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Alla fine della seconda guerra mondiale: storia fra leggende e ricostruzioni documentate.

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Vorrei chiarire relativamente alla storia del confine d’Italia ad est, dopo la seconda guerra mondiale, alcuni aspetti che portano a riflettere sulla versione emotiva dei fatti, che tende a travisarli, cercando di uscire dalle interpretazioni politicamente connotate.

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In primo luogo non fu solo questo nuovo confine ad essere oggetto di discussione da parte degli Alleati, in un contesto ove l’Europa intera era caduta sotto il giogo nazista. Parte degli italiani, con una scusa o l’altra ma anche in buona fede, hanno dato un’importanza grossissima al confine orientale d’Italia, nella ricostruzione storica, dimenticando i quattro anni precedenti, il fascismo ed i fascisti, ed i motivi che spinsero la popolazione della penisola a combattere e lottare, e scordandosi, pure, che gli Alleati, inglesi ed americani, dominarono la scena del dopoguerra. E c’erano anche nella Venezia Giulia, tanto che Giampaolo Valdevit dedica un intero articolo, documentato, a “Politici e militari alleati di fronte alla questione della Venezia Giulia, in: Qualestoria n. 3, ottobre 1981. E gli anglo- americani si mossero principalmente con una azione diplomatica verso il nuovo potere jugoslavo, ma tenendo conto, pure, di piani e iniziative di carattere militare che coinvolgevano il Mediterraneo intero.  (Giampaolo Valdevit, op. cit., p. 83).  

Dopo l’entrata dell’ Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo a Trieste, fu siglato, il 6 maggio 1945, un accordo provvisorio jugoslavo- britannico, (Diego Gon, Il problema di Trieste, 1945- 1954, CEMISS, Supplemento all’Osservatorio Strategico, n.7, luglio 2004, p. 12), quindi, il 9 giugno 1945,  fu firmato dal generale Alexander per gli Alleati e dal Maresciallo Josip Broz, detto Tito per la Jugoslavia, l’accordo di Belgrado che istituiva la linea Morgan creando le zone ‘A’ e ‘B’. Esso divenne operativo il 12 giugno, e pertanto, in quella data, l’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo abbandonò Gorizia, Pola e Trieste (Tra confini mobili e trattati di pace (1945-1975), in: intranet.istoreto.it). Il 14 dello stesso mese venivano smantellati i tribunali del popolo e le altre istituzioni civili create dagli jugoslavi. Il 20 giugno veniva stipulato l’accordo di Duino, che definiva ulteriormente le linee operative del precedente. (Ivi, p. 84).  E non si creda, stando a Valdevit, che gli Alleati, non avessero cercato, dopo tali accordi, per quanto riguarda Trieste, di «porre sotto l’esclusivo controllo alleato i più diversi settori dell’apparato amministrativo cittadino» (Giampaolo Valdevit, op. cit., pp. 84-85).

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Inoltre se è vero che la Quarta Armata dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo, entrò a Trieste il primo maggio 1945, provenendo da est, nel quadro della politica di liberazione dal nazifascismo, è anche vero che, comunque, la Seconda Divisione Neozelandese vi arrivò da ovest il giorno seguente «e occupò il resto della città, garantendo agli Inglesi e agli americani la possibilità di esercitare una certa influenza su Tito». (Paul Addison, La visione di Churchill dell’Europa liberata nel 1945, in. 1943-1945. La lunga liberazione, a cura di Eric Gobetti, Franco Angeli ed., 2007, p. 151).

E Winston Churchill, da buon conservatore, fin dall’ ottobre 1944, quando si sapeva ormai che il nazismo era vinto, iniziò a porsi come obiettivo il contenimento del comunismo, tanto da distruggere di fatto il movimento partigiano greco, nella Grecia liberata.

Non da ultimo, per i circoli ufficiali inglesi «finchè i russi combattevano battaglie eroiche sul fronte orientale, essi erano degli alleati indispensabili» (Ivi, p. 147) ma, successivamente, questi iniziarono a temere che l’Unione Sovietica avanzasse troppo, per le loro esigenze di egemonia anglosassone. E Churchill iniziò a paragonare, usando un linguaggio figurativo, l’Urss ad una grande bestia, pronta a divorare tutto (Ibid.), ed a muoversi fra il continuare il confronto con la Russia, temendo l’abbandono Usa dell’Europa, ed il dare istruzioni al suo staff di redigere piani di emergenza per una guerra anglo-americana contro l’URSS. (Ivi, pp. 152-153). Ma se le «ansie verso l’Unione Sovietica», condivise dal governo britannico, potevano paventare anche questo scenario, grande era la diversità nel vedere le cose del popolo inglese, «e sarebbe stato impossibile raccogliere consenso a favore di uno scontro con un alleato che aveva accumulato così ampie riserve di gratitudine ed ammirazione». (Ivi, p. 153).
Spesso, allora come ora, le paure di alcuni politici non furono condivise dal popolo, ed il modo di pensare dei vertici militari non coincise sempre con quello della popolazione.

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Inoltre La definizione di ‘corsa per Trieste’ fu coniata da Geoffrey Cox, ufficiale di intelligence della seconda divisione neozelandese che, nel 1947, intitolò un suo libro: The Race to Trieste”, (https://danieledemarco.com/2014/02/10/i-giorni-di-trieste-1945-la-corsa-per-trieste/) creando una immagine altamente evocativa ed emotiva della liberazione dai nazifascisti della città giuliana, ma che andava bene per un romanzo post- bellico o al massimo per i neozelandesi. Infatti Trieste fu conquistata dall’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo combattendo, aprendosi la via, attraverso il Monte Nevoso, alla valle di Prestranek, accerchiando così il XCVII° Corpo d’armata tedesco, ed iniziando a muoversi verso Trieste. Ma l’esercito tedesco continuò a cercare di respingere l’avanzata dell’esercito jugoslavo attestandosi sul Carso presso Opicina e Basovizza, e trincerandosi in alcuni luoghi della città. (AA.VV., La Slovenia durante la seconda guerra mondiale, Ifsml, 2013, pp. 365-366). Così le forze militari jugoslave, non riuscendo ad espugnare la roccaforte tedesca di Opicina, si divisero, e mentre un troncone continuava a combattere ivi, la 31^ Divisione deviò riuscendo ad entrare a Trieste da nord, senza incontrare resistenze. (Ivi, p. 366).   
Non fu quindi per il NOV i POJ, una corsa od una passeggiata, ma l’avanzare sconfiggendo od aggirando il nemico verso Trieste, che aveva già cercato di insorgere, con i collaborazionisti che cercavano di salvare vita e credibilità voltando gabbana, qui come là. 

Infatti vi erano state, alla fine di aprile, nella città, due insurrezioni popolari, una diretta dal Comando di piazza di Trieste, l’altra dal Comitato Nazionale di Liberazione Giuliano, a cui parteciparono pure unità del Corpo Volontari della Libertà, appartenenti alla Guardia Civica, ed alle forze repubblicane, collaborazioniste fino ad un momento prima. Questo aspetto e le trattative del Comitato Nazionale di Liberazione Giuliano con il comando tedesco per la resa, vennero viste negativamente dall’ Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo (Ivi, p. 365). Inoltre fra partigiani e combattenti del Corpo Volontari della Libertà vi furono, pure, sporadici scontri, finchè il Comando di piazza di Trieste procedette al disarmo dei partecipanti all’insurrezione del CNLG. (Ibid.). 

Invece la Divisione neozelandese dell’8a Armata britannica, motorizzata, giunse a Trieste il giorno dopo partendo dal Po, e raggiunse Trieste da ovest in due giorni e mezzo, senza combattere, e trovando la città già praticamente liberata. (Ivi, p. 366). Quindi la 1a e la 3a Armata dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia e l ‘Armata rossa, che entrò a Vienna, passarono a liberare la Slovenia, la Stiria e la Carinzia, superando con grande difficoltà le linee fortificate lungo i fiumi, mentre le forze tedesche in ritirata, costruivano, lungo la loro strada, nuove fortificazioni provvisorie. Ma già il 26 aprile 1945 le forze anglo americane, che avanzavano da ovest, superando l’Elba, avevano raggiunto quelle sovietiche che avanzavano da est, ed a Torgau avvenne lo storico incontro tra il generale Emil F. Reinhardt e il generale Vladimir Rusakov, che sanciva la vittoria finale. Non fu facile battere l’esercito tedesco per nessuno. Inoltre ad est si ritiravano, oltre l’esercito tedesco, l’esercito croato, i cetnici che tentavano di fuggire riparando anche in Italia, altri, e la situazione a fine guerra era composita. (Ivi, pp. 367-373).

Quindi «Gli arresti, le deportazioni e le uccisioni riguardarono persone molto diverse. Il […]  denominatore comune non era la volontà di eliminare gli italiani come nazione, come spesso il problema veniva rappresentato dalla propaganda di parte italiana, ma il desiderio di punire i crimini fascisti e in parte anche di eliminare chi non considerava l’Esercito jugoslavo un esercito liberatore. Tra gli arrestati e gli uccisi la maggioranza era in qualche modo legata al fascismo e alla collaborazione con l’occupatore nazista». (Ivi, p. 382).

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Militari e civili croati, cetnici bosniaci, montenegrini e serbi, la gran parte delle truppe collaborazioniste slovene, e parte dei domobranci sloveni (che si erano, all’ultimo momento, unificati dandosi il nome di in Esercito nazionale sloveno) si arresero agli inglesi, e furono chiusi nel campo di concentramento di Viktring, vicino Klagenfurt. Quindi, il 4 maggio 1945, il comando alleato decise di non accettare la resa di collaborazionisti jugoslavi, e così 26.000 appartenenti per la gran parte alle forze armate dello Stato indipendente croato di Ante Pavelić, furono consegnati agli jugoslavi. (Ivi, p 373). I domobranci sloveni e qualche centinaio di civili, come altri croati, serbi, montenegrini, furono rinchiusi nei campi di Šentvid e Thearje.  Alcuni furono uccisi subito, altri furono trasportati in una area carsica, furono fucilati e gettati nelle foibe (ivi, p. 373). Pertanto non è vero che furono giustiziati solo italiani perché erano tali, ma che vi fu una epurazione, di cui erano a conoscenza pure gli alleati, di collaborazionisti, filonazisti, filofascisti, sia italiani che di altre nazioni, e che questi ‘nemici’ furono uccisi e gettati nelle foibe carsiche o internati, indipendentemente dalla loro nazionalità. E ricordo che chi consegnò i cosacchi all’Urss, come da accordi internazionali, sapendo benissimo a cosa sarebbero andati incontro, furono gli Inglesi. Insomma spesso parliamo della seconda guerra mondiale come fosse stato un gioco, come essa avesse interessato solo italiani e sloveni che si contendevano un po’ di terreno, povero e magro, nella cosiddetta Venezia Giulia, dimenticando i contesti mondiali ed europei ed anche la shoa, che fu di proporzioni enormi, con la morte di circa 6 milioni di ebrei, niente a che vedere, anche se qualcuno lo vorrebbe, con i numeri dei morti complessivi a fine guerra tra i collaborazionisti dei tedeschi o ritenuti tali.  E se la Venezia Giulia poteva interessare all’Italia dopo la prima guerra mondiale nell’ottica di aprirsi la via per i Balcani, tutti avrebbero dovuto capire che ormai, alla fine della seconda,  tale progetto era terminato.       

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E passiamo ora al termine ‘foibe’ per indicare gli arresti, gli internamenti, i morti nel 1943 e 1945 da parte di sloveni e slavi. Nessuno credo neghi questi accadimenti, collocati in due precisi momenti storici, ma uno dei problemi è l’uso del termine emotivo ‘foibe’, onnicomprensivo e la errata contestualizzazione del fenomeno in una pulizia etnica italiana, mai esistita, per guadagnare un po’ di terreno di doline e non certo fertile.

Raoul Pupo e Roberto Spazzali sono gli autori del libro “Foibe”, prima ed. 2003, superatissimo dagli studi successivi e ristampato, credo in un’ottica politica, da ‘Il Giornale’, per il 10 febbraio 2018, che lo vende, ora, a 8,50 euro. Detto volume, a quindici anni dalla sua uscita ed alla luce degli ulteriori studi, appare discutibilissimo sia per il modo in cui è costruito, sia per la scarsa documentazione, di cui si sa, in certi casi, solo che è visionabile presso l’irsml ma non se sia di derivazione giornalistica, diaristica, da fonte orale, e privo totalmente di contestualizzazione non iper – locale, come il confine ad est d’Italia fosse argomento a sé, fosse un contenzioso tra italiani e jugoslavi che non avevano passato tutta la seconda guerra mondiale ed il periodo antecedente alla stessa. Pertanto quando i due autori dichiarano, in premessa: «Questo libro lo abbiamo scritto perché ce lo hanno chiesto», credo loro ciecamente, perché appunto potrebbe trattarsi, per loro stessa ammissione, di un pamphlet prodotto per chi poneva domande continue e solo sulle foibe. Ma per ritornare all’argomento che mi sta a cuore, anche Pupo e Spazzali scrivono che «Quando si parla di “foibe” ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in prevalenza italiani, scatenatesi nell’ autunno 1943 e nella primavera 1945 in diverse aree della Venezia Giulia», e che questo è «un uso del termine consolidatosi ormai, oltre che nel linguaggio comune, anche in quello storiografico, e che quindi va accolto, purchè si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale». (Raoul Puppo, Roberto Spazzali, Foibe, ed. Il Giornale, p. 2).

Però a me questo modo di ragionare da parte di due studiosi ritenuti degli storici pone davvero qualche problema. È come se, dato che nel linguaggio comune gli organi sessuali femminili vengono globalmente indicati con i termini, ‘la figa’, ‘la passera’, ecc. si permettesse ai medici di utilizzare detta terminologia generalizzante e popolare! Inoltre nel caso specifico, con questo uso del termine ‘foibe’, mai codificato con norma per descrivere dei fatti storici, si è dato spazio ed inizio ad una storia scritta con toni da romantico noir, che nulla ha a che fare con la storiografia seria, e che ha dato alimento e linfa ai nuovi fascismi, ben poco interessati alla scientificità.

Infatti così la ‘foiba’ diventa una specie di ‘oggetto simbolo’ di tutto il male possibile, che si attribuisce ai ‘titini’, comunisti rossi, invasori e ladri di terra, contrari agli italianissimi, e che volevano cancellare l’italianità e via dicendo, trasferendo una realtà storica contestualizzabile nella fine della seconda guerra mondiale, in una visione politica appartenente alla sfera dell’immaginario dell’estrema destra razzista. E che questa visione delle cose fosse figlia dei repubblichini, non lo dico io ma Enzo Collotti. (Cfr. Enzo Collotti, prefazione, in: Giacomo Scotti, “dossier foibe”, Manni 2005, p. 14). Inoltre Enzo Collotti afferma che non è vero che delle ‘foibe’ non si sia mai parlato sino al 2001, perché vi è stato mezzo secolo di pubblicistica immensa che ha puntato alla quantificazione dei morti, esasperandola, mentre, «La destra post-fascista ha pressocchè monopolizzato l’argomento delle foibe anche per distogliere l’attenzione dal ruolo svolto dall’RSI e di quanti aderirono alle formazioni nere che in Istria e nella Zona di Operazione del Litorale Adriatico combatterono agli ordini dei comandi nazisti contro i resistenti […], seminando distruzione e morte fra la popolazione civile. Questa destra post-fascista, inoltre, soprattutto a Trieste, ha cercato di coprire con urli e fragori qualsiasi voce levatasi per ricordare violenze e stragi perpetrate dai fascisti italiani in Istria e nelle zone occupate della Dalmazia, del Montenegro e della Slovenia […] dall’aprile 1941 all’inizio del settembre 1943 e, ancor prima […]». (Ivi).

E come non ricordare che l’antislavismo e l’anticomunismo furono due cavalli di battaglia del Partito Nazionale Fascista, che li utilizzò per incarcerare, picchiare, dare olio di ricino, uccidere, ridurre in povertà, ecc. ecc.?

Inoltre processi ed uccisioni di collaborazionisti e nemici non avvennero solo qui. «Già prima della fine della guerra i collaborazionisti francesi subirono arresti ed incarcerazioni, seguiti da giudizi sommari ed esecuzioni capitali, solitamente emesse direttamente dai partigiani che li avevano catturati». (https://it.wikipedia.org/wiki/Collaborazionismo_in_Francia).

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Ma, per ritornare ai fatti di fine guerra nella Venezia Giulia, corpi di uccisi dagli slavi furono sicuramente buttati nelle grotte naturali dette foibe, la cui esistenza nessuno può negare perché sono realtà geologica, o nel pozzo della miniera di Basovizza, non foiba (Raoul Pupo, Roberto Spazzali, op. cit., p. 3), e vi sono dati su questo aspetto, ma molti di più furono gli internati in campi di concentramento di cui alcuni ritornarono a casa. Ma vorrei far capire che le informazioni storiche non possono essere diffuse passando dal piano dell’analisi scientifica al piano emotivo- noir. Perché così va a finire che la visione sanguinaria della ‘foiba’ di Carlo Sgorlon: «La foiba faceva sempre pensare al sangue, all’ossario, alla macelleria, al lancio dei vivi e dei morti nell’abisso. Negli inghiottitoi si buttava la roba che si voleva eliminare, togliere per sempre dalla vista, e magari anche dalla memoria». (La foiba grande, Carlo Sgorlon) viene utilizzata per la giornata del ricordo, che ormai pare si alimenti più di Cristicchi, Casa Pound e politica che di storia e scienza. Anzi si è giunti all’intolleranza anche cattolica, con la ‘criminalizzazione’ e l’impedimento a parlare, grazie ad una giornalista, per alcuni studiosi che volevano tenere, in una sala pubblica, un convegno sulla giornata del ricordo, ed ad una preside, che mentre parlava Alessandra Kersevan ha chiamato credo la digos in borghese, a cercare non si sa quali ‘mostri’ nella stanza ove si teneva l’incontro, terrorizzando i docenti. Ma la cosa peggiore, politicamente, è che il Pd ed il governo tacciono, invitando gli altri ad esprimersi contro il fascismo.

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Anche Goradz Bajc, nel suo “Le ‘foibe’, contributo ad un dibattito storiografico in corso” in: “Atti del corso di aggiornamento ‘Revisionismo storico e terre di confine’ Trieste, 13-14 marzo 2006, pp. 195-205, utilizza il termine ‘foibe’ in senso ampio, pur riconoscendone il limite. Egli, come gli altri studiosi sia italiani che sloveni, non nega le violenze e uccisioni sommarie di persone di nazionalità italiana dopo l’8 settembre 1943 e dopo il primo maggio 1945, ma sottolinea come, a seguito delle ‘foibe’ istriane’ che contarono circa 500 morti, il terrore invase i circoli italiani locati ad est di Trieste, che iniziarono concretamente a temere di non poter  difendere efficacemente e militarmente i territori occupati dopo la prima guerra mondiale, ed i propri privilegi e posizioni sociali, e così incominciarono  insistentemente a chiedere l’occupazione della Venezia Giulia da parte anglo – americana, motivandola con il fatto che l’arrivo degli alleati avrebbe potuto prevenire i possibili progetti ‘titini’ di invasione e massacro. (Goradz Bajc, op. cit., pp. 198-199). E pare che anche la DC sostenesse tale soluzione ed avesse tali paure.  

Ed infine: mentre nessuno studioso serio oserebbe definire ‘roattiani’ o ‘grazianini’ soldati del Regio Esercito Italiano o dell’R.S.I., è ormai invalso l’uso di chiamare i partigiani dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, i ‘ titini’, quasi fossero tutti dei fantocci all’ordine di un capo indiscusso, il che non corrisponde a realtà, ma al solito ‘ immaginario non scientifico’. Essi erano invece in primo luogo partigiani combattenti, uomini, persone, anche loro forse prima soldati, o renitenti alla leva tedesca, che avevano visto pure perpetrare orrori su civili, e volevano liberare dai nazifascisti la loro terra. E come in ogni esercito vi erano personalità di ogni tipo.

Comunque stiano tranquille le destre, che con i tedeschi vittoriosi non vi sarebbe stata diplomazia alcuna e Trieste italiana, ma solo asservimento alla grande Germania, di cui l’R.S.I. era una creatura fantoccio.  Non a caso, dopo l’8 settembre, si parla di nazifascisti nei documenti d’epoca.

E per ora mi fermo qui. Senza voler offendere alcuno, ma per continuare una analisi spesso interrotta da paure, levate di scudi, politica di mezza tacca, e volontà di voler avere ragione senza leggere nulla. Sperando, per aver letto qualche volume documentato e riportato qualche considerazione, di non trovarmi domani nell’ elenco dei negazionisti delle foibe, o posta fra le nuove streghe, vi rimando pure ai seguenti articoli, pubblicati sempre su www.nonsolocarnia.info, attendendo anche vostri commenti nell’ottica di una analisi costruttiva:  

10 febbraio a Torino. Su quel convegno che, per qualcuno, “non s’ha da fare”, ma non si capisce perchè.

Laura Matelda Puppini. Per la giornata del ricordo.

Mode storiche resistenziali e non solo: via i fatti, largo alle opinioni, preferibilmente politicamente connotate.

Non avrei scritto queste righe se non avessi letto il titolo dell’articolo di Maurizio Cescon, Vergarolla 1946 …

Pier Paolo Pasolini, 1948: sull’uso politico di Porzûs, su cui “nulla è ancora chiarito e risolto”.

Sull’uso politico della storia.

Marco Puppini. Una riflessione su Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale.

Marco Puppini. Convegno sul confine orientale (italiano) dell’Anpi a Milano: una riflessione.

L. M. Puppini. Lu ha dit lui, lu ha dit iei. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica. La storia di pochi la storia di tanti.

Laura Matelda Puppini                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 

 

 

 


Verso una ssn senza reparti ospedalieri, e con i nosocomi gestiti da infermieri, e su altre ‘quisquiglie’ locali.

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Ormai sono così scettica sulla ‘nuova’ sanità Fvg e non solo, che pare nasconda, come politica vuole, i suoi limiti per mostrare virtù ignote all’ utenza, che mi pesa persino scrivere queste righe. Ma cercherò di farlo. Dividerò questo articolo in due parti: la prima relativa a problemi locali del nosocomio tolmezzino, la seconda sulla rivoluzione epocale, in Fvg, dell’organizzazione ospedaliera, che toglie i reparti o strutture o dipartimenti che dir si voglia, il che, secondo me, è pura follia, ed affida moltissimo agli infermieri, pare anche l’accettazione e le dimissioni, che però non possono firmare per legge, come le cure, facendo continuamente spostare gli ammalati, da un piano all’altro, senza che essi abbiano almeno per i pochi giorni di degenza, la stessa camera, lo stesso stipetto, lo stesso comodino, gli stessi compagni, e rischiando magari di star fermi per salire con un montacarichi/lettighe in una corrente d’aria. Ma ditemi un po’ voi … Speriamo almeno che nei corridoi mettano una segnaletica, visto che diventeranno elemento portante dell’ospedalizzazione!

PROBLEMI LOCALI TOLMEZZINI.

Venerdì scorso ho provato a fare alcuni esami presso il punto prelievi di Tolmezzo, perché ora, per noi utenti esterni, il laboratorio analisi si è ridotto di fatto a questo.  Prelievo il 23 febbraio. Risposta il 27….  Ma ci sono il sabato e domenica di mezzo, mi sentirò rispondere, ma provi a vedere se la risposta è pronta lunedì sera, e via dicendo, mentre avevo già rinunciato alla possibilità di scaricare la risposta on -line per via che dovevo, essendo la prima volta che richiedevo tale modalità, se ho ben capito, compilare un questionario. Non ne posso più della burocrazia, dei questionari, e soprassiedo.  Sono stanca e ho solo voglia di fare il prelievo e di tornare a casa. E mentre cammino verso il mio appartamento, sulla via del ritorno, penso a che senso abbiano prelievi il cui esito viene dato 4 giorni dopo!!! Una enormità, mi dico, sognando l’efficientissimo sistema privato di Casa di Cura Città di Udine, ove si riceve la risposta il pomeriggio dopo le 16, avendo fatto il prelievo al mattino.  Del resto è chiaro che se una assessora ed una giunta regionale, senza un briciolo di studio sugli effetti di ricaduta che non siano sulla spesa, centralizzano tutto, magari tagliando il personale, va a finire che, dopo aver pagato 30 euro per due banali esami, ti ritrovi con una risposta 4 giorni dopo, essendo una esterna, ed ai confini dell’impero. E questo sperando che il trasporto sia fatto nei modi dovuti. E se facessi gli esami in ipotesi di infezione? Ah, mi si dice, il medico di base, sperando non sia la sua giornata libera, deve firmare l’urgenza. Ma chi è in infezione, come fa a fare anticamera dal medico di base, aspettando i suoi orari, per convincerlo a farsi prescrivere una analisi urgente? E nel punto prelievi fanno analisi urgenti da inviare ad Udine, magari una sola? E quanto costa all’ aas3? Inoltre se un dato dell’esame non è corretto, poi si deve far leggere la risposta al medico di base, che quindi decide ulteriori accertamenti o cure. Ma quanto tempo, intanto, è passato?

*

Credetemi, così si può morire in sanità, soprattutto se anziani. E non perdo neppure il tempo per porre qui le mirabilie che ci avevano promesso Francesco Brollo, Debora Serracchiani, Maria Sandra Telesca e Cristiana Gallizia, spostando il laboratorio per tutta l’utenza che non occupa un posto letto ospedaliero, cioè per quasi tutti, ad Udine ed all’aas4, da cui dipende ora tutto il personale che era nostro! Non ci avevano detto, per esempio, che Udine funziona forse a metà, forse solo per gli interni, o che ne so nei fine settimana, non ci avevano detto che avremmo atteso 4 giorni, tolto quello del prelievo, una risposta, non ci avevano detto … E non ci hanno detto come vengono trasportati i campioni. L ‘impressione è che il laboratorio udinese abbia poco personale, o sia intasato, per l’arrivo, pure, da poco, dei campioni prelevati con ricetta ssn da strutture private, per esempio Casa di Cura città di Udine, come l’Assessora Telesca ha fortemente voluto sin dall’inizio, senza studiare i problemi che avrebbero potuto creare le sue scelte politiche, le ricadute, le criticità. Volli, fortissimamente volli, pare l’unico criterio di scelta, e il potere impositivo la modalità. E mi scusi l’assessore per queste parole.

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Un’altra cosa che mi ha stupito sia al punto prelievi tolmezzino, ove ora gli ambulatori si chiamano non si sa perché box, scatola in Inglese, dopo che l’ass3 aveva pedissequamente sostenuto l’uso del friulano, tanto da riempirci di cartelli bilingui, sia negli ambulatori sul ‘nido dell’aquila’ di ortopedia, è lo scarso numero di presenti. Un tempo la sala attesa analisi pullulava di gente, come l’ortopedia: ora sono luoghi quasi vuoti, a meno che ciò non sia accaduto solo quando c’ero io, come vuota è la nuova piazza XX settembre a Tolmezzo. Forse i medici di base non prescrivono più nulla? O la causa è un’altra?

*

Mi sono sempre chiesta, poi, chi abbia avuto l’idea di porre gli ambulatori di ortopedia, oculistica e chirurgia vascolare, e la guardia medica, al secondo piano dell’ospedale vecchio tolmezzino, ma questa scelta precede la riforma, e quindi non è alla stessa imputabile. Ove si studia credo l’organizzazione degli spazi in modo più adeguato per l’utenza, si pongono a piano terra in particolare le ortopedie, o si pongono in un edificio dove vi è un ascensore che si possa dire tale, non una cosa a metà fra questo ed un montacarichi, che talvolta parte, se si ha la fortuna che parta, con un sobbalzo rumoroso tale da spaventare e che può far oscillare rischiando l’equilibrio. Va beh che ci sono le scale, ma magari chi ha problemi al sistema muscolo scheletrico, agli occhi o alle vene, forse non è in grado di fare i cento gradini prescritti dai foglietti fuori dagli ascensori dell’ala nuova del nosocomio carnico. E neppure chi ha un’ernia lombare. Inoltre pare che all’ospedale di Tolmezzo nessuno sia capace di notare le problematiche che sono sotto gli occhi di ogni paziente che lo pratichi, e che si vada sempre avanti aspettando che altri segnalino, se hanno il coraggio di farlo, e che la politica elargisca a scatola chiusa. E per quanto riguarda i sopracitati ambulatori, altro aspetto discutibile è il basso numero di sedie per l’attesa di persone con problemi magari a deambulare ed a stare in piedi molto tempo. Infine i gabinetti hanno un gradino che imbroglia uscendo, e si dovrebbe mettere un segnale adeguato, magari alla porta d’ingresso.

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E passiamo al pronto soccorso di Tolmezzo. Girano nel capoluogo carnico strane voci a cui non credo se non mi verranno confermate: il pronto soccorso di fatto non può fare nessun accertamento di notte, né inviare campioni analisi, né fare analisi, né raggi o altro. Sarà vero?  E vorrei sapere, pure, se sia possibile lasciare il pronto soccorso dopo esser stati accettati, così senza firmare l’uscita, e se a qualcuno è accaduto di entrare con un braccialetto verde ed uscire con un codice bianco sul referto. Infine mi interesserebbe sapere, pure, se il pronto soccorso debba continuare con l’antico sistema in cui l’unico medico in servizio deve coprire anche i reparti ospedalieri di notte.
Inoltre sul funzionamento del riformato ospedale di Tolmezzo non si sa nulla di nulla, neppure che servizi eroghi e chi siano i medici che vi prestano servizio. Il portale dell’aas3 è deficitario, e dà informazioni su attività socio-culturali e sui dirigenti, poco utili per l’utenza, e sull’ amministrazione ed i procedimenti amministrativi in modo puntuale, ma dista anni luce dalla precisione di quello udinese o triestino per chi cerca un professionista e le prestazioni erogate sia in libera professione che no. E se erro mi scuso subito e correggetemi.

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LA NUOVA ORGANIZZAZIONE OSPEDALIERA VOLUTA DALLA RIFORMA. COME CREARE IL CAOS IN UN SISTEMA ORGANIZZATO EFFICIENTEMENTE.

Quindi vorrei soffermarmi su come si profila la nuova struttura interna degli ospedali, dove pare saremo affidati, dopo la fase acuta, ai soli infermieri, che chiameranno uno specialista ruotante, ed in base a chi chiameranno faranno loro la diagnosi. E con questo siamo alla frutta ed al caos primigenio!!!  Ricorderemo certamente questa riforma epocale per fare soldini sulla nostra pelle, eccome la ricorderemo! E non ditemi che scrivo ora questo perché siamo vicini al 4 marzo. Ognuno è libero di votare chi gli pare, democraticamente, ma della salute e del sistema sanitario da cui dipende io mi sono interessata, mi interesso ed interesserò sempre, prima del 4 marzo, il 4 marzo, prima dell’8 marzo, festa della donna, l’8 marzo, dopo il 4 marzo, e dopo l’8 marzo, il 19 marzo, San Giuseppe, prima e poi.

E vediamo la rivoluzione epocale che dovrebbe iniziare da uno degli ospedali che funziona meglio e cioè Cattinara di Trieste. Così ce la racconta Walter Zalukar, dell’Associazione ‘Costituzione 32’, nel corso della trasmissione ‘Svegliatrieste’, andata in onda il 16 febbraio 2018. (https://www.youtube.com/watch?v=8_OM7HGZMtw&feature=youtu.be).
Il conduttore chiede al noto medico triestino, cosa accadrà con questa nuova rivoluzione rispetto alla degenza negli ospedali. Non si lavorerà più per reparti ma per intensità di cura. Che significa, cosa cambierà?

Zalukar: «È una spiegazione non semplicissima per i non addetti ai lavori. Perché si va a toccare, profondamente, tutta l’organizzazione degli ospedali che viene totalmente ribaltata rispetto a quella a cui siamo stati abituati.  Attualmente ogni ospedale è diviso in strutture, che sarebbero i vecchi reparti ospedalieri. Quindi abbiamo una struttura di cardiologia, una di medicina d’urgenza, una di medicina interna, una di chirurgia, e così via. Cioè per ogni specializzazione, o disciplina che dir si voglia, quindi per la disciplina dell’urologia, per quella della chirurgia vascolare, per la neurochirurgia e così via, vi è un reparto in cui operano medici specializzati nella disciplina a cui afferisce il reparto, diretti da un primario che adesso si chiama direttore, anche lui specializzato nella disciplina.
Ovviamente per l’assistenza non medica ci sono gli infermieri, che non sono divisi in specializzazioni, se non in certi determinati campi, che però fanno un’esperienza notevole nel settore in cui lavorano, e quindi acquisiscono, con l’età e con gli anni di lavoro accumulati, una reale competenza nel genere di malati che si trovano nel reparto ove prestano la loro opera.
Infatti una cosa è assistere un malato chirurgico, una cosa è assistere un malato cardiologico, una cosa è assistere un malato neurologico.

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Finora c’era questo tipo di organizzazione, che permetteva, pure, il lavoro di equipe. Vi erano il primario, i medici, gli infermieri, ma anche gli operatori socio-sanitari, i cosiddetti oss, che, lavorando a stretto contatto, formavano una squadra.
E in sanità non è più il tempo del vecchio luminare, del medico singolo e così via: è l’equipe che vince, è l’equipe che cura e che fa risolvere i problemi. Il medico senza l’infermiere, o un infermiere che agisce senza un medico, sono minus nel sistema.
Detto questo, come la Regione intende, o meglio come ristrutturerà, perché la legge 17 parla chiaro, l’ospedale di Cattinara in funzione di questo nuovo assetto?

Non avremo più i reparti. Non esisterà più la cardiologia, non esisterà più la medicina d’urgenza, non esisterà più la neurologia, e via dicendo. E per vedere cosa accadrà farò l’esempio mostrando come si ristrutturerà una delle torri ospedaliere di Cattinara (che sono due, una per le specialistiche mediche ed una per le chirurgiche ndr).  Invece di avere ogni piano un reparto, la divisione avverrà, per intensità di cure. Per esempio giunge una persona con una grave difficoltà respiratoria, magari per una forte broncopolmonite mal curata, e quindi in reale difficoltà. Il paziente viene condotto nella terapia semi – intensiva, che ora è rappresentata da dei letti nel reparto di pneumologia, o anche nel reparto di medicina d’urgenza. Attualmente, una volta superata la fase acuta, pazienti di questo tipo, quei pochi fortunati a cui bastavano magari solo due o tre giorni di degenza, o venivano dimessi o venivano mandati, se necessario, in un reparto di medicina non semi – intensivo. Ma andavano sempre da una equipe all’altra.
Adesso invece, i pazienti, quando richiedono meno intensità di cure ma sono sempre acuti, andranno al piano superiore, dove ci sarà un’altra equipe infermieristica, attenzione non più medica, perché con la riforma saranno le equipe solamente infermieristiche che terranno il piano, e quando il paziente starà ancora un po’ meglio, andrà al piano di sopra, e così via, sempre affidato ad infermieri. A questo punto uno mi potrebbe chiedere: «E i medici dove sono?»

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Se si tratta di un problema pneumologico, quando il malato arriva nel reparto si chiamerà il pneumologo, perché le strutture dal punto di vista della denominazione rimangono, ma rimangono solo come associate a delle persone, non ad un reparto. Per cui lo pneumologo andrà a vedere questo signore, come l’urologo magari il paziente accanto, e via dicendo, risolverà i problemi, lo rivedrà il giorno dopo. E quando il paziente starà meglio, andrà al piano di sopra, e l’infermiere chiamerà il pneumologo, ma non è detto che verrà sempre quello che ha già visto il paziente, potrebbe essere anche un altro pneumologo, MA DIPENDERÀ SEMPRE DALL’ INFERMIERE CHIAMARE O NON CHIAMARE IL MEDICO. Se il malato, poi, avrà un altro problema, per esempio potrebbe trattarsi di un malato cardiopatico, che oltre una forte broncopolmonite mal curata ha avuto anche uno scompenso cardiaco, causato dall’insufficienza respiratoria della broncopolmonite, arriverà il cardiologo, che farà la sua valutazione, darà le sue terapie. Ma quello che è da dire, è che questi due medici non si parleranno, pur avendo visto lo stesso paziente, E CHI FARÀ IL COLLETTORE DELLE VARIE CONSULENZE MEDICHE SARÀ L’INFERMIERE, E NON CI SARÀ PIÙ UN MEDICO CHE SEGUIRÀ QUEL PAZIENTE DALL’ INIZIO ALLA FINE DELLA DEGENZA OSPEDALIERA.

