi, con gran disappunto di Vanni, che sottolineava l’importanza del voto alle donne ed ai diciottenni. (Giannino Angeli, op. cit., p. 49, Giovanni Padoan (Vanni), op. cit., p. 154).
A Faedis il C.L.N. nominò la Giunta comunale ed il Sindaco, senza regolari elezioni, ma dopo un’informale consultazione con i capi famiglia; nei comuni di Torreano Taipana e Lusevera i C.L.N. assunsero anche funzione di Giunta Comunale e non ci fu tempo per organizzare elezioni. (Giannino Angeli, op. cit., p. 49, Giovanni Padoan (Vanni), op. cit., p. 156).
Ma non ci fu tempo anche per tante altre cose. Il 27 settembre il nemico iniziò ad attaccare, portando nella Zona libera del Friuli Orientale incendi, lutto e morte e la fine della Zona Libera stessa.

Il 27 settembre 1944 iniziava l’offensiva tedesca contro la Zona Libera del Friuli Orientale, da Nimis a Cividale, cui parteciparono ingenti forze nemiche.
«Attimis è rastrellata. Faedis è invasa da migliaia di tedeschi. La gente fugge verso Canal di Grivò, Stremiz, Cividale. Rastrellati i maschi e rinchiusi in una casa a Ronchis. La sera i tedeschi si ritirano.
A Nimis, scontri per tutta la giornata, mentre l’artiglieria spara da Tricesimo (Castello Valentinis) e dal treno blindato. Alcune famiglie si allontanano, la maggioranza ancora spera nei partigiani. Viene fatto saltare il ponte sul Cornappo. Tutta la notte, bombardamento d’artiglieria».

Il 28 settembre 1944 «Tedeschi e fascisti bruciano Sedilis. Alle 9, tornano a Nimis tedeschi e cosacchi: saccheggio; quindi la notte, tranquilla.
A Faedis, si combatte. Alla sera i partigiani si sganciano per evitare l’accerchiamento e fanno saltare i due ponti sul canal di Grivò. I tedeschi cominciano sistematicamente a bruciare il paese.
A Costalunga, 9 partigiani dell’0soppo sono bruciati vivi in una stalla.
Il Comando di Divisione, per evitare l’accerchiamento, ordina lo sganciamento. Le due brigate Garibaldi eseguono l’ordine, la osovana lo riceve in ritardo e si sgancia con difficoltà e gravi danni.
La zona libera del Friuli orientale è finita. (…)».

Il 29 settembre 1944 «a Nimis, alle ore 9, la popolazione riceve l’ordine di sgomberare verso la Madonna delle Pianelle. Tutti si avviano con carri, carretti, carriole.
Presso villa Ortensia, trucidati cinque uomini, sospetti partigiani. Uccisi anche Giuseppe Nimis e Giobatta Ceschia. Poi circa 400, uomini e donne, sono condotti a piedi verso Udine. Vengono rinchiusi parte nell’Istituto Tecnico in piazza XX settembre, parte al contumaciale di San Gottardo. Andranno in Germania circa 100 uomini e 30 ragazze, in campo di lavoro o di sterminio.
La gran massa dei carri è convogliata verso Tarcento. Alle ore 17, comincia l’incendio. Nel frattempo per tutto il giorno brillano gli incendi di Sedilis (l’85% delle case distrutto). Poi scendendo i tedeschi incendiano Ramandolo, Torlano e verso sera Faedis. (…).
Sono distrutte dal fuoco circa 40 case di Subit, paese di circa 500 anime. La chiesa è distrutta con l’esplosivo. (…)».

Il 30 settembre 1944 «continua l’incendio di Nimis, tra i muggiti del bestiame rimasto incatenato». Qualche animale riesce a rompere la catena «e vaga impazzito. Si salvano solo le case che i cosacchi hanno scelto come loro alloggio: lì bevono, mangiano, ridono. Per l’incendio sono giunti guastatori tedeschi da Trieste e hanno impiegato 40 ettolitri di benzina, bombe incendiarie e fosforo».