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Ed a questo punto voglio aggiungere una cosa importante: «Esperimenti di questo genere sono stati fatti in due regioni italiane, e qualcuno forse è ancora in corso: in Emilia Romagna ed in Toscana, e, da quel che sappiamo, perché non c’è tantissima documentazione, perché sono forme organizzative partite non da tanto tempo, pare che la sperimentazione non dia gli esiti sperati, anzi che stiano venendo fuori situazioni in cui il malato è abbandonato, praticamente, dal punto di vista medico, perché nessuno lo segue.
E io lo so perché ci sono state molte proteste anche a livello sindacale, di medici che si trovano spiazzati e dicono: «io sono responsabile di quel malato ma la vera responsabilità della degenza è dell’infermiere». E attenzione che NON È SOLO UN PROBLEMA MEDICO – LEGALE, È UNA QUESTIONE ANCHE ETICA. Cioè io che ho sempre lavorato perseguendo un determinato fine di salute per quei malati che mi sono stati affidati, MI TROVO IMPROVVISAMENTE A DOVER LAVORARE IN UNA ORGANIZZAZIONE CHE, PRATICAMENTE, MI INTRALCIA NEL FARE QUELLO CHE FACEVO DA SEMPRE. QUESTO È IL PROBLEMA GROSSO.

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Quindi una signora interviene nel corso del programma, dicendo che quattro anni fa era stata ricoverata in prima chirurgica, e si era trovata benissimo, anche perché le avevano programmato tutta una serie di esami e controlli. Ma ora, invece, per altra patologia, non è stato così, non vi sono state indicazioni per controlli periodici ed esami, ed ella deve arrangiarsi come può, utilizzando il privato.  

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Ma continuando a parlare dell’assistenza ospedaliera per intensità di cure (si chiama infatti così, ove l’assistenza pare proprio venga prima della diagnosi, gravità e cura, (cfr. http://salute.regione.emilia-romagna.it/assistenza-ospedaliera/intensita-di-cura), detto modello organizzativo sicuramente è stato oggetto di convegni di vertici e politici, ma credo che i limiti si siano visti solo applicandolo, senza analizzarli prima. Si va per mode e risparmi, penso sconsolata. E mi domando pure se siano organizzati solo su equipe infermieristiche gli ospedali austriaci, tedeschi, o francesi.

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 Le motivazioni portate dall’Ipasvi, associazione sindacale di infermieri, di Gorizia, poi, per sostenere l’inevitabilità del passaggio al modello per intensità di cure sono come minimo discutibili. (http://www.ipasvigorizia.it/allegati/attiECM/allegati/all109.pdf).

  • Si parte dal fatto che la popolazione anziana, in aumento, ha patologie croniche e non acute, e già questa non si sa da dove venga fuori se non dai sostenitori della riforma, perché gli anziani muoiono spesso per problemi acuti non certo cronici, o per mancate cure, o per errori diagnostici. Altrimenti tutti gli anziani dovrebbero spegnersi lentamente, ammesso che arrivino ad una certa età, ma ciò non è vero. Si muore ancora di polmonite e di infezioni di vario tipo, di infarto e via dicendo.
  • Si precisa che ormai è in corso un inarrestabile processo di deospedalizzazione, ritengo a causa del fatto che gli ospedali costano e il governo deve far cassa, ma l’Ipavsi non ne specifica il motivo, quasi fosse dato per scontato che sia così.
  • L’ organizzazione per intensità di cura è di sicura attrazione per il policy marker, e segue un modello adatto all’ industria, il che, secondo me, non secondo l’autrice delle slides, non fa ben sperare.
  • Si sottolinea che si devono superare le specialità mediche, che pare siano diventate un obbrobrio quando sono presenti in tutti i paesi civilizzati, come ciò fosse un nonnulla, cadendo così in una cinesizzazione del lavoro dove gli infermieri di fatto pare facciano i medici, orientando la diagnosi in base a quale specialista chiameranno, con caduta verticale e paurosa della scienza medica e della professionalità.
  • Contrazione delle risorse per il welfare, il che è il primo ed unico motivo, secondo me, per riforme così prive di senso, che si sostengono con un mare di parole inutili, senza dimostrazione alcuna della loro verifica nel settore.
  • Non vi sarà più gerarchia, aspetto che viene letto positivamente, ma che, invece, significherà il caos e la confusione di competenze. Inoltre un infermiere non può accettare un paziente né dimetterlo, senza esercitare la professione medica, ma allo Stato non interessa, basta spendere di meno, e non può dare indicazione terapeutica alcuna. Essere dimessi significherà, quindi, ora, solo liberare un posto letto che costa? Forse per Maria Sandra Telesca e Adriano Marcolongo, sì.

Questa rivoluzione epocale si chiama, e lo ripeto ancora una volta, secondo me e non solo, dato che il termine non è mio, “cinesizzazione della sanità”, il che potrebbe seriamente implicare possibilità maggiore di morte. Si chiama illudere gli infermieri di essere medici in quanto responsabili delle diagnosi se uno si sente male, delle cure, del collegamento fra specialisti, si chiama spostare continuamente un malato anche grave, con le sue cose, e via dicendo. Per fortuna che agli infermieri, come specificato dall’ Ipavsi, si affiancheranno ancora gli addetti alle pulizie. Il resto sono solo parole, parole, parole, e mi scusi l’autrice, Annalisa Pennini, che non conosco. Non voglio offenderla, ma solo entrare nel merito dei suoi scritti. E se erro correggetemi.

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Nel frattempo, dato che tutto dovrebbe ruotare intorno alla sanità – assistenziale, come non tenere in seria considerazione l’opinione di chi scrive ( e non sono io) che «è venuta meno quella figura fondamentale che era prima il medico condotto (ora di base)»? E che sottolinea pure come, secondo lei, «C’ è troppa burocrazia, meno assunzione di responsabilità e meno cultura sanitaria e presidio. (…). Ora ci sono problemi legati a varie criticità, non ultima quella della sinergia fra enti interessati?». E si vuole continuare a capovolgere tutto per far cassa?

Non lo so, ma è importante prendere coscienza di questi problemi. Senza voler offendere alcuno, scusandomi subito con chi si fosse risentito, ma per porre sul tappeto questioni pratiche e teoriche. Mi scusi pure l’aas3 per aver osato scrivere alcune criticità, ma l’ho fatto per chiedere informazioni e vedere se si possa migliorare il servizio, non certo per offendere l’azienda, dato che dell’ospedale non si sa nulla e tutti tacciono.

Laura Matelda Puppini

Vi invito pure a leggere i seguenti articoli miei già pubblicati us www.nonsolocarnia.info che si riferiscono alle problematiche qui esposte:

Sanità: sui risparmi e sulle competenze. Verso la “cinesizzazione” del lavoro nel ssn?

Sanità, salute, ambiente, società. A caccia di qualche dato e facendo qualche considerazione.

Verso una sanità senza medici o meglio con pochissimi? Chiediamocelo. Alcuni dati da Anaao Assomed ed alcune considerazioni personali.

Verso quale sanità? Le novità degli ambulatori “See and Treat” in mano agli infermieri, e della privatizzazione dei 118, per ora in Lazio… Aggiornato in data 26 ottobre 2016.

Sanità pubblica. Tra Stato e Regioni “fai da te”, dove si andrà a finire?

L’immagine che correda l’articolo è tratta, da: http://www.adriaticonews.it/tagli-sanita-ghiselli-cgil-marche-sono-insostenibili-siamo-gia-al-limite-della-sostenibilita/ ed è stata da me utilizzata per presentare l ‘articolo: Sanità, salute, ambiente, società. A caccia di qualche dato e facendo qualche considerazione, pubblicato semrpe su: www.nonsolocarnia.info.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

Appello del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale in vista del voto il prossimo 4 marzo.

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Roma 28 febbraio 2018.

Con il voto del 4 marzo finisce una legislatura da archiviare come una delle peggiori della storia della Repubblica. Ci si sorprende della transumanza di parlamentari da una parte all’altra, ma se i parlamentari venissero scelti dai cittadini e non nominati dai capi partito questo fenomeno non ci sarebbe.

Dall’entrata in vigore del Porcellum si sono susseguite tre legislature, una peggio dell’altra. Purtroppo anche quella che sta per iniziare avrà parlamentari eletti con una pessima legge elettorale, approvata a scatola chiusa con ben 8 voti di fiducia, che ha imposto di nuovo l’elezione dei parlamentari sulla base della fedeltà ai capi impedendo ai cittadini di sceglierli.

Eppure il tentativo di manomettere la Costituzione, con metodi e contenuti stravolgenti della Costituzione del 1947, si è infranto sul voto dei cittadini che il 4 dicembre 2016 al 60 % hanno detto No. Il governo pensava di ottenere un plebiscito e invece ha perso clamorosamente. Ritorna, tuttavia, in molti programmi elettorali la volontà di non tenere in considerazione la volontà popolare espressa con il voto del 4 dicembre. Per questo, pur comprendendo la sfiducia ed il disagio di fronte alla crisi di una politica e di una classe dirigente, non è tempo di stare alla finestra: il colpo di mano realizzato nel 2012 con la riforma dell’art. 81 potrebbe ripetersi se non ci sarà in Parlamento il massimo numero possibile di parlamentari fedeli alla Costituzione. L’astensione può solo agevolare i responsabili del tentativo di manomettere la Costituzione e dell’approvazione di questa legge elettorale.

Il Coordinamento invita gli elettori e le elettrici a non votare i partiti e i parlamentari che hanno tentato di manomettere la Costituzione e approvato questa legge elettorale. Chi ha voluto questa legge elettorale si è reso responsabile di una grave ferita democratica, mentre oggi è prioritario superare l’abisso di sfiducia tra​rappresentanti e rappresentati, che rischia di diventare una vera e propria delegittimazione dell’istituto parlamentare, centrale nella nostra Costituzione.

Questi apprendisti stregoni rischiano di far fare un salto all’indietro alla democrazia del nostro paese come delineata nella Costituzione, aprendo la strada a nuove tentazioni revisioniste come, ad esempio, una delle diverse forme di presidenzialismo, di cui la destra parla apertamente.

Dobbiamo utilizzare tutti gli spazi democratici per modificare in profondità questo sistema elettorale: ricorrendo alla Corte costituzionale, promuovendo la proposta di legge elettorale di iniziativa popolare su cui è iniziata la raccolta delle firme e che verrà presentata entro l’estate al Senato, usando lo spazio del nuovo regolamento che obbliga a esaminare entro tre mesi le leggi di iniziativa popolare, infine – se non resteranno alternative – ricorrendo al referendum per abrogare la sostanza di questa legge.

Il Coordinamento per la democrazia costituzionale, erede del Comitato per il No, chiede il sostegno dei cittadini alla campagna forte e serrata già iniziata per raccogliere le firme necessarie a sostegno di tre proposte di iniziativa popolare: nuova legge elettorale proporzionale con parlamentari scelti dai cittadini, modifica dell’art 81 della Costituzione per eliminare l’obbligo del pareggio di bilancio e per la salvaguardia dei diritti fondamentali, una vasta riforma della scuola cambiando radicalmente la legge 107.

Inoltre il coordinamento è impegnato ad affermare i valori della Costituzione, puntando a ribaltare scelte sbagliate come l’ulteriore tentativo di svuotarel’articolo 11 (l’Italia ripudia la guerra) e ribadendo una netta discriminante antifascista che è fondamento della nostra Costituzione e della nostra democrazia nata dalla Resistenza.

Coordinamento per la democrazia costituzionale.

 

 

Amedeo Pellegrina di Rigolato, comunista. Storie di vita, lavoro, partito, resistenza.

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Questa intervista fa parte del gruppo di interviste fatte assieme a mio marito negli anni ’70 – ’80, a carnici con vite ed esperienze diverse. Amedeo parla in ‘carnico di Rigolato’ ma ho tradotto in italiano le sue parole per i molti che non capiscono il friulano e per la mia difficoltà a scriverlo. Egli ci parla della sua vita, di socialismo, di comunismo, di cooperative, di resistenza, del 2 maggio ad Ovaro.

Adelchi Puschiasis mi racconta che Amedeo Pellegrina era un personaggio molto rispettato per la sua integrità ed onestà. Ed aggiunge: «Ricordo che con lui e Brunello Alfarè, a cui era legato da sincera amicizia, da giovani abbiamo fatto un giro, fermandoci all’andata anche all’osteria di Chiassis, dove venne calorosamente riconosciuto dalla proprietaria. Era risaputo che durante il fascismo subiva spesso arresti preventivi, specie in occasione di manifestazioni, ecc., e che di mestiere faceva il carradore. Negli anni ’70, mi chiese in prestito la Storia della rivoluzione francese di Salvemini, che lesse e mi restituì. Era conosciuto come ‘Madeo di Mondo‘, abitava in una casetta che dava sul rio Gramulins, sulla strada che da Rigolato sale a Ramontan e Casadorno…».

Per il casellario politico centrale, Amadio Pellegrina, nato a Rigolato nel 1905 e residente a Rigolato, era invece solamente un comunista, iscritto alla rubrica di Frontiera. (Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, Amadio Pellegrina – busta 3821 – estremi cronologici 1937-1942).  Ma vediamo cosa ci ha raccontato Medeo di Mondo, in quel lontano 1978.

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INTERVISTA AD AMEDEO PELLEGRINA DI ALIDO CANDIDO E LAURA MATELDA PUPPINI.  

Laura, dopo le presentazioni ed i saluti, domanda informazioni sulle prime cooperative.

Amedeo: «Le prime cooperative che si sono formate in Carnia sono state create da emigranti. Emigrando, i lavoratori hanno ascoltato idee socialiste, hanno conosciuto il movimento socialista, e lo hanno vissuto, non come ora che, in particolare in questo paese, non si sente più parlare nessuno delle idee e degli ideali socialisti. E io credo che la colpa sia da attribuirsi al fatto che la gente legge poco. In particolare in questa zona si legge meno che nel resto d’Italia.
Una prima piccola cooperativa di generi alimentari è sorta a Ludaria, e poi i soci l’hanno traferita a Rigolato. Poi da Rigolato, l’hanno portata a Villa Santina, anche se una succursale è rimasta sempre qui, almeno io ricordo così.  E Villa Santina riforniva tutta la Val Degano e non solo. E dopo l’han portata a Tolmezzo. Tolmezzo, allora, riforniva tutta la Carnia, ed aveva oltre sessanta succursali. Dopo è venuto il fascismo, e i fascisti hanno dato l’assalto al gruppo cooperativo, e hanno preso il potere, e direttore è diventato Rinaldo Colledan (1), originario di Mione o Luincis, se non sbaglio.

Prima c’era Vittorio Cella, un socialista, un brav’uomo. Ma dopo, con l ‘avvento del fascismo, hanno espulso dal consiglio di amministrazione tutti i vecchi socialisti, hanno cambiato tutto all’ interno dell’organizzazione, ed i fascisti sono andati, anche lì, al potere. Comunque non è andata male per noi neppure con loro, perché Colledan era più dalla parte dei proletari che dei signorotti.

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Per quanto mi riguarda, io avevo nove anni quando mio padre è morto. Ed eravamo in sei fratelli. Ed allora, vedendo tutti i sacrifici che dovevano fare le donne, in particolare mia madre, perché, morto mio padre, non aveva entrate ed allora non c’erano assicurazioni di nessun genere, né cassa malattia, né assegni familiari, né niente, mi sono formato al socialismo un po’ da solo, e poi sotto la naja.
Sotto la naja mi ricordo che non stavo mai fermo, mi alzavo la notte e, con un carboncino, scrivevo “W Lenin” lungo le scale e scarabocchiavo dappertutto. L’indomani: “adunata”.  Ma non veniva mai fuori chi era stato, nessuno lo diceva. Anche se mi avevano visto, nessuno tradiva.

Poi, ritornato a casa, ho incominciato a leggere molto, e, un po’ alla volta, ho conosciuto le idee, e sono entrato come simpatizzante, nel Partito Socialista, perché non esisteva ancora il Partito Comunista, che è sorto dopo la scissione di Livorno, il 21 gennaio del 1921. Poi mi hanno parlato del Partito Comunista, che era allora, appena nato, ed era un partito piccolo, che aveva forse 13 deputati inizialmente, e così ho simpatizzato per il Partito Comunista, ed ho formato, nel 1925, la sezione di Rigolato.

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A casa mia, nel 1923- ’24, c’erano sempre visite di carabinieri e controlli, e mi ribaltavano fuori la casa, e tutto quanto. Il primo maggio del 1924, poi, sono venuti qui niente po’ po’ di meno che quindici carabinieri! Ma non venivano solo da me. Quel giorno ‘Giuanut di Mas’, (Giuseppe Giovanni Pavona, pittore comunista, nato nel 1897, iscritto alla rubrica di frontiera e radiato ndr) non si trovava in casa, ed era tutto chiuso. I carabinieri hanno messo una scala e sono entrati da una finestra. Giuanut era un compagno, ed erano compagni quelli di ‘Butaciòn’, ma in quel periodo erano già emigrati e non hanno mai voluto ritornare. Infatti se fossero ritornati sarebbero finiti in galera.
Comunque non mi hanno mai picchiato perché ero comunista. Dopo che qualcuno ha fatto la spia che avevamo formato a Rigolato la sezione comunista, ci hanno chiamato alla sezione provinciale di Udine per il confino. E hanno convocato me e Fabian di Prato (Osvaldo Fabian di Pieria di Prato Carnico ndr).  E dopo una decina di giorni ci è giunto il verbale di condanna. Io ho preso due anni di ammonizione, mentre Fabian non ha avuto nessuna condanna.

Ma io sono stato condannato anche perché me la sono voluta. Tra le domande che mi fecero, vi era anche questa: «Lei, dalle informazioni che abbiamo, ci risulta essere un comunista».  E io non ho detto di no, perché non riuscirò mai a rinnegare la mia personalità. Poi ero allora abbonato a L’Unità, che era un giornale, come quello fascista, legale, ed anche noi comunisti avevamo i nostri rappresentanti in Parlamento. Ed il delitto Matteotti è stato nel giugno 1924, di preciso il 10 giugno. E poi mi hanno anche chiesto se mi risultava che si raccoglievano fondi per il ‘Soccorso Rosso’. «È un dovere aiutare i compagni» – risposi. E tutte le domande che mi fecero, inerenti al Partito, io le confermai. Perché si dovrebbe rinnegare se stessi? Perché giungere sino a quel punto? Allora cosa siamo? Non siamo nulla, allora. Dopo i due anni di ammonizione, ho lavorato un anno come prima, e hanno visto che non molestavo, non facevo del male, non facevo nulla, e mi hanno condonato il secondo.
Ma ogni volta che veniva il Re o il Principe o Mussolini in regione, ci venivano a prendere e ci portavano a Tolmezzo, in carcere, e, finché non erano rientrati a Roma, non ci lasciavano andare.

In precedenza anche in Carnia, come in tutta Italia, avevano occupato i Municipi per un giorno o due, ma non è successo niente.  L’occupazione dei Municipi fu nazionale.

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Io facevo di mestiere il ‘carador’, il carrettiere. Avevo un paio di cavalli. Li aveva acquistati mio fratello prima del 1917, ma poi siamo andati profughi, ed anche lui è venuto con noi. Un cavallo è morto allora, e così siamo rientrati a Rigolato con una bestia sola, ma poi ne abbiamo acquistata un’altra. Ma poi, nel 1921, anche mio fratello è morto ed io ho dovuto rilevare la sua attività. Vi erano, dopo di me, altre due bambine da sfamare, ed una delle mie sorelle aveva due anni e l’altra sei, e si viveva tutti in casa. Tre fratelli, invece, avevano superato i 15 anni. Ma poi la famiglia ha avuto la disgrazia. Mio fratello, mentre stava demolendo una casa, a San Candido, è caduto, e si è sfracellato. Lo hanno portato all’ospedale, ma lui, invece di stare lì, è scappato ed è venuto a piedi a casa. Così non abbiamo potuto, come famiglia, prendere nulla nemmeno da lui. Ed è morto nel 1921, per complicazioni a seguito di quell’incidente. Mio padre era già morto, mia madre si arrangiava con la campagna, e teneva due mucche. E prendeva in affitto quasi tutti i terreni per lavorarli. Ma una cosa era l’affitto, una cosa la mezzadria. E qui lavoravano anche per un terzo: due terzi al padrone e uno a loro, ma mia madre non ha mai lavorato in quelle condizioni. Qui c’erano quei tre o quattro magnati … e il fascio più grande di fieno doveva andare nella loro stalla, il più piccolo restava a chi lavorava … e vi erano anche imbrogli da ogni parte.

Comunque io ho lavorato con i miei cavalli fino circa al 1927 o ‘28. Poi li ho venduti e sono andato con D’Agaro. Lui trasportava con il camion, e io nelle strade più difficili con i cavalli, che erano suoi ed io ero dipendente.
Trasportavamo anche la roba che veniva dalla Cooperativa Carnica di Tolmezzo. E fino a Rigolato arrivava il camion, ma poi, per raggiungere Collina o Givigliana, intervenivo io. Ma trasportavamo anche sabbia, tronchi, e lavoravamo per le ditte, per esempio per Umberto De Antoni, ma anche per altri. Non facevamo però il trasporto di persone, ma solo di merci. Le persone utilizzavano la corriera, che era, fra l’altro, più veloce. A noi, per raggiungere Tolmezzo, poteva servire anche una giornata intera. Infatti i camion erano residuati bellici della prima guerra mondiale, e non erano usciti quei camion grandi che si vedono anche ora, e allora c’era lavoro per tutti. Ma poi, dopo la seconda guerra mondiale, sono usciti quei mastodonti che potevano venire sino a Rigolato con il rimorchio. Mentre un tempo i camion salivano solo fino a Comegliàns.

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Per quanto riguarda il Partito Comunista, è sempre stato in contatto con tutti, anche con il Partito Socialista. Ed ogni sezione aveva le sue attività, la sezione di Rigolato aveva le sue attività e quella della Val Pesarina le sue. E c’era una sezione del Partito Comunista ed una Partito Socialista in ogni comune della Carnia. E nelle sezioni si faceva attività. Per esempio quando ero del Partito Socialista, un obiettivo era la conquista dei comuni, perché volevamo dirigere le sorti del paese, dopo la prima guerra mondiale. Ma poi, nel 1926, è giunta la dittatura fascista. Nel periodo fascista siamo stati perseguitati, ed anche stare in contatto fra di noi era difficile. I fascisti avevano le spie, che stavano attente a tutto quello che facevamo noi, perseguitati. Però devo dire che durante il fascismo non ho avuto problemi per lavorare. Per la verità hanno cercato di farmi perdere il lavoro perché ero comunista, ma non ci sono riusciti perché lavoravo con privati, non lavoravo per lo Stato o per un Ente Pubblico.

Ero allora con D’ Agaro, e trasportavo merci a Sappada, a Forni Avoltri, ecc.. Ho lavorato per D’ Agaro dal 1927-’28 in poi».

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Alido chiede ad Amedeo informazioni sull’ attività della sezione del P.C.I.  di Rigolato.

Amedeo: «Io distribuivo l’Unità e poi avevamo anche avevamo anche altri giornali che diffondevamo. Per esempio ‘don Basilio’ (giornale periodico satirico, contro le parrocchie di ogni colore ed anticlericale, uscito dal 1946 al 1950, molto popolare. Crf. http://www.galantara.it/Ricerche/argomenti/Unsecolodistampasatirica_Pellegrino.pdf. Ndr.).  Ma non sotto il fascismo. Sotto il fascismo ci trovavamo nei boschi. Ci davamo appuntamento nei pressi di Sostas, (Sostasio ndr.) e giungevano anche i compagni di Canàl, della Val Pesarina, e di Ravascletto e veniva agli incontri anche un rappresentante della Federazione di Udine per parlare con noi, della Val Degano, della Val Pesarina, della Val Calda.

Io, poi, con il mio carro, portavo anche viveri ai partigiani. I viveri li portavamo sempre su noi, ma poi la situazione ha iniziato a farsi seria perché eravamo pedinati, a causa delle spie. Mi ricordo una volta che abbiamo caricato, a Chiassis, 30 quintali di grano, e 15 ne abbiamo portati a Margò (località vicino a Povolaro di Comeglians ndr), e 15 a Rigolato. E l’indomani siamo ritornati a Villa Santina con un carico di tavole, e abbiamo saputo che a Chiassis i cosacchi avevano svaligiato l’intera casa dove avevamo caricato il grano. A quel povero diavolo i cosacchi avevano rubato tutto, persino il fieno per le mucche». 

Vi era poi anche l’Ors di Pani che aiutava i partigiani. Egli era un contadino che stava dietro l’abitato di Muina, o meglio fra Muina, Raveo ed Enemonzo. I partigiani si incontravano lì e lui dava loro animali per mangiare, che venivano pagati, ed è stato davvero buono. E ci tengo a precisare che i partigiani non hanno rubato, ma hanno pagato.
Qui c’erano molti garibaldini mentre a Forni Avoltri c’era un gruppo della Osoppo comandato da un prete. (Era il battaglione Fedeltà, guidato da Pasquale Specogna, ‘Beppino’ e da don Ascanio De Luca ‘Aurelio’. Ndr.). Qui i partigiani erano tutti giovani, ma non erano tanto ben comandati. E forse per questo non sono riusciti a lavorare tanto bene.  E la gente, finché distribuivano burro li applaudiva, ma quando hanno iniziato a toccare i suoi interessi, non lo ha fatto più. E dicevano che mentre la gente aveva fame, loro mangiassero pastasciutta condita tre volte quel che serviva, e che rosicchiassero. (Queste però paiono più dicerie paesane del dopoguerra antipartigiano. Ndr).

Io comunque portavo generi alimentari da Villa Santina e Chiassis a Rigolato, e poi venivano a ritirarli i partigiani qui. Ed il grano proveniva da paesi oltre il Mont da Rest, e veniva trasportato attraverso Mont da Rest e Dauda. I partigiani scendevano la sera a prelevare ciò che era per loro, e lo portavano nei loro nascondigli. Noi lo scaricavamo nelle cantine del Municipio, che era un po’ fuori mano, e loro lo ritiravano lì. Allora era il tempo della Zona Libera, e qui era stata eletta una amministrazione socialista, anzi social – comunista. Ma poi sono arrivati i Cosacchi, ed allora abbiamo ripreso a far tutto clandestinamente. Comunque abbiamo continuato ad aiutare i partigiani: li abbiamo sempre aiutati in ogni modo.

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Poi, nel 1944, c’è stata la spedizione germanica. Sono giunti dalla parte di Fleòns. E prima di tutto hanno fatto razzia a Forni Avoltri, ne hanno catturati 20 lassù, (hanno preso lì 20 ostaggi ndr), poi sono scesi qui, a Rigolato, ed hanno dormito nella scuola, ed hanno catturato anche qui una ventina di persone. E poi hanno formato una carovana e si sono allontanati per Valpicetto, Calgaretto, e sono andati a finire a Prato Carnico.
Ma, lungo il tragitto per Calgaretto, disgraziatamente, hanno visto tre partigiani in una stalla, sotto la strada. Così i tedeschi sono andati giù e prima hanno preso il padrone della stalla, poi i partigiani. Ed erano tre, e li hanno interrogati, e poi li hanno messi contro il muro, legati, assieme al padrone della stalla, e li hanno ammazzati tutti quattro. I tre partigiani erano originari di Fusea, e li abbiamo sepolti qui, a Rigolato. E solo in un secondo tempo i parenti sono venuti a prendere i loro corpi.
E la colonna di fornesi e rigoladotti catturati dai tedeschi ha poi proseguito per Meduno, ed è stata più volte attaccata dai partigiani lungo la strada, ma i tedeschi non hanno avuto grosse perdite, forse un morto o due in tutto, fra tedeschi e partigiani».

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Alido e Laura domandano che politica faceva Umberto De Antoni ai tempi del fascismo.

«De Antoni prima era con i fascisti, come tutti, ma poi sia egli che altri industriali hanno capito che si dovevano aiutare i partigiani, perché la guerra stava andando verso la fine ed i tedeschi avevano ormai perso. E così hanno concordato con Comitato del Cln di versare un tot per cento per ogni metro cubo di legname, come forma di aiuto alla resistenza».

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«Mi chiedete sul 2 maggio ad Ovaro. Qui ormai tutti i comuni erano occupati dai ‘mongoli’ (in friulano mongoi, termine con cui in Carnia si indicavano i cosacchi ndr.). E laggiù, ad Ovaro, prima i partigiani (osovani, btg. Canin ndr.) hanno fatto saltare la caserma dei Cosacchi a Chialina, e lì sono morti 8 o 10 di loro, che sono stati sepolti a La Patussera dove c’era a quei tempi il cimitero. Allora gli altri mongoli si sono chiusi, rinserrati, nel Municipio. E i partigiani credevano che si sarebbero arresi, invece hanno tenuto duro finché è arrivato il grosso dei cosacchi che salivano, ritirandosi, da Villa Santina e andando verso l’Austria, perché la guerra era finita. E questi cosacchi hanno circondato Ovaro. Una parte è salita per il tragitto della tranvia, e dalla tranvia è scesa giù, verso la chiesa, e hanno bloccato un gruppo di giorgiani che era passato con i partigiani. E un altro gruppo di cosacchi ha raggiunto Muina, passando per Cella, ed ha circondato tutto il Comune. E se non ci fossero stati i giorgiani sul ponte con la mitragliatrice a sparare all’impazzata, chissà quanti ovaresi sarebbero morti! E quei poveri giorgiani sono morti tutti 8 sulla mitraglia, e sono stati sepolti nel cimitero di Forni Avoltri.

Ed infine i mongoli si sono ritirati senza che nessuno li toccasse. Poi, da che so, i cosacchi hanno attaccato gli Inglesi, che hanno fatto intervenire la loro aviazione, e l’aviazione li ha scompaginati sino a Mauthen, ed i cosacchi hanno dovuto arrendersi. E gli Inglesi (come da accordi internazionali ndr.) avevano l’ordine di consegnare i cosacchi ai russi, prima ed in particolare i grandi Ufficiali, e Krasnov è stato impiccato sulla piazza rossa di Mosca, ed era egli che comandava l’armata, ed aveva posto la sua sede a Verzegnis. (Nella realtà era Domanov che comandava ndr)».

Laura chiede se i partigiani dell’ultima ora, fra cui De Antoni, potessero aver desiderato attaccare ad Ovaro i cosacchi senza rendersi conto dei problemi reali, e solo per mettersi in mostra, come alcuni narravano, ma Amedeo risponde che non lo sa. «Io non ero presente – afferma –  e non posso dire se ciò sia vero o meno, proprio non lo so». 

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Laura chiede come si siano trovati poi, a Rigolato, dopo la guerra, e che problemi avessero in paese.

Amedeo: «Dopo la guerra si sono fermati tutti i lavori. Ormai le segherie non vendevano, perché prima fornivano gli eserciti germanici, ma poi… e così gli operai si sono trovati quasi tutti disoccupati. E hanno dovuto varcar la frontiera ed andare in Francia a trovare lavoro. Ma se avessero avuto lavoro qui, non ci sarebbe stato bisogno di emigrare, perché meglio che a casa propria non si sta bene in nessun posto.

Certamente nei lavori pubblici era più facile che trovasse lavoro un democristiano che un socialista o un comunista, ma questo accadeva per i lavori che dipendevano dal Governo, e questo accadeva anche sotto il fascismo. Nella cartiera di Tolmezzo, poi, ci vogliono ancora, al giorno d’oggi, raccomandazioni per entrare, mentre invece ad Ovaro erano quasi tutti di Ovaro e qualcuno era di Prato, e non c’entrava la politica nelle assunzioni.  A Tolmezzo era una situazione diversa, contava più la politica.

A Rigolato, poi, i padroni prendevano chi comodava a loro, e non aveva potere alcuno neppure il prete, nelle assunzioni. Prendevano gli operai che erano più bravi e che rendevano di più, non andavano a guardare l’appartenenza politica. A loro interessava la produzione. Comunque pochissimi, nel secondo dopoguerra, lavoravano qui, a Rigolato.

Poi hanno costruito, a Valpicetto, il canale della Cartiera di Tolmezzo, e qualcuno in più ha trovato occupazione, ma molti hanno dovuto andare all’estero. Poi, nel 1952, hanno iniziato ad allargare la strada da Comeglians fino a Forni Avoltri, perché prima era larga solo un metro, un metro e cinquanta – due in certi posti, e molta gente ha trovato lavoro per fare questo. Ma per il resto, non c’erano lavori di sorta, qui, nella Val Degano! E nelle altre valli della Carnia era la stessa cosa.

Andavano emigranti anche passando le montagne. Noi abbiamo espatriato da soli, siamo andati in Jugoslavia nel 1949, perché là c’era lavoro quanto ne si voleva!  E io avevo trovato lavoro come muratore, e lavoravo con Nadda. All’inizio eravamo in tre del comune di Rigolato, poi sono venuti altri tre. Eravamo in sei ad esser andati in Jugoslavia, e ci siamo trovati là. Ma c’erano uomini da ogni parte della Carnia accorsi per il lavoro. Ce n’erano da Piano d’Arta, da Paluzza, ce n’ erano che venivano da ogni parte! E là non strozzavano la gente come qui, ma non si poteva mandare i soldi a casa: quello sarebbe stato importante, ma non si poteva spedire nulla. Solo quelli che erano andati in Jugoslavia attraverso i Sindacati Unici di Trieste (2), che collaboravano con quelli della Jugoslavia, potevano farlo. Noi siamo invece espatriati così, perché ormai avevano chiuso la possibilità di andar a lavorare là. Ma noi abbiamo provato comunque ad andare in Jugoslavia, perché per andare in Francia bisognava raggiungere il Piemonte per varcar la frontiera, ed il viaggio era lungo. Invece qui abbiamo attraversato la frontiera su Mangart, e poi ci siamo recati alla polizia jugoslava, che ci ha permesso di cercare lavoro. Ce ne erano tanti che espatriavano per lavorare in Jugoslavia, allora! Mentre in Austria erano mal messi, come noi. L’ unica via era la Francia. In America, se richiedevano mano d’opera potevi andare, altrimenti no.

In Jugoslavia sono stato un anno. Ma quando siamo ritornati ci hanno presi a Gorizia e messi dentro in un collegio.  E lì abbiamo fatto 10 giorni, e ci hanno fatto fatto molte domande e poi ci hanno mandati a Gadl (?) con un foglio di via, ma noi non lo abbiamo usato. Avevamo soldi da soli. Ma poi ci hanno chiamato a processo a Pontebba per espatrio clandestino, e ci hanno condannato, ma ci hanno dato la condizionale, senza l’iscrizione al casellario giudiziario. Avevamo un avvocato, “un ca l’ere un cjochela”, che ci ha domandato 200 lire per ciascuno! Sicchè anche quello si è preso i nostri soldi.

Poi ho lavorato sempre qui. Un po’ ho lavorato nel bosco, perchè il commercio del legname, delle tavole di legno, era un po’ ripreso. E quel po’ di lavoro è durato sempre, ma poco, ed io, poi, nel 1955, sono andato in Svizzera, dove ho fatto sei stagioni, fino al 1960. Poi sono andato in pensione. E poi sono ritornato a lavorare nel bosco, e mi sono fatto male al ginocchio. E si lavorava per privati perché i comuni non avevano soldi e non sapevano neppure dove andarli a prendere, e ne avevano abbastanza solo per riuscire a pagare le spese amministrative. Ed erano ben pochi i lavori che un comune poteva assumere.

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Per quanto riguarda la Cooperativa Carnica, nel secondo dopoguerra è diventata socialdemocratica. E di ciò hanno risentito le filiali perché al giorno d’oggi (1993 ndr), ci sono negozi che vendono alcuni generi quasi più a buon mercato della cooperativa. Ma guai che non ci fosse la Cooperativa!

Laura chiede cosa è accaduto nel 1949 alla Cooperativa, quando viene chiesto l’aumento delle quote sociali. Si forma in quell’occasione un comitato, di cui fa parte anche Fermo Solari, che sostiene che in questo modo si cerca di estromettere la base povera dalla Cooperativa, che non aveva, nel dopoguerra, la cifra per pagare l’aumento della quota sociale, visto che ogni azione sarebbe passata da 100 a quattrocento lire.