Il 1 ottobre 1944 «Arrivano 250 cosacchi a presidiare Faedis. Continua l’incendio di Nimis. Alla popolazione è vietato rientrare per tre mesi. Morti durante la battaglia: 18; in Germania: 26; dei quali dispersi: 8. Ad Attimis i tedeschi fanno uscire tutti dalle case con il solo necessario per un giorno. Sono raggruppati del cortile Zuliani. Comincia l’incendio e va avanti per tutto il giorno. Alla sera, i tedeschi se ne vanno; subentrano i cosacchi che per una settimana rapinano, saccheggiano, violentano». (1944, in: anpigiovani.org.)

Il resoconto delle azioni militari del 27 e 28 settembre 1944, svolte dagli uomini di Bolla e Sasso, da garibaldini ed osovani insieme contro il nemico, e la ritirata, viene ben descritta in: Guerra di popolo, storia delle formazioni garibaldine friulane, – Un manoscritto del 1945 – 1946, a cura di  Ferdinando Mautino, Feltrinelli, 1981, pp. 120-123.

Sul terreno, a causa dei combattimenti restano 230 nemici: tedeschi, cosacchi, forse collaborazionisti, e 55 partigiani, armi e munizioni sono perdute, assieme a molto altro materiale. (Ivi, p. 123).

Nell’ottobre 1944, la D.C. di Nimis inviava una nota agli ispettori del C.R. Veneto e per conoscenza al C.L.N.P. lamentando, ad esperienza conclusa, l’occupazione di Nimis senza garantirne la difesa. (Giannino Angeli, p. 43). Ma fu a posteriori, anche se Giannino Angeli non sottolinea questo aspetto.
Inoltre, quando vennero create le Zone Libere, si pensava, e lo pensavano anche il C.L.N.A.I. e il C.V.L., che la liberazione dell’Italia dagli occupanti nazisti fosse imminente.
Infatti: «Dall’ 1 all’ 8 marzo 1944 ebbe luogo il grande sciopero generale in tutta l’Italia invasa considerato, dal New York Times, il più grande avvenuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti. Esso interessò 2 milioni di operai, i postelegrafonici, i ferrotranvieri e persino i lavoratori del Corriere della Sera, e fu accompagnato ed appoggiato da forti manifestazioni di contadini e di donne nelle campagne. Molti sperarono che tale sciopero aprisse la via alla liberazione, in breve tempo, dei territori occupati, come gli scioperi del marzo 1943 avevano contribuito alla caduta di Mussolini il 25 luglio. Il 4 giugno 1944 le truppe americane entrarono a Roma, il 6 giugno 1944 avvenne lo sbarco in Normandia, il 25 agosto 1944 Parigi era libera. Ma, successivamente, l’avanzata degli Alleati subì un rallentamento sia a causa della maggiore efficienza della resistenza tedesca, sia a causa di una crescente scarsità di rifornimenti e di uomini.
Comunque nel giugno – luglio 1944, con l’Italia del centro sud sotto controllo alleato, ci si illudeva che la liberazione di tutta l’Italia fosse vicina. Così il Clnai ed il neonato Cvl emanarono disposizioni circa la liberazione di paesi e vallate e la creazione di organismi provvisori di governo».(Laura Matelda Puppini, op. cit., p. 28).

Pertanto singole esperienze non possono venir valutate se non in un quadro generale. 

Laura Matelda Puppini

Prima pubblicazione www.storiastoriepn.it, il 30 ottobre 2014, ora qui, seconda pubblicazione, con qualche riga in più. L’immagine che correda l’articolo è una piantina della Zona Libera del Friuli Orientale, riportata sulla locandina della cerimonia, a Faedis, per il 71° anniversario della battaglia della Zona Libera del Friuli Orientale, in: anpiudine.org. Laura Matelda Puppini

 

La Divisione Garibaldi Natisone alla fine della Zona libera, fra fame, nemico, e spazio ristretto.