Amedeo: «Queste sono tutte bugie. Perché poi il tribunale, anziché duecento lire per azione, l’ha portata a 5000 lire, e molti di loro non hanno pagato quella cifra non perché non li avessero, ma perché non capivano perché avrebbero dovuto pagare tutti quei soldi. Era una questione di interesse, perché davano il 5% mi pare. Però quelli che non erano soci comperavano la merce allo stesso prezzo dei soci, e non valeva certo la pena ai soci di spendere di più in azioni. Comunque è il tribunale che ha deciso di portare a 5000 ogni azione, ma non so perché».

Laura chiede se sa di una assemblea della Cooperativa, tenutasi nel 1948 o ’49, dove si dice che per non far votare i socialisti ed i comunisti della Val Degano e della Val Pesarina, che non sostenevano certo Sylva Marchetti, Cleva ecc, non si siano fatte passare le corriere sul But, e non hanno permesso che raggiungessero Tolmezzo.

Amedeo: «Mah, non so, ma io credo che non sia vero. Piuttosto gli industriali qui hanno fatto pressione presso gli operai per far votare la lista di socialdemocratici al consiglio di amministrazione, ma non che abbiano fatto altro. Questi socialdemocratici erano legati al mondo industriale, perché Cleva, che era mi pare il Presidente della Social democrazia, era anche un industriale, anche se non tanto grosso. Il più grosso industriale in Carnia era Umberto De Antoni. Ma sia Cleva che De Antoni avevano influenza nel mondo carnico.

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 Alido chiede che rapporto vi era tra padrone ed operaio sotto De Antoni. E parla dell’ incidente sul lavoro avuto da suo padre, e del fatto che, essendosi rifiutati quelli che erano a lavorare con lui, di testimoniare, aveva perso tutto: pensione e riconoscimento di infortunio sul lavoro. 

Amedeo invece dice che, secondo lui: «Questo non può essere vero. Perché il padrone, se l’operaio ha un infortunio, non ha nulla da perdere. Una quota della cassa viene pagata da noi lavoratori, una quota dal padrone, sicché è l’assicurazione che paga, non l’industriale. Altrimenti, se vi è un infortunio, cosa stanno a fare le assicurazioni? E negli anni cinquanta c’erano». Alido però ribadisce che a suo padre è accaduto così, anche se Amedeo pare non credere proprio al racconto fatto, ma forse i boscaioli stavano lavorando ‘in nero’ o senza le dovute sicurezze, ed un motivo per non voler dichiarare l’infortunio ci doveva essere, anche perché poi la madre di Alido non ha avuto pensione alcuna e l’incidente non è stato riconosciuto neppure dalla cassa malati. Comunque Amedeo dice che negli anni cinquanta c’erano le assicurazioni anche se «Sulle marchette ci tradivano. Perché tanti operai non sapevano, ed andavano a lavorare ma i padroni non mettevano le marchette per la pensione».

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Laura chiede cosa pensi della Comunità Carnica, e del perché il suo compito di portare un certo benessere in Carnia sia fallito. E chiede cosa abbia fatto la Comunità Carnica per il comune di Rigolato.

Amedeo: «La Comunità Carnica, organizzata così, non ha fatto niente. Aveva organizzato più comuni ma ha dimostrato di non aver fatto niente».

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Laura chiede come mai in Carnia vi fossero tanti comunisti e socialisti, che avevano anche combattuto durante la resistenza per un mondo migliore, e poi si sia finiti così. Poi, dopo la Liberazione, ci sono state diverse amministrazioni rosse. Ma poi tante di queste amministrazioni non sono riuscite ad avere un vero e proprio potere, e quindi a fine mandato, sono diventate democristiane. E molti socialisti e comunisti sono spariti o sono tornati nell’ombra. Tanto che quelli che ora hanno 27-30 anni, finchè non sono andati all’ Università ed hanno in qualche modo studiato queste cose, neppure si sognavano che in queste zone ci fosse stato tanto fermento. E sia la Comunità Carnica che molti altri enti, quando noi eravamo piccoli e giovani, erano in mano a democristiani, e noi non sapevamo niente di quanto era accaduto, e nei paesi si è perso tutto un dibattito sociale e politico. Ed ormai la gente si perde in beghe e beghette, e in notiziole, mentre un tempo c’era una vitalità diversa. Perché la situazione, in 30 anni di vita mia, è cambiata in questa maniera, tanto che la mia generazione stenta a credere che certe cose siano esistite?

Amedeo: «Ma, intanto, nella Democrazia Cristiana sono i grossi monopoli che comandano, e i monopoli tengono dure le redini, per loro conto, e tutelano i loro interessi. Ed i social – comunisti, poi, un po’ alla volta, mentre prima si erano un po’ invaghiti di far questo e quest’altro, vedendo che non riuscivano ad ottenere niente, si sono persi d’animo, perché tutti li bloccavano. Chi comandava li bloccava. E così i capi socialisti e comunisti si sono ammutoliti, hanno perso l’audacia che avevano prima, e la classe operaia non si interessava di niente, come non si interessa neanche adesso. Perché adesso, secondo Lei, si interessano di qualcosa? Adesso si interessano di football, sport e basta, non del loro avvenire. E le montagne vengono spogliate tutte quante, per mancanza di lavoro, mentre gli abitanti vanno verso le industrie, dove lavorano d’estate e di inverno, nei grossi centri. E ora, anche se vanno all’ estero, vanno a lavorare sempre, non stagionalmente. E non hanno bisogno di andare e tornare con la valigia come una volta, come facevano, un tempo, i nostri padri e zii. Ora la gente va e non torna più. Per esempio a Givigliana, di tre o quattrocento persone che erano, ora sono ridotte in cinquanta, Ed anche a Ludaria hanno fatto lo spaccio della Cooperativa e via avanti, ma se dovessero farlo oggi, non lo farebbero».

Con queste amare considerazioni si chiude l’intervista ad Amedeo Pellegrina, comunista di Rigolato.

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Sono riuscita, un paio di giorni fa, a raggiungere Brunello Alfarè, grande amico di ‘Medeo di Mondo‘, che mi ha confermato l’amore di Amedeo per la lettura, tanto da farsi imprestare volumi universitari e per la discussione sui temi di attualità. Egli descrive Amedeo come una persona schiva, che sapeva ribattere in modo intelligente su questioni politiche e sociali anche al medico, e che aveva custodito, durate la dittatura, gelosamente, i numeri dell’Unità del 1924- 1925, nascosti all’interno di una damigiana posta in un stavolo in montagna sotto il fieno. Egli si ricorda, però, che detti numeri avevano solo l’elenco delle sottoscrizioni e del denaro ricevuto, ma nessun articolo, perché censurati.
Inoltre rammenta che Amedeo gli raccontava che poteva muoversi, forse dopo l’ammonizione, solo per un raggio di 20 chilometri dalla residenza, e che quando passava con i cavalli, portava con sé un ‘sapin’ con cui rompeva, se poteva, le insegne ed i simboli fascisti.   

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Chiudo questo nuovo ritratto, sottolineando l’importanza di ricordare persone con la loro storia, che hanno narrato la loro vita, che sarebbe stata perduta se non ci fosse stato un registratore a fissarla. Colgo l’occasione per ringraziare oltre Brunello Alfarè ed Adelchi Puschiasis, anche AVF Nimis, che ha riportato su CD le mie registrazioni su cassette non certo di eccelsa qualità.

L’immagine che correda l’articolo è stata scattata dal fotografo Giuseppe di Sopra, detto Bepo di Marc, di Stalis di Rigolato, e rappresenta un particolare di un interno familiare realizzato con autoscatto nella sua casa. Da copia per schedare.

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Note:

(1) Rinaldo Colledan, geometra, fascista della prima ora, fu anche direttore dell’Amministrazione provinciale udinese, carica che ricopriva sicuramente nel 1933, e membro del consiglio provinciale dell’economia, assieme ad Antonio Volpe, anche del consiglio di amministrazione della Banca del Friuli. (Andrea Leonarduzzi, Storiografia e fascismo in Friuli. Partito, gruppi dirigenti, società, 36, e Gazzetta Ufficiale del Regno di’ Italia 5 maggio 1933).

(2) Dal maggio 1945 al febbraio 1956 esistettero i Sindacati Unici, poi trasformati nella nuova Camera Confederale del Lavoro. (http://biblioteche.comune.trieste.it/Record.htm?Record=19319026157911372089&idlist=2). Per ulteriori informazioni sulla Nuova Camera Confederale di Trieste, cfr. Istituto Livio Saranza – Trieste. Nicoletta Guidi e Paola Ugolini, Nuova Camera Confederale del Lavoro di Trieste (1945- 1969), 2006).

 

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesco Cecchini. Ritratti di donne.

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Per la festa della donna, ho deciso di riprendere alcuni ritratti femminili di Francesco Cecchini dai suoi racconti, aggiungendo le poche righe che mi aveva mandato su sua madre e le sue zie, le sorelle Rocco. Le  pennellate con cui Francesco tratteggia alcune donne che ha conosciuto o di cui ha sentito parlare ne rendono la personalità nel contesto, la diversità, lo spessore. Laura Matelda Puppini 

Ritratti di donne.

Maria, peruviana, guerrigliera di Sandero Luminoso, svanita nel nulla.

«Ho conosciuto Maria, una studentessa che si offriva per insegnare spagnolo agli stranieri. Maria diventò militante di Sendero Luminoso e come tanti altri sparì nel nulla. Maria, simpatizzante di Abimael Guzmàn, il Presidente Gonzalo, talvolta mi guardava come se fossi un ‘gringo‘ stupido e decadente. A Maria piaceva la musica andina ‘huaynos’, ‘quena’, ‘arpa’, e mi fece conoscere anche il ‘coliseum per la pelea de gallos’, l’arena per la lotta fra galli. L’ultima volta che la vidi, quando ormai aveva già scelto la sua via, mi diede un bacio sulla guancia e mi disse: «Suerte», «Buona fortuna». Ricambiai il bacio e le dissi: «Suerte y cuidate», «Buona fortuna e stai attenta».

Caroline, la francese di Sai -gon.

«Il cielo di Sai Gon è senza nuvole, limpido, e fa caldo, fa davvero caldo. Attraversiamo in taxi la città in festa. Vedo dal finestrino Ngyuen Huè ove c’è il mercato dei fiori: vi sono tante piante e tanti fiori, in particolare gialli, di pruno. Scendiamo dal taxi in pieno centro e ci fermiamo agli uffici di “Expat Service”, un’impresa gestita da Caroline e Marc, due franco-vietnamiti, che si occupa dei problemi locativi degli espatriati a Saigon.
L’ufficio è rimasto aperto solo per me. Mi accoglie Caroline, la direttrice, che mi dice subito che ha trovato qualcosa per me: un edificio di quatto piani, stretto ed alto, con due stanze per piano: senza mobili. Nel prezzo è compresa anche l’organizzazione dei locali in base al Feng Shui, l’antichissima arte geomantica taoista. Per organizzare i locali secondo le antiche regole del Feng Shui, Caroline mi propone di andare subito a Cho Lon, dove vive il geomante che lavora per l’ ‘Expat Service’, che, per arredare, deve conoscere chi vivrà nell’edificio e parlargli.

Ritornando ci fermiamo all’ ‘Arc en ciel‘, e ci portiamo sulla terrazza. “Mangiamo o beviamo qualcosa?” – mi chiede Caroline, ma io non ho fame. Così Caroline ordina alla cameriera due bicchieri di ‘calvados‘ con ghiaccio ed una fettina di mela verde. Mentre sorseggiamo il ‘calvados‘, Caroline mi racconta della sua adolescenza a Sai Gon: il tennis a le ‘Cercle Deportif‘, le difficoltà incontrate per non essere né francese né vietnamita.
Suo padre era un legionario tedesco, forse un ex nazi, venuto in Viet Nam a combattere con i francesi contro il Viet Minh. Aveva conosciuto sua madre nel sud del Viet Nam, a Ca Mau, ma lei era nata a Sai Gon, dove aveva vissuto e studiato fino ad un mese prima che i viet cong prendessero la città. Allora, aveva 15 anni. Poi il nucleo familiare si era trasferito a Parigi, ma dopo gli studi ed un po’ di lavoro, Caroline era ritornata in Viet Nam. “Il Viet Nam è il mio paese” – aggiunge. Non parlo, ascolto».

Laura, la Paraguayana.

«La casa dove abito ad Asunción, è in mattoni e tetto in lamiera. Quando piove, di notte, il rumore delle gocce sulle lastre non fa dormire. La sera, quando non esco e mi attardo a leggere, la musica che la mia vicina ascolta mi accompagna, assieme alla voce di un cantante. Abbiamo un giardino in comune che nessuno dei due cura. Laura è paraguaiana e lavora alla ‘Entidad Binacional Yacyretá’ come geologa. Un giorno le chiedo che musica stia ascoltando. “Ma come, un argentino non riconosce un tango e chi lo canta, Goyeneche? Mi piacciono le canzoni di ‘el polaco’, Volviendo al Sur”- mi dice. Ma io non sono argentino.

 Una sera Laura mi invita a vedere un vecchio film in bianco e nero, ‘Cuesta abajo’. Il protagonista, Carlos Gardel è un mito del tango. Il film è noioso, l’attore Gardel non convince, ma il cantante sa il fatto suo. Dopo il film, Laura mi racconta la sua passione per il tango.

Un venerdì, dopo il lavoro, Laura si presenta a casa mia con del ‘teréré’, versa l’acqua fredda sull’erba e mentre beviamo mi dice che passerà il fine settimana ad Asunción. Perché non vieni con me? – mi chiede. Mi porterà ad ascoltare e a ballare tango. Laura passa in albergo dopo cena. Indossa una gonna nera, una camicia di seta rossa, rossetto rosso, ha occhi neri con ciglia lunghe, capelli neri, pelle ambrata. È una latinoamericana bruna e bella. Capisce che mi ha colpito.

«Ad  Ayolas quando ascoltavamo tango ero chocha, questa sera il tango andiamo a ballarlo ». Ricordo quando poche ore fa abbiamo bevuto assieme tereré e non chiedo il significato di chocha. Il ‘salón de baile’ non è lontano dal centro. Si chiama ‘Mis amigos’, o qualcosa del genere. Sotto vi è anche un’insegna che dice: Que todos bailen. Si balla di tutto, valses paraguayos, chamamés, cumbias, ma di solito il sabato è dedicato al tango.

Il locale è grande, un’entrata, un bar con tavoli, un grande salone con palco per orchestre. Nel salone, lungo ogni lato, vi sono due file di sedie, da una parte per gli uomini e dall’altra per le donne. Suona un bandeonista uruguaiano e canta una cantante argentina. Non mi arrischio nemmeno a ballare, guardo. Laura non resta senza ballerini che la possano accompagnare. La gonna nera ha uno spacco che le permette di muovere le gambe come vuole. I corpi sono strettamente allacciati, carezze sensuali vengono scambiate, i visi sono seri, si guardano negli occhi senza un sorriso, le scarpe si sfiorano. Ci sono coppie di donne ed una di uomini. Ascolto la cantante che canta una canzone appassionata e nostalgica, poi vado al bar e chiedo quando ci sarà cumbia colombiana. Una ragazza mi dice: «Yo bailo cumbia, no me gusta el tango. Es triste».

Il sabato Laura non lavora ed io posso fare quello che voglio. Viaggiamo al mattino con la macchina di Laura, una Wolkswagen rossa con targa fasulla, comprata a Ciudad Stroessner per quattro soldi, probabilmente rubata in Brasile e contrabbandata oltre frontiera.

Dopo alcune settimane vado a Buenos Aires per lavoro. È inverno e la città è grigia. Dopo il lavoro, in genere, vado a vedere qualche film. Ad Ayolas e ad Ituzaingó non ci sono cinema e a Posadas proiettano solo film inguardabili. Un fine settimana Laura mi raggiunge. Il venerdì sera andiamo a vedere Maria de Buenos Aires di Astor Piazzolla.
Yo soy Maria de Buenos Aires!/ De Buenos Aires Maria. No ven quien soy yo?/ Maria tango! Maria del arrabal!/ Maria noche! Maria pasión/ fatal!/ Maria del amor! De Buenos Aires soy yo!”

Il pomeriggio seguente andiamo alla ‘Bombonera:’ gioca il ‘Boca’. C’è con noi un mio collega, Luis, ‘hincha’ della squadra. Dopo cena Laura e Luis vanno a ballare tango. Io non ho voglia di vederli fare un, dos, tres dalle 2 della notte alle sei del mattino. Il sabato notte a Buenos Aires non c’è solo tango. Quando Laura, di malavoglia, ritorna in Paraguay, è rimasta in Argentina quasi una settimana, ballando tango anche domenica e lunedì notte».

Camila O’Gorman.

«Ituzaingó ed Ayolas sono su due villaggi sulle rive opposte del Rio Paraná, che a volte inonda entrambi. Nel Rio Paraná nuotano grossi pesci, dorados e surubì: molte spine e carne bianca. Un venerdì pomeriggio accompagno un amico, Carlos, ad una gara di pesca che si terrà il sabato e la domenica più a sud, a Goya. La mattina seguente non vado a pescare con Carlos, che esce all’alba dopo un paio ore di sonno. Quando scendo per colazione la sala da pranzo è piena di gente venuta ad assistere alla gara. Vi è un unico tavolo, nella sala, con una persona che siede da sola, bevendo caffè e mangiando una ‘media luna’. La cameriera gli chiede se posso sedermi, e quello annuisce. Il mio compagno di colazione mi dà un biglietto da visita. Si chiama Mario Blanco, è di Buenos Aires, fa l’avvocato, vive a Floresta ed ha lo studio in Avenida Esmeralda al numero 900. C’è anche un indirizzo di Azul. Mi dice che è lì per vedere dove hanno vissuto Camila O’ Gorman e Ladislao Gutierréz, prima di venire uccisi, e mi racconta la loro storia.

“Nella primavera del 1846, quando la storia inizia, Ladislao è parroco della ‘Iglesia del Socorro’ tra Juncal e Suipacha, e Camila è maestra della stessa parrocchia e sono inseparabili. Passano il tempo assieme: a cavallo, passeggiando per Palermo, nelle librerie, leggendo assieme poesie.
Ladislao e Camila sono innamorati di un amore non solo non accettato dalla cultura del tempo, ma fuori legge. Una relazione intollerabile che nella Buenos Aires di allora non può avere né presente né futuro. Nella società porteña le donne sono soggette all’autorità paterna e controllate affinché possano esser consegnate, al futuro sposo, vergini.

Camila è una giovane di buona famiglia, e non è obbligata né a studiare né a lavorare, ma solo a pregare, andare a messa, cucire, rammendare …
Camila, che insegna in una scuola della parrocchia, frequenta un prete non solo in confessionale, e rompe, poco più che adolescente, con il rigido schema sociale imperante.
Per poter continuare ad amarsi Ladislao e Camila fuggono cambiando nome e con documenti falsi: saranno da quel momento in poi Valentina San e Máximo Brandier, uniti dall’idea di andare insieme in Brasile.
Devono però fare i conti con i soldi, che non sono molti, e non permettono di attraversare il confine e di stabilirsi nel paese straniero. Da Santa Fé, dove ottengono i passaporti, risalgono in barca od a cavallo il fiume Paraná, e si fermano proprio a Goya, molto lontano da Buenos Aires. Per tirare avanti aprono una piccola scuola, la prima del posto.
Il padre di Camila, Adolfo O’ Gorman, che si sente disonorato, e la gerarchia ecclesiastica, nella persona del vescovo Medrano, li vogliono catturare, li vogliono punire, e chiedono la loro testa direttamente al dittatore in carica, Juan Manuel de Rosas. Ma ne hanno perso le tracce.

Poi, ad una festa vengono riconosciuti da un prete irlandese, Michael Gannon, e denunciati. Arrestati, vengono trasportati a Buenos Aires per essere processati. Vengono incarcerati e messi in catene nella caserma ‘General de Santos Lugares’ in ‘San Andrés, General San Martín’, a nord della capitale.
Non ci sarà processo, la violazione dei voti castità del sacerdote richiede una pena dimostrativa ed immediata. Hanno infranto le regole sociali e la rispettabilità.
Camila, che aspetta un figlio da Ladislao ed è in ottavo mese, e Ladislao vengono fucilati in un freddo mattino. È 18 agosto del 1848, in pieno inverno australe.”

Passeggio fino in centro a vedere la casa Fernandez dove Camila e Ladislao hanno vissuto. Ė dipinta di celeste, lo stile è coloniale, è a due piani, è una bella casa. Mario mi ha detto che qualcuno pensa di abbatterla per costruire nuovi uffici ed appartamenti, ma c’è opposizione.
Penso al perché Camila e Ladislao si fossero fermati a Goya e non fossero andati più a nord, attraversando il fiume ed il confine. Avrebbero vissuto ad Asunción od ad Encarnación od anche ad Ayolas, in un paese meno bigotto della Argentina, che li assassinò perché volevano amarsi. Forse la bellezza della casa Fernandez, vicino al Rio Paraná, li stregò e li trattenne. E penso spesso al dittatore Rosas ed al prete Michael Gammon».

Isabelle Ebherardt, l’Inglese, Lalla Zaynab, santa sufi, e Lynda, donne in Algeria.

Isabelle.

«Tempo fa avevo visitato anch’io Bou Saada, che avevo conosciuto attraverso gli occhi di Isabelle Ebherardt. Ho visitato quasi tutta l’Algeria di Isabelle: Biskra, la Casbah d’Algeri, Aïn Séfra. È qui che l’ho trovata, nella sua tomba ornata da una lapide che la ricorda come: “Sposa di Ehnni Slimane, morta a 27 anni nella catastrofe di Aïn Séfra 27 ottobre 1904″.
Un temporale di una violenza inaudita trasformò la strada dove abitava Isabelle in un torrente furioso di fango giallo. Le case furono spazzate via assieme agli abitanti. Isabelle spinse fuori suo marito, poi ritornò per prendere un manoscritto, ma quando volle uscire a sua volta, la casa le crollò addosso. Qualche giorno più tardi, il suo corpo fu trovato sotto le macerie. Di lei era rimasto ben poco ma i suoi manoscritti furono recuperati intatti.  Era giunta in quella terra d’Africa nel 1902, vi era rimasta ben poco.
Isabelle fu affascinata dall’Algeria: dal desiderio d’Oriente, dagli arabi, dall’amore, dal ‘kif’, dal vagabondaggio, dal travestimento con vesti beduine, ma fu anche colpita dalla ‘religione di Allah’, dall’lslam, che non conosceva.

Lalla Zaynab.

In una “zaouïa”, edificio sacro ma anche luogo religioso di insegnamento, ad El Hamel, vicino a Bou Saada, Isabelle aveva pure incontrato la ‘maraboute’ santa sufi Lalla Zaynab, per la quale, da allora in poi, nutrì una grande ammirazione.
Così di lei scrive nei suoi diari, ‘Les journaliers’: «La vedo. È una donna che indossa il costume di Bou Saada, bianco e molto semplice, ed è seduta. Il suo viso è abbronzato dal sole e solcato da rughe.  Viaggia molto Lalla Zaynab, e si sta avvicinando alla cinquantina. Il suo sguardo è molto dolce, e nelle pupille nere brucia la fiamma di una intelligenza velata da una grande tristezza. Tutto nella sua voce, nelle sue maniere, nell’accoglienza dei pellegrini, denota una grande semplicità.
È lei Lalla Zaynab, figlia ed ereditiera di Sidi Mohamed Belkacem».

Isabelle parla a Lalla, la sufi, che, a confidenza, risponde con confidenza, da donna a donna.
Figlia mia…  ho dato tutta la mia vita per far del bene sul sentiero di Dio… E gli uomini non hanno mai riconosciuto il bene che ho fatto loro. Molti mi odiano e mi invidiano. Pertanto ho rinunciato a tutto: non mi sono mai sposata, non ho famiglia, non ho gioia”. Più tardi Isabelle scriverà che non si era mai sentita così vicina a qualcuno come a Lalla Zaynab.

Lascia Isabelle El Hamel, “angolo perduto del vecchio Islam, sperduto nella montagna nuda e oscura, e avvolto di pesante mistero”, lascia Lalla Zaynab».

Lynda.

«Marc mi presenta Lynda: entriamo al ristorante ed ordiniamo cous cous e birra.
Lynda non chiede chi sono, è amica di Marc, e non è la prima volta che egli le presenta uomini. Non aspetta domande, ma inizia a parlare, come seguisse un copione.
Non sono di Algeri, sono di Orano“. – dice lei.
Conosco bene Orano – risponde Marc- è più viva di Algeri. Albert Camus la chiamava la città sonnambula e frenetica al tempo stesso, e probabilmente è ancora così”.
Orano sembra una città spagnola in Nord Africa. La vita è dolce, si mangia tardi e si fa la siesta. Negli innumerevoli caffè, uomini e donne chiacchierano e si divertono. E poi c’è la musica. Forse Lynda è di discendenza spagnola, ma non glielo chiedo.

 Ogni tanto sento il bisogno di ritornare a Orano, dove mi sento bene: è la mia città. I miei si sono trasferiti ad Algeri per lavoro e ho studiato lingue all’università di Blida dove ho letto ‘L’ Oasis de Bou Saada, di Vigerie’, scritto a inizio ‘900” – aggiunge Lynda.
Ho una fotocopia, te la posso prestare”. – dice Marc, rivolto a me. Sa che amo leggere certi testi.
Sono stata a Bou Saada da Blida con compagni d’università – continua lei – Ho visitato il Museo di Ouled Nail. Ma è Orano e il raï l’origine della mia danza. Parlo a francesi e stranieri di danza ‘Ouled Nail’, perché attrae, ma tu e Marc conoscete l’Algeria e non voglio ingannarvi”. Capisco allora che ‘les danses Ouled Nail’ resteranno per me una frase letta sul libro di Robert Barrat.

Con Marc andiamo a casa di Lynda un sabato sera. È una villa di due piani con giardino, e, se non fosse buio all’orizzonte, si potrebbe vedere il Mediterraneo. Imene, l’amica di Lynda, che potrebbe essere sua sorella tanto le assomiglia, ci fa accomodare in un salotto che non ha niente di orientale: due poltrone e un tavolino basso di fronte a una parete bianca. Le luci sono soffuse. Imene ci offre da bere: scegliamo un cocktail di cognàc e liquore di menta con ghiaccio.

Inizia la musica: un ‘raï’ ritmato senza parole. Entra Lynda che veste pantaloni di cotone nero, stretti in vita, ma larghi poi, sin sopra le caviglie. Indossa pure dei braccialetti ed un reggiseno verde e dorato. È a piedi nudi; la mano e il braccio sinistro hanno tatuaggi all’henné. Balla muovendo i fianchi in maniera sinuosa, scuote la testa delicatamente, mentre le braccia fluttuano nell’aria al ritmo del ‘raï’.

Verso la fine Lynda si ferma e propone di togliersi il reggiseno senza chiedere nulla in cambio. I seni di Lynda sono fermi e ballano insieme ai fianchi e il resto del corpo. Marc estrae da una tasca un pacchetto di sigarette, me ne offre una e l’accende. Fumo.  Guardo Lynda e penso alle ‘danseuses Ouled Nail’ che danzavano nude in un bordello di Bou Saada …».

Donne partigiane in Italia: Ermelinda Katia Rocco e le sorelle.

«Ermelinda Rocco era nata a Motta di Livenza nel 1920. Giovane maestra al suo primo incarico, sul Cansiglio si unì alla Resistenza al nazifascismo, e combattè pure al fianco di Amerigo Clocchiatti, il commissario politico Ugo nelle Brigate Garibaldi, Divisione Nino Nannetti.  Ugo la cita con il suo nome di battaglia, Katia, assieme alla famiglia Rocco, nel suo libro di memorie ‘Cammina Frut’. Partigiana comunista, fu arrestata e torturata nella famigerata caserma ‘Tasso’ di Belluno dal nazista Pallua. Fu quindi internata nel campo di prigionia di Bolzano, un “ durchsganlager” un  luogo di transito verso i luoghi di sterminio in Germania o in Polonia gestito dalle SS.  Katia” fu però fortunata perché la Liberazione avvenne prima prima di un suo possibile trasferimento in uno dei vari Lager.  Per il suo impegno partigiano fu decorata con medaglia di bronzo al valor militare. Agli inizi del 1946 sposò a Roma Giorgio Cecchini, partigiano nelle campagne romane per il Movimento Socialista e poi ufficiale di collegamento tra gli alleati ed i partigiani.
Anche le sorelle di Ermelinda: Teresa, Egle e Prassede Rocco furono partigiane nel bellunese. Passano anche loro per la caserma Tasso, dove subirono lo stesso trattamento di Katia, e furono, come lei, internate a Bolzano, salvate dalla Liberazione, e decorate». (Per le sorelle Rocco e l’impegno partigiano della famiglai Rocco, cfr. Francesco Cecchini, ‘Memoria del campo di prigionia di Bolzano e delle sorelle Rocco’, in: https://www.pressenza.com/it/2017/01/memoria-del-campo-prigionia-bolzano-delle-sorelle-rocco/).

Francesco Cecchini.

BUONA FESTA DELLA DONNA DA FRANCESCO CECCHINI E LAURA MATELDA PUPPINI

L’immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso, da http://tempolibero.pourfemme.it/foto/festa-della-donna-regali-fai-da-te_1631.html. Laura Matelda Puppini 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INNOVALP 2018. IDEE PER LA MONTAGNA. Programma.

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16  MARZO – ORE 17.30presso Carnia Industrial Park Via Cesare Battisti 5 – Tolmezzo. ASPETTANDO INNOVALP – ALPI RIBELLI  – Relatori: Enrico Camanni, Andrea Zannini, Paolo Medeossi.

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21 MARZO – ORE 10.00presso Aula Magna ISIS Solari  – Viale Aldo Moro 30 –  Tolmezzo. INNOVALP PER LA SCUOLA –  DIRE, FARE, SOGNARE IN MONTAGNA. Relatori: Luciano Carrino, Renato Quaglia, Marco Da Rin.

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21 MARZO- ORE 18.00 – presso Museo Carnico Gortani Via della Vittoria 2 – Tolmezzo. ANTEPRIMA DI INNOVALP – IL VIAGGIO DI UN CAMMINATORE NELLA STORIA CONTEMPORANEA DELLA MONTAGNA. Relatori: Fabrizio Barca, Bruno Bertero, Melania Lunazzi, Lucio Fabi.

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22 MARZO – ORE 10:45 – presso Uti Carnia (ex Comunità Montana) – Via Carnia Libera 1944 29 – Tolmezzo.  SPECIAL GUEST: LEGACOOP FVG – TAVOLA ROTONDA. Relatori: Fabrizio Barca, Enzo Gasparutti, Mauro Pascolini, Orietta Antonini.

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22 MARZO – ORE 14.00 – presso Taberna Borgat – Via Porta di Sotto 1 – Tolmezzo. SAPPADA LASCIA IL VENETO E TORNA IN FRIULI. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Francesco Brollo, Leopoldo Coen, Manuel Piller Hoffer.

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22 MARZO – ORE 14.00 – presso ISIS Solari, Viale Aldo Moro, 30 – Tolmezzo. L’HACKATHON DI INNOVALP 2018. Relatore: Marco Da Rin.

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22 MARZO – ORE 14.30 – presso Caffè Manzoni – Piazza XX Settembre 10 – Tolmezzo. FABBRICARE TALENTI NEI TERRITORI. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Giordano Casonato, Luca Taverna, Alessio Di Dio, Stefania Marcoccio.

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22 MARZO – ORE 15.00 – presso Biblioteca Civica Tolmezzo Via Renato del Din 3 – Tolmezzo. PROGETTO SENTINEL – CENTRAL EUROPE PROGRAMME – UN NUOVO PATTO SOCIALE PER LO SVILUPPO DELLA MONTAGNA? TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Renate Goergen,  Jacopo Sforzi, Paolo Felice, Gian Matteo Apuzzo, Carmen Candido.

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22 MARZO – ORE 15.30 – presso Latteria Alto But Via Jacopo Linussio 2 – Tolmezzo. INTRAPRENDENZE IN MONTAGNA. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Chiara Quaglia, Samuele Secchiero, Gatitta Luisa Siena, Amrit Svend Liimakka Laue, Gregorio Piccin.

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22 MARZO – ORE 16.00 – presso Hotel Roma Piazza XX Settembre 14 – Tolmezzo. UNA CONFINDUSTRIA PER LA MONTAGNA? TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Andrea Ferrazzi, Danilo Farinelli, Annibale Salsa.

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22 MARZO – ORE 16.30 presso Taberna Borgat Via Porta di Sotto 1 – Tolmezzo. VITICOLTURA EROICA. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori:  Fabrizio Zardini, Alessandro Franco, Fabio Zottele, Andrea Omizzolo.

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22 MARZO – ORE 17:15 presso Biblioteca Civica Tolmezzo Via Renato del Din 3 – Tolmezzo. SULLA STRADA GIUSTA. PRESENTAZIONE LIBRO. Relatori: Francesco Grandis, Alessandro Missana.

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22 MARZO – ORE 17.45 – presso Latteria Alto But Via Jacopo Linussio 2 – Tolmezzo. PAPAVERI ROSSI VEGLIANO PER UN GIUBILEO CIVILE. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Luciano Santin, Gian Piero Scanu, Albino Amodio.

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22 MARZO – ORE 18.00 – presso Caffè  Manzoni Piazza XX Settembre 10 –  Tolmezzo. LE IMPRESE CHE CRESCONO E INNOVANO IN MONTAGNA. TAVOLA DI DISCUSSIONE. Relatori: Mario Zearo, Mauro Savio, Barbara Ganz.

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23 MARZO – ORE 9.00 – presso Caffè Manzoni Piazza XX Settembre 10 –  Tolmezzo. PMI, INNOVAZIONE E TERRE ALTE. TAVOLA DI DISCUSSIONE. Relatori: Giuseppe Salghetti Drioli, Danilo Farinelli, Domenico Lanzillotta, Stefano Casaleggi.

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23 MARZO – ORE 9.15 – presso Taberna Borgat Via Porta di Sotto 1- Tolmezzo.  SMART COMMUNITY – FORME DI ORGANIZZAZIONE DEI TERRITORI. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Mauro Pascolini, Tullio Bagnati, Gianandrea Grava, Stefano Santi.

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23 MARZO – ORE 9.30 – presso Biblioteca Civica Tolmezzo Via Renato del Din 3 – Tolmezzo. LUOGHI PERSI DA RI – GENERARE. TAVOLA DI DISCUSSIONE. Relatori: Gianni Zanolin, Ulderica Da Pozzo, Annibale Salsa, Alessandra Beltrame.

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23 MARZO – ORE 9.30 – presso Hotel Roma Piazza XX Settembre 14 – Tolmezzo. IL PROGETTO LOCALE IN MONTAGNA. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Maria Chiara Cattaneo, Francesca Comello, Daniele Rallo.

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23 MARZO – ORE 10.00 – presso Cooperativa Cramars Via della Cooperativa 11 –  Tolmezzo. ORANGE: MAPPA I TUOI TALENTI!! LABORATORIO. Relatori: Elena Sposato, Marco Antonelli.

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23 MARZO – ORE 10:30 – presso Latteria Alto But Via Jacopo Linussio 2 – Tolmezzo. AZIENDE A CACCIA DI TALENTI E TALENTI A CACCIA DI AZIENDE?TAVOLO DI DISCUSSIONE.  Relatori: Paolo Simonato, Alessandro Tomba.

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23 MARZO – ORE 11.15 – presso Caffè Manzoni Piazza XX Settembre 10 – Tolmezzo. CONNESSIONI FRA RETI MATERIALI ED IMMATERIALI TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Francesco De Bettin, Maurizio Ionico.

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23 MARZO – ORE 11.30 presso Biblioteca Civica Tolmezzo Via Renato del Din 3 – Tolmezzo. RIPARTIRE IN COOPERATIVA: IL FENOMENO DEI WBO. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatore: Mirko Pizzolato.

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23 MARZO – ORE 14.00presso Taberna Borgat Via Porta di Sotto 1 Tolmezzo.  PARTECIPAZIONE E GOVERNANCE CONDIVISA PER TERRITORI CHE CE LA VOGLIONO FARE. TAVOLA DI DISCUSSIONE. Relatori Gianluca Cepollaro, Fabrizio Barca, Michela Zucca.