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Questo mio articolo segue i miei precedenti, pubblicati sempre su www.nonsolocarnia.info, intitolati: “Divagando su “Porzûs”, in modo documentato. E se …”, “Dal diario di Bolla, il Capitano Francesco De Gregori”, e “La Zona Libera del Friuli Orientale”, ed è relativo alle condizioni durissime che anche i partigiani della Divisione Garibaldi Natisone, come gli osovani di Bolla, indipendentemente da quale dopoguerra sognassero, dovettero affrontare nell’autunno- inverno 1944-1945, come del resto quelli della Carnia ed altri, in particolare dopo la fine del sogno dell’arrivo imminente degli Alleati e dell’insurrezione finale, ed il Proclama Alexander.
Vi erano ancora i nazisti, vi erano ancora i cosacchi, vi erano ancora i repubblichini … allora detti repubblicani. Non vi era da mangiare e ci si rubava l’un l’altro gli alimenti, come vedremo in un prossimo articolo, e la fame, il freddo, il nemico, le spie, segnarono la vita di chi restò in montagna.

Alcuni hanno letto certi avvenimenti scordandosi di questi piccoli particolari, si fa per dire, come tutto fosse determinato solo e già dal Pci, dalla Dc, e dai vertici dei partiti che stavano magari nella Roma liberata, e dagli Sloveni, di cui allora, sui documenti, si scriveva appartenenti al IX° Corpo d’Armata, non del IX° Korpus, secondo la scrittura slava, poi adottata ampiamente, quasi a distinguere uno dall’altro, quasi non vi fossero fame, freddo, mancanza di collegamenti, incertezza e nemico in azione per tutti. Ed in quell’autunno, inverno, primavera, gli Alleati utilizzarono la Zona Libera Slovena anche per i collegamenti aerei con il sud, ed esisteva ancora l’O.Z.A.K.. E non bisogna dimenticare che Belgrado fu liberata solo il 20 ottobre 1944, dopo aspri combattimenti. (Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Offensiva_di_Belgrado). Altro aspetto da ricordare è che per i vincitori, per gli Alleati, per Churchill in particolare, l’Italia era perdente, nell’ottica del dopoguerra che si andava delineando.
«L’atteggiamento verso l’Italia, in Churchill, -scrive Paolo Spriano- è strettamente connesso a quello verso la Grecia e in generale l’area mediterranea, in chiave anticomunista. (…). L’Italia, come nazione, come Stato è sempre considerata un Paese vinto. I vincitori hanno diritto di dettare ad essa le loro condizioni.» (Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, V° volume, Einaudi, Torino 1975, p. 422 e p. 425).

Dopo la fine della Zona Libera del Friuli orientale, le due Brigate della Divisione Natisone, la 156^ e la 157^ si attestarono nella zona a nord-est della stessa. Quindi, nel novembre 1944: «si procedette, con il parere favorevole del Comando Regionale del CVL, alla formazione della terza Brigata, e cioè della 158^ Brigata “A. Gramsci” composta da tre battaglioni: il “Mazzini” […], il “Gregoratti” […], il “Mameli”». (Giovanni Padoan (Vanni), Abbiamo lottato insieme. Partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Del Bianco ed. Ud. 1966, p. 205. Notizia della creazione della nuova brigata si trova anche in: “Guerra di popolo, storia delle formazioni garibaldine friulane, – Un manoscritto del 1945 – 1946”, a cura di Ferdinando Mautino, Feltrinelli, 1981, p.124 e pp. 127-128). Nel frattempo, l’8 od il 10 ottobre giungeva al Comando della Divisione Natisone l’invito del Comando del IX°Corpo ad un colloquio (Giovanni Padoan (Vanni) Abbiamo op. cit., p. 207). Ebbero così inizio le trattative per il successivo passaggio della Divisione, accettato anche dal CVL, alle dipendenze solo operative di detto Corpo d’Armata dell’esercito di Liberazione jugoslavo, rifiutato dalla Osoppo. Ma di questo parlerò in altro mio successivo articolo.