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23 MARZO – ORE 14.00 presso Cooperativa Cramars Via della Cooperativa 11 – Tolmezzo. ORANGE: VALIDA I TUOI TALENTI!! LABORATORIO. Relatori: Elena Sposato, Marco Antonelli.

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23 MARZO – ORE 14.30presso Caffè Manzoni Piazza XX Settembre 10 – Tolmezzo.  I TERRITORI COOPERANTI E CORALITA’ PRODUTTIVA. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Sandra Sodini, Luciano Gallo, Maurizio Ionico.

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23 MARZO – ORE 15.00 presso Biblioteca Civica Tolmezzo Via Renato del Din 3 – Tolmezzo.  IL MANAGER CHE HA SCELTO LA LIBERTA’. PRESENTAZIONE LIBRO. Relatori: Francesco Vidotto, Stefano Vietina, Alessandro Benzoni.

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23 MARZO – ORE 15.30 – presso Hotel Roma Piazza XX Settembre 14 – Tolmezzo. RESISTENZE CONTEMPORANEE. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Daniel Benelli, Francesca Viola, Nicola Sordo, Alessandro Gretter

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23 MARZO – ORE 16.00 presso Latteria Alto But Via Jacopo Linussio 2 – Tolmezzo.  IMPAVIDI IMPRENDITORI. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Gianpaolo Pezzato, Domenico Lanzillotta, Giampietro Bizzotto.

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23 MARZO – ORE 16.30 – presso Taberna Borgat Via Porta di Sotto 1- Tolmezzo.  CIRCOLI DI STUDIO. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Claudio Pellizzari, Agata Gridel, Grazia Romanin, Michele Colusso.

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23 MARZO ORE 17:15 – presso Biblioteca Civica Tolmezzo Via Renato del Din 3 – Tolmezzo.  LA COOPERAZIONE PER LA COESIONE SOCIALE. TAVOLO DI DISCUSSIONE. Relatori: Paolo Scaramuccia, Massimo Gottifredi, Alberto Airenti, Enore Casanova.

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24 MARZO ORE 10.00 – presso Museo Carnico Gortani Via della Vittoria 2. Tolmezzo. INNOVALP 2018: COSA CI RIMANE? CONCLUSIONI. Relatrice: Sabrina Lucatelli.

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NOTA BENE PER CHI VOLESSE  PARTECIPARE.

DATO CHE I POSTI PER COLORO CHE VOGLIONO PRENDER PARTE ALLE ATTIVITA’ E’ LIMITATO, E’ OBBLIGATORIA L’ ISCRIZIONE AI TAVOLI DI LAVORO E CONFRONTO ATTRAVERSO – PROGRAMMA – https://www.innovalp.it/programma/ 

L’immagine che correda l’articolo è quella della manifestazione. Laura Matelda Puppini.

 

Storia di Cave del Predil – Raibl. Prima parte in attesa di presentare l’archivio Gabino.

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Confesso che non ero interessata alla miniera di Raibl finchè, un giorno lontano, non incontrai Guerrino Gabino. Era forse il 1980 od ’81, Gabino stava seduto dietro una scrivania, nell’ufficio a piano terra, entrando sulla destra, nella casa rossa, in piazza Vittorio Veneto a Tolmezzo, che qualcuno aveva deciso di demolire, nel post- terremoto. Gli dovevo chiedere qualcosa sulle sue lotte, da sindacalista, a fianco degli operai della cartiera, ma egli mi parlò anche delle lotte a Cave del Predil, e mi lasciò quelle poche carte che aveva con sè, che formano ora l’archivio Gabino in mio possesso e che donerò secondo le sue volontà. Era malato di cancro, aveva i giorni contati, non sapeva a chi dare quella documentazione per lui così importante, che temeva andasse perduta, e che, allora, pareva non attirasse alcuno.

Incominciai così ad interessarmi della miniera ed a leggere.
Ho letto non solo le carte dell’Archivio Gabino ma anche due volumi: Paola Tessitori, Rabil-Raibl Cave del Predil. Una miniera, un paese, una sfida, Ud, Kappa Vu 1997, e Giordano Sivini, Il banchiere del Papa e la sua miniera, il Mulino, 2009, preferendo il primo, ora quasi introvabile se non in biblioteca. Ma so che altri ritennero migliore il secondo, centrato sulle lotte recenti dei minatori di Cave, e dal taglio giornalistico.
In particolare dal volume della dott. Tessitori e da altre fonti ho preso alcune note relative alla storia della miniera, che ci presentano aspetti interessanti, per introdurre, successivamente, con altri articoli alcuni documenti dall’archivio Gabino.

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Per prima cosa mi preme sottolineare come il giacimento sul monte Re, cioè a Cave del Predil, si possa «suddividere in due parti: il “giacimento primario” a solfuri di ferro, piombo e zinco deposti dalla circolazione d’acque ricche in ioni metallo lungo le faglie e il “giacimento secondario”, che è invece costituito da carbonati basici ed «è derivato dalla liscivazione del giacimento primario, per alterazione, trasporto e rideposizione di parti solubili dello stesso ad opera d’acque circolanti». (Roberto Zucchini, Miniere e mineralizzazioni nella provincia di Udine. Aspetti storici e mineralogici. Pubblicazione n. 40. Comune di Udine, Edizioni del museo Friulano di Storia Naturale, 1998, p. 99). 
Ed è quasi certo che «lo sfruttamento minerario di Raibl, orientato prima al piombo ed in seguito allo zinco, interessò, inizialmente, anche il ferro costituente il deposito di limonite facente parte del cappellaccio. Il ferro andava ad alimentare le fucine sorte nella Valcanale e a Weissenfels, infatti, alcune antiche carte geografiche indicano la miniera di Raibl come centro di produzione di ferro, così come alcuni toponimi fanno riferimento allo stesso minerale (Rio Filaferro, Prato Filaferro). (Ivi, p. 90).

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Un tempo lontano, «La localizzazione di un affioramento minerario avveniva osservando le patine d’alterazione dei minerali, anche casualmente, o era affidata alla bacchetta del rabdomante. (…). Il lavoro estrattivo era molto duro, con picche, scalpelli e cunei. Data l’enorme energia spesa per seguire la vena mineralizzata, si cercava di limitare l’ampiezza delle gallerie allo stretto necessario per potersi muovere, magari carponi, portando fuori il minerale in piccole quantità. In Friuli lavorazioni a scalpello e a fuoco sono riconoscibili in alcune miniere nel Monte Avanza e nel Rio Gelovitz. A Raibl si notano ancora le vestigia di vecchie gallerie dalla forma d’ogiva e gallerie ancora più piccole. Queste hanno alimentato la leggenda che le miniere fossero, in tempi passati, sfruttate da un popolo di nani d’origine tedesca o veneta». (Ivi, p. 6).  

 «Si eseguivano gli scavi dall’alto verso il basso, e con enorme fatica si portava il minerale alla superficie mediante funi e carrucole. Spesso era impossibile creare gallerie di drenaggio ed i minatori lavoravano nell’acqua che sul fondo dei pozzi si raccoglieva e, quando le condizioni erano insopportabili, si abbandonava temporaneamente la miniera fino allo scemare dell’acqua in essa contenuta» (Ivi, p.9). Infine nei secoli XV-XVI, grazie ai progressi tecnici, le miniere più importanti vennero attrezzate con pompe o macchine idrauliche di vario tipo.

Il trasporto e sollevamento del materiale estratto avveniva tramite carriole spinte a mano su un pavimento di tavole poste al fondo della galleria, metodo utilizzato anche nel XX secolo a Comeglians. Se minerale estratto era poco, ogni minatore se lo portava in superfice in ceste o sacchi legati ai piedi. (Ibid.).

Una grande rivoluzione nella quantità di minerale estratto dalle miniere avvenne quando fu utilizzata la polvere da sparo che, nota fin dal ’400, trovò impiego nelle miniere molto più tardi. Il suo uso, nelle miniere europee, avvenne nel XVII secolo e probabilmente coincise con l’elevato costo del legno e dei salari, e con la necessità di rendere più produttiva l’estrazione. L’elevato costo e la pericolosità del suo impiego ne limitarono, comunque, l’uso alle miniere più importanti, per esempio Raibl, e solo in tempi più recenti è divenuta una tecnica diffusa d’abbattimento delle pareti rocciose.
Un altro problema da risolvere era la ventilazione delle gallerie che spesso venivano abbandonate quando le condizioni d’agibilità erano critiche. Dove le condizioni morfologiche del terreno lo consentivano, venivano realizzate gallerie d’aerazione normali a pareti scoscese, spesso poste in modo da sfruttare le brezze. Seguirono rudimentali metodi basati sull’uso di mantici o più semplicemente di convogliatori mossi dal vento, fino all’uso dei grandi compressori e delle moderne condotte d’aria compressa». (Ivi, p. 13).

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La vita del minatore era caratterizzata da «estrema fatica ed incerti destini», e l’arte di estrarre in miniera veniva tramandata da padre in figlio. Detto “sapere pratico”, diventava, via via, più esclusivo e particolare, ed era noto e trasmesso solo all’interno di veri e propri “clan familiari”, che si configuravano quasi a guisa di una vera e propria corporazione, gelosa dei suoi segreti. E le conoscenze di base andavano, via via, arricchendosi di nuove nozioni, frutto dell’esperienza sul campo, come per ogni arte.  (Paola Tessitori, op. cit., p. 24). Secondo Roberto Zucchini, alcune miniere nel territorio friulano furono probabilmente sfruttate anche in epoca romana, ma non vi sono elementi sicuri che attestino una qualsivoglia attività metallurgica sia in epoca preromana sia romana in Friuli, ma è solo con l’avvento del dominio temporale del Patriarcato, nell’anno 1077, che si cominciano ad avere documenti, quali concessioni minerarie, attestanti la ricerca di metalli preziosi e il pagamento di censi, rendite, decime che testimoniano una continua attività di ricerca e di sfruttamento minerario. (Roberto Zucchini, op. cit., p. 15).

Anche secondo Paola Tessitori pare che i Romani, frequentatori del Passo del Predil per raggiungere la Pannonia, siano stati i primi a scoprire le potenzialità estrattive del piccolo Monte Re, (Paola Tessitori, p. 22), ma si ha notizia di una attività estrattiva ivi solo nel 1006, quando i territori facenti parte della Signoria Federaun, comprendente anche il Tarvisiano, furono assegnati dall’imperatore Enrico II alla sede episcopale del Vescovado di Bamberga, (Roberto Zucchini, op. cit., p.90) e certezza nel 1327, quando l’Imperatore Federico il Bello concesse ad un gruppo di minatori di Tarvisio di estrarre i minerali presenti sul Monte Re. (Paola Tessitori, op. cit., pp. 22-23). Ed il nome ‘Cave del Predil’ nasce proprio dalla fusione di due realtà: l’attività del ‘cavare’ e la vicinanza del valico che porta a Plezzo, detto appunto Predel in sloveno ‘passo’, poi detto ‘Valico del Predil’. (Ivi, nota 1 p. 201). Nel 1456 il vescovo di Bamberg, che comandava in quei luoghi posti in Valcanale, autorizzò la coltivazione del ‘vetriolo’ cioè del solfato di zinco, «a dei ‘padroncini’ di Tarvisio titolari di piccole aziende artigiane, quasi ‘botteghe’ minerarie, con un mastro e 4 o 5 minatori alle proprie dipendenze, riconoscendo loro i diritti di sfruttamento su una zona compresa fra il lago e le terre di tale Osvaldo Rabel (o Rabl), dal cui cognome avrebbe forse preso il nome anche l’abitato che, nel frattempo, era sorto accanto alle cave e menzionato, per la prima volta, nell’ordinanza sui boschi emanata dal vescovo Enrico di Bamberg nel 1506». (Ivi, p. 23).        

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Notizie su Raibl sono riportate da Paolo Santonino nel suo “Itinerarium” in cui si descrivono le visite pastorali compiute in queste regioni negli anni 1485-1487, e si sa che «la comunità di Raibl, nel secolo XVI, costruì una chiesa chiamata S. Henricus in monte Plumbeo. Il sacerdote era nominato dal giudice, dalla comunità dei lavoratori e scavatori nelle miniere e presentato per la conferma al patriarca. In quell’epoca il lavoro d’estrazione era artigianale, organizzato in tanti proprietari, che avevano la concessione, ma con il passare del tempo parti sempre più consistenti della miniera furono acquistate da famiglie nobili». (Roberto Zucchini, op. cit., p. 90).

Ed anche il villaggio di Raibl non fu esente dalle continue lotte che vedevano la popolazione veneta (giungendo il dominio veneziano sino a Pontebba non nuova) contrapporsi a quella dipendente dall’ Austria e facente parte del nucleo amministrativo Signoria Federaun, e che andavano da sconfinamenti e furti reciproci a vere e proprie guerre. «Così, ad esempio, in seguito ad una tipica ‘scaramuccia’ fra paesi imperiali e paesi veneti, nella Pasqua del 1721, il villaggio di Raibl veniva assalito da un commando di abitanti di Chiusa e Raccolana», che manomettevano le abitazioni del paese, devastavano le colture, sequestravano animali ed asportavano masserizie, armi ed indumenti. (Paola Tessitori, op. cit., nota 19, p. 202).  E secondo Roberto Zucchini, gli stessi Fugger non vollero esporsi troppo nell’investire in Cave del Predil proprio a causa dei continui scontri fra ‘tedeschi’ e ‘ veneti’. (Roberto Zucchini, op. cit., p. 25).                                        

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Da una serie di frammenti, si sa che la miniera era un centro importante già nell’alto medioevo. (Paola Tessitori, op. cit., p. 23). In età moderna, a partire dal XVI° secolo, i prodotti estratti a Raibl, in particolare la blenda, acquisirono rinomanza in vari mercati, tra cui quello veneziano e quello spagnolo, ed in particolare sul mercato tedesco, nelle cui dinamiche la realtà estrattiva di Raibl era inserita. (Ibid.).
Notizie sulla miniera ci provengono pure «dagli intensi rapporti commerciali instaurati con famiglie della valle come la famiglia della Grotta, proprietaria di molte fucine nella Valcanale, che nel 1540 esportava il piombo estratto nella Repubblica Veneta ed in altri mercati esteri fino in Spagna. Anche i Fugger, ben noti mercanti d’Augsburg, che molta importanza ebbero nel commercio dei metalli e nello sfruttamento delle miniere della Carinzia, possedevano una quota del giacimento e la calamina estratta era lavorata, ad Arnoldstein, per la produzione d’ottone». (Roberto Zucchini, op. cit., p. 91).

Nel 1550 giunse nella valle la famiglia Von Rechbach che, per oltre 250 anni, ebbe posizione dominante negli affari della Miniera e del Comprensorio, abbandonandolo con l’arrivo dei Francesi.  (Dino di Colbertaldo, Illustrazione del giacimento di Raibl, relazione tenuta al VII Congresso Nazionale di mineralogia, http://rruff.info/rdsmi/V7/RDSMI7_23.pdf, Cave del Predil, in: http://www.tarvisiano.org/code/41496/Cave-del-Predil).

Dalla metà del secolo XVI fino al 1772 si alternarono nella gestione, spesso a carattere artigianale della miniera, numerose famiglie sia tedesche che venete: tra le più note: di Caporiacco, Eder, Egger, Erler, Franceschini, Fugger, Gaßmayer, Grünwald, Miggitsch, Magerl, Scheidenberg, Schiestl, Schinigin, Strohlendorf, Struggl, Thomas e Türk. (Roberto Zucchini, op. cit., p. 92). Nel 1679 i proprietari erano 43, ma con il passare del tempo molte concessioni furono assorbite dai Signori più ricchi in tal modo l’industria mineraria andò concentrandosi nelle mani di pochi. Nel 1761 i proprietari si erano ridotti solamente a quattro: Struggl, Grünwald, Erler e Gaßmayer. (Ibid., e Paola Tessitori, op. cit., p. 24). Ogni proprietario aveva dei filoni della miniera da sfruttare.  

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Alla fine del 1700 la miniera risultava in piena attività ma soggetta ad oscillazioni produttive legate all’andamento sui mercati dello zinco e del piombo, tanto che poteva accadere che le spese di estrazione superassero gli utili della vendita. Estrarre del minerale, infatti, comportava una serie di spese tra cui i salari dei minatori, l’attrezzatura, i materiali indispensabili per l’estrazione, il trasporto del materiale estratto, la ricerca di nuovi filoni coltivabili. (Ivi, p. 24. Sull’attività di estrazione nelle Alpi e sulla valorizzazione dei siti minerari, cfr. anche: AA.VV., L’attività mineraria nelle Alpi. Il futuro di una storia millenaria. XXVI edizione degli incontri tra/montani, 23-25 settembre 2016, Gorno (Bg). Riassunti delle relazioni del convegno e guida alle escursioni, 2016, in: http://www.geoexplora.net/uploads/9/3/4/6/9346359/miniere_alpi_v6_comp.pdf).

A Gorno e nel bergamasco, iniziarono a venir coinvolte, forse sul finire del 1700, nel lavoro minerario, anche maestranze femminili, chiamate le “taissine”, che selezionavano il minerale utilizzabile dallo scarto. (AA.VV., L’attività mineraria nelle Alpi. Il futuro di una storia millenaria, cit., p. 5). Per quanto riguarda Raibl, risalgono ad analogo periodo le prime notizie sull’impiego di manodopera femminile: e si parla di Wäserinnen, donne addette all’operazione di lavaggio del minerale. (Cenni storici. La svolta gestionale, in: http://www.cavedelpredil.it/).

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Nel 1678 la miniera di Raibl, pur avendo una certa importanza mineraria che andò man mano ad aumentare, produceva una quantità di piombo tre volte inferiore a quello prodotto dalla miniera di Bleiberg. le cause sono da ricercare nella complessa suddivisione della miniera in diverse proprietà, che portava ad uno sfruttamento irrazionale sia nel modo d’estrazione sia in quello di ventilazione e trasporto del minerale. solo con la metà del XVIII secolo inizia quel processo d’unificazione delle miniere che ne farà crescere la produttività. (Roberto Zucchini, op. cit., p. 15, pp. 91-92).

Nel 1700, comunque, vi erano comunque ancora, a Cave, più concessionari per l’estrazione di minerale dal Monte Re. Nel 1762 o 1772, a seconda della fonte, Vienna decise di assumere la proprietà e la gestione diretta dell’attività estrattiva, riuscendo a comperare le quote di miniera di 3 o 4 padroni, ma resisteva la famiglia Struggl. (Paola Tessitori, op. cit., pp. 24-25). Grazie alla possibilità di coltivare in profondità il giacimento, l’importanza della miniera crebbe notevolmente, fino a toccare la massima produttività dopo la metà del XX secolo. «Nel 1857 le miniere erano aumentate grazie alla ricerca che aveva permesso di riscontrare altre aree mineralizzate. Esistevano così: – Raibl I, miniera erariale con estrazione di blenda e galena; – Raibl II, di Erben Cyprian Struggl a blenda e galena che possedeva anche un forno fusorio; – Raibl III, di Romuald Holenia e Ferdinand Fercher; – Raibl IV, della Bleibergwerk (Compagnia del piombo); – Raibl V, di Rudolf Schattauer, Georg Pegritz e Kaspar Treffner; – Raibl VI, di M. Madritsch, J. Ringitsch e Christina Mayer. Le miniere Raibl I, II e III erano site sulla sponda occidentale del Rio del Lago, mentre la Raibl IV era situata sulla sponda orientale del Rio del Lago.
In seguito molte miniere furono accorpate e la situazione ritornò ad essere quella di due proprietari: la miniera Raibl I di proprietà erariale dell’impero austriaco, e la miniera privata, che prese la denominazione Raibl II di proprietà di Schnablegger cognato di Struggl. Quest’ultima, dopo la morte di Schnablegger, fu ceduta al conte Henckel von Donnersmark ultimo proprietario privato della miniera. (Roberto Zucchini, op. cit., pp. 92 e 94 e Paola Tessitori, op. cit., p. 23).

Si veniva così a creare, a Raibl, una situazione particolare, caratterizzata dalla coesistenza, su uno stesso piccolo territorio, di due realtà economiche alquanto diverse, decisamente separate anche se in qualche modo intrecciate. Le miniere private (Raibl II e III) e la miniera pubblica (Raibl I), «giuridicamente e tecnologicamente ben distinte ma geograficamente vicine». (Paola Tessitori, op. cit., p. 25).  

Con l’ingresso del Governo austriaco nella gestione della miniera, lo sfruttamento della stessa, per quanto riguardava la parte a gestione nazionale, si avviava uno sfruttamento di tipo industriale. Essa, denominata Raibl I, portava, nel breve volgere di un anno, all’assunzione di 186 dipendenti (rispetto ai 113 del 1775), mentre la parte privata, Raibl II, continuava ad essere gestita da Jhoan Ivo von Struggl. (Roberto Zucchini, op. cit., p. 92). Entrambe le realtà erano dedite all’estrazione di piombo e zinco, ma dei due insediamenti estrattivi, la storiografia concorda nell’indicare come più attiva anche dal punto di vista economico, la realtà privata, grazie sia agli Struggl che ai loro continuatori, gli Schnablegger, seguiti dal conte Henckel von Donnesmark.  La miniera in mano al governo austriaco, invece, era più arretrata e risentiva maggiormente di aspetti economici congiunturali che, nella prima metà del XIX° secolo, causarono un decurtamento nella paga dei minatori, con un grave peggioramento nella loro vita ed in quella delle loro famiglie (Paola Tessitori, op. cit., p.25), dando origine a quelli che si potrebbero definire tra i primi episodi di lotta operaia della regione. E la lotta degli operai coinvolse il paese intero, fino a diventare lotta dell’intera comunità, come in seguito. La vertenza si trascinò per settimane, ma terminò con il licenziamento irrevocabile dei 120 scioperanti, e l’assunzione di nuovi minatori al loro posto, mentre le famiglie dei primi venivano ridotte alla fame. (Ivi, p. 26).   

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La coltivazione mineraria, esercitata fin dal XVII secolo unicamente nella parte alta del Monte Re (al di sopra del cosiddetto livello zero, corrispondente all’altezza del paese di Cave), si era rivolta, poi, anche verso il basso, raggiungendo in breve tempo i 100 metri di profondità. E all’epoca, erano state pure realizzate una serie di migliorie che facilitavano la produzione facendo aumentare il numero di dipendenti. (Per alcuni aspetti relativi alla miniera cfr. anche: Dino di Corbertaldo, Illustrazione del giacimento di Raibl, VII Congresso Nazionale di Mineralogia, RDSMI7_23.pdf)

Nell’archivio di Raibl sono presenti planimetrie ed indagini produttive che portano la firma di tecnici francesi, e si nota un grande incremento della produzione anche per fini bellici. Si continuava a cercare il piombo, l’argento, il rame, ma anche lo zinco, metallo fino ad allora trascurato perché era ancora sconosciuto il trattamento metallurgico. (Roberto Zucchini, op. cit., p. 20).
Sul finire del XIX secolo, la miniera di Cave si presentava arricchita da una serie di novità industriali date da trasformazioni tecnologiche e tecnico meccaniche, ed il villaggio di Raibl, nel 1842, contava 379 abitanti, soprattutto tedeschi, ripartiti in 65 case. Nel 1883 gli abitanti salivano a 479, e le case erano aumentate a 74. E il paese, dipinto dal pittore Pirker, contava già un albergo, un’osteria, l’ufficio postale e telegrafico, una fabbrica di cemento.  (Paola Tessitori, op. cit., p. 27 e p. 29). A ridosso del nuovo secolo, nel 1898 venne realizzata la prima centrale idroelettrica a Cave del Predil, per dare energia all’argano di estrazione del pozzo Clara. Il villaggio di Raibl fu uno dei primi in Italia a conoscere l’illuminazione elettrica all’interno delle abitazioni. (Ivi, p. 29).

L’inizio del XX secolo fu contrassegnato sia da sia dal fervore dell’attività mineraria, sia dal moltiplicarsi delle attività di scavo nel sottosuolo. Ma, nel 1910, «lo sconfinamento di una galleria della miniera privata dalla viva roccia alle ghiaie del Rio Lago, accompagnato da un improvviso franamento interno, dava luogo a un risucchio nelle gallerie sottostanti di tonnellate e tonnellate di ghiaia impregnata d’acqua», creando nel soprasuolo effetti devastanti. Pare detto sconfinamento fosse stato causato da una mina, e in un attimo l’ospedale di Raibl scomparve inghiottito, seguito dal riempirsi di acqua della fossa creatasi. Una stele ricorda l’immane disastro. (Ivi, pp. 29-30).  Ma nei secoli più di un dissesto idrogeologico ed ambientale fu causato dallo scavare miniere e dal loro utilizzo.

Durante la prima guerra mondiale le miniere di Raibl, ed in particolare la galleria di Bretto, che venne dotata di una piccola ferrovia sotterranea, vennero utilizzate, per scopi bellici, dagli Asburgici, mentre la produzione acquistava valenza nel contesto bellico. (Ivi, p. 30).

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E per ora termino qui la prima parte di questa storia interessante, a cui seguiranno altre parti. invitandovi, se interessati, anche a visionare e leggere la bibliografia citata, a cui seguiranno altre parti.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è intitolata: The ancient lead and zinc mine, ed è tratta da: http://mapio.net/s/57278558/. Se ci sono diritti relativi all’ uso dell’ immagine si prega di avvisare. Laura Matelda Puppini 

 

Martina Carpani su: ‘Fascismo, antifascismo e i giovani d’oggi’.

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Riporto, da Patria Indipendente, 24 febbraio 2018, questo interessantissimo intervento di Martina Carpani sul successo delle destre fasciste in questa nostra Italia, chiedendo di riflettere sulle sue parole. Inoltre sarebbe importante domandarsi perché, molti di noi che da anni condividiamo i valori della sinistra italiana, non abbiamo voluto assolutamente votare Pd. Io ho già parlato di questo nel mio: Recenti elezioni amministrative. C’erano una volta destra e sinistra che non passavano per il centro…, pubblicato il 29 giugno 2017, su: www.nonsolocarnia.info. Ma vediamo insieme cosa dice la giovane Martina Carpani, che scrive prima del 4 marzo 2018.

Intervento di Martina Carpani.

«Non necessariamente sarò politically correct; sono in parte d’accordo ma in parte no con quello che diceva Margherita. (Margherita Frau, altra voce al dibattito Fascismo, antifascismo e i giovani d’oggi, da cui queste considerazioni sono tratte.  Ndr).  In parte, perché mi sembra che alcune considerazioni siano un po’ autoassolutorie. Cioè distinguerei tra reale e virtuale. Il reale esiste, il reale è la crisi della politica e in particolare delle organizzazioni sociali che, mentre CasaPound distribuisce i beni alimentari ai poveri, si limitano a fare convegni sull’antifascismo, o assemblee d’istituto o convegni dentro l’università. Una modalità con cui si insediano nel territorio. Mi riferisco proprio a quello che dicevi tu, Gianfranco, (Gainfranco Pagliarulo, altro intervenuto al dibattito) dell’associazionismo.

Si svolgono in tutta Italia assemblee di quartiere in una modalità apparentemente neutra. Io sono di Brindisi, dove prima non esistevano gruppi neofascisti. Oggi si manifestano in assemblee di quartiere e parlano dei migranti da cacciare. Ora vivo a Roma, nel quartiere Tiburtino III e lì è accaduta la stessa cosa. Cioè, assemblee che sembrano neutre, ma in realtà non fanno solo proselitismo, ma anche quello che per noi era il mutualismo, una cosa che la sinistra non fa più, perché è diventata un’altra roba, evidentemente. Quindi, da un certo punto di vista, credo ci sia anche da fare una profonda autocritica. Perché la destra, oggi, si rafforza, per dirla in breve, non in quanto sostegno ai ricchi, ma in quanto destra sociale. E questo è un tema su cui riflettere.

Premetto che mi ha fatto molto piacere ricevere l’invito a questa conversazione, perché di solito si parla dei giovani con un pizzico di paternalismo senza mai invitare il giovane a dire quello che pensa. Credo che la crescente presenza dell’estrema destra nel sociale debba far riflettere su noi stessi, come organizzazioni sociali grandi e piccole di giovani e meno giovani. Cosa facciamo noi per evitare l’avanzata delle destre? Non è sufficiente la sola battaglia culturale. Occorre il radicamento nel territorio, un nuovo mutualismo, un’altra azione politica che dia punti di riferimento diversi. Questa è la prima questione.

Seconda questione: l’elemento culturale, che resta centrale. Tu oggi non hai intellettuali di sinistra che propongono alcuni tipi di valori; invece hai a destra il proliferare di case editrici, nuovi giornali, come quello di CasaPound uscito quest’anno per la prima volta in edicola (il Primato nazionale), la possibilità cioè di trovare contenuti, che poi non sono neanche così distanti dai contenuti che la stampa mainstream, purtroppo, fa vedere. Il primo spazio dato alle destre è stato anche quello di Mentana, di alcuni giornali e programmi Tv nazionali. Non solo: oggi mancano degli spazi organizzati dal basso, come era prima nelle organizzazioni sociali, che sicuramente erano più forti e sapevano imporre valori culturali differenti. Mancano gli spazi e gli intellettuali di riferimento. Io non saprei dire chi è un mio intellettuale di riferimento.

Dall’altra parte penso che ci sia un tema strutturale, cioè la società liquida: il neofascismo non si rafforza utilizzando il web, perché l’odio sul web preesisteva; più semplicemente, chi propone questi valori negativi sul web riesce a portare maggiormente acqua al suo mulino. Come i populismi si costruiscono nei media mainstream, così si costruiscono nel web, dove è più facile avere più “mi piace” che dire una cosa sensata. Vi sono, però, delle precise responsabilità politiche.

Se, per esempio, l’odio verso gli omosessuali cresce, è perché insieme a Lotta Studentesca (ndr: organizzazione giovanile di Forza Nuova) che faceva gli striscioni contro i gender nelle scuole c’erano anche i pro-life e i cattolici; se cresce l’odio verso i migranti, è perché insieme a chi parlava delle questioni di migranti c’erano anche i partiti. La Lega, ma non solo. In qualche modo, alcune dichiarazioni di Minniti sono molto preoccupanti. Credo sia stato lasciato uno spazio politico alle destre. Questo non vale solo per il fascismo. Se noi leggiamo dell’elemento valoriale, vediamo subito una crisi dei punti di riferimento.

È una lettura che oggi molti sociologi fanno anche per quanto riguarda, ad esempio, il fenomeno che riguarda il terrorismo, i foreing fighters, eccetera. Cioè il nichilismo generazionale, l’idea di ricerca di valori. Evidentemente, per loro natura, le organizzazioni neofasciste hanno l’idea del branco, del capo maschio che ti dice cosa devi fare, ed è una risposta molto più facile nella generale assenza di risposte; e soprattutto se sei giovane, non sai cosa fare da grande, sei precario, ogni sei mesi cambi contratto: una cosa che vivo anche su me stessa, non so dove sarò fra sei mesi perché devo fare il tirocinio, magari cambierò città, non so se devo lasciare l’affitto, non so quando mi posso laureare, non so come pagarmi gli studi, eccetera.

Per di più tutto ciò avviene nella crisi generale che è una crisi anche dei partiti e delle istituzioni, che non riescono a dare delle risposte. Questo fenomeno assume volti diversi; in Italia è più legato al neofascismo, in altri Stati ad altro, ma il tema è che la risposta politica non può essere emergenziale. Non può esserci ora esclusivamente la rincorsa degli appelli alla responsabilità, come è stato fatto anche a seguito dei fatti di Macerata. È il momento di alzare un attimo le maniche e mettersi a lavorare sui territori, capendo come davvero risolvere il tema dei bisogni materiali, come provare a dare delle proposte politiche sensate.

Io mi pongo anche altre domande. 7 giovani su 10 non andranno a votare alle elezioni politiche: questo dicono i sondaggi. I sondaggi però dicono anche che è aumentata la partecipazione sociale dei giovani, non specificando in quale direzione. Esistono oggi nuove forme di partecipazione sociale. Che non sono le stesse di una volta, perché non abbiamo visto piazze piene in questi anni. Forse ci si dovrebbe interrogare su come occupare questi spazi come organizzazioni della sinistra sociale diffusa. È quello che secondo me andrebbe fatto nelle scuole, nelle università, nei quartieri, nelle città in generale, e su cui bisogna però avvicinarsi con tanta umiltà, perché non c’è più la politica per come l’abbiamo conosciuta e non è facile per nessuno. Trovare risposte nuove vuol dire leggere con umiltà il contesto che hai intorno. Forse noi non siamo umili abbastanza».

Intervento di Martina Carpani al dibattito: Fascismo, antifascismo e i giovani d’oggi, Patria Indipendente, 22 febbraio 2018. Una tavola rotonda promossa da “Patria Indipendente”. Web e violenza, presenza sul territorio e rappresentanza, sicurezza, crisi del Paese e proposte “forti”, appiattimento della politica sul presente e necessità di ricostruire un orizzonte progettuale, a cui hanno partecipato. Gianfranco Pagliarulo, Margherita Frau, Martina Carpani, Jacopo Buffolo, Davide Conti, Valerio Strinati, leggibile in: http://www.patriaindipendente.it/idee/ulisse/fascismo-antifascismo-e-i-giovani-doggi/.

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2017/08/allarmi-siam-fascisti-anni-60-un-film.html, e correda un pezzo che ricorda le disavventure del film All’armi siam fascisti, firmato da tre cineasti della sinistra socialista, Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Miccichè, uscito nel 1961, che Pier Paolo Pasolini definì un «film stupendo, una delle più emozionanti opere cinematografiche che abbia mai visto», che fu ammesso a stento al festival di Venezia, e che fu «maledetto a destra e, nella sostanza, rimosso a sinistra».

Laura Matelda Puppini.

 

 


Sessantotto, quello che si dimentica.

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PREMESSA. 

Leggo distrattamente i quattro articoli dedicati al sessantotto su quotidiani e riviste, anch’esso ingessato in una visione politically correct, ma che riporta a  manifestazioni, comunismo, scontri, ideali, ed in particolare alla rottura con l’autorità costituita e le sue istituzioni, con la chiesa tradizionale, con un mondo valoriale che non riuscì però ad essere sostituito da un altro altrettanto consolidato. Leggo parallelamente il ricordo dell’uccisione di via Fani e la storia di Aldo Moro, databile 1978, di cui poco si comprese anche allora, tranne che fu rapito ed ucciso dalle Brigate Rosse, che però non erano figlie del sessantotto, ma semmai riconducibili alla strategia della tensione, spesso dimenticata. Ma un giovane lettore potrebbe confondere una cosa con l’altra in un crescendo di confusione, pure perché ci si dimentica di quei moti americani che iniziarono a dare un nuovo volto alla storia.   

Ero ragazza nel 1968, e non ero ancora maggiorenne, ma percepii allora quel vento di novità che spirava. Tutto era nato da una guerra, quella del Vietnam, di cui si potevano leggere le tragedie date dal Napalm, che deforestava, uccideva, torturava corpi di civili, dalle bombe che si abbattevano sui villaggi, facendo ecatombi di famiglie intere, cose che ora non interessano più se non poche persone, e che paiono sempre più, per molti, giustificabili, mentre le guerre si moltiplicano. La reazione alla guerra del Vietnam si concretizzò nella formazione di gruppi pacifisti, ma il pensiero non violento era stato originato da Gandhi, che aveva avuto come riferimento anche Lev Trozkj, ed il desiderio di non partecipare più a guerre era già presente dopo la tragedia della seconda guerra mondiale.

NASCITA MOVIMENTI CONTRO GUERRA DEL VIETNAM.