La zona ove si era ritirata la Divisione Natisone era più ampia in larghezza della Zona Libera del Friuli Orientale ma al tempo stesso era più ristretta in profondità, e confinava con la retrostante Zona Libera del Litorale Sloveno in mano al IX° Corpo d’Armata. Inoltre spaziava dal Collio alle valli del Natisone e dello Judrio in un terreno montuoso, che obbligava ad attacchi ed azioni militari per nuclei, abbandonando il sistema di vita e di combattimento delle grandi formazioni. (Guerra di popolo, op. cit., p. 124).

Una parte dei partigiani della Divisione Garibaldi Natisone si trovava, come il comando, in una zona accanto a quella ove si era attestata la I^ Brigata Osovana. «Ed erano anche quelli della Osoppo vicino lì. “Bolla” era a là di Porzûs […], a l’ere a lis Farcadicis par furlan, Canebola, Porzûs, Claps, a Robedischis e verso Platischis e Montmaiôr, tutti quei paesi lì insomma» – ci ricorda Annibale Tosolini. (Laura Matelda Puppini, “E tu seis chi a contale, Annibale… Storia di un partigiano friulano della Divisione Garibaldi Natisone”, in www.nonsolocarnia.info).

Le condizioni in cui vivono i partigiani, sia osovani che garibaldini dopo la ritirata, sono difficilissime e ben poco miglioreranno, per la Natisone, con la dipendenza dal IX° Corpo d’Armata che governa la Zona Libera Slovena, almeno nell’immediato, mentre il nemico attacca in continuazione.
Inoltre viene a mancare la possibilità di utilizzare l’armamento di posizione, i partigiani si trovano con equipaggiamento estivo nell’approssimarsi dell’inverno, senza rifornimenti, con le strade bloccate, coi reparti dislocati a varie giornate di marcia, mentre bisognava star attenti ad acqua e cibo. Infatti vi era stato un tentativo di avvelenamento del btg. Gregoratti, che si trovava in zona Collio, da parte di due spie e di collaboratori del nemico, individuati dalla polizia della terza Brigata, e passati per le armi. (Guerra di popolo, op. cit., pp. 124-125).
Da un rapporto inviato dalla Ia Divisione d’assalto Garibaldi-Natisone del Corpo Volontari della Libertà al Comando del IX° Corpo d’Armata, datato: Zona, lì 12 dicembre 1944, firmato da Vanni, Virgilio e Sasso, veniamo a conoscenza della situazione in cui versa la Divisione.

Le tre pagine, fittamente riempite da scrittura battuta a macchina, narrano di fame, lotta e difficoltà: una puntata, fatta dal nemico, contro la 157^ Brigata, in particolare contro il Btg. Verrucchi, in zona Zapatok-Kala, aveva costretto il battaglione a spostarsi verso Montefosca; la passerella di Pulfero era presidiata da 60 tedeschi; le forze tedesche e cosacche, composte complessivamente da 800 elementi si erano concentrate nuovamente in zona Montaperta, Colp, Bergogna, mentre altre forze avversarie si muovevano verso Canebola, vicino a Robedischis, ove allora si trovava il Comando, costringendolo a portarsi a Montemaggiore, mentre la 157^ Brigata si attestava a Montefosca. (Rapporto del Comando della Ia Divisione d’assalto Garibaldi-Natisone al Comando del IX° Corpo d’Armata. Comando”, datato Zona, lì 12 dicembre 1944, firmato da Vanni, Virgilio e Sasso, in Ifsml, Fondo Lubiana).

Il 9 dicembre il btg. Verrucchi ed il btg. Scuola, che formavano la retroguardia, venivano attaccati, con forti raffiche di mitraglia, dal nemico all’altezza del cimitero di Prossenicco, e riuscivano, nonostante il tentativo avversario di tagliare la ritirata, a passare fra il fuoco dei nemici. Si lamentava però la mancanza di informazioni su quattro partigiani, forse riparatisi nei fienili accanto al luogo dell’agguato, in quanto non risultavano deceduti. E non si sapeva nulla pure di una pattuglia del btg. Pisacane, mandata in ricognizione sempre l’8 dicembre, non catturata, ma neppure rientrata. (Ivi).