I giovani non sapevano per chi e per che cosa avrebbero dovuto andare a combattere nel Vietnam. «Ciò che più sconvolse la società statunitense fu il rifiuto massiccio del servizio militare. Una nuova generazione non solo non condivideva l’ideologia della guerra, ma aveva paura di prendervene parte. Le prime manifestazioni contro l’arruolamento si tennero all’Università di Berkley in California il 5 maggio 1965, quando un gruppo di studenti bruciarono la lettera di chiamata militare. All’inizio del conflitto pochi erano i giovani chiamati al servizio di leva, ma il successore di Kennedy, Lyndon Johnson, aumentò il numero di chiamate da 17.000 a 35.000. Il sistema di reclutamento statunitense veniva chiamato ‘Lottery Draft’. In una scatola venivano inserite 366 capsule di plastica contenenti i numeri da uno a 366 (una capsula per ogni giorno dell’anno, compreso il 29 febbraio). I numeri venivano estratti a sorte e ad ogni numero corrispondeva una data di nascita. Chi aveva la sfortuna di nascere in quel giorno tra il 1944 e il 1950 era chiamato a servire gli Stati Uniti nella guerra in Vietnam. Il sistema della lotteria fu abbandonato il 1° dicembre 1969, a seguito di pesanti critiche soprattutto da parte di statisti che calcolarono la scarsa ricorrenza dei numeri più alti (cioè degli ultimi mesi dell’anno)». (“La risposta pacifista alla guerra in Vietnam. La nascita di una nuova generazione che rifiutava la guerra, in: https://geo.tesionline.it/geo/article.jsp?id=13682).

Inoltre si costituirono, in Usa, diverse organizzazioni di solidarietà in seno ai giovani bianchi, tra le quali vi era l’NSM (Movimento Studentesco del Nord) fondato nel 1962, che vide militare nelle sue file studenti come Abbie Hoffman, il quale divenne uno dei leader durante le proteste contro la guerra in Vietnam. (Alessandro Pagani, I movimenti di protesta contro la guerra in Vietnam negli Stati Uniti, in: aganialejo.wordpress.com/2015/05/06/i-movimenti-di-protesta-contro-la-guerra-in-vietnam-negli-stati-uniti/).
Ma le manifestazioni contro la guerra cominciarono nel 1965 con il suicidio del trentunenne quacchero Norman Morrison, che, il 2 novembre, per protesta, si diede fuoco davanti all’ufficio del Segretario per la Difesa, Robert McNamara, al Pentagono. Sette giorni dopo, il ventiduenne Roger Allen LaPorte, appartenente al ‘Catholic Worker Movement’, si incendiò davanti al palazzo delle Nazioni Unite a New York. (“La risposta pacifista, op. cit.).

Nel biennio 1963-64 le rivendicazioni all’interno della stessa comunità afroamericana si elevarono sensibilmente. All’inizio degli anni Sessanta cominciarono a conquistare grande risonanza i discorsi e i proclami rivoluzionari di Malcom X, che fu assassinato nel 1965, mentre emergeva la figura di Martin Luther King, assassinato pure lui. Nell’estate del 1964 ci furono le proteste di Watts, il ghetto nero di Los Angeles. (Alessandro Pagani, op. cit.).

I semi della protesta contro la guerra in Vietnam, che vanno collocati a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, cominciarono a far germogliare i propri fiori. I movimenti studenteschi furono i protagonisti della prima fase di contestazione contro la guerra. (Ivi).

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«L’SDS (Studenti per una Società Democratica) nacque negli anni Sessanta dopo essersi allontanata dalla vecchia organizzazione studentesca, la SLID (Lega Studentesca per una Democrazia Industriale), che dal 1921 aveva raggruppato vari settori di socialisti e progressisti nelle università del paese. Nel 1962, l’SDS si riunì a Port Huron, Michigan, e pubblicò una dichiarazione d’intenti che avrà una profonda ripercussione sul movimento giovanile studentesco di allora. In questa dichiarazione si proclamava la ricerca di una “democrazia partecipativa e diretta”, che avrebbe dovuto ampliare gli elementi democratici a tutti i livelli della società. Ispirata agli scritti di Herbert Marcuse e Wright Mills, la Dichiarazione di Port Huron si convertì in uno dei manifesti più letti e discussi della “Nuova Sinistra”. L’SDS divenne una delle maggiori organizzazioni durante i primi anni di protesta contro la guerra (Harwey, 1966).

Nel 1964, l’amministrazione universitaria di Berkeley proibì una serie di conferenze e sit-in pubblici organizzati dagli studenti in solidarietà con la lotta degli afroamericani, definendoli come politically incorrect per l’immagine dell’università. La decisione dell’amministrazione universitaria fu la goccia che fece traboccare il vaso. Gli studenti cominciarono ad adottare le tattiche già utilizzate dagli afroamericani nel Sud. A causa del susseguirsi di arresti indiscriminati (oltre 800 studenti), sorse il “Free Speech Movement” (Movimento per la Libertà di Espressione), guidato da Mario Savio. I successi ottenuti rafforzarono l’intero movimento studentesco.

Il 17 aprile, l’SDS convocò la prima giornata di protesta contro l’intervento imperialista in Vietnam, con la partecipazione di oltre 20.000 persone a Washington. La manifestazione fu un momento di grande rilevanza politica, dato che per la prima volta un’organizzazione studentesca aveva potuto riunire soggetti politici differenti, sulla base del totale disprezzo nei confronti della guerra e del saccheggio promossi dal governo.
Anche la musica veniva intrinsecamente legata alla protesta. Cantanti come Bob Dylan e Phil Ochs si convertirono in portavoce della sensibilità più profonde della protesta contro la guerra.

Nell’agosto del 1965 si riunì a Washington l’assemblea degli “uomini senza rappresentanza”, in commemorazione del Ventesimo anniversario della catastrofe nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Parteciparono non pochi gruppi formati da nativi americani, indipendentisti portoricani, rappresentanti del Catholic Worker, donne della WSP e leaders dell’SDS. Dalla plenaria nacque il NCCEWV (Comitato Nazionale per porre fine alla guerra in Vietnam), che contava su una trentina di organizzazioni.

Proprio in quei giorni aumentava in maniera drammatica l’aggressione contro il Vietnam: in gennaio il numero di truppe statunitensi su suolo vietnamita era arrivato a 50.000 effettivi; alla fine dell’anno solare era cresciuto a 200.000. Nell’ottobre del 1965 il NCCEWV indisse la sua prima giornata nazionale di protesta contro la “sporca guerra”: 25.000 persone marciarono nella città di New York, 10.000 a Berkeley, mentre in tutto il paese parteciparono all’incirca 100.000 persone. Poco a poco la resistenza comunista vietnamita trovò numerosi simpatizzanti in seno alla gioventù statunitense. La figura di Ho Chi Minh, per i giovani che partecipavano contro la guerra in Vietnam, venne elevata a livello di eroe.

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L’altro importante settore della società nordamericana, che con lo svilupparsi degli eventi ebbe un ruolo di grande rilevanza nella protesta contro la guerra, fu il movimento afroamericano. Nel 1964, mentre da un lato il pacifismo di King raggiungeva il suo culmine con l’ottenimento del premio Nobel per la Pace, si cominciava a sentire all’interno stesso del suo movimento il rumoreggiare di un processo di radicalizzazione. La rivolta popolare di Watts fece riflettere moltissimi giovani bianchi sull’importanza di aprire gli occhi e di prendere posizione contro il proprio governo. (…).

Nel 1966 a Oakland, California, Huey P. Newton e Bobby Seale formarono il Blacks Panthers Party for self-defense (il Partito delle Pantere Nere per l’auto difesa), che cercavano di fomentare un processo rivoluzionario attraverso il lavoro sociale nei ghetti delle grandi metropoli statunitensi ed educando la propria comunità all’autodifesa dal terrorismo di Stato. Il Partito delle Pantere Nere criticò aspramente la strategia politica di altre organizzazioni nere. Nello specifico non condivideva la politica di esclusione di tutti quegli studenti bianchi della classe media nordamericana che da anni si opponevano alla guerra e si esprimevano in solidarietà alla comunità afroamericana. Le Pantere Nere si unirono alle proteste contro la guerra, esplicitando altresì l’alleanza con il movimento studentesco (Seale, 1971). La reale volontà da parte dei settori rivoluzionari del movimento afroamericano di unire le proprie forze con il movimento studentesco bianco si scontrava con le politiche fino allora espresse in numerosi suoi discorsi dallo stesso King. Il reverendo King considerava ancora che gli afroamericani avrebbero dovuto concentrare i propri sforzi nella lotta contro la discriminazione razziale e che la protesta contro la guerra in Vietnam avrebbe sviato le forze del movimento su questioni non fondamentali per la propria lotta. Riteneva assai importante, per gli interessi della comunità nera, mantenere e dove fosse possibile ampliare, l’alleanza con i dirigenti del Partito Democratico, in particolare con i presidenti John F. Kennedy e Lyndon Johnson, Per non rischiare di compromettere le sue relazioni, King trattò in questa fase di mantenersi passivo rispetto alla tematica della guerra. (…).

Il campione del mondo dei pesi massimi Mohamed Ali fu spogliato del suo titolo per essersi negato a prestare il servizio militare, dichiarando: “laggiù inviano musi neri a uccidere musi gialli, affinché dei bianchi possano appropriarsi della terra che vogliono rubare ai rossi” e infine disse: “nessun Vietcong mi ha mai chiamato sporco negro”.

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Non pochi gruppi che si opponevano alla guerra in Vietnam si conformarono in ogni angolo degli Stati Uniti. Los Chicanos, capeggiati da Cesar Chavez, avevano cominciato nel 1965 a organizzare gli operai agrari dell’industria fruttifera californiana. Così come gli afroamericani, inizialmente, anche Los Chicanos iniziarono a lottare per ottenere riforme settoriali, ma col passare del tempo compresero che i risultati delle loro rivendicazioni sarebbero stati effimeri qualora non fossero passati a una lotta politica contro il sistema economico capitalista. Dalle Università ai quartieri popolari, dal profondo Sud fino a Washington D.C., il carattere popolare della protesta, che gli statunitensi chiamavano gross-roots. come se fosse un torrente in piena, rafforzava la protesta. Alla fine del 1967 il movimento di protesta contro la guerra in Vietnam sembrava ormai consolidato. (…)». (Alessandro Pagani, op. cit.).

Anche Noan Chomsky, allora giovane linguista, prostestò contro la guerra in Vietnam, e, nel febbraio 1967 pubblicò un articolo intitolato ‘The Responsibility of Intellectuals’, in cui accusava intellettuali e esperti di aver fornito delle giustificazioni pseudoscientifiche all’attacco americano nel sud est asiatico. (“La risposta pacifista, op. cit.).

«L’anno 1968 fu quello con il più alto grado di conflitto e cominciò con l’intensificarsi della guerra imperialista in Vietnam. In quell’anno la presenza statunitense arrivò a mezzo milione di soldati. Nonostante la stampa embedded statunitense cercasse di nascondere i crimini commessi dalle proprie truppe, una parte dell’opinione pubblica statunitense si rese conto del vero volto della guerra. Il 4 aprile del 1968, durante un comizio a Memphis, anche Martin Luther King fu assassinato da un sicario. La reazione di fronte a questo ulteriore atto di terrorismo di Stato fece esplodere i quartieri popolari delle maggiori città statunitensi. L’omicidio di King non fu il gesto isolato di qualche razzista, ma una fase dell’operazione militare di repressione del dissenso politico sistematicamente condotta in quegli anni.

Il Convegno del Partito Democratico di agosto a Chicago si convertì nel centro di vastissime e imponenti attività di lotta. Tutti i principali gruppi di protesta erano presenti: le Pantere Nere marciarono per le strade, i giovani dell’SDS, occuparono con le loro tende il Lincoln Park. All’imbrunire del giorno il sindaco di Chicago, Richard Daley, ordinò alla polizia di “ripulire l’immondezzaio che occupa abusivamente le strade di Chicago”. (…).

Alle presidenziali dello stesso anno si impose il falco repubblicano Richard Nixon (…). I settori di opposizione alla guerra in Vietnam si resero conto di cosa in realtà significasse per Nixon la cosiddetta “pace con onore”, e come questa comportasse nient’altro che una nuova strategia di guerra, per mezzo dell’intensificarsi dei bombardamenti con armi chimiche sul Vietnam e di operazioni militari sotto false flag (falsa bandiera) nel Laos e in Cambogia; dove gruppi di mercenari assoldati e addestrati dalla CIA, compivano azioni paramilitari contro la popolazione civile trattando di farne ricadere la responsabilità sui Vietcong.

Parallelamente continuarono a crescere le azioni repressive del governo, che attraverso ondate di arresti e omicidi, portarono alla fine del 1969 alla disarticolazione delle principali organizzazioni di opposizione alla guerra, compreso il Partito delle Pantere Nere, considerato all’epoca la maggiore minaccia per la sicurezza nazionale. In quegli stessi mesi si resero pubbliche le foto del terribile massacro perpetrato dai marines ai danni di anziani, donne e bambini nel piccolo villaggio vietnamita di My Lai. Si decise di convocare una grande giornata nazionale di protesta contro la guerra per il 15 ottobre, denominata Vietnam Moratorium Day. La manifestazione ebbe un risultato sorprendente: nonostante l’indebolimento organizzativo oltre 600.000 persone in tutti gli Stati Uniti risposero positivamente scendendo in strada». (Alessandro Pagani, op. cit.).

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Alla fine di aprile del 1970 una serie di manifestazioni contro l’invasione militare della Cambogia si svolsero in moltissime università statunitensi. Nell’università del Kent State, Ohio, quattro studenti furono assassinati per mano della Guardia Nazionale. Non pochi furono gli scontri e le rivolte in quasi tutte le università degli Stati Uniti. Oltre 500 università – per ordine della Casa Bianca – furono chiuse, mentre circa 20 furono occupate militarmente dalla Guardia Nazionale. Il 9 maggio, centinaia di migliaia di lavoratori e studenti s’incontrarono a Washington, sotto la Casa Bianca, per denunciare la criminalizzazione del movimento studentesco. Nel 1970, di fronte al prolungarsi della guerra, alla diffusione del malcontento interno e alle sempre maggiori capacità militari della Resistenza vietnamita, i senatori contrari al proseguimento della guerra ottennero la revoca dei poteri illimitati di cui aveva goduto il Presidente a partire dalla Risoluzione del Golfo di Tonchino.

Alla fine del 1972, l’aviazione nordamericana realizzò i bombardamenti su Hainoi e Haiphong. Questa volta le manifestazioni di protesta non ebbero la forza del passato. L’obiettivo del movimento non andava ormai oltre l’ottenimento della pace e le attese si concentravano solo sui dialoghi di Parigi. Il 27 gennaio del 1973, Kissinger per gli Stati Uniti e Le Duc Tho, a nome della Repubblica Democratica del Vietnam, firmarono l’accordo che prevedeva il ritiro delle truppe USA e la legittimazione del governo rivoluzionario del Fronte di Liberazione Nazionale del Sud Vietnam. In violazione degli accordi di Parigi gli Stati Uniti non cessarono il proprio coinvolgimento e la guerra proseguì tra l’esercito sudvietnamita sostenuto dagli Stati Uniti e le forze popolari del Sud e del Nord Vietnam.

Il movimento di protesta negli Stati Uniti produsse ancora solo le manifestazioni volte a ottenere l’amnistia per gli oltre cinquecentomila giovani nordamericani che rifiutavano di trasformarsi in carne da cannone per gli imperialisti. Obiettivo che venne conseguito alcuni anni dopo con l’amministrazione Carter.». (Ivi).

MOVIMENTO HIPPIE.

Parallelamente nasceva un movimento più discutibile, quello degli hippies, basato sulla libertà individuale. Esso era un movimento giovanile, nato negli Stati Uniti durante gli anni sessanta, destinato a diffondersi in tutto il mondo. Il termine hippies era stato inizialmente utilizzato per contrassegnare i cosiddetti beatnik che si erano trasferiti nel quartiere di Haight-Ashbury (San Francisco). Costoro erano “seguaci” della Beat generation, e avevano creato proprie comunità che ascoltavano rock psichedelico, abbandonandosi al sesso libero e all’uso di allucinogeni ed altre droghe.

Gli hippies erano anche detti “figli dei fiori”, perché erano soliti indossare vestiti con impressi sopra dei fiori o confezionati con stoffe di vivaci colori. Inoltre, la moda e i valori hippie hanno avuto un notevole impatto sulla cultura, influenzando la musica popolare, la televisione, il cinema, la letteratura, e l’arte. Il movimento hippie, insieme alla ‘New Left’ e all’’American Civil Rights Movement’ furono i tre fondamentali gruppi di dissenso e di cultura alternativa degli anni sessanta. Il movimento hippie era costituito prevalentemente da adolescenti e giovani adulti bianchi di età compresa tra i 15 e i 25 anni, fortemente intolleranti nei confronti delle istituzioni, delle armi nucleari e della Guerra del Vietnam. I membri di questa cultura erano spesso vegetariani ed ambientalisti, e appoggiavano con estrema convinzione la pace, l’amore, la fratellanza e la libertà personale. Ma già intorno al 1968, gli hippies erano diventati una significativa minoranza, che rappresentava poco meno dello 0,2 % della popolazione degli Stati Uniti. (https://www.myusa.it/myusa-blog/329-la-cultura-hippie-da-woodstock-alla-guerra-del-vietnam.html). Restano famosi il Festival dell’ Isola di Wight, la cui prima edizione si svolse nel 1968, e il Festival di Woodstock, tenutosi a Bethel una piccola città rurale nello stato di New York, dal 15 al 18 agosto del 1969, all’apice della diffusione della cultura hippie, che coinvolsero centinaia di persone.  (https://it.wikipedia.org/wiki/Festival_di_Woodstock).

Oltre 500.000 persone si recarono a Bethel per ascoltare i musicisti e le band più notevoli del tempo, tra cui Richie Havens, Joan Baez, Janis Joplin, The Grateful Dead, Creedence Clearwater Revival, Crosby, Stills, Nash and Young, Carlos Santana, The Who, Jefferson Airplane, e Jimi Hendrix, ma molti gruppi e cantanti parteciparono anche agli incontri nell’isola di Wight. Le condizioni di sicurezza al festival di Woodstock e la logistica furono garantite dalla HWavy Gravy’s Hog Farm, e gli ideali hippy di amore e di fratellanza umana sembrarono acquisire, allora, espressione concreta. (https://it.wikipedia.org/wiki/Hippy).

MA LE PREMESSE DEL MOVIMENTO HIPPIE ERANO NELLA BEAT GENERATION.

La Beat Generation, a cui si riferì il movimento hyppie, era costituita da un piccolo gruppo di scrittori adulti, con sede a New York o nella zona della Baia di San Francisco e strettamente correlati all’industria editoriale. Si può dire che il nome ed il numero di telefono di ogni scrittore beat, fosse nell’agenda di Allen Ginsberg. Spesso si pensa alla Beat Generation come ad un fenomeno degli anni cinquanta, ma il termine fu coniato da Jack Kerouac nel 1948, e successivamente divenne di dominio della pubblica opinione nel 1952 quando un amico di Kerouac, John Clellon Holmes scrisse un articolo sulla nascente Beat generation.

L’atmosfera della West Coast e di San Francisco stemperò i bollenti spiriti degli scrittori beat di New York, e molti di loro si convertirono al Buddismo e furono attratti dalla natura splendida e selvaggia della California. San Francisco allo stesso modo ebbe beneficio dalla loro presenza: la scena musicale beneficiava proprio dell’ispirazione della cultura beat. San Francisco stessa, divenne il centro della beat negli anni 50 e 60, così come la mitica libreria “City Lights bookstore” Più a sud la beat generation rese famosi alcuni luoghi come Monterey, Carmel-by-the-Sea e la costa montuosa nota come Big Sur.

L’enorme campagna pubblicitaria condotta in America contro il fenomeno beat lo danneggiò enormemente, ed il pubblico si accontentò di ripetere i luoghi comuni del battage pubblicitario o i pregiudizi della critica conservatrice, facendo emergere soltanto l’aspetto esteriore della vita beat. (https://www.studenti.it/beat1.html).

NASCITA DELLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE E CENNI SULL’ITALIA.

In Italia, sull’onda statunitense e del maggio francese, ma anche in relazione alla politica italiana, si sviluppò un movimento studentesco ed operaio che si concretizzò politicamente nei partiti detti extraparlamentari, ed in alcuni movimenti sempre di ispirazione comunista come ‘Potere operaio’ e ‘Lotta continua’. In Francia gli studenti e gli operai criticavano il gollismo, in Italia la politica democristiana ed i suoi progetti riformistici, nonché il capitalismo che lasciava poco spazio di crescita alla classe operaia. Ma il sessantotto fu segnato pure da una rivoluzione nella musica, nel gusto, nella letteratura, e rappresentò un vero e proprio cambiamento culturale. Inoltre la ‘Pacem in terris’, il Concilio Vaticano secondo ed pensiero teologico concretizzatosi con la riunione del Consiglio episcopale latino-americano di Medellín (Colombia) del 1968, detto teologia della Liberazione, portarono pure ad una modifica nel pensiero ed agire religioso, con la richiesta di una chiesa più vicina al Vangelo ed al popolo, con la nascita della figura dei preti – operai e la richiesta del matrimonio per i preti, rompendo il ruolo tradizionale del sacerdote. E si iniziò a parlare di preti di sinistra e di preti conservatori della destra. Entrarono in chiesa le chitarre ed i gruppi giovanili, il sacerdote, nella Messa, si rivolse verso il popolo ed incominciò a celebrare nella lingua della gente, nella penisola in italiano ma anche in lingua friulana. E si introdussero pure altre variazioni nel rito della messa, precedentemente celebrata in latino. A scuola vennero create le assemblee studentesche, per favorire la partecipazione attiva degli allievi alla vita scolastica, ed il mondo studentesco si affiancò a quello operaio nella richiesta di un miglioramento nelle condizioni vita e di maggiore partecipazione sociale attiva anche nel mondo produttivo. Un vento nuovo, un nuovo modo di vedere la vita cercò di imporsi, pur con le sue contraddizioni, ma fu per poco.

Per ora mi fermo qui. Continuerò a parlare sull’argomento in un prossimo articolo, ma senza queste premesse sarebbe impossibile farlo.

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L’immagine che accompagna l ‘articolo, è tratta, solo per questo uso, da: http://www.sanremonews.it/2016/05/13/sommario/ventimiglia-vallecrosia-bordighera/leggi-notizia/argomenti/ventimiglia-vallecrosia-bordighera/articolo/lalmanacco-di-sanremo-news-prima-di-valutare-cio-che-ti-dicono-valuta-anche-chi.html, e ritrae la 800.000 persone partecipano la grande manifestazione che ebbe luogo per le strade di Parigi, a cui parteciparono 800.000 persone, da molti considerata l’apice del ‘Maggio francese’ e della contestazione sessantottina in Europa. La manifestazione, indetta a seguito degli scontri fra studenti e polizia avvenuti nella notte fra il 10 e l’11 maggio nel Quartiere Latino, segnò il passaggio del Maggio francese da rivolta studentesca a rivolta sociale. A fianco degli studenti, infatti, scesero in campo forze sindacali e politiche ed iniziò uno sciopero generale che durerà parecchi giorni e che coinvolgerà più di dieci milioni di persone.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

Laura Matelda Puppini. Fucilati. Problemi di un testo approvato alla camera nel 2015, ma forse affrettatamente.

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La dott. Annalisa Bonfiglioli, di Cramars, indefessa organizzatrice di InnovAlp, mi ha donato il libretto di Giorgio Zanin e Gian Piero Scanu: “Papaveri vegliano per un giubileo civile. La legge di riabilitazione dei fucilati per mano amica”, senza data di pubblicazione, ma reputo recentissimo, e riprodotto dal CDR della Camera dei Deputati. Esso contiene interessanti dati ripresi anche da un articolo di Stefano Iannacone, sul Fatto Quotidiano da me citato, (1) che riporta che i soldati sottoposti a procedimenti giudiziari durante la prima guerra mondiale furono, in totale 262.481, a cui si aggiunsero 61.927 civili e 1.119 prigionieri di guerra. «Furono processate 325.527 persone e la percentuale di condanne si aggirò intorno al 60% del numero degli imputati […]. Tra questi procedimenti, 4.028 si conclusero con la condanna alla pena capitale: 2.967 con gli imputati contumaci e 1.061 al termine di un contraddittorio. In molti casi fu applicata la commutazione della pena […]. Le sentenze eseguite effettivamente furono 750 […]. Ma il numero dei fucilati non si esaurì in questa cifra, perché vi furono circa altri 350 gli uomini giustiziati.

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Mi sono interessata dal lontano novembre 2016 dell’argomento che ho trattato in tre articoli su www.nonsolocarnia.info, e nel merito ho pure pubblicato una riflessione di Francesco Cecchini. (2).  Ma vorrei ritornare sui motivi per i quali, leggendo i resoconti del dibattito parlamentare in commissione senato, che si occupa anche di altri temi di spessore, presieduta allora dal senatore Nicola Latorre, del Pd pure lui, si è fermato l’iter di approvazione del disegno di legge approvasto dalla Camera, ed a cui si è cercato, a livello istituzionale, di dare risposta.

Innanzitutto ricordo che nel novembre 2016, in Italia, si era a due passi dal voto per il referendum sulle modifiche costituzionali, che accendeva gli animi, che voleva ampie modifiche al senato, e che mi vedeva fervente sostenitrice del NO, senza se e senza ma. Inoltre, ci fu chi, allora, usò detta legge, a mio avviso, e se erro correggetemi, come arma politica : infatti vi fu chi scrisse che capiva come i senatori, generalizzando, (mentre trattavasi di 5 o 6 persone, tra cui vi erano, per inciso, anche Carlo Pegorer, Silvana Amati e Nicola Latorre del Pd, relatore) , «sensibili al richiamo delle alte gerarchie militari e ministeriali, abbiano deciso di bloccare tutto» (Giulio Magrini, Messaggero Veneto 10 novembre 2016) informazione che non è vera; che il relatore stava stendendo, sul precedente testo, «strati di melassa procedurale, sofisticati distinguo dovere/obbedienza, cruento rigore», che io non so dove si possano leggere, e via dicendo. Dal canto suo il Messaggero Veneto, intitolava il 5 novembre 2016, facendo certamente non buona informazione, secondo me, un articolo di Luciano Santin: “Dal Senato schiaffo ai fusilâz di Cercivento: iter azzerato, si riparte”, quasi che la IVa Commissione difesa del senato si fosse occupata solo dei 4 di Cercivento, e che l’iter procedurale fosse stato azzerato, il che non è vero, mentre l’articolo è un pot – pourri incomprensibile, ma emotivamente pregnante, insomma un testo più atto a criminalizzare forzando, che ad offrire la giusta informazione, a mio parere. Fra l’altro il noto quotidiano non si era neppure occupato di scrivere in modo corretto il cognome del senatore Nicola Latorre, (e non La Torre). E forse, pensai allora, aveva qualche ragione anche il senatore Gaparri, a sentirsi un po’offeso dai toni nello specifico di Rumiz, su Repubblica oltre domandarmi, all’epoca, se questo modo di interloquire potesse considerarsi un ‘esprimere democraticamente’ un parere. Infatti Maurizio Gasparri, in commissione difesa del Senato,  aveva dato voce al suo profondo e sdegnato disappunto nel merito su un articolo firmato dal giornalista Paolo Rumiz e pubblicato dal quotidiano “La Repubblica” il 6 novembre 2016, nel quale, a suo avviso, veniva espresso «un orientamento ingiustamente critico sul lavoro svolto dal Senato (che, a detta dell’autore, avrebbe concretizzato un vero “schiaffo istituzionale”), con l’utilizzo di termini denigratori e offensivi sia nei confronti del Senato come istituzione, sia nei confronti dello stesso presidente Latorre […]» per il quale si ipotizzavano, adirittura, legami con le lobby militari. Inoltre il senatore Gasparri poneva l’accento sulla terminologia impropria utilizzata nell’articolo, ove il progetto di legge approvato dalla Camera veniva erroneamente qualificato come “decreto”, e rammentava come il gruppo editoriale di “La Repubblica” non era stato estraneo, in passato, a spiacevoli ed inopportuni episodi di “lobbismo” parlamentare. E vi fu chi, allora, sul mio profilo facebook, collegò l’approvazione del testo sulla riabilitazione dei fucilati al sì al referendum. (3).

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Inoltre molti puntavano e puntano ancora sulla riabilitazione unicamente dei 4 alpini fucilati a Cercivento, perché considerati colpevoli di aver spinto un reparto di 80 soldati, facente parte del battaglione Monte Arvenis, a rifiutarsi di prendere parte ad un’azione notturna ritenuta pericolosissima, (4) ma essi, come scrivevo nel novembre 2016, rientrano  «in un discorso generale che coinvolse altri soldati e reparti: basta leggere il documentatissimo Pluviano Marco, Guerrini Irene, Fucilate i fanti della “Catanzaro”. La fine della leggenda sulle decimazioni della grande guerra, Gaspari, Udine 2007». (5).

E nel mio “O Gorizia tu sei maledetta… noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra.”, edizione cartacea Andrea Moro ed. 2016; edizione online storiastoriepn.it 2014, dedicavo alcune righe alla decimazione di soldati, a caso, uno su dieci, per reati evidenziati senza conoscerne il colpevole (6), e sottolineavo l ‘importanza dei risultati della Commissione d’inchiesta su Caporetto, di cui fece parte anche Michele Gortani, (7) aspetto non evidenziato nel libretto di Zanin e Scanu, citato.

Inoltre credo che l’ottica di Zanin e Scanu, che ancor oggi ritengono i senatori ed il popolo italiano divisi tra «nazionalisti- militaristi e internazionalisti- pacifisti» non regga e che non sia questa la causa di alcuni problemi e perplessità sulla proposta di testo di legge “Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la prima Guerra mondiale”, di cui risultano proponente e uno dei firmatari, quasi tutti del Pd (8). E ritengo che, forse, la Camera abbia troppo velocemente licenziato il testo della proposta di legge, senza verificarne la fattibilità.  

Riprendo quindi, dai miei precedenti, ed in particolare dal mio: “Per quei soldati italiani che furono condannati a morte nella 1a guerra mondiale. Cosa è successo nella 4a Commissione difesa, al testo di legge licenziato favorevolmente dalla Camera. Problemi e difficoltà”, in: www.nonsolocarnia.info, le perplessità emerse in Commissione Difesa del Senato, anche da parte del relatore Latorre e degli altri due membri del Pd, per far comprendere che esse dovrebbero venir superate, come hanno cercato di fare con il nuovo testo, che ha già copertura economica.

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  • Già il testo approvato alla Camera dei Deputati prevedeva il riconoscimento dell’istituto della riabilitazione militare nei confronti del personale militare italiano condannato alla pena capitale nel corso della prima guerra mondiale, per la violazione di talune disposizioni previste dell’allora codice penale militare, ma dal provvedimento di riabilitazione venivano espressamente esclusi tutti coloro che erano stati condannati alla pena capitale per aver volontariamente trasferito al nemico informazioni coperte dal segreto militare e pregiudizievoli per la sicurezza delle proprie unità di appartenenza e per il successo delle operazioni militari delle regie forze armate. Pertanto il senatore Alicata (Pdl) iniziava a chiedersi quali sarebbero state le modalità di individuazione e selezione dei beneficiari del provvedimento.
  • Un altro nodo problematico era poi rappresentato dal procedimento: nonostante il fatto che si sarebbe dovuto procedere d’ufficio, si sarebbe comunque dovuto vagliare caso per caso, il che avrebbe comportato ampie ricerche d’archivio su tempi, luoghi e modalità dell’accaduto. Il Tribunale militare di sorveglianza, tuttavia, non disponeva di risorse adeguate e le tempistiche sarebbero state, di conseguenza, particolarmente lunghe, imponendo di accompagnare la misura con un rafforzamento degli uffici giudiziari coinvolti, ed implicando, pure, di trovare adeguata copertura finanziaria.
  • Anche se il disegno di legge escludeva possibili risarcimenti di natura economica ai parenti dei riabilitati, la riabilitazione avrebbe potuto tuttavia far sorgere delle aspettative di natura economica nelle famiglie dei caduti (sia in termini di risarcimento, sia in termini di recupero di emolumenti mai corrisposti a motivo della condanna), dando luogo a contenziosi.
  • Perplessità venivano sollevate circa l’iscrizione dei riabilitati nell’Albo d’oro: l’atto istitutivo dell’Albo, infatti, già prevedeva chi iscrivere e chi non iscrivere, ed i volumi con gli iscritti erano già stati pubblicati.
  • Non si sapeva come la Repubblica italiana avrebbe potuto chiedere perdono per sentenze comminate dal Regno d’Italia in nome del Re, in sintesi per errori non suoi. Pertanto, di conseguenza, il professor Parisi aveva chiesto di sopprimere la creazione di un bando del Ministro della Pubblica Istruzione con un concorso tra gli studenti delle scuole superiori per la scelta del testo da incidere nella targa che si prevedeva di affiggere in un’ala del Vittoriano, per ricordare il sacrificio dei militari fucilati riabilitati, da affidare ad un adolescente.
  • Latorre poi riportava i problemi incontrati in Francia e Gran Bretagna nel trattare la questione. In Francia il testo non era stato approvato, pur avendo cercato di trasportare la riabilitazione al solo piano morale, in Gran Bretagna, invece, il Parlamento aveva licenziato un testo che prevedeva il perdono, in generale, per tutti coloro che fossero stati giustiziati, nel corso della prima guerra mondiale. per un reato tra quelli contenuti in un elenco approntato.
  • la senatrice Amati (Pd) si augurava di poter addivenire in tempi congrui ad una soluzione condivisa, che superasse i problemi tecnici evidenziati, comunicando il proprio orientamento favorevole per una soluzione di tipo francese, e così anche il Senatore Battista, che si dichiarava favorevole all’adozione di una riabilitazione morale di carattere generale.
  • Il senatore Gasparri (PdL) era favorevole alla costituzione di un comitato ristretto, ribadendo, a nome della propria parte politica, la contrarietà all’uso dello strumento legislativo per valutare le vicende storiche, ed osservando che sarebbe stato comunque difficile raggiungere un consenso unanime in materia.
  • L’ approvazione delle legge ai soli militari nella prima guerra mondiale poneva il problema della riabilitazione di militari condannati alla pena capitale per la violazione di talune disposizioni previste dell’allora codice penale militare per decimazione in altre guerre precedenti e nella seconda guerra mondiale.

A questo punto del dibattito il Senatore Latorre, Pd e prima comunista, proponeva di costituire un comitato ristretto composto dal Presidente stesso, relatore, e da un senatore per ciascun Gruppo parlamentare, per procedere alla predisposizione di un testo il più possibile condiviso dalle parti politiche. La Commissione accettava e i Gruppi Parlamentari si impegnavano a designare i rispettivi rappresentanti.

Si noti, inoltre, che molte perplessità erano sorte dopo l’audizione di Arturo Parisi, ex-ministro della difesa, che era stato Presidente del ‘Comitato tecnico scientifico volto a promuovere e coordinare iniziative di studio e di ricerca sul tema del “fattore umano” nella Grande Guerra’, istituito con apposito decreto ministeriale nel dicembre2014, e già sciolto nel marzo 2015, dopo aver concluso con un testo più che generico i suoi lavori, che aveva inviato una nota scritta. (8). Ma era stato  il testo di proposta di legge approvato dalla Camera dei Deputati il 4 maggio 2015, a prevedere l’audizione di detto Comitato. (9).

Pertanto, non era certo il Senatore Maurizio Gasparri, anche se non lo voterei, ad aver posto dei problemi insuperabili, ma tutti i membri della Commissione, a mio avviso, si erano trovati in difficoltà.  

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Per superare questi aspetti, veniva redatto un nuovo testo, seguendo le indicazioni data anche dalla senatrice Silvana Amati, seguendo la ‘linea’ adottata in Fracia, e cioè quella del perdono per tutti.

Questo il nuovo testo, che io trovo onesto:

  1. La Repubblica riconosce il sacrificio degli appartenenti alle Forze armate italiane che, nel corso della prima Guerra mondiale, vennero fucilati senza che fosse accertata a loro carico, a seguito di regolare processo, un’effettiva responsabilità penale. Promuove ogni iniziativa volta al recupero della memoria di tali caduti.
  2. Il Ministero della Difesa provvede a riportare i nomi dei caduti di cui al comma 1 in un apposito elenco pubblico, contenente le circostanze della morte e promuove altresì ogni più ampia iniziativa di ricerca storica volta alla ricostruzione delle drammatiche vicende del primo conflitto mondiale, con particolare riferimento alle vicende dei militari condannati alla pena capitale.
  3. Sugli eventi oggetto della presente legge il Ministero della difesa dispone la piena fruibilità degli archivi delle Forze armate e dell’Arma dei carabinieri per tutti gli atti, le relazioni e i rapporti legati alle operazioni belliche, alla gestione della disciplina militare nonché alla repressione degli atti di indisciplina o di diserzione, ove non già versati agli archivi di Stato.
  4. Nel Complesso del Vittoriano in Roma è affissa la seguente iscrizione: «Nella ricorrenza del centenario della Grande guerra e nel ricordo perenne del sacrificio di un intero popolo, l’Italia onora la memoria dei propri figli in armi fucilati senza le garanzie di un giusto processo. A chi pagò con la vita il cruento rigore della giustizia militare del tempo offre il proprio commosso perdono.
  5. All’attuazione delle disposizioni della presente legge le amministrazioni interessate provvedono nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». (10).