L’11 dicembre, invece, il battaglione Scuola, con 15 uomini, aveva attaccato un gruppo di Cosacchi, tra Montaperto e Taipana, che andavano a depredare la popolazione, infliggendo perdite al nemico, che cercò di fuggire verso Taipana, cadendo in un’imboscata condotta da III° btg. Sloveno del Comando Operativo, che uccise altri 2 cosacchi, che si aggiungevano a quelli ammazzati nello scontro a fuoco dai garibaldini, e ne prese prigionieri 5, mentre 3 riuscirono a fuggire. Ma fuggirono o perirono anche i cavalli con cui il nemico si muoveva e così non ne restò che uno, come bottino, oltre armi e munizioni, che vennero equamente divise.
Nell’azione rimase gravemente ferito il comandante del btg. Scuola, che si sperava di salvare.

Unico neo: l’azione degli uomini della Natisone e quella degli uomini del battaglione sloveno non erano state anticipatamente concordate, e questo, per il Comando della Natisone, rappresentava un punto debole, in quanto il Capo di Stato Maggiore della Garibaldi Natisone si era accordato con il Vice commissario del btg. Sloveno perché il comando della Natisone fosse avvertita di ogni azione militare da parte slovena, in zona operativa comune.
Anzi, Sasso, Vanni e Virgilio, in forza dell’essere il loro comando operativo quello di maggior grado alle dipendenze del IX° Corpo d’Armata, chiedevano al Comando dello stesso che il gruppo sloveno, che agiva nella zona vicino alla loro, passasse, a livello operativo, alle loro dirette dipendenze. «Questo è necessario in quanto militarmente è giusto» – aggiungevano. (Ivi).

Vi erano quindi, in quell’inverno che si annunciava difficile per i partigiani, ancora delle incomprensioni, dei diversi desiderata, nelle discussioni, fra sloveni, animati da spirito nazionalistico, come precisa Vanni (Giovanni Padoan (Vanni), Abbiamo, op. cit, p.211) e garibaldini, mentre il nemico attaccava.
Poi, nel documento citato e datato 12 dicembre 1944, Sasso, Vanni e Virgilio passavano a trattare del problema più grosso, quello dell’Intendenza, che ancora non funzionava.

«La più grande lacuna è costituita dall’intendenza -scrivevano Sasso, Vanni e Virgilio al Comando del IX° Corpo-. Fin’ora l’intendenza nella sua nuova conformazione deposta (sic! Probabilmente disposta n.d.r.) dal compagno Skala, v. comandante del IX° Corpo, […] non ha avuto esisto alcuno, perlomeno ad occidente del Natisone. Non solo la 157^ Brigata non ha viveri -continuavano- ma nemmeno il Comando di Divisione, che è tutto un dire. Non c’è polenta, non ci sono patate, non c’è pane. Quello che finora abbiamo potuto procurare è la carne, però in scarsa quantità. Urgono provvedimenti seri. La situazione dopo il nostro ultimo rapporto è peggiorata di molto. Perciò vi preghiamo di dare le disposizioni del caso al Podroĉje (reparto amministrativo sloveno n.d.r.) perché provveda». (Rapporto del Comando della Ia Divisione d’assalto Garibaldi-Natisone, op. cit.).

Vi erano, poi ed in aggiunta, problemi per i collegamenti: «La situazione, per quanto riguarda i collegamenti, è semplicemente disastrosa. La via di Pulfero è tagliata in quanto il presidio tedesco si mantiene sempre e tende a rafforzarsi. Non abbiamo nessun collegamento né con la 156^ Brigata né colla 158^ Brigata. Non sappiamo nemmeno dove si trovino con precisione suddette unità.
Gli apparecchi radio del IX° Corpo non sono ancora arrivati». (Ivi).