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In sede di discussione degli emendamenti, Silvana Amati e Nicola Latorre, ambedue del Pd, ritenevano che fosse corretto sopprimere le parole: “A chi pagò con la vita il cruento rigore della giustizia militare del tempo offre il proprio commosso perdono” che si ipotizzava dovessero venir scritte sulla targa da apporre al “Vittoriano”, perché avrebbero potuto generare equivoci, e che invece parevano condivisibili al senatore Bruno Alicata (PdL). Il senatore Carlo Pegorer, invece, riproponeva il ripristino del testo approvato alla Camera, dando l’impressione che vi fossero divergenze in casa Pd.

Quindi la proposta di testo di legge passava alla Commissione bilancio che la vagliava il 11 e il 17 gennaio 2017. Nel corso della seconda seduta, Enrico Morando vice ministro dell’economia e delle finanze, del Pd, metteva a disposizione dei convenuti una nota del Ministero della difesa, in cui si sottolineava che le iniziative previste dal provvedimento potevano essere svolte nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente, escludendo altresì ogni azione di carattere economico da parte dei discendenti dei soggetti interessati.
All’ incontro del 24 gennaio 2017, Moroldo conveniva con il relatore Laniece, che era «inevitabile una modifica ulteriore dell’articolato, per aggiornare i riferimenti temporali delle norme
finanziarie», e quindi il relatore suggeriva di approvare un parere di questo tipo: «La Commissione programmazione economica, bilancio, esaminati gli emendamenti relativi al disegno di legge in titolo, esprime, per quanto di propria competenza, parere contrario, ai sensi dell’articolo 81 della Costituzione, sulle proposte 1.10 e 1.2. Esprime parere non ostativo su tutti i restanti emendamenti».
Infatti il vice ministro Morando aveva valutato come, in particolare la proposta 1.2, comportante una procedura di riabilitazione individuale per tutti i condannati alla pena capitale, con connessa inevitabile articolata istruttoria, non fosse neppure immaginabile in assenza di risorse aggiuntive. (11).

Nulla ostava, invece, per la sottocommissione Affari Costituzionali, riunitasi l’8 novembre 2016, rispetto al testo approvato dal Senato e relativi emendamenti, che però non riesco a trovare. (12).

E fin qui le fonti ci sono, poi il nulla. Renzi ha perso ed i problemi pressanti sono altri, come del resto prima?  Non vi è copertura economica? Non lo so. So solo che questo libretto è uscito il gennaio o febbraio 2018, a due passi dalle elezioni, ma può essere solo un caso e mi scuso con gli autori.

Io credo che una materia così importante e delicata non possa essere monopolio di un partito di cui furono firmatari, alla Camera, tutti i proponenti tranne uno e non possa essere trattato in certi modi in fase pre- elettorale, e ritengo che le difficoltà espresse nella sua promulgazione e realizzazione concreta siano da prendere in seria considerazione, come hanno fatto alcuni rappresentanti del partito proponente, e quindi sempre del Pd. E se erro, correggetemi. Ma una materia così importante non può essere dimenticata. Comunque ed in ogni caso questi morti ragazzini e non nella prima guerra mondiale, sia scritti sull’albo d’oro che no, ci devono far riflettere sul valore incalcolabile della pace e della fratellanza tra i popoli.

Laura Matelda Puppini

 

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Note.

(1) Stefano Iannaccone, Grande guerra, una proposta di legge per la riabilitazione dei soldati fucilati, in: Il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2015, da me citato in: Per quei soldati italiani che furono condannati a morte nella 1a guerra mondiale. Cosa è successo nella 4a Commissione difesa, al testo di legge licenziato favorevolmente dalla Camera. Problemi e difficoltà, in: www.nosolocarnia.info, 6 novembre 2016.

(2)   Laura Matelda Puppini. Per quei soldati italiani che furono condannati a morte nella 1a guerra mondiale. Cosa è successo nella 4a Commissione difesa, al testo di legge licenziato favorevolmente dalla Camera. Problemi e difficoltà. 6 novembre 2016;

Francesco Cecchini. Il Senato italiano non vuole riabilitare, storicamente e giuridicamente, i fucilati e decimati durante il grande massacro 15-18, ma solo perdonarli. 8 novembre 2016;

Laura Matelda Puppini. Per quei soldati italiani che furono condannati a morte nella 1^ guerra mondiale. Continua l’iter al senato. Aggiornamento all’8 novembre 2016. 9 novembre 2016;

Laura Matelda Puppini. Disposizioni sui Fusilaz. L’iter della legge alla Camera e qualche problema. Per cercare di informare correttamente.  26 novembre 2016.

(3)   Paolo Rumiz, Quei caduti del ’15-18 giustiziati due volte,6 novembre 2016; Se i caduti fucilati non trovano pace, lettera firmata da un generale sul testo di Rumiz, La Repubblica, 9 novembre 2016; Commento mio ad altra persona, quando condivisi il testo di Cecchini da www.nonsolocarnia.info sul mio profilo, 8 novembre 2016 e Laura Matelda Puppini, commento numero 3 a: 10 novembre 2016 all’articolo: Laura Matelda Puppini. Per quei soldati italiani che furono condannati a morte nella 1^ guerra mondiale. Continua l’iter al senato. Aggiornamento all’8 novembre 2016 su www.nonsolocarnia.info; Giulio Magrini, lettera al Messaggero Veneto pubblicata il 10 novembre 2016,. Per le dichairazioni di Maurizio Gsparri sull’articolo di Rumiz, cfr. Laura Matelda Puppini, er quei soldati italiani che furono condannati a morte nella 1^ guerra mondiale. Continua l’iter al senato. Aggiornamento all’8 novembre 2016 su www.nonsolocarnia.info.

(4) https://it.wikipedia.org/wiki/Decimazione_di_Cercivento, http://www.ansa.it/sito/notizie/magazine/numeri/2015/03/24/grazia-per-gli-alpini_c5fa718c-e9dc-46fc-af91-0faab8a2501a.html

(5) Laura Matelda Puppini, Per quei soldati italiani che furono condannati a morte nella 1a guerra mondiale, op. cit., www.nonsolocarnia.info, nota 1, 6 novembre 2016.

(6) Laura Matelda Puppini, “O Gorizia tu sei maledetta… noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra.”, edizione cartacea Andrea Moro ed. 2016; edizione online storiastoriepn.it 2014, edizione cartacea pp. 41-43.

(7) Ivi, p. 43 e “Commissione d’Inchiesta di Caporetto: Stato Maggiore della Difesa – Ufficio Storico. Alessandro Gionfrida. Inventario del Fondo H4. – Commissione d’Inchiesta Caporetto. Istituzioni e fonti militari 2, in: http://www.difesa.it/Area_Storica_HTML/editoria/2015/Gionfrida/Pagine/index.html#p=1

(8) Problematiche tratte da: ‘Laura Matelda Puppini, Per quei soldati italiani che furono condannati a morte nella 1a guerra mondiale, op. cit., 6 novembre 2016, in: www.nonsolocarnia.info.

(9) Per la proposta di legge e le diversità con il testo proposto dal Senato, cfr. Laura Matelda Puppini, Disposizioni sui Fusilaz. L’iter della legge alla Camera e qualche problema. Per cercare di informare correttamente, in: www.nonsolocarnia.info, 26 novembre 2016.

(10) DDL S. 1935 – Senato della Repubblica, p. http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/45692.pdf, p.38, in: Laura Matelda Puppini, Per quei soldati italiani che furono condannati a morte nella 1^ guerra mondiale. Continua l’iter al senato. Aggiornamento all’8 novembre 2016, in: www.nonsolocarnia.info.

(11) DDL S. 1935 – Senato della Repubblica – XVII Legislatura 1.4.2.2.4.  – 5ªCommissione permanente (Bilancio) – Sedute del 18/1/2017 e del 24/01/2017 in: (http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/45692.pdf.

(12) http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/45692.pdf.

(13) Cfr. Papaveri rossi vegliano per un giubileo civile. La (mancata) legge di riabilitazione dei fucilati per mano amica, in: storiastoriepn.it, 6 febbraio 2018.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marco Lepre. L’ Atletica in Carnia: bistrattata come Cenerentola…(ma la colpa non è della burocrazia regionale!)

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La “fiaba” del campioncino di salto in alto e altre storie senza lieto fine.

 La vicenda di Luca Bombardier – il tredicenne campione di salto in alto, costretto ad allenarsi nel salotto di casa a causa della mancata sostituzione del “saccone” danneggiato dal fortunale abbattutosi sul campo di atletica di Tolmezzo nello scorso agosto – ha stupito molti cittadini, destando sconcerto e suscitando anche interrogativi e sentimenti contrastanti. Quella che è stata raccontata nelle scorse settimane sul Messaggero Veneto (gli articoli sono apparsi l’8 e il 10 marzo) ha, infatti, tutte le caratteristiche di una “fiaba” dei nostri tempi. C’è una giovane vittima innocente – questo è l’unico dato incontrovertibile – verso la quale non si può che provare immediatamente simpatia e solidarietà; c’è un “cattivo”, rappresentato da una burocrazia regionale insensibile e ottusa che nega, per un “cavillo”, l’assegnazione di un contributo; c’è, infine, un eroe “buono”, impersonato dal dirigente della società sportiva che si batte per difendere i diritti del ragazzo e degli altri atleti. Non manca, poi, il “lieto fine”: nonostante le avversità, Luca è riuscito a vincere il titolo regionale nella categoria ragazzi con un balzo di 143 centimetri e la sua “impresa” è valsa ad intenerire i responsabili del Palaindoor di Udine e della Polisportiva Malignani, che sono venuti provvisoriamente in soccorso donando l’attrezzatura mancante, recuperandola tra quella usata che a loro volta stanno sostituendo.

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Tutto bene, dunque? A ben guardare le cose non appaiono esattamente chiare, né tanto meno risolte. Francesco Martini, presidente della società per la quale gareggia Luca, ha espresso forte amarezza e se l’è presa senza mezzi termini con la burocrazia regionale, responsabile di aver escluso la Libertas Tolmezzo dalla graduatoria dei beneficiari dei contributi concessi per l’acquisto di nuove attrezzature sportive. L’ostacolo sarebbe costituito dall’impossibilità di dimostrare di avere in affidamento la gestione del Campo di Atletica per almeno un anno, dal momento che il contratto in vigore con il Comune scade tra qualche mese. Il mancato acquisto del “saccone”, come è stato sottolineato, potrà avere delle conseguenze ulteriori, perché l’impianto tolmezzino rischia di rimanere, prima o poi, privo di un’attrezzatura fondamentale, impedendo, in futuro, di effettuare le gare di salto in alto. Giusto, quindi, chiedersi di chi sia la colpa e quale sia la reale causa di questo inaccettabile disservizio.

Ora, sulla base delle cose raccontate proprio da Martini, appare evidente anche senza essere degli “addetti ai lavori” che, se le attrezzature sportive dell’impianto di atletica appartenessero tutte – come logica vorrebbe – all’ente proprietario della struttura, cioè al Comune di Tolmezzo, verrebbe meno l’ostacolo burocratico e non ci sarebbe stato alcun problema nell’assegnazione del contributo regionale e nella sostituzione del “saccone” danneggiato. Luca e i suoi compagni di allenamento avrebbero potuto, cioè, continuare a saltare tranquillamente. Dal momento che non è immaginabile che il presidente della Libertas Tolmezzo abbia commesso l’errore di presentare una domanda per sostituire un’attrezzatura danneggiata che non è di sua proprietà, rimane da capire come mai, a soli cinque anni dal completo rinnovo dell’impianto di atletica, mancasse la dotazione fondamentale di un “saccone” per il salto in alto, tanto che la società che gestisce temporaneamente la struttura del capoluogo carnico era stata costretta a “prestare” il suo. Forse c’era stata una dimenticanza da parte della Giunta Comunale al momento dell’acquisto degli attrezzi? Forse, per qualche motivo, non c’erano fondi sufficienti a disposizione? Oppure la legislazione regionale privilegia le società sportive private rispetto agli enti pubblici proprietari degli impianti? Martini, che, oltre che Presidente della Libertas Tolmezzo, è stato fino a tre anni fa Assessore Comunale allo Sport, forse potrebbe chiarire questi aspetti e fugare i dubbi su un possibile “conflitto di interessi”. Se, infatti, le società sportive che gestiscono impianti pubblici vengono agevolate nell’acquisto della relativa attrezzatura, potrebbero presentarsi in condizioni di vantaggio rispetto ad altre, nel momento dell’indizione di una nuova gara di appalto.

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 Al di là di questo deprecabile caso, rimane il fatto che, in Carnia, l’atletica leggera continua ad essere trattata come una “cenerentola”. Eppure, si tratta della disciplina “regina” delle Olimpiadi, nella quale questo territorio ha espresso il suo più grande campione, quel Venanzio Ortis, vincitore giusto quarant’anni fa del titolo europeo dei 5000 metri ai Campionati di Praga, che è stato superiore ai suoi stessi cugini Di Centa, olimpionici dello sci di fondo, ma in una disciplina meno praticata e universale rispetto alla corsa. Se l’atletica viene “bistrattata”, la burocrazia regionale però non c’entra. Le colpe sono invece da ricercare in una cattiva politica e in un modo di amministrare poco saggio e previdente.

La storia dell’impianto di atletica di Tolmezzo è, in questo senso, emblematica. C’è voluta  una lunga attesa, durata fino alla metà degli anni Ottanta, per la sua realizzazione e poi altri ritardi per il suo completamento ed in seguito, quando il Comune preferì dare priorità agli sport motoristici con la cosiddetta “pista di guida sicura”, anche per il rifacimento del manto usurato. Ogni volta che ci si è messo mano, poi, si sono verificati clamorosi errori, che hanno finito per pesare oltretutto sui conti pubblici per varie decine di migliaia di euro. Basterà ricordare, nel 2008, la sciagurata decisione di costruire uno spogliatoio nel posto sbagliato, con la conseguenza di dover abbattere una delle due tribunette per il pubblico e di compromettere notevolmente la visibilità che si ha da quella superstite. Nel 2012, grazie ad un finanziamento della Comunità Montana, c’è stato poi l’indispensabile rifacimento del manto sintetico della pista, con un aggravio imprevisto dei costi dovuto ad un vero e proprio “capriccio”. Il costo aggiuntivo di 25.000 euro, si ebbe, infatti, a parità di materiale impiegato, per una improvvisa ed improvvida personale scelta “estetica” dell’Assessore allo Sport Francesco Martini, il quale, nonostante il parere del Direttore dei Lavori, impose di sostituire l’iniziale colore “rosso mattone” con uno azzurro. Qualche mese prima, con la scusa di ricavare un ristretto ed improbabile spazio dedicato al “riscaldamento degli atleti”, c’era stata la rimozione della siepe protettiva lungo la recinzione, che, oltre a creare una gradevole sensazione di isolamento durante la pratica dell’attività sportiva, aveva una importante funzione di separazione visiva ed acustica dalle trafficate vie adiacenti e, in una certa misura, svolgeva anche una utile funzione “frangivento” che, forse, avrebbe limitato i danni alle attrezzature in occasione del fortunale dell’estate scorsa.

Infine, per tornare al tema delle “ingiustizie” subite da alcuni atleti, è bene sottolineare che, nell’unica struttura di questo genere esistente in Carnia, sistemata, come detto, con un contributo della Comunità Montana, i residenti nei paesi, che già sono costretti ad accollarsi le spese di trasferimento, devono pagare una tariffa oraria per l’uso individuale che è il triplo rispetto a quella riservata ai residenti di Tolmezzo. Ciò significa, per un atleta che si allena un paio d’ore per tre volte alla settimana, pagare quasi 450 euro all’anno invece di 150. Non mi sembra che sia esattamente questo il modo per aiutare i ragazzi della montagna che praticano sport e per frenare l’abbandono delle valli. Il provvedimento risale ai tempi in cui Francesco Martini era assessore, ma, purtroppo, non è stato ancora modificato dall’attuale amministrazione comunale.

 

Tolmezzo, 26 marzo 2018      Marco Lepre, appassionato di atletica leggera e tesserato FIDAL . Tolmezzo

Inserito da Laura Matelda Puppini. L’immagine che accompagna l’articolo di Marco Lepre è quella che correda l’articolo di Alessandra Ceschia, Il campioncino ha vinto: arriva il saccone per il salto, in: Messaggero Veneto, 10 marzo 2018. Si prega di avvisare se l’immagine è coperta da copyright, nel qual caso verrà immediatamente rimossa. Laura Matelda Puppini.

Francesco Cecchini. Sull’impegno per la riabilitazione collettiva dei fucilati e decimati durante il grande massacro 1915 – 1918 e “Lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ed a Papa Francesco”.

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«Il centenario della Prima Guerra Mondiale, Grande Massacro 15-18, può essere l’occasione per fare i conti con un capitolo doloroso e rimosso dalla memoria nazionale, quello di mille e più soldati italiani – il numero esatto non è conosciuto – fucilati e comunque uccisi dal piombo di altri soldati italiani perché ritenuti colpevoli di codardia, diserzione o disobbedienza. Fra di loro ci sono anche i decimati, estratti a sorte da reparti ritenuti “vigliacchi” e passati per le armi “per dare l’esempio”.
L’ Italia detiene il record pesante di essere al primo posto. In un esercito di 4 milioni e 200 mila soldati al fronte ne “giustiziò” oltre 1000. L’esercito francese che iniziò la guerra nel 1914, un anno prima, ebbe 6 milioni di soldati e 700 fucilati. Nell’esercito inglese furono 350 e in quello tedesco una cinquantina.
Riabilitare la memoria dei soldati fucilati e decimati durante il grande massacro 15-18 è una chiave morale per un centenario che, altrimenti, rischia di essere solo retorico. Non è comunque sufficiente una riabilitazione morale, questa deve essere giuridica. Nel settembre del 1919 ci fu un’amnistia generale che cancellò pendenze penali non gravi. Questa misura non riguardò altri 20mila condannati, tra cui i fucilati con condanna da tribunali militari. I decimati furono passati per le armi senza una condanna formale. Discendenti di soldati fucilati avviarono iniziative giudiziarie e si batterono per anni per vedere riconosciuta la verità su quanto accaduto. Senza nessun risultato positivo. Emblematico è il caso dell’alpino Ortis, fucilato con tre compagni a Cercivento, in Carnia, con l’accusa di diserzione. Un suo pronipote si batte dal 1988, ma invano. La sua istanza di riabilitazione viene rigettata perché secondo i codici di procedura deve essere proposta dall’interessato, fucilato decenni prima.

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In questi ultimi due anni vi sono state molte iniziative per la riabilitazione storica e giuridica dei fucilati e decimati anche collettiva:
• Perché è impossibile differenziare i casi dei fucilati. Molti documenti sono andati persi e gli archivi sono nel caos.
• Perché i soldati spesso sono stati fucilati collettivamente da plotoni d’esecuzione alla presenza di truppe radunate per l’occasione.
• Perché quelle esecuzioni dovevano terrorizzare la coscienza collettiva dei soldati.
In Italia c’ è un vento nuovo che spira verso la riabilitazione. Non sono più i tempi della lettera ai cappellani militari di don Lorenzo Milani, condannata per vilipendio. La sentenza toccò solo il direttore di Rinascita che l’aveva pubblicata, perché Don Milani morì prima.

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Le iniziative in corso sono state e sono varie.
Nel luglio 2014 il Pubblico Ministero della Procura di Padova, dr. Sergio Dini ha inviato una lettera al ministro della difesa Roberta Pinotti nella quale chiese “un provvedimento di clemenza di carattere generale, a favore di tutti i condannati a morte del I° conflitto mondiale”. Dini nella lettera afferma che i fucilati, con sentenze dei tribunali militari furono circa 750, mentre il numero dei decimati è ancora imprecisato. Nel seguente paragrafo Dini chiarisce il motivo di questo atto di clemenza: “Sig. Ministro anche i caduti sotto il fuoco di un plotone d’esecuzione sono morti in guerra, e (perché no?) sono morti per la Patria; essi furono mobilitati contro la loro volontà, per una guerra di cui non ben comprendevano gli scopi, come fu per la maggior parte dei morti in combattimento o in prigionia”. Il Ministro Roberta Pinotti ha risposto alla lettera dicendo che ha preso nota del problema e che ha nominato una commissione ad hoc, presieduta da Valdo Spini.

Il 14 settembre 2014 è stato pubblicato nel blog di Daniele Barbieri di un appello redatto da Daniele Barbieri, David Lifodi e Francesco Cecchini che finora ha raccolto ben oltre duecento adesioni con in testa Lidia Menepace, dell’ANPI. Hanno aderito persone ed organizzazioni di diversa posizione politica, come il senatore della Lega Nord Gian Marco Centinaio, obiettore di coscienza, Sinistra Anticapitalista di Torino o l’ANPI di Cremona. L’appello chiede la riabilitazione giuridica dei fucilati e decimati, basandosi anche sul parere di un avvocato che afferma che la cosa è fattibile legalmente e che si rifà a quanto accaduto in altri paesi. L’appello è stato quasi simultaneamente pubblicato nel sito La Storia Le Storia di Pordenone e poi, via via, nel quotidiano Il Manifesto, nella new letter dell’agenzia internazionale ‘Pressenza’, nel sito dell’ ANPI di Cremona, nel sito del Manifesto di Bologna, in Agoravox, nel sito di Azione Non Violenta, nel blog di Paolo Brogi, nella pagina Facebook del CESC, nel giornale on line Oggi Treviso ed in altri luoghi.

All’appello ha accennato il settimanale Famiglia Cristiana e Mao Valpiana, Presidente nazionale del Movimento Nonviolento in L’ Huffington Post. L’ appello è stato inviato al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al Presidente del Consiglio Matteo Renzi e al Ministro della Difesa. Va sottolineato che Sergio Mattarella è sensibile al tema, avendo presentato anni fa a Palermo “ Compagnia fucilati” di Diego Carpenedo.

Il 4 novembre 2014 l’on. Fabio Lavagno ha presentato una proposta di legge sottoscritta da parlamentari di Libertà e Diritti-Socialisti Europei. All’articolo 683, comma 1, del codice di procedura penale, dopo le parole: « su richiesta dell’interessato » Lavagno ha inserito le seguenti: «del coniuge o di un parente entro il terzo grado». La proposta ha come scopo, innanzitutto, quello di risolvere casi come quello dell’alpino Ortis, accennato precedentemente.
Nel suo intervento alla camera l’ on. Lavagno ha iniziato sottolineando che: “La presente proposta di legge promuove un intervento legislativo per restituire dignità e memoria ai soldati italiani uccisi per fucilazione e decimazione”. Fabio Lavagno ha parlato della sua iniziativa in una trasmissione di Radio 3, che ha avuto un buon ascolto.

Il 6 novembre 2014 il vescovo Ordinario Militare monsignor Santo Marcianò, intervistato dall’Adn Kronos ha dichiarato: “Riabilitare i militari disertori, come Caduti di guerra: ‘giustiziarli’ fu un atto di violenza ingiustificato, gratuito, da condannare. È sorprendente con quanta facilità costoro siano stati giustiziati, in molti casi senza un regolare processo ed ad opera di altri militari. E che tale esecuzione fosse motivata da ragioni punitive o dimostrative non cambia la realtà: essa è stata e rimane un atto di violenza ingiustificato, gratuito, da condannare. Non c’è ragione che possa giustificare tale violenza, unita a diffamazione, vergogna, umiliazione. Come è già avvenuto in altri Paesi europei, la profonda ingiustizia perpetrata a loro danno sostiene la richiesta di chi vorrebbe una ‘riabilitazione’ di questi militari, tramite un loro riconoscimento come caduti di guerra. Anche lo Stato italiano, in particolare il ministro della Difesa Roberta Pinotti, ha deciso di studiare meglio questa problematica”.

A fine 2014, inizio 2015 un appello promosso dal Messaggero Veneto, innanzitutto per la riabilitazione dei fucilati di Cercivento, raggiunse circa un migliaio di adesioni.
Il 21 maggio 2015 fu approvato, all’unanimità, dalla Camera un disegno di legge, presentato dall’on. Gian Piero Scanu del PD, che prevede «la riabilitazione dei militari delle Forze armate italiane che nel corso della Prima guerra mondiale abbiano riportato condanna alla pena capitale».

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La faccenda iniziò due anni fa con un appello che un piccolo esercito di storici e intellettuali (fra gli altri Alberto Monticone, Luciano Canfora, Giulio Giorello, Mimmo Franzinelli, Antonio Gibelli, Nicola Tranfaglia, G. Marco Cavallarin). Costoro scrissero al Quirinale e al premier Renzi, nell’imminenza delle commemorazioni del centenario della Grande Guerra. La richiesta era che fossero riabilitati e annoverati nel giusto posto di «caduti per la patria» i soldati italiani fucilati «per mano amica». Un migliaio di ragazzi e ragazzini, le cosiddette ’vittime di Cadorna’, assassiniati base alle famigerate circolari di quello che poi fu Maresciallo d’Italia, la più nota delle quali sarebbe stata ispirata dal suo consigliere psicologico Padre Agostino Gemelli, che consentivano agli alti comandi e ai tribunali di andare ben oltre i limiti imposti dalla legge. I soldati erano colpevoli di reati disciplinari per i quali non era prevista la pena di morte; oppure avevano cercato di evitare inutili massacri mettendo in discussione l’ordine di assaltare postazioni inespugnabili. La loro morte doveva essere “un salutare esempio” contro “la propaganda demoralizzatrice”.

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Dopo l’approvazione la legge Scanu passò al Senato dove la Commissione Difesa presieduta dall’on. Nicola Latorre, anche lui del Partito Democratico che la discusse solo dopo una quindicina di mesi.
La conclusione è che i fucilati e decimati non vanno riabilitati, ma solo perdonati (sic!).
Le reazioni sono state immediate. L’on. Scanu ha dichiarato: “Sconcertante, così si arriva a giustificare le decimazioni”. Lo scrittore Paolo Rumiz ha scritto che la posizione della Commissione Difesa del Senato significa una seconda fucilazione per quelle vittime.
Sul tema, lo scorso 4 novembre, a Vittorio Veneto si è tenuto un convegno dal titolo ‘I fucilati della Grande Guerra: onor perduto?’ Sono intervenuti il professor Guglielmo Cevolin dell’Università di Udine, Sergio Dini, sostituto procuratore presso il Tribunale di Padova, e i deputati Giorgio Zanin e Gian Piero Scanu a sostegno della proposta di legge Scanu. Importante è stato l’intervento della segretaria del locale Circolo SEL, che ha valutato positivamente la legge Scanu, ma ha anche ribadito l’importanza che la riabilitazione sia collettiva.

Comunque la legge Scanu non tiene conto che vi furono esecuzioni senza processo conseguenti a circolari ad integrazione del Codice penale militare, che ampliava a dismisura l’art: 40 del Codice stesso e che di misure repressive non sempre rimase traccia a verbale. Inoltre vi furono vere e proprie esecuzioni sommarie da parte di ufficiali o sottufficiali che sopprimevano immediatamente i soldati ritenuti rei di compromettere azioni militari o la sicurezza del reparto.
Quindi l’impegno per la riabilitazione collettiva dei fucilati e decimati durante il grande massacro 1915 – 1918 va continuato, nel paese, nei movimenti e nelle istituzioni. Quest’azione va considerata all’interno di un più grande impegno quotidiano contro gli armamenti, contro il nucleare e contro tutte le guerre».

Francesco Cecchini.
Questo testo era stato pubblicato come commento all’ultimo mio sull’argomento, ma io e l’autore, concordemente, abbiamo deciso di riportarlo come articolo. L’ immagine che correda il testo è sempre la stessa che ho usato per l’argomento negli altri articoli pubblicati, pur con diverso colore, ed è tratta da: “http://www.ledsocialistieuropei.it/riabilitare-la-memoria-dei-fucilati-della-prima-guerra-mondiale-chiave-morale-per-un-centenario-che-rischia-di-essere-solo-retorico/. Laura Matelda Puppini

Quindi Francesco Cecchini ha posto come commento la lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ed a Papa Francesco, che qui aggiungo

L’impegno per la riabilitazione dei fucilati e decimati deve continuare. Aspettando il nuovo governo, una lettera aperta a Bergoglio e Mattarella sul tema può aiutare.

Per la riabilitazione storica e giuridica dei soldati italiani fucilati per disobbedienza o decimati nel 1915-18.

A Papa Francesco, info@papafrancesco.net 
Al signor presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, presidenza.repubblica@quirinale.it

«Il centenario della Prima Guerra Mondiale, che finisce quest’anno, 2018, deve essere l’occasione per fare i conti con un capitolo doloroso e rimosso dalla memoria nazionale, quello di mille e più soldati italiani – il numero esatto non è conosciuto – fucilati e comunque uccisi dal piombo di altri soldati italiani perché ritenuti colpevoli di codardia, diserzione o disobbedienza. Fra di loro ci sono anche i decimati, estratti a sorte da reparti ritenuti “vigliacchi” e passati per le armi «per dare l’esempio». L’Italia detiene il record pesante di essere al primo posto. Un esercito di 4 milioni e 200 mila soldati al fronte ne “giustiziò” circa 1000. L’esercito francese, che iniziò la guerra nel 1914, un anno prima, ebbe 6 milioni di soldati e 700 fucilati. Nell’esercito inglese furono 350 e in quello tedesco una cinquantina. La Gran Bretagna ha adottato nel 2006 un provvedimento sulla grazia dei soldati dell’ Impero Britannico durante la guerra 14-18. In Francia dopo un discorso di Jospin del 1998 se ne sta discutendo e avanzando verso una soluzione politico-giuridica che potrebbe essere presa prima o poi. Pur tenendo conto delle differenze politiche, culturali e giuridiche tra i vari Paesi attendiamo dal Parlamento italiano una decisione che faccia giustizia di quell’immensa ingiustizia. Cioè di esseri umani che furono “giustiziati” perché sostanzialmente: Si rifiutarono di battersi e di morire per niente. Vollero mettere fine ai massacri.
Rifiutarono di uccidere altri esseri umani con differenti uniformi. Fraternizzarono oltre le trincee.
La riabilitazione deve essere collettiva:
Perché è impossibile differenziare i casi dei fucilati. Molti documenti sono andati persi e gli archivi nel kaos. Perché i soldati spesso sono stati fucilati collettivamente da plotoni d’esecuzione alla presenza di truppe radunate per l’occasione. Perché quelle esecuzioni dovevano terrorizzare la coscienza collettiva dei soldati. La riabilitazione di questi cittadini italiani fucilati ingiustamente richiede un’apposita legge. Il 21 maggio 2015 fu approvato, all’unanimità, dalla Camera un disegno di legge, presentato dall’on. Gian Piero Scanu del PD, che prevedeva «la riabilitazione dei militari delle Forze armate italiane che nel corso della Prima guerra mondiale abbiano riportato condanna alla pena capitale». Dopo l’approvazione la legge Scanu passò al Senato dove la Commissione Difesa presieduta dall’on. Nicola La Torre, anche lui del partito democratico che la discusse solo dopo una quindicina di mesi. La conclusione è che i fucilati e decimati non vennero riabilitati, ma solo perdonati.
Papa Francesco e Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, una vostra presa di posizione a favore della riabilitazione dei fucilati e decimati durante la Grande Guerra 1915-1918 sarebbe importante. Un cordiale saluto».

Francesco Cecchini.

 

‘Per quei bambini orfani di femminicidio’ da Il Manifesto ed altri, sulla nuova legge 11 gennaio 2018, ed il ‘rapporto ombra’.

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Io credo che il femminicidio non si possa solo ricordare in una giornata di palloncini rossi, che non risolvono nulla. Io credo si debba parlare del clima di sopraffazione e violenza della società attuale, e del corpo mercificato, oltre che dell’uso, direi quasi ossessivo compulsivo di cellulari, social e giochi on-line, del soggettivismo imperante, della mancanza di regole etiche e morali. E io credo che questo periodo di Pasqua sia il più adatto a ricordare un altro problema legato al femminicidio: quello della sofferenza dei minori in particolare, ove la madre è stata uccisa dal padre o dall’ex, senza dimenticare quello di altri membri della famiglia, genitori, fratelli, zii, altri.  Per questo ho deciso di pubblicare questo testo di Rachele Gonnella, da: Il Manifesto del 22 settembre 2016, per riflettere e far rifettere sui limiti della società attuale, ed altre considerazioni. 

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«Tremano, si isolano, hanno incubi, disturbi dell’attenzione a scuola, aggressività improvvise, balbuzie, psoriasi. “Si sentono sciagurati, hanno continuo flashback, si colpevolizzano”. Agnese – “il mio cognome non interessa sono solo una delle tante” – è una zia affidataria di due orfani di un femminicidio e il suo racconto, che legge, nell’aula Aldo Moro della Camera dei deputati è dettagliato e commovente. Racconta la sua esperienza a fianco di due bambini di 12 e 10 anni che le sono arrivati in casa due anni fa ancora sconvolti da ciò che avevano visto e vissuto.

“Sono i figli di mia sorella Silvana” – spiega Agnese – maestra di scuola materna uccisa dal marito, guardia giurata, con tre colpi di pistola. “Il loro è un triplice dramma – continua – si sono trovati d’un colpo orfani di entrambi i genitori, anche se il padre è ancora vivo, in carcere, hanno vissuto la guerra, con spari e sangue in casa, nel posto che sarebbe dovuto essere il più sicuro e protetto, e lo shock di un terremoto, perché sono usciti nudi da quella casa, sotto sequestro, senza poterci rientrare neppure per prendere i loro giochi, i vestiti, i libri di scuola”.

Agnese, insieme al marito Giovanni Paolo, hanno accettato di partecipare al convegno che si è svolto ieri a Montecitorio per la presentazione delle linee guida d’intervento per quelli che vengono internazionalmente definiti ‘special orphans’ e sono, a tutti gli effetti, vittime non riconosciute anche loro della violenza contro le donne. Non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa di loro si parla poco e si conoscono poco i loro bisogni, i loro traumi. È stato realizzato un primo studio -‘Switch-off’ – finanziato dalla Ue, guidato in Italia dalla criminologa Anna Costanza Baldry, presso il dipartimento di psicologia della seconda università di Napoli in collaborazione con la rete ‘Dire’ dei centri antiviolenza, che si è sviluppato con le stesse metodiche anche a Cipro e in Lituania. Altri due studi precedenti sono segnalati in Germania e in Olanda. Stop.

Lo studio, presentato dalla stessa Baldry ieri sia al convegno che in un incontro privato con la presidente della Camera Laura Boldrini, non è di tipo accademico ma “sul campo” – come si dice in gergo – perché il campione dei ragazzi o dei loro tutori intervistati non è rappresentativo sul piano nazionale. Dei 1.628 orfani di femminicidio di cui si è trovata traccia negli ultimi quindici anni, solo in 123 hanno accettato di collaborare e di sottoporsi alle domande dei ricercatori. Alcuni a distanza di molti anni dall’evento tragico che ha colpito la loro famiglia.

Ne emerge comunque un quadro significativo, ad esempio nell’84% dei casi i figli hanno assistito all’assassinio della madre e nell’81% dei casi hanno assistito a episodi precedenti di violenza in casa, un focus che ha consentito di definire le linee guida di ciò che manca per attenuare il loro trauma. In primis il riconoscimento di essere essi stessi vittime di secondo grado del femminicidio, come ha riconosciuto la Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano. Titti Carrano, presidente di ‘Dire’, sostiene che “i figli, anche se testimoni della violenza, non vengono quasi mai ascoltati dal giudice, che pure potrebbe farlo tramite l’incidente probatorio, poi si tende sempre a privilegiare la bi-genitorialità e perciò non si sospende immediatamente, come si dovrebbe, la genitorialità del padre impedendo incontri nell’immediato e riflessi in ambito civile”.

Agnese, la zia affidataria, aggiunge che oltre a un sostegno al reddito che favorisca l’affidamento alle famiglie parentali fino al quarto grado, un sostegno economico sarebbe giusto darlo a tutti. “Ho scoperto – dice – che a Milano si sono posti il problema del perché 1.500 famiglie parentali in trent’anni avevano rinunciato all’affidamento degli orfani per impossibilità economica. Dal 2012 hanno erogato 350 euro al mese a minore affidato e hanno ridotto i costi. Le rette delle case famiglia e delle comunità vanno infatti dai 2 mila ai 6 mila euro mensili”.

Altro problema segnalato: una volta sospesa dal giudice la responsabilità genitoriale del padre femminicida, per le questioni di eredità viene nominato un tutore, che molto spesso però è lo stesso ente che assiste il minore. “I tempi sono lunghi e il conflitto d’interesse evidente”, conclude Agnese».

http://ilmanifesto.info/inchiesta-tra-i-1-600-orfani-del-femminicidio/ 22 settembre 2016.

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Elvira Serra, nel suo “Quei 1.500 bimbi orfani due volte. La madre uccisa e il padre in cella”, in: http://27esimaora.corriere.it/articolo/quei-1-500-bimbi-orfani-due-voltela-madre-uccisa-e-il-padre-in-cella/ sottolinea, invece, come, in Italia, le istituzioni molte volte non siano di aiuto, facendo resistenze ingiustificate; come problemi comuni quali quello dell’opportunità di far partecipare i minori al funerale del genitore ucciso o di portarlo ad incontrare il padre in carcere, o come fargli superare il suicidio del genitore assassino, spesso non siano stati adeguatamente trattati, anche se ogni caso deve esser valutato singolarmente, e come il minore spesso non venga ascoltato dai giudici.  (Elvira Serra, op. cit.).

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E possono esistere casi come quello dei figli di Rosa Bonanno, che vennero dati in adozione invece che lasciati ai nonni, ritenuti troppo anziani, ed a cui veniva così tolta la possibilità di vivere in ‘continuità affettiva’, mentre in certi casi, l’affido ai nonni materni veniva sconsigliato per il timore che i bimbi potessero essere educati all’odio del padre, che però, a mio avviso, è male minore. (https://www.valeriarandone.it/articoli/i-figli-del-femminicidio-chi-pensera-a-loro/).

L’articolo: “Le vittime dimenticate dei femminicidi: i bambini”, in: http://www.gruppoabele.org/le-vittime-dimenticate-dei-femminicidi-i-bambini/, invece, pur rifacendosi sempre alla ricerca presentata a Montecitorio da ‘Switch Off’, un progetto europeo coordinato dall’Università di Napoli e dall’Associazione D.i.re.,  sottolinea come «il 57% di questi orfani non hanno un sostegno psicologico adeguato, soprattutto dopo che le telecamere si spengono, i processi finiscono e l’attenzione su di loro, inevitabilmente, cala. Ma la loro vita continua».

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Quindi si viene a sapere che «È arrivato in discussione alla Camera un disegno di legge d’iniziativa parlamentare a tutela degli orfani di femminicidio, nel lessico giuridico, orfani di crimini domestici. Bambini e bambine, cioè, che hanno perso la madre per mano del padre, a volte assistendo al delitto, e diventando orfani due volte. Nell’ambito di questa norma è stato inserito un emendamento che, nei casi di omicidio, equipara la responsabilità del coniuge e del convivente della vittima a quella di altre figure familiari, come il padre o il figlio, già previste per l’accesso all’aggravante. Dunque nessun innalzamento ad hoc delle pene – come erroneamente sostenuto in alcune discussioni di questi giorni o sottinteso in alcuni titoli di giornali. Nessuna aggravante specifica o distinta, bensì una parificazione, cosa ben diversa. E anche una svolta epocale, se si guarda a quell’esclusione del coniuge dalle responsabilità come il segno di una cultura, quella nostrana del Codice Rocco e del delitto d’onore, cancellato solo nell’81, a cui la modifica proposta direbbe finalmente no». (Alessandra Servidori, Finalmente una tutela per i bambini orfani di femminicidio, in: http://formiche.net/2017/02/tutela-bambini-orfani-femminicidio/).

E così continua la Servidori: «Si tratta di non chiudere gli occhi dinanzi l’odierno contesto sociale in cui viviamo e la realtà che la cronaca ogni giorno ci racconta, fatta di storie di donne uccise in maggioranza per mano del coniuge o del convivente, figura finora mai considerata; ma, soprattutto, di dare piena esecutività alle direttive della Convenzione di Istanbul, unico strumento normativo giuridicamente vincolante di cui gode l’Europa su questo terreno. È importante ricordare che la convenzione di Istanbul, non solo, ha dato un grande impulso dal punto di vista normativo (ad oggi la convenzione è l’unico strumento normativo giuridicamente vincolante di cui gode l’Europa su questo terreno) ma, avendovi aderito nel 2013, ne dobbiamo seguire la linea. Occorre condividere l’approccio secondo cui qualsiasi azione di contrasto alla violenza deve muoversi sinergicamente su tutti i piani: prevenzione, protezione, pena.»  (Ivi). Ma è ben poca cosa.

Infine veniva approvata dal senato, dopo mesi di stallo e perplessità di alcuni, il decreto legge “sul femminicidio” (“La nuova legge sul femminicidio, Pene più dure e prevenzione: ecco cosa prevede il provvedimento appena varato dal Parlamento”, per l’omicida:  la relazione affettiva con la donna come aggravante; l’arresto obbligatorio in flagranza e l’introduzione del braccialetto elettronico, dieci milioni di euro da investire nel piano antiviolenza, la querela irrevocabile in caso di alto rischio per la persona, e l’ammonimento per lesioni. (http://www.rai.it/dl/tgr/articolo/ContentItem-20224223-09a8-46bc-974e-59ad28553ff9.html).

Detta legge, dell’ 11 gennaio 2018, licenziata dal senato il 21 dicembre 2017, e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’1 febbraio 2018, n. 26, secondo Il Quotidiano giuridico,  va apprezzata per: l’ampiezza del riferimento soggettivo, l’estensione delle tutele soprattutto economiche ai figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, anche se poi suscita perplessità la cifra stanziata; il riferimento ai “figli della vittima”, anche se da unione precedente, la sospensione dalla successione nei confronti della vittima dell’ omicida, le disposizioni finalizzate a garantire agli orfani dei crimini domestici effettività del diritto allo studio, accesso privilegiato al mondo del lavoro, assistenza medico psicologico, ma manca la possibilità di avvio di procedimenti relativi alla sospensione e decadenza della responsabilità genitoriale nei confronti del coniuge assassino. (http://www.quotidianogiuridico.it/documents/2018/02/02/in-gazzetta-la-legge-in-favore-degli-orfani-per-crimini-domestici). Ma da che ho compreso, riguardo ai minori interessati, trattasi sempre di interventi economici per … che sono importanti ma non bastano.

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Mi pare, poi e per terminare, molto interessante, nel contesto e sulla situazione della donna oggi il “Rapporto ombra” elaborato dalla piattaforma italiana “Lavori in Corsa: 30 anni CEDAW” in merito allo stato di attuazione da parte dell’Italia della Convenzione ONU per l’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione nei Confronti della Donna (CEDAW) in riferimento al VI Rapporto presentato dal Governo italiano nel 2009, Italia, Giugno 2011, in: http://files.giuristidemocratici.it/giuristi/Zfiles/ggdd_20110708082248.pdf, citato all’epoca, anche da La Repubblica e da Il Fatto Quotidiano (“Donne, il rapporto ombra sulle discriminazioni. Gli stereotipi lesivi della dignità e dei diritti”, in http://www.repubblica.it/solidarieta/cooperazione/2011/07/13/news/pangea_a_new_york_il_rapporto_ombra-19088856/, 13 luglio 2011, e: Eleonora Bianchini, “Diritti delle donne, il ‘rapporto ombra’ arriva alle Nazioni unite”, in: Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2011) e da vari siti.

Laura Matelda Puppini

L’ immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: http://ferrari.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/07/10/effetti-collaterali-del-femminicidio-i-figli/. Laura Matelda Puppini

 

 

 

Mostra su: “La deportazione politica dal Friuli (1943-1945)” a Tolmezzo.

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Mi è stata inviata da Pierpaolo Lupieri la locandina della mostra “La deportazione politica dal Friuli (1943-1945)” che si terrà a Tolmezzo presso il Centro Servizi Museali adiacente al museo Gortani dal 7 aprile al 20 maggio 2018, che volentieri pubblico. Sulla locandina troverete maggiori informazioni anche sugli orari di apertura. L’inaugurazione della mostra avverrà il 7 aprile alle ore 18. Questa mostra, come scrive Lupieri, rappresenta “Un cammino della memoria, un’occasione di rivisitare momenti bui della nostra Storia, ma anche un’opportunità di riflessione sulle vicende e sulle tragedie personali di molti protagonisti della terribile realtà concentrazionaria” e finiti nei lager nazisti per lottare per la patria e la libertà, dico io, e riporta alle precise responsabilità del fascismo repubblichino e dei collaborazionisti con i tedeschi, come la Decima Mas ed altre Bande qui, oltre che dei nazisti stessi.  E la deportazione fu principalmente politica perchè fu nazista. L’invito è di recarvi a vederla. Per poter cogliere l’ intera locandina, portare lo zoom da 100% a 70%.  Nel contempo vi invito a leggere pure il testo del deportato carnico Pietro Pascoli, pubblicato integralmente in: www.deportati.it/static/pdf/libri/pascoli_deportati.pdf

Laura Matelda Puppini

locandina mostra deportati-2

 

 

Dialogo a più voci. Il vecchio mondo sta morendo. Coglieremo il lucignolo fioco che ci indicherà la strada alternativa?

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Talvolta leggo alcune riflessioni su “Il dialogo”, periodico cristiano di Monteforte Irpino, che presenta il suo desiderio con queste parole: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra.»(Isaia 2,4). Direttore di Il dialogo è Giovanni Sarubbi, che per la Santa Pasqua 2018 si pone pure il problema se abbia ancora un senso scrivere il proprio pensiero in questa società, concludendo, però, che non si deve mai gettare la spugna. Riprendo alcuni pensieri dal suo editoriale pasquale per la loro importanza, rimandando chi volesse leggere l’articolo intero, che presenta anche molti spunti sulla politica italiana, a: Giovanni Sarubbi, Il lucignolo fioco che ci indicherà la strada, in:  http://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/editoriali/direttore_1522602473.htm. Giovanni Sarubbi è nato in Lucania nel 1951. Giornalista, diplomato in teologia, si occupa di dialogo ecumenico ed interreligioso, e oltre che direttore di ‘Il dialogo’, punto di riferimento nazionale del dialogo cristiano-islamico, è membro della redazione di ‘Tempi di Fraternità’, e collabora con vari giornali locali e nazionali sui temi della pace e del dialogo. (http://www.emi.it/sarubbi-giovanni).

Il lucignolo fioco che ci indicherà la strada.

«“Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.“
“Il fascismo si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e bene amministrato.“ Antonio Gramsci.

Due frasi di Antonio Gramsci scritte all’incirca un secolo fa. Descrivono la situazione di quegli anni con l’Europa devastata dalla Prima Guerra mondiale e la nascita da un lato del primo stato socialista al mondo, e dall’altro della nascita del fascismo e del nazismo in Italia e Germania. Due frasi che però descrivono ancora bene la situazione attuale […]. La radice è la stessa, il male da cui provengono i fenomeni attuali e quelli di un secolo fa è lo stesso.

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È un male che si chiama “sistema capitalistico”, giunto al suo massimo sviluppo e alla sua massima degenerazione, che è in agonia, sta morendo e si dibatte diffondendo morte e distruzione attorno a sè. Morte e distruzione che si realizza con la guerra mondiale attualmente in corso dall’11 settembre 2001. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Il male si ripete nella sua eterna banalità. E riviviamo il male che l’umanità ha già vissuto: questa la pena a cui siamo oggi condannati dalla cancellazione della memoria collettiva che troppi anni di ignavia, di revisionismo storico e di martellanti pubblicità edonistiche hanno prodotto nella società. Morte e distruzione che si realizza con la guerra mondiale attualmente in corso dall’11 settembre 2001.
Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Il male si ripete nella sua eterna banalità. E riviviamo il male che l’umanità ha già vissuto: questa la pena a cui siamo oggi condannati dalla cancellazione della memoria collettiva che troppi anni di ignavia, di revisionismo storico e di martellanti pubblicità edonistiche hanno prodotto nella società». (…).

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[…]. rullano i tamburi di guerra. Drammatiche sono le notizie che arrivano dal confine tra la striscia di Gaza e lo Stato di Israele. Si contano già diverse decine di morti e diverse migliaia di feriti fra i palestinesi ad opera di un esercito israeliano elogiato dal premier Netanyahu per quella che è unanimemente considerata come un’azione indegna.
Ed è guerra anche la raffica di espulsioni di diplomatici fra i paesi della NATO e la Russia, scatenata dall’Inghilterra che ha preso lo spunto dall’avvelenamento dell’ex-spia russa doppiogiochista Sergej Skripal i cui contorni non sono affatto chiari come pretenderebbe invece la prima ministro inglese Theresa May. Caso Skripal che sembra anch’esso creato ad arte per soffiare sul fuoco della guerra. E della guerra fanno parte anche i dazi decisi da Trump contro la Cina, ma lo sono anche le sanzioni economiche nei confronti della Russia decisi dall’Unione Europea.
E siamo oramai in guerra da quasi 17 anni, dall’11 settembre del 2001, ma tutti temono “la guerra che potrebbe venire fuori dopo questi ultimi provvedimenti”. “Si avanza verso la guerra”, scrivono i commentatori e ripetono le TV, ma nella guerra ci siamo immersi completamente.
La cecità è totale. Non vediamo e non comprendiamo quello che stiamo vivendo. Le TV e tutti i mass-media mainstream oscurano, mistificano, fanno carte false per distruggere le oramai minime capacità di analisi della maggioranza del popolo italiano, a cui si propongono continuamente “programmi fognatura” e argomenti di “distrazione di massa”. (…).
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E c’è chi si consola con il “prima gli italiani” e con le promesse elettorali fatte nelle recenti elezioni politiche. Pochi comprendono che quelle promesse elettorali significano guerra. E a pagare la guerra sono sempre le classi povere mentre i “capitani di industria” si ingrassano. Come per i terremoti, dove c’è chi piange e chi ride per i lauti affari che farà con la ricostruzione. Ed è la 17ma Pasqua di guerra che oggi celebriamo e nel mentre parliamo di resurrezione siamo in mezzo ad un mare di morti e di distruzioni. Poveri, donne e bambini, affamati e uccisi. E i migranti uccisi, ed il razzismo montante, e la disumanità che trionfa sui social network e alle TV. E le chiese cristiane tacciono con l’unica eccezione di Papa Francesco che è sempre più isolato nella sua stessa chiesa.

Che dire ancora? Su cosa impegnarsi, quali argomenti proporre ai nostri lettori? Oppure buttare la spugna e chiudere questo nostro spazio informativo? Giammai è la risposta! Mai perdere la speranza. Anche nei momenti più bui un lucignolo fioco ci indicherà la strada. Ed eccomi ancora qui a ripetere cose già scritte e a tentare di analizzare cosa ci aspetta e a provare a promuovere pace, dialogo, incontro, solidarietà e lotta decisa contro tutti coloro che promuovono la guerra e sostengono le ingiustizie sociali. Dalla parte degli ultimi, sempre! (…)».

Giovanni Sarubbi. (Giovanni Sarubbi, Il lucignolo fioco che ci indicherà la strada, in:  http://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/editoriali/direttore_1522602473.htm).

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Quale fu lo spartiacque fra il sogno di un mondo di dialogo e l’instaurarsi di un mondo che si regge sulla guerra e sul terrore? La guerra contro l’Iraq.

Le rovine di Baghdad

Correva l’ anno 2003, e l’Unità pubblicava un volumetto interessantissimo, che acquistai non so dove: “Le rovine di Baghdad. Diario di una geurra preventiva” con prefazione di Furio Colombo, edito da Nuova Iniziativa Editoriale S.p.A., di cui Furio Colombo era il direttore responsabile e Antonio Padellaro il condirettore, poi diventati firme prestigiose di Il Fatto Quotidiano ed in precedenza insieme a L’Unità. Il libro raccoglie una serie di articoli sulla guerra contro’Iraq”, e veniva venduto assieme al noto quotidiano della sinistra.

Il libretto inizia con una riflessione di Furio Colombo sulla guerra in Iraq, che allora non si sapeva ancora a quali risvolti avrebbe portato, guerra che per Colombo fu condotta con molta distruzione e con molta violenza, e le cui ragioni non erano nè l’eliminazione delle terribili armi di distruzione di massa nè la lotta al terrorismo. Allora si parlava dell’eliminazione del feroce dittatore Saddam Hussein e di ‘liberazione dell’ Iraq” da parte dei sostenitori dell’ occupazione di quello stato, e cioè i governi americano ed inglese. (Furio Colombo, Per non dimenticare la guerra, in: Le rovine di Bagdad, op. cit., p.5). Ma è andata proprio così?

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«La guerra è iniziata la notte scorsa, alle tre e mezza, con l’attacco dei missili a Baghdad. – scrive il 21 marzo 2003, da Baghdad Piero Sansonetti – . Gli americani danno sempre un nome alle loro guerre. Questa si chiama ‘Shock and awe’, che vuol dire colpisci e terrorizza. (…). Ieri sera alle 7 e dieci minuti, mentre iniziavano anche le operazioni di terra, cioè l’invasione dell ‘Iraq, c’è stato un nuovo attacco aereo a Baghdad. due missili hanno colpito il Palazzo presidenziale di Saddam e lo hanno incenerito. (…). Abbiamo vista in diretta l’esplosione, le fiamme. l’edificio distrutto. Una sequenza televisiva improvvisa, agghiacciante. Che ha messo davanti a tutti noi la realtà vera della guerra, che non è fatta di parole, dichiarazioni, analisi, valutazioni, distinguo e dibattiti in Tv: è fatta di bombe, dinamite, fuoco, è fatta di gente che viene bruciata viva». (Piero Sansonetti, L’Iraq brucia, il mondo insorge, in: Le rovine di Baghdad, op. cit., p. 11).

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Ed in Iraq era andato, a seguire la guerra, anche Enzo Biagi, che ricordava i tempi della seconda guerra mondiale a Bologna, le fughe nei rifugi per evitare i bombardamenti, gli adulti che non si svestivano neppure, per non dover poi rivestirsi, e che al calar della notte guardavano il cielo nella speranza che fosse nuvoloso, e si scambiavano un “Troppo buio. Forse non vengono”. Ed in quelle cantine – rifugio «riservatezza e pudore della piccola borghesia venivano messe a dura prova». (Maurizio Chierici, Biagi. torna il rantolo della sirena, in: Le rovine di Baghdad, op. cit., p. 15). Uomini con cappotti indossati sopra pigiami, ragazzi addormentati avvolti in coperte, ragazze in vecchi scialli, anziani sonnacchiosi e donne con il rosario in mano venivano accolti in quei ricoveri caratterizzati dagli «odori indiscreti di una umanità strappata al riposo dalla sirena». Ora la guerra è diventata moderna, razionale, intelligente: gli esperti ne sono soddisfatti. Missili lanciati da chissà dove piombano sulla città». Neppure il rumore delle fortezze volanti a preavvisare un missile. (Ivi, pp. 16-17). 

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Via Abu Taleb era piena di pedoni ed automobilisti quando -scrive Robert Fish – il pilota americano si è avvicinato fendendo la fitta tempesta di sabbia che avvolgeva la parte nord di Baghdad. (…). Due missili di un jet americano li hanno uccisi tutti.». (Robert Fish, Strage al mercato di Baghdad, in: ‘Le rovine di Baghdad’, op. cit., p. 45). Era un quartiere sporco e povero, quello di via Abu Taleb … Ma «quanti civili stanno morendo anche lì, anonimamente, nel silenzio di tutti, perchè non ci sono giornalisti a registrare le loro sofferenze?» a Baghdad, come a Bassora, Nassariya, Karbala- si chiedeva allora sempre Robert Fish. (Ivi, p. 46). Un uomo in via Abu Taleb, stava preparando il pranzo per i clienti del suo ristorante, quando la sua vita è stata spezzata ed egli si è trasformato in un “effetto collaterale inevitabile” della guerra,  una donna con i tre figlioletti erano rimasti intrappolati nella loro auto in fiamme, dovunque scene da film dell’orrore … il proprietario del negozio di materiale elettrico era morto dietro al bancone … (Iv, p. 47). Civili che cercavano di correre in aiuto e non capivano assolutamente il perchè di quei massacri, di quelle bombe, che avevano trasformato la loro città in una rovina ….

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E poi l’embargo. «Siamo prostrati- diceva allora Slamon Warduni, vescovo di Baghdad.- L’embargo ci ha prostrati. Un paese che vi ho descritto così ricco si trovacostretto a mandicare dall’ estero acqua pulita., medicinali, asssitenza di ogni genere. Non credo che questa umiliazione, questo freno posto alla nostra legittima autodeterminazione rispèecchi un piano di giustizia Io nn so se l’Iraq costruisce o nasconde armi: se sì, non sarebbe una cosa buona; ma certa è l’ingiustizia subita dal nostro popolo per così tanto tempo». (“Dio non vuole la guerra in Iraq. Intervista con Slamon Warduni vescovo di Baghdad, a cura di Riccardo Caniato e Aldo Maria Valli, medusa ed., p. 29). «Noi, non solo io ma tutta la chiesa irachena siamo contro la guerra, assolutamente contro la guerra. (Ibid.). «Ricordate? Nei primi anni ottanta gli ccidentali erano tutti schierati con Saddam Hussein contro l’Iran, e gli hanno fornito anche le armi per combattere. Ora, invece, Saddam è diventato un pericolo pubblico, un mangiatore di uomini, un nemico dichiarato. Che strana contraddizione». (Ibid.).

«Sapete che gli americani, con la scusa della sicurezza internazionale, durante la prima guerra del Golfo sono penetrati nel paese, hanno raggiunto le montagne, e sequestrato tonnellate di minerali , di oro e di pietre preziose che facevano parte del nostro patrimonio nazionale? Forse oggi loro non temono molto l’Iraq, ma vogliono ritornarci perchè sono attratti dalle ricchezze che contiene. Tutte le guerre fatte dall’ uomo rispondono ad una sete di potere, a interessi particolari di alcuni uomini che violano l’interesse generale degli altri. Per questo il Papa ci richiama sempre alla pace, che è un sentimento e un valore che supera ogni tipo di interesse materiale».  (Ivi, p. 28).

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Cosi allora, da allora in vari luoghi, guerre hanno portato a distruzione, fame, morte, orrore e terrore, nel disinteresse sempre più generale, fatti salvi alcuni giornali cattolici come Avvenire, perchè ormai non si pagano più neppure corrispondenti di guerra, ma ci si rifà alle note di agenzia Ansa. «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri» – scriveva Antonio Gramsci. «Ed è la 17ma Pasqua di guerra che oggi celebriamo e nel mentre parliamo di resurrezione siamo in mezzo ad un mare di morti e di distruzioni. Poveri, donne e bambini, affamati e uccisi. E i migranti uccisi, ed il razzismo montante, e la disumanità che trionfa sui social network e alle TV». – sostiene Sarubbi. Riusciremo a  vedere: “Il lucignolo fioco che ci indicherà la strada” per non finire come umanità, sepolti, lacerati, abbrutiti, stravolti,  da bombe ed inquinamento? 

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“Chi potrà rassicurare il mondo”? – si chiede in chiusa di “Le rovine di Baghdad” Pierluigi Castagnetti, aggiungendo che aveva ragione Mubarak quando sosteneva di temere molto più il dopoguerra della guerra in Irak. (Pierluigi Castagnetti, Chi potrà rassicurare il mondo”?, in: “Le rovine di Baghdad”, op. cit., p. 220). E c’è chi dice che in quella guerra si sia giocato tutto il prestigio delle Nazioni Unite. (Staffan de Mistura. Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli. “Ma l ‘Onu non è solo il Consiglio di Sicurezza, in: Le rovine di Baghdad, op. cit., pp. 223-227). Ora di organi di arbitrariato tra i popoli non si parla quasi più. Eppure erano nati da una guerra … (Nel merito degli argomenti qui trattati, vedi anche: Laura Matelda Puppini, Pace e Pacificazione: dell’ambiguità dei termini, dei concetti e dei contesti, nella lettura di fatti storici, in www.nonsolocarnia.info, e Laura Matelda Puppini, Migration. Europa: un gigante dai piedi di argilla, in: www.nonsolocarnia.info).

L’immagine che correda l’articolo è parte della copertina, da me scannerizzata, del libro “Le rovine di Baghdad, op. cit.

Laura Matelda Puppini

 

 


Laura Matelda Puppini. Resistenza e guerra in Ozak: scenari di fine guerra

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LA GUERRA PER I NAZIFASCISTI È PERDUTA. NUOVI SCENARI FRIUL – GIULIANI.

Leggendo diversi documenti d’epoca mi sono fatta l’idea che qualcuno, fra i repubblichini ed i collaborazionisti, nutrisse il sogno, a fine ’44, inizi ’45, di poter occupare, con la scusa del confine da definire e difendere ad est e la lotta anticomunista, il Friuli -Venezia Giulia, facendone territorio proprio, dopo la lenta ritirata dei tedeschi, già iniziata nel dicembre/gennaio 1944-45, verso il Friuli e Tarvisio. Questa comportava, da parte nazista, di cercare di liberare dall’Esercito popolare di liberazione jugoslavo la selva di Tarnova, pure per aprire una via per l’Austria verso la Germania ai commilitoni in retrocessione e fuga dai Balcani. E, al contempo, i tedeschi cercavano di realizzare una zona cuscinetto, la ‘Alpenfestung’, in  Ozak e Ozav, come ultimo baluardo di difesa per l’arretramento, e di salvaguardare la via che dal Veneto portava ad Udine ed ai confini del Reich. Ed avevano progettato, pure, di spostare il Duce in provincia di Udine, scegliendo Cividale come nuova ed ultima sede della Repubblica Sociale Italiana. Detta idea era vista con favore, anzi sollecitata dai repubblichini, ma incontrò, secondo Enzo Collotti, difficoltà di realizzazione sia per ragioni di carattere militare, in quanto si sarebbe dovuto liberare la zona dai partigiani, sia per motivi politici, perchè si sarebbe dovuta creare in Ozak «una sorta di isola territoriale, un’ enclave avulsa dalla dipendenza diretta dai tedeschi, per conservare la funzione formale della sovranità della Repubblica sociale». (1).

Nel frattempo le truppe repubblichine e la Decima Mas, che avevano lottato al fianco dei nazisti occupanti e contro i patrioti italiani, cercavano pure, disperatamente, dopo aver commesso azioni delittuose di ogni genere, di farsi una nuova verginità, appellandosi alla loro italianità ed alla sacralità non si sa di quale confine, dato che ad est d’Italia il confine era più volte mutato, ed ergendosi a difensori contro il comunismo, che sostenevano essere dilagante e possibili invasioni slovene viste solo da loro, obiettivo caro anche al Duce, ai tedeschi ed ai vertici ecclesiastici. La versione che racconta la seconda guerra mondiale facendola partire dal 1943, ruotante intorno al cosiddetto ‘ confine orientale’ con le truppe ‘alpine’ (confondendo spesso gli Alpini del disciolto R.e. i., di cui facevano parte anche molti soldati prima dell’ 8 settembre 1943, poi passati nelle file partigiane, con i miliziani del Reggimento Tagliamento, e con chi usò, genericamente, tale aggettivo ndr) poste in difesa da ipotetiche invasioni comuniste da est, nacque, secondo me, proprio allora, fu figlia di azione politica, e trovò fertile terreno nel dopoguerra, in particolare in Friuli Venezia Giulia.   

Ma per descrivere la situazione in cui si trovava il Friuli alla fine del 1944 – inizi 1945, vorrei proporvi alcuni documenti d’epoca.

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«I DIVISIONE GARIBALDI NATISONE.  – COMANDO (illeggibile).  Lì 29 gennaio 1945. – BOLLETTINO INFORMAZIONI

«(…).  Viene segnalato l’arrivo di molti soldati serbi (che hanno seguito l’esercito tedesco in ritirata dai Balcani). Si calcola che gli effettivi di questa truppa ammonti a circa 15.000 uomini saranno impiegati per la difesa della provincia, contro i partigiani. (…). DA CIVIDALE: I Tedeschi ed i cosacchi che si trovano in questa città partiranno tra breve verso l’Istria. Verranno sostituiti da repubblicani. Nella caserma ex I° fanteria si trovano 2 carri armati. – Di questi 3 soli si possono considerare efficienti. Gli altri (tipo italiano) sono fuori uso e poco manovrabili.  (…).

Fortificazioni: Il Comando tedesco ha fatto realizzare i lavori di fortificazioni nel Friuli e nelle zone di Trieste. A Gorizia sono stati richiesti i nuovi operai. Nella zona di Tarcento si procede alla costruzione di altre opere difensive.
L’evidente intenzione del Comando tedesco di difendere le vie di ritirata (Udine Tarvisio, Cividale, Caporetto, e Udine Trieste) con ogni mezzo e opera. (…).

Come già annunciato Pavolini, capo delle Brigate nere, si è recato in varie località del Friuli e a Trieste. Si è incontrato coi vari comandanti tedeschi e Berachter. L’oggetto delle discussioni svoltesi riguarda l’imminente arrivo nella zona friulana di reparti repubblichini ed il probabile trapasso dell’amministrazione della provincia di Udine alla cosiddetta Repubblica Sociale fascista.

Si ha notizia che i tedeschi stanno sgomberando dall’Italia settentrionale. Circola voce che il fronte italiano non verrà ritirato sul Po o è indietro.
Da Bergamo, Como, Novara, i primi scaglioni tedeschi sono partiti alla volta del Friuli.

Il comandante tedesco della piazza di Udine ha comandato che il traffico dei civili sulle strade comunicanti con i confini (con il Terzo Reich ndr) venga ridotto al minimo, ciò affinché il movimento eventuale di colonne militari si svolga senza impedimenti.

Il morale dei tedeschi è molto preoccupante per i fascisti. Questi si guardano muti ed atterriti e nemmeno tutti i discorsi di Pavolini possono sostenerli.
Un ufficiale tedesco delle SS ha detto che “Ogni speranza per la Germania è tramontata. Ormai dobbiamo pensare solo alla nostra fine”.

Ultime.

  1. Sono transitati per Udine diretti a Tarvisio 12 treni militari provenienti dal fronte sud, carichi di truppe.
  2. Tra Treviso e Conegliano, ieri pomeriggio, lungo la strada Nazionale, transitavano molte colonne tedesche con cariaggi diretti a Tarvisio.
  3. A Pontebba vi è un forte agglomerato di automezzi e carrette militari, derivante dal fatto che il ponte sul Fella, a Pontebba, è stato distrutto, per cui è difficile il passaggio di tali mezzi. I Tedeschi lasciano a Pontebba tali mezzi ed a piedi proseguono per Tarvisio.

MORTE AL FASCISMO.                                                                                                                                                                               LIBERTÀ AI POPOLI.
“Griso”.                                                                                                                                                                                                          p. Gondola».

(Archivio Ifsml – Fondo Lubiana – Busta 3 – Fascicolo 60 – Doc. n. 9 – 2 fogli).

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«DIVISIONE GARIBALDI NATISONE. – CENTRO INFORMATIVO. (documento scritto a mano).

Zona 4/12/44.

Sulla linea Udine Tarvisio grande movimento di treni con truppe e materiali.  Si presume una divisione proveniente da Ferrara diretta in Austria. Pietose le condizioni dei soldati.  Il traffico ferroviario si svolge in mattinata dalle ore 3 alle 7. I vagoni sono sigillati in modo tale che non si può sapere cosa contengano.

Circola voce che i tedeschi vogliano disarmare tutti i cosacchi.  Il 3 n.s.  a Percotto sono arrivati circa 300 tedeschi provenienti da Cervignano.  Il 4 n.s. a San Quirino di Cormons sono arrivati circa 40 cosacchi.

Alla polveriera di Medana trovansi 30 fascisti e 3 tedeschi. Da Villa Vicentina sono partiti per Tarvisio il 1 n.s. 700 tedeschi del genio.

Il responsabile Plutone.

(Archivio Ifsml – Fondo Lubiana – Busta 3 – Fascicolo 60 – Doc. n. 1)».

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Da a un altro documento intestato DIVISIONE D’ASSALTO GARIBALDI NATISONE – UFFICIO INFORMAZIONI – datato 19 dicembre 1944, e firmato da Sasso e Janito, in: Archivio Ifsml – Fondo Lubiana – Busta 3 – Fascicolo 60 – Doc. n. 4 – foglio 2, veniamo a sapere, poi, che a Tricesimo si stava caricando e scaricando molto materiale bellico di ogni genere, e che il 13 dicembre erano stati scaricati 50 carrozzoni della Croce Rossa. Inoltre a Bagnacco, nella villa Rizzani, si continuava a seppellire ingenti quantità di materiale bellico, e nel giardino del seminario si trovava una grande quantità di benzina, pari a 300.000 hl, mentre giungeva notizia che «Da tutti i comandi, da tutti i presidi e magazzini tedeschi sono state tolte le classi giovani per essere inviate sul fronte occidentale francese».

E ciò avveniva mentre i bombardieri alleati solcavano i cieli, colpendo bersagli sensibili tra cui la stazione ferroviaria di Udine, con i suoi cavalcavia e scali, e la città, come era accaduto il 28 e 29 dicembre 1944. Nel corso di detti bombardamenti su Udine intera, (5 ondate di bombardieri il giorno 28 e 7 ondate il 29) erano state distrutte od avariate 100 locomotive, i binari erano rimasti contorti, la grande gru era rimasta inservibile, il campo contumaciale di via Cividale era stato centrato, la linea Pontebbana e la strada nazionale colpite in tutta la loro lunghezza, ed erano state distrutte tre grandi arcate del ponte di Venzone. Ma vi erano state perdite anche fra i civili. Ma si sapeva dell’esistenza, nel campo contumaciale sopraccitato e nella caserma ex Genio sempre di via Cividale, di grandi depositi di materiale bellico, con esplosivi ed armi di ogni tipo, di vestiario militare italiano e tedesco e di viveri, provenienti dalle città di Padova e Treviso fortemente bombardate, e messi al sicuro da nuove incursioni. Ed anche nel Manicomio di Sant’Osvaldo, in depositi sotterranei, vi erano vasti quantitativi di munizioni ed esplosivi, ed a Medeuzza stavano continuando a giungere grossi carichi di munizioni e armi di ogni tipo. (Documento intestato DIVISIONE GARIBALDI NATISONE – COMANDO POLIZIA 2^ ZONA – datato 30 dicembre 1944, indirizzato AL COMANDO IX CORPUS – SUA SEDE, avente come oggetto: “Relazione incursione aerea sulla città di Udine”, in: Archivio Ifsml – Fondo Lubiana – Busta 3 – Fascicolo 60 – Doc. n. 7 – fogli 3, e firmato forse da ‘Griso’, e dal Comandante la polizia 2a zona. Gondola).

E detto bombardamento aveva costretto i tedeschi a spostare vari comandi e magazzini a Palmanova, mentre Pavolini, segretario del fascio, si recava ad Udine per incontrare Reiner, in vista del trapasso delle consegne dei reparti dei fascisti repubblichini. A Brazzano e Villa Nova dello Iudrio erano attesi, al contempo, reparti tedeschi provenienti dal fronte italiano, mentre il ponte di Dogna risultava impraticabile come il tratto ferroviario Udine –  Gorizia.  (Documento intestato DIVISIONE GARIBALDI NATISONE – COMANDO POLIZIA II ZONA – datato Zona, 26 gennaio 1945, BOLLETTINO D’INFORMAZIONI, firmato forse ‘ Griso’, in: Archivio Ifsml – Fondo Lubiana – Busta 3 – Fascicolo 60).

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L’ULTIMA BATTAGLIA SI COMBATTE IN OZAK.

Come si può comprendere da varie fonti, l’ultima battaglia si combatteva in Ozak, estrema via di ritirata per la Germania.

Ma fu il Friuli – Venezia Giulia, da che si può capire, pure il territorio ove i fascisti combatterono con successo l’ultima battaglia ideologica, con il tentativo prima tedesco e poi delle forze collaborazioniste sia repubblichine che della X Mas di cancellare, se così si può dire, il pregresso, in nome di un’unica lotta antislovena. E, da quello che ho compreso, uno dei maggiori artefici di questa politica fu il Maggiore Inglese Nicholson, almeno per quanto riguarda Borghese ed i suoi. Nicholson, al secolo l’ingegnere Thomas John Roworth, aveva combattuto in Africa contro italiani e tedeschi. Catturato, era stato portato in Italia ove era stato internato in vari campi di prigionia: da Capua a Caserta, da Roma a Sulmona e Bologna. Quindi, dopo l’8 settembre, era riuscito a scappare, raggiungendo prima Modena e poi Roma, ove, braccato, aveva trovato rifugio in Vaticano, dove andò spesso a trovarlo Monsignor Giovambattista Montini, futuro Papa Paolo VI. Quindi, dopo la liberazione di Roma, fu contattato dai suoi e portato a Monopoli, presso la base delle Special Forces, e quindi, affiancato da ‘Piave’, Cino Boccazzi, medico, valdostano, ma residente a Treviso, venne paracadutato in Friuli. (2). E proprio Boccazzi, pare per salvarsi la pelle e salvaguardare la sua famiglia, dopo la cattura da parte della Decima Mas in località La Valine in val Tramortina il 14 dicembre 1944, divenne il maggior artefice dell’incontro fra la Decima Mas rappresentata dal capitano Manlio Maria Morelli e Candido Grassi, ‘Verdi’ del comando della ‘ Osoppo’, volto a concordare una azione antislovena comune fra la Xa Mas e detta Divisione partigiana, da proporre agli Alleati attraverso Nicholson. Questi tentativi sono ben descritti da Ricciotti Lazzero, nel suo: ‘La Decima Mas. Compagnia di Ventura del Principe Nero’, Rizzoli, Milano, 1984, pp. 140- 152. Prima della cattura, all’epoca dell’ultimo rastrellamento nazifascista e collaborazionista, Cino Boccazzi si trovava, assieme a Nicholson, con il Battaglione ‘Fedeltà’ comandato da ‘Beppino’, Pasquale Specogna, e che aveva come delegato politico don Ascanio De Luca, ‘Aurelio’. Ma i due non erano riusciti a seguire gli altri, e mentre Nicholson si era fermato ed era riuscito a fuggire, Cino Boccazzi, in divisa da paracadutista inglese, aveva tentato di percorrere una discesa, ed era stato catturato da quelli della Decima. (3).

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Siamo a novembre del 1944. La Decima Mas è giunta fra le valli dei fiumi Tagliamento e Fella, «le quali accolgono la strada difesa da un sistema di fortificazioni costruite prima della guerra e la linea ferroviaria che dalla pianura dell’Italia settentrionale portano in Austria». (4). Nicholson informa la sua base che in detta zona i tedeschi hanno la 188a divisione alpina di riserva, la 237adivisione di fanteria, la 24aBrigata SS di montagna, la 710adivisione fanteria, il 155o Gruppo trasporti campale, mentre le truppe fasciste e collaborazioniste in zona, oltre la Decima Mas, sono le seguenti: Brigate Nere, la G.N.R. e le SS italiane. Poi vi sono le truppe russe composte da caucasici, cosacchi e mongoli, «tutti stabilitisi nelle valli montane come truppe di presidio», e che vivono alle spalle della popolazione locale. Infine vi sono due divisioni Osoppo ed elementi della Garibaldi oltre che la 30a e 31a divisione del IX Corpo e la 43a dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo. (5).

Nicholson continua dicendo che i tedeschi sono molto preoccupati per la situazione e sanno che esistono momenti di sbandamento fra i partigiani, anche perchè, a suo avviso, ormai una parte dei garibaldini è passata al IX° corpo, staccandosi dagli osovani. (6).  A questo punto, von Hallesleben, dirigente la Platzkommandantur di Pordenone, città che i tedeschi definivano di sostegno, si era fatto vivo assieme a Mario Cabai, commissario federale di Udine, ed a Monsignor Pietro Baldassi, della Curia, «già cappellano in Spagna e filofascista» (7) ed aveva presentato alcune proposte pratiche, che Nicholson puntualmente comunica il 24 novembre 1944 per mezzo dell’R.T. Laybourne.

«La divisione ‘Osoppo’ è stata avvicinata da un maggiore tedesco che sta con i russi. Egli chiedeva i seguenti quattro punti:

  1. La ‘Osoppo’ combatta i comunisti con armi fornite dai tedeschi;
  2. Non si molestino i lavoratori tedeschi delle fortificazioni (tra Pinzano e Sequals e tra Tolmezzo ed Ampezzo);
  3. Non si combattono le forze tedesche;
  4. Si mantengano incontri segreti.

Egli ha chiesto inoltre di poter trattare privatamente con il rappresentante alleato di questa zona. La divisione ‘ Osoppo’ ha risposto negativamente a tutti i punti, salvo il quarto. Io mi rifiuto di trattare con i tedeschi in questo momento. Tuttavia sarebbe utile mantenere contatti per avere informazioni sui piani tedeschi.

I tedeschi intendono fortificare fra Pinzano e Sequals e fra Tolmezzo ed Ampezzo. Il maggiore tedesco chiede garanzie precise perché non vengano molestati questi lavori. È ovvio che il nemico intende prevenire azioni latenti che tendono a tagliare la ritirata sulla strada 13. Val Meduna e Canal di San Francesco ora diventano molto importanti. Pregasi dare direttive su questo incontro. I presenti alla discussione dicono che il tedesco è rappresentante del Litorale Veneto (cioè Adriatico ndr) e potrebbe essere persona molto importante». (8).

Sempre secondo Ricciotti Lazzero, dette richieste vennero vagliate dai rappresentanti politici della Dc e del PdA della Osoppo, e respinte attraverso due lettere scritte da don Aldo Moretti e consegnate, attraverso Monsignor Giuseppe Nogara, Arcivescovo di Udine, ai nazisti. Nel frattempo, il 26 novembre 1944, i tedeschi, a Casiacco, avevano dato al loro parola d’onore di trattare i partigiani osovani come combattenti, ma poi non l’avevano mantenuta. (9).

In ogni caso sarebbe stato comunque controproducente, secondo me, per gli osovani, dato che ormai si parlava di ritirata dappertutto, accettare, anche se i tedeschi in Friuli, fino all’ultimo, cercarono accordi, e lo stesso Globočnick ipotizzava di ospitare in Ozak Mussolini.  E pure l’occupazione cosacca ebbe come scopo, oltre che l’annientamento delle forze partigiane tramite l’occupazione del territorio della Zona Libera della Carnia, dello spilimberghese e del maniaghese, quello di aprire alcune vie di transito, in particolare quelle di: Tolmezzo – Monte Croce Carnico; Tolmezzo – Ovaro – Sappada; Vittorio Veneto – Ponte delle Alpi e di mettere in sicurezza la linea ferroviaria pontebbana. (10).

Riporto qui un documento osovano da cui si ricava la posizione della Divisione Osoppo rispetto al tentativo, da parte del nemico di cercare contatti con i partigiani non garibaldini.

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CORPO VOLONTARI DELLA LIBERTÀ – DIVISIONE OSOPPO – FRIULI COMANDO.

Zona lì 3 gennaio 1945.                     OGGETTO. Rapporti con il nemico.

A tutti i Comandi di Brigata – LORO SEDI.

Il C.V.L. comunica che nella regione Veneta (intendesi credo nella provincia di Udine, perchè nell’attuale Veneto non mi consta ci fossero brigate osovane e le diciture erano diverse ndr.) il nemico intende prendere contatti con le formazioni dei Patrioti. Tali contatti hanno portato nel passato unicamente svantaggi e perdite alle nostre formazioni. In vista di ciò i Comandi responsabili non sono autorizzati a stabilire nessun approccio con il nemico neanche se ciò dovesse avvenire in forma cospirativa o per iniziativa personale.

VIVA L’ITALIA LIBERA.    IL COMMISSARIO Aurelio                                                                                              IL COMANDANTE Verdi

(Archivio Ifsml – Fondo Processo Porzus documenti in copia da archivi di tribunali e da Archivio Osoppo Udine. – documento n. 100 scritto a mano).

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Pare strano però che il documento sopra riportato sia firmato da ‘Verdi’, Candido Grassi, e ‘Aurelio’, don Ascanio De Luca, perché non avevano titolo per farlo, essendo comandante della formazione osovana Manlio Cencig, ‘Mario’ e delegato politico Giovanni Battista Marin, ‘Plauto’. (11). Ma pare che ormai tra i vertici osovani si fossero nuovamente formati due gruppi, o non ci fosse mai stata unità né prima né dopo Pielungo, e che don ‘Aurelio’, assieme a ‘Verdi’ ed un paio di altri, andassero molto per conto proprio e esercitassero di fatto il comando divisionale.

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Ma ritorniamo a Cino Boccazzi ed al suo tentativo di far accordare gli osovani con la Decima Mas, in un progetto comune e fascista e cioè la lotta allo sloveno comunista, che però contemplava pure la lotta agli eserciti russo e di Liberazione Jugoslavo che avanzavano verso l’Adriatico, dopo aver conquistato Belgrado.

Comunque chi andò all’incontro con Manlio Maria Morelli fu, come si sa, Candido Grassi, ‘Verdi’, che Nicholson, forse nascosto ad Udine dai sacerdoti del tempio Ossario, dice esser stato da lui autorizzato a farlo, mentre egli non ritenne opportuna una sua partecipazione diretta. (12).

L’incontro tra ‘Verdi’ e Morelli, alle porte della Conferenza di Yalta, viene descritto in forma particolareggiata in un rapporto top secret inoltrato da Nicholson all’Headquarters Allied Military Governament, riportato integralmente da Ricciotti Lazzero nel volume citato, alle pp. 148 – 150.

Detto rapporto inizia quasi giustificando la posizione della Decima Mas al fianco dei tedeschi, e sottolineandone, a guerra perduta, lo spirito nazionale, (che l’aveva fatta correre al fianco dell’occupante straniero e contro i patrioti ndr). Quindi, se accordo ci fosse stato, la Decima dichiarava che avrebbe sospeso ogni azione contro i partigiani non comunisti, in sintesi contro gli osovani, che si sarebbero uniti ai marò della Decima nella lotta contro «le distruzioni da parte tedesca delle proprietà italiane e per salvaguardare il territorio italiano (che allora non si sapeva ancora quale fosse perché vi era ancora l’Ozak ndr). A fine guerra gli ufficiali della decima garantivano che avrebbero accettato di sottoporsi al giudizio di una Corte internazionale. Per questo motivo la Decima, che si voleva salvare in extremis, evitando le accuse per le stragi, le torture, le rappresaglie per conto dei tedeschi in territorio italiano, proponeva di inviare due suoi rappresentanti insieme a ‘Verdi’ e Nicholson al Quartier Generale Alleato, per discutere i termini dell’azione congiunta. Inoltre l’idea di Nicholson è quella di usare la Decima contro i tedeschi in ritirata a Tarvisio, visto che Borghese, che forse si sentiva perduto, dichiarava di essere allora, il 27 gennaio 1945, italianissimo.

Ma, il giorno dopo, il 28 gennaio 1945, giungeva dal Sud la risposta per Nicholson, ove lo si avvisava che Borghese aveva già tentato approcci con gli Alleati in Svizzera, che la reputazione di Borghese e dei suoi uomini era pessima, e tale permaneva, e che si doveva avere la massima cautela nel trattare con lui, ma semmai cercare da lui informazioni. (13).

Ma Nicholson perseverava rispondendo che le relazioni fra sloveni e italiani erano molto tese per i confini, (non si sa dove e come, se tutti tranne quattro gatti fra cui lui, nascosto, stavano combattendo in modo durissimo ndr), e paventava che, se il Foreign Office non si fosse mosso subito, si sarebbe caduti in una guerra tra slavi e italiani, e riteneva che la Venezia Giulia dovesse esser lasciata libera da partigiani, si suppone, fino all’arrivo degli Alleati, attraverso l’uso della Decima unita, forse, alla Osoppo. (14). Pare quindi che Nicholson cercasse veramente una occupazione di collaborazionisti dei nazifascisti nella regione, spostando motivi, motivazioni, e memoria, e riprendendo un ritornello antislavo fascista, dando alla Decima uno scopo ideale per risollevarsi da tutto l’orrore che aveva realmente creato, e dando alla stessa la scusa per salvarsi la vita nel dopoguerra. Forse Nicholson agiva da solo, forse rappresentava il pensiero di qualche alta sfera cattolica, che doveva salvare il Principe romano, non lo so, e lungi da me il voler offendere la sua persona.

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Riporto qui un documento che indica cosa stava accadendo dal dicembre ’44 in poi, ove regnava grande confusione sugli ordini giunti ai partigiani con problematiche create anche da ordini dati dai Cln, come si evince anche dalla lettera di Ciro Nigris a Rinaldo Cioni dattiloscritta, datata 22 marzo 1945 e da quella di Rinaldo Cioni a Ciro Nigris datata 26 marzo 1945, in: Laura Matelda Puppini, Caro amico ti scrivo, Storia Contemporanea in Friuli n. 44, pp. 242-244.

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COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE. – Corpo Volontari della libertà. – Comando unificato Osoppo- Garibaldi. Settore M-T prima zona.
31/1/1945.   AL COMITATO LIBERAZIONE NAZIONALE – UDINE.

Questo comando unificato ha ricevuto dal Comando unificato della pianura ordini verbali per lo scioglimento dei reparti unificati e per la costituzione di nuovi reparti dai quali, secondo l’istruzione ricevuta, dovrebbero essere esclusi tutti gli elementi comunisti. Poiché il Comando unificato della pianura attribuisce le disposizioni di cui sopra a codesto C.L.N., prima di impartire ordini in proposito ai dipendenti reparti, questo comando attende conferma per iscritto da parte di codesto C.L.N.

MORTE LA FASCISMO.                                                                                                                                                       VIVA L’ITALIA LIBERA.
Il comandante Ulisse                                                                                                                                                         Il commissario Alberto.

Copia conforme documento originale. (Archivio Ifsml – Fondo Processo Porzus documenti in copia da archivi di tribunali e da Archivio Osoppo Udine. – documento n. 6021656).

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Comunque per Ricciotti Lazzero i contatti con la Decima non si fermarono, se Nicholson inviava, il 6 febbraio 1945, un altro messaggio in cui ribadiva il desiderio di trattare con la stessa, nuovamente, attraverso ‘Verdi’ in funzione antislovena. (15).  Infine, dopo la strage di Topli Uork, Nicholson inviava un messaggio in cui seguiva l’ipotesi dei vertici divisionali osovani, che subito avevano attribuito l’accaduto agli sloveni. Infatti una prima comunicazione a riguardo, inviata: al Comando 1^ e 3^ Brigata, al Comando della 6^ Brigata, al Comando Btg. Guastatori – G.E. , e p.c. in stralcio al CLN PROV. e CRV, recante le firme autografe di ‘Vico’ Giovanni Battista Carron, vicentino, e ‘Mario’, Cencig Manlio, comandante, dopo la crisi di Pielungo, della Brigata Osoppo/Carnia, attribuiva l’eccidio e la cattura di elementi dello stesso ai partigiani sloveni, e prospettava la necessità di una azione a Robedischis, dove aveva sede il reparto del IX° Korpus più vicino a Porzus, e presso il quale si presupponeva fossero stati portati gli osovani fatti prigionieri. (16). E Nicholson, che l’ 8 febbraio 1945 aveva sposato la tesi della strage per mano nazifascista, sentito ‘Mario’, inviava, il 10 febbraio al comando alleato un radiomessaggio in cui scriveva«Ricevuto oggi urgenti notizie da Mario, comandante Divisione Osoppo per immediata fornitura d’armi a seguito ordini di Mac Pherson per prepararsi ad un’azione combinata con gli alleati contro imminente invasione slovena del Friuli ordinata da ‘Tito’. Presumo Mac abbia ricevuto ordini da voi ma egli è irraggiungibile non solo da me ma anche dai comandanti dell’Osoppo. Se queste notizie sono vere propongo cautela dal momento che la situazione è molto complicata. Tutti i capi della Garibaldi sono ora in Slovenia e stanno forse pianificando un colpo di stato con ‘Tito’ per una occupazione comunista con aiuto degli sloveni. (…)» (17). Quindi riproponeva l’alleanza fra Decima Mas e Formazione ‘Osoppo’, sostenendo che la Decima poteva assorbire la ‘Osoppo’, mentre si doveva trattare subito a Roma.  Nicholson, da ufficiale inglese guardava a quanto accaduto in Grecia, (18) pensando di fermare subito ogni anelito ad un miglioramento sociale ed all’avanzare di un pensiero socialista e comunista.

Ma questo terrore del nuovo a livello sociale, questa ricerca del conservatorismo, fino a desiderare magari in qualche modo di ‘ legalizzare’ l’Rsi e la Decima in funzione antislovena, erano allora propri solo di ‘quattro’  comandanti osovani che rappresentavano, probabilmente, quell’ala retriva della resistenza, legata forse anche a vertici ecclesiastici pure romani, che voleva che uscisse dal dopoguerra una società simile a quella precedente, solo meno dittatoriale, e dibattevano sulle prospettive del dopoguerra cercando di forzare la mano, mentre alleati, soldati dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, partigiani garibaldini ed osovani, e civili cadevano e sarebbero ancora caduti nella lotta. Fra tutti gli osovani basti ricordare la fulgida figura di ‘Maso’, Pietro Maset, cattolico, medaglia d’oro al valor militare, e tanti altri. E come dimenticare semplici sacerdoti e parroci che cercavano di aiutare la popolazione e certe volte subirono le angherie e la morte per mano nazifascista? Basti ricordare, in Carnia, don Pietro Cortiula.

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Alcuni dubbi vengono poi anche leggendo i comportamenti del comandante della terza brigata Osoppo ‘Miro’ Giorgio Simonutti e di ‘ Vico’, che avevano parlato «in termini poco chiari di “un eventuale armistizio con i tedeschi”», chiedendo quale sarebbe stato, in tal caso, il comportamento dei garibaldini, ed asserendo che era ormai cosa nota che i tedeschi «puniscono con la morte i Garibaldini, mentre per i componenti della ‘Osoppo’ si limitano tutt’ al più alla deportazione in Germania», in un colloquio con i garibaldini la cui relazione è firmata Spartaco e datata  20 gennaio 1945. E sempre da detta relazione si viene a sapere che in un «successivo e tempestoso colloquio con il comandante del Silvio Pellico, il comandante ‘Miro’ si espresse in termini alquanto imperiosi, dichiarando che a qualsiasi costo e senza badare a spargimento di sangue, egli avrebbe condotto e propagandato la più accanita lotta ‘contro il pericolo comunista e slavo’. E sarebbe da chiarire anche la posizione di ‘Goi’ Raniero Persello, relativamente a dei fatti a lui attribuiti da una relazione firmata Furore. (ALLEGATO 4 – RELAZIONE dei responsabili del terreno del Btg. ‘Anita Garibaldi’, datata 23 novembre 1944. Documento n. 09515, Archivio Storico della resistenza – Fondazione Antonio Gramsci – Roma).

Infine i tedeschi, sino all’ultimo, cercarono non la resa ma contatti con gli osovani in funzione antislovena, e di creare una frattura insanabile fra le due formazioni, come si evince da: Gino Pieri, Storie di partigiani, Aviani & Aviani ed. 2014, riedizione del volume pubblicato da Del Bianco nel 1945, pp. 220- 223. Ed a Cividale, il 29 aprile, una parte del Reggimento fascista Tagliamento passò con la Osoppo. (19).


E chiudo dicendo che con questa mia analisi intendo solo cercare di fare chiarezza sulla base di quanto ho capito da ciò che ho reperito e letto e non è mia intenzione offendere alcuno. Resta poi da analizzare come una certa propaganda sviluppatasi in modo vertiginoso alla fine della seconda guerra mondiale, ma anche prima, tra gli osovani li portò a sposare ipotesi gladiatorie, (Si noti che il gladio era simbolo repubblichino, tanto che il centro studi e documentazione sul periodo storico della Repubblica Sociale Italiana si chiama Gladio e il gladio compariva sulle mostrine del genio guastatori repubblichino ndr) senza saper leggere con la stessa chiarezza avuta in precedenza la realtà, e concentrando il proprio pensiero sul pericolo rosso, anche in buona fede. Ma questa è altra storia, è la storia del ‘Dalli al comunista’, sporco rosso, cattivissimo.

Laura Matelda Puppini

(1) Ricciotti Lazzero, nel suo: ‘La Decima Mas. Compagnia di Ventura del Principe Nero’, Rizzoli, Milano, p. 130 e Enzo Collotti, Il Litorale Adriatico nel Nuovo Ordine Europeo 1943- 1945, Vangelista editore, 1974, p. 12.

(2) Ivi, pp. 128-129.

(3) Ivi, p. 140.

(4) Ivi, p. 134.

(5) Ibid.

(6) Ivi, p. 140.

(7) Ivi, pp. 134- 135.

(8) Ivi, p. 135.

(9) Ibid.

(10) Ivi, pp. 130 – 131.

(11) Giampaolo Gallo, La resistenza in Friuli 1943-1945, ed. Ifsml, 1988, p. 161.

(12) Ivi, p. 148.

(13) Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 149.

(14) Ibidem.

(15) Ivi, p.150

(16) Alberto Buvoli, Le formazioni Osoppo Friuli, documenti 1944- 45, ed. I.F.S.M.L. Ud, 2003, p.189.

(17) Ivi, pp. 190-191, e da me ripreso in: Laura Matelda Puppini, Divagando su “Porzûs”, in modo documentato. E se …, in: www.nonsolocarnia.info.

(18) Cfr. Laura Matelda Puppini, Ancora sulla strage di “Porzûs”, sui contesti internazionali, sulle chiavi di lettura di alcuni documenti, in: www.nonsolocarnia.info.

(19) Cfr. documento intestato: C.V.L. III Divisione “Osoppo Friuli”.  – Comando 7a Brigata.  – Cividale, 8 maggio 1945. Prot. n. 13/45. Al Comando Divisione. Elenco ex- repubblicani del r.to alpini Tagliamento che sono passati alla 7a brigata Osoppo in data 29/4/1945, smobilitati ed avviati al distretto militare di Udine il 7 maggio 1945, in: Archivio Ifsml.

L’immagine che correda l’articolo fa parte dell’ Archivio Anpi, e rappresenta l’entrata degli Inglesi a Villa Santina. Si pubblica per gentile concessione Anpi Federico Vincenti 2013.  L’ immagine si trova nache sul volume: 1943 -1945 Immagini della resistenza friulana, Aviani & Aviani ed.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

Michele Gortani. ‘Comunità Carnica. Relazione dell’opera svolta nel primo decennio di vita’. Spunti per una riflessione.

Uomini che scrissero la storia della democrazia. Renato Del Din. Per il 25 aprile, festa della liberazione d’ Italia dal nazifascismo.

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Su Renato Del Din si sono spesi fiumi di inchiostro e di agiografia, ed in questo insieme di parole spesso si è perso il profondo significato del suo sacrificio.
Vorrei, pertanto, per questo 25 aprile, parlavi di come l’ho incontrato e conosciuto, di come ho cercato di capire alcune cose, aiutata pure da un documento fornitomi da mio fratello Marco, e mettendo in secondo piano la letteratura.  

Ero bambina, forse alle elementari, quando, volgendo gli occhi alla targa che riportava il nome della via in cui abitavo, a Tolmezzo, chiesi, per la prima volta, chi fosse stato Renato Del Din, ma da mia madre e da mia nonna non ebbi risposte. Nessuno ne parlava, come nessuno mi parlò mai della seconda guerra mondiale, dei partigiani, dei tedeschi, del fascismo. Pareva, a casa mia e non solo, che un lunghissimo periodo fatto pure di vissuti emotivamente pregnanti fosse stato rimosso, e che ne emergessero solo alcuni frammenti quasi per caso: nel terrore serale e notturno del rumore degli aerei che andavano a bombardare la Germania, che disturbava i sogni non so se di mia madre o di mio zio; nel ricordo del tragitto, in fila, per prendere l’acqua potabile alla sorgente dietro l’Albergo Roma e di una sparatoria da palazzo Garzolini, allora sede del tribunale, poco altro. Mio zio Umberto, sicuramente di sinistra, talvolta, per divertirsi e far arrabbiare mio nonno, cantava in casa, ridacchiando, canzoni fasciste apprese ai tempi della scuola, e che da lui, giovanissima, sentii per la prima volta: “Giovinezza, giovinezza”, ‘Faccetta Nera”, “Fuoco di Vesta che fuor dai templi erompe”, quasi a voler parlare di quel periodo che pareva cancellato in casa come in paese e nell’Italia tutta. E so che i miei nonni mi insegnarono a non parlare mai a voce alta, neppure in casa, e men che meno vicino alle finestre, ed a non parlare mai della famiglia pubblicamente, tanto erano stati scioccati dal ventennio fascista e dall’occupazione tedesca.

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Adolescente, chiesi un giorno a mio padre chi fosse stato Renato Del Din ed egli mi disse che era stato un giovane morto per la libertà di noi tutti. Ma era troppo poco e continuavo a non capire. Poi piano piano ad informazione si aggiunse informazione, ma il puzzle era ancora lontano dall’esser terminato. Sentii parlare, da liceale, in modo nebuloso della resistenza, e ci capii ben poco; mi si narrò di un grande funerale, quello di Renato Del Din, ma senza grandi particolari. Allora si parlava, sull’onda di certa storiografia malata, solo di risvolti partitici nella resistenza, ed il terrore per il comunismo offuscava ancora menti e conoscenze. Si facevano distinguo sottilissimi fra la linea nazionale del Pci e quella della Dc, come la resistenza fosse stata un agone partitico, e nessuno poteva nominare né i partigiani né i garibaldini. E mi ricordo che mi fu detto che il bidello Damo della scuola media era stato un partigiano garibaldino, quasi fosse stato un malfattore. Ed in questo certamente la chiesa giocò un ruolo importante, quella chiesa locale che voleva l’effige di San Bernardino esposta su ogni portone di cattolici, quale segno distintivo. Almeno così narrava mia nonna, che la mise però nella parte interna del portone. Perfino a Sora Anna, maestra, cattolicissima, timorata di Dio ed ad Emidio Plozzer, cattolicissimo pure lui, quell’immagine discriminante pareva davvero troppo.  E mi ricordo pure che mia nonna, quando stava per giungere il Monsignore a benedire la casa nel periodo post pasquale, metteva via di corsa ogni libro, ogni giornale, ogni cosa che potesse indicare l’esistenza di un pensiero anche minimamente divergente da quello voluto ed imposto dal prete e dai democristiani al potere, mostrando come il ventennio avesse lasciato, come il dopoguerra, più di un segno. Allora la mia impressione fu che il controllo sociale della chiesa e dei democristiani, nel paese, esercitato anche attraverso possibili informatori (ora non più chiamati spie) fosse prassi usuale.

Passò il tempo, misi su famiglia con Alido, ebbi due figli, e di Renato Del Din mi dimenticai. Poi un giorno mi trovavo in cimitero e vidi la sua tomba, e, nel dire per lui una preghiera, mi accorsi della sua giovane età al momento della morte. Aveva solo 22 anni! Che giovane era Renato Del Din per morire, pensai, e non sapevo ancora quanti giovani e giovanissimi fossero morti per donarci la democrazia e riconquistare la Patria occupata dai nazifascisti, immolandosi per lo più senza colore politico alcuno.

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Quando ero già adulta, mia madre mi narrò di aver visto il mattino seguente alla morte di Del Din, andando a prendere il latte, una pozza di sangue, che donne della via avevano coperto con segatura, ma sicuramente aveva anche sentito gli spari, abitando a due passi dal luogo ove il giovane era caduto. Ma allora nessuno che avesse un minimo di comprendonio apriva le finestre per vedere cosa stesse accadendo. Quando ormai ero maggiorenne sentii mormorare pure di tale Cescon, fascistissimo, padrone dell’Albergo ‘Alle Alpi’, fuggito subito dopo la morte del giovane ufficiale, che pareva fosse stato implicato, in un modo o nell’ altro, in quanto era accaduto quella notte. Del Din aveva sbagliato il vicolo per la fuga, mi narrò un giorno mia madre, e aveva pagato quell’errore con la vita. Ma anche successivamente vi fu chi, testardamente, forse per difendere i miliziani fascisti, raccontò che Renato era caduto sotto i colpi dei tedeschi, anche se tutti sapevano che l’ex palazzo D’ Orlando era sede della Milizia ed anche che la Milizia era invisa agli ufficiali del Regio Esercito Italiano perchè era stata voluta dal Duce per sostituire l’Esercito Regio con una forza armata al suo servizio personale, senza gran preparazione e disciplina ma composta da fedelissimi.  E forse questo odio radicato aveva portato Del Din, tenente del R.EI.  ad attaccare quella caserma, invece che un altro obiettivo, ma è un mio pensiero personale, senza alcun riscontro. Ma certamente attaccare quel luogo ed attaccare il fascismo era la stessa cosa.

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Quindi lessi su più volumi la storia del funerale a Del Din, allora ‘bandito’ senza nome, e me ne parlò anche Dirce Nascimbeni, dicendo che aveva una immagine di quel giovane e che, in occasione della commemorazione della morte, incontrava la sorella di Renato: Paola. Era stato ferito la notte fra il 24 ed il 25 aprile 1944 Del Din, ed era morto all’ospedale, ma molto tempo era passato fra il suo accasciarsi e quel tribolato trasporto, su di una barella al nosocomio. “Era stato pestato a morte ed era un giovane di non più di venti anni”- scrive Lucia Cella. (Lucia Cella, ‘Mira’ sui monti la libertà,  ed. Circolo Ricreativo Sportivo Filodrammatico – Versa, 2014, p. 34). E neppure nel corso del processo intentato dal colonnello Prospero Del Din la verità emerse del tutto, a causa di testimonianze contrastanti delle solite fonti orali. Ma pare che all’ albergo ‘Alle Alpi’ il giovane fosse stato torturato dai fascisti, che, ritardando pure il suo trasporto in ospedale, ne avessero sancito, forse di fatto, la morte, anche se pare che non ci fosse più molto da sperare. Tutto si gioca sul segno che Renato porta sulla fronte, … colpo inferto poi, o da arma da fuoco …  Ma che Renato Del Din fu portato, ferito, all’ Albergo ‘Alle Alpi’ è certo, e che non fu ben trattato, ed immediatamente soccorso pure. E la famiglia Cescon abbandonò poi precipitosamente Tolmezzo. (Cfr. Fabio Verardo, Giovani combattenti per la libertà, Gaspari, 2013, pp. 87-96). Nel merito del testo di Verardo, vorrei sapere poi il nome del Solero che scattò le fotografie al corpo di Del Din (Ivi, p. 89), perchè potrebbe trattarsi di Giacomo Solero, infermiere di idee umanitarie e socialista, e ricordo che lo stesso mi disse che il medico Giuseppe Farello era considerato un fascista, e che i partigiani volevano ucciderlo il 4 maggio 1944. (Cfr. Giacomo Solero. Esperienze vissute per l’ospedale tolmezzino, in: www.nonsolocarnia.info). Infine Verardo scrive che la Corte che aveva esaminato il caso, aveva deciso che, se vi erano state violenze sul giovane, esse erano avvenute durante il trasporto all’ospedale da parte di militi fascisti, come testimoniato da Luigi Longo della tenenza dei carabinieri. (Fabio Verardo, op. cit., p. 95).  

 

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È uno dei tanti pomeriggi passati con Romano Marchetti, che mi riempie di informazioni, personaggi, vita di un tempo. Gli parlo di Renato Del Din e di quel funerale che però egli non ha visto di persona, e mi dice che esso segnò l’inizio della resistenza in Carnia, assieme alla morte, circa un mese prima, di Giobatta Candotti. Ha pure scritto quanto gli aveva narrato, nel merito, Sara Menchini, e mi dona lo scritto. Ma sono solo poche righe. «È una domenica sera di dicembre. – racconta Romano Marchetti – Un breve imbarazzo e poi Sara si avvicina: i fianchi, ancora fermi, riecheggiano movimenti leggiadri. Si siede. “Un caffè?” – le domando. Sorride.

“Ecco – dice- proprio da qui, da questo caffè, il Manin, i giovanissimi sono usciti per accorrere al funerale dell’ufficiale alpino bandito senza ancora un nome, altri erano nascosti lungo il marciapiede o dietro “quella porta” in borg da muffe. Così si è ingrossato il funerale, perché da ogni portico sono poi usciti i vecchi, donne e uomini a protezione dei giovani, in qualche modo, credo».

«Rammento improvvisamente – ricorda Romano – le parole di Renzo, l’autista del camion della Cooperativa: “Mi trovavo a passare con il camion della cooperativa carnica. All’incrocio della Caserma dei Carabinieri e della scuola professionale, debbo fermare il camion…ero solo in cabina. Un capitano dei carabinieri, un uomo piccolo e segaligno, (forse Santo Arbitrio ndr.) tenta di portare i cavalli del carro funebre sulla circonvallazione, secondo il minaccioso diktat tedesco: con lui, mi pare ci fosse anche il maresciallo (Argentieri ndr.)  quello che avrà, poi, due figli nella Garibaldi, ma non ne sono certo.  Un gruppo di donne lo contrasta. Gli strappano le briglie di mano, (…) ed indirizzano la carrozza sulla via principale.». E Santo Arbitrio, probabilmente, le lascia andare, non spara, non le ferma. Non spara sulle donne, il catanzarese, poi chiamato a rapporto dai nazisti, che dovrà abbandonare l’Ozak e sparire, e che rimarrà nella memoria popolare come un eroe. Così lo stesso Santo Arbitrio aveva narrato: «[…] non essendomi opposto alle solenni onoranze funebri rese alla Medaglia d’oro Tenente Renato Del Din, morto in seguito a ferite riportate in combattimento con i nazi-fascisti, (funerali della cui organizzazione io ero a conoscenza) fui in un primo tempo fermato dal comando tedesco di Tolmezzo e poi dalla gestapo di Udine. Sottoposto anche ad inchiesta che la legione Trieste esperì a mio carico per ordine del Comando Generale, il 28 maggio 1944 fui espulso dal Litorale Adriatico e trasferito al G.N.R. di Verona». (La storia di Santo Arbitrio, catanzarese, Capitano della Caserma dei Carabinieri a Tolmezzo ai tempi del funerale Del Din, che non ostacolò, perchè resti memoria., in: www.nonsolocarnia.info).

Comunque fonti orali hanno, nel dopoguerra, dato versioni diverse del funerale, anche se alcuni aspetti dello stesso sono certi: fu il funerale ad un ufficiale del Regio Esercito Italiano, allora non identificato, considerato un volgare bandito, che aveva detto, armi in pugno e sparando, il suo no al fascismo, ed a tutti i fascismi, che aveva dato la sua vita per una Italia libera dai nazisti, che era stato omaggiato e sepolto nel cimitero cittadino grazie alle donne del luogo (dietro alle quali, probabilmente, si celavano anche uomini), che avevano fatto colletta per una degna sepoltura, e la cui salma era stata benedetta, in duomo, da Mons. Pietro Ordiner, sacerdote di poche parole ma di chiare idee, facendo inferocire il comando tedesco; che Santo Arbitrio non diede l’ordine di sparare su donne, vecchi, bambini.

Ma cosa fece accorrere tanta folla a quel funerale, all’inizio della Resistenza? L’ odio per i nazifascisti, secondo me, il fatto che si sapeva che il ‘bandito’ era un ufficiale dell’Esercito, e, credo, quello spirito ‘alpino’ e ‘socialista’, che aveva portato Dirce Nascimbeni, di famiglia socialista e che aveva rifiutato la tessera del fascio, a urlare, mentre la bara scendeva nella fossa, ‘ Salute, a te, fratello d’ Italia’ e la folla a rispondere ‘Presente!’.

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E così si narrava quel funerale, posto fra le ‘attività ribelli in provincia’, in una informativa indirizzata ‘

Al Ministero Interni – Sicurezza