Come si può vedere difficoltà simili accomunavano, in quel freddo inverno, osovani e garibaldini usciti dalla Zona Libera del Friuli Orientale, come la fame, il nemico che faceva rastrellamenti ed azioni, la mancanza di collegamenti, e poco si poteva sperare dagli alleati, visto il contenuto del Proclama Alexander, diffuso via radio il 13 novembre 1944, e quindi probabilmente noto anche a tedeschi, cosacchi, repubblichini, il che non facilitava la vita ai partigiani ancora in armi, che avrebbero dovuto, non si sa come, mantenerle per il futuro.

Ma per la Natisone i problemi erano tali che il Comando decideva, momentaneamente, di sciogliersi, dando ampio potere ai comandi di Brigata.

«In seguito a questa situazione il Comando è stato costretto a prendere una decisione molto seria: sciogliere il Comando momentaneamente per ricostruirlo a breve scadenza, quando cioè avremo le condizioni per farlo. (…). Perciò abbiamo deciso di rafforzare le Brigate con rappresentanti la Divisione nel modo seguente: Vanni e Virgilio rimarranno presso la 156^ Brigata, per rafforzarla dal punto di vista politico-militare, senza però cedere o diminuire il comandante ed il commissario.
Presso la 156^ Brigata si troverà pure il centro della Divisione per tutti i rapporti, sia con il 9° Corpo sia per tutte le altre relazioni di autorità Divisionale.
Dato che la 158^ Brigata politicamente è la più forte, ma dovrà ricevere tutti i mobilitati, presso questa Brigata si reca il compagno Sasso per renderla più combattiva.
La 157^ Brigata militarmente è la più forte ma necessita di un certo lavoro di Partito. Inviamo ivi il compagno Bruno, (Brillo Bertolaso, da non confondersi con Bruno Mario Blason n.d.r.), rappresentante del Partito nella Divisione, per approfondire questo lavoro. Abbiamo altresì deciso che il periodo di permanenza del Comando di Divisione presso le Brigate si protrarrà al massimo 30 giorni. Entro questo periodo dovranno risolversi tutti i problemi, se non completamente almeno in gran parte.

D’ altro canto voci persistenti indicano un rastrellamento in grande stile come quello avvenuto giorni or sono in Carnia. Sicché non si può per il momento mantenere nemmeno una Brigata su un territorio ristretto quale occupavano sinora le nostre unità. A questo proposito ci interessa la seguente questione: codesto comando non avrebbe nulla in contrario se, in vista a questo grosso rastrellamento che è in vista, (sic!) una Brigata o due passassero l’Isonzo? Certamente questo lo faranno in caso di estrema necessità». (Ivi).

Si presume che la risposta sia stata affermativa, e le Brigate della Divisione Natisone passeranno l’Isonzo, il 24 dicembre, la notte di Natale, (Guerra di popolo, op. cit., pp. 131-132) mentre gli osovani di Bolla verranno inviati via via a casa. Per la verità un battaglione della Natisone, il Mazzini, (Ivi, p.127), aveva già attraversato l’Isonzo ed era passato in Zona controllata dal IX° Corpo il 28 novembre 1944, pare autonomamente, ponendosi alle dipendenze della XXa Divisione slovena. Detto battaglione rientrerà nella Divisione Natisone, dopo aver subito forti perdite, solo nel febbraio 1945. (Ivi).

Dal documento datato 12 dicembre 1944 citato, si capisce pure che i comandi avevano informatori ma si chiedeva, al Comando del IX° Corpo, di intervenire anche in detto settore.

Per quanto riguarda la Carnia, per esempio, il Comando della Divisione Natisone sapeva che in Carnia, al rastrellamento iniziato alla metà di novembre ed ancora alla data del rapporto in corso, avevano partecipato «sei Divisioni nemiche: una Divisione SS, una Divisione Mas; una Divisione Mongola, una Divisione di “Brigate Nere”, e due Divisioni di “Repubblicani”». (Rapporto del Comando della I^ Divisione d’assalto Garibaldi-Natisone, op. cit.).

E si capisce pure che, mentre i vertici dei partiti ecc. parlavano di aspetti relativi al dopoguerra, magari discutendo in un albergo della Roma liberata, mentre gli Inglesi si erano già accordati con l’Urss sulla spartizione delle zone di reciproca influenza, attraverso il colloquio tra Churchill e Stalin avvenuto il 9 ottobre 1944 a Mosca, ed avevano iniziato lo smantellamento, per esser benevoli, del movimento partigiano greco, (Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, Einaudi, 1967-1975, v° volume, 1975, pp. 420-429) i partigiani del Corpo Volontari della Libertà, fossero essi osovani o garibaldini, vista sfumare l’ipotesi dell’arrivo immediato degli Anglo Americani, condividevano mille difficoltà pratiche, con i monti coperti di neve, il nemico ovunque presente ed in agguato, la fame e la mancanza di contatti, sfiniti e con i nervi a fior di pelle. Molte vite di patrioti (e si noti che così venivano definiti sia gli osovani che i garibaldini, cioè tutti i combattenti contro i nazifascisti anche nel dopoguerra) verranno recise in quell’inverno e nella primavera del 1945, molte spie alimenteranno catture e torture. E quello che caratterizzerà ancora il movimento partigiano sarà la lotta ai nazifascisti ed alle truppe collaborazioniste e di fatto dipendenti, come quelle della RSI.

Per concludere non nego di essermi chiesta perché questo documento, che spiega i motivi del passaggio dell’Isonzo da parte delle 3 Brigate della Divisione Natisone, non sia giunto ai giudici del processo per i fatti di Porzûs, ove si doveva anche decidere se la Divisione Natisone avesse o meno tradito la Patria, e perché una copia non sia stata data almeno a Candido Grassi, Verdi, che negli anni sessanta esponeva a Lubiana, ove si recava tranquillamente. (Cfr. Candido Grassi 1910- 1969, in: http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/personaggi/grassi.htm).

Non lo so, forse nessuno cercò documenti, forse nei processi si predilessero le discutibili fonti orali, forse … . E per ora mi fermo qui. Riprenderò l’ultima parte di questo documento in altro articolo, per sostenere come, secondo me, non vi siano elementi in detto scritto, integrato con altri, per sostenere che fu il IX° Corpo d’Armata dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo a dare l’ordine di compiere la strage detta di Porzûs.

Laura Matelda Puppini.

L’immagine che correda l’articolo è la copertina del volume “Guerra di popolo” a cura di Ferdinando Mautino, in mio possesso. E’ vietata la riproduzione dell’ articolo e sue parti  senza citare la fonte. Ogni testo pubblicato su www.nonsolocarnia.info è coperto da copyright.  Questo sito/blog è mio, non gode di sostegno economico alcuno tranne che il mio personale, ed è libero ed indipendente. Laura Matelda Puppini

Cittadinanzattiva. Sprechi e buone pratiche in sanità. Dossier marzo 2016.

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Se la politica statale nazionale e regionale Fvg ed in particolare coloro che hanno voluto queste riforme della sanità “sul nulla”, urlando “Agli sprechi, agli sprechi” ma pare proprio senza sapere quali fossero, nè quali fossero i punti di qualità di un sistema complesso come quello sanitario, avessero seguito quanto sta facendo cittadinanzattiva a livello nazionale, cioè iniziando dall’approccio alla conoscenza  del problema, forse non ci troveremmo ora in questa situazione caotica e di disaffezione, burocratizzazione del sistema sanitario, ove pare, come negli altri campi, si proceda con la logica nefasta del “giorno per giorno”. Propongo qui i due pdf di cittadinanzattiva, dal loro sito. Buona lettura.

Report sugli sprechi

Il rapporto sulle buone pratiche

 

 

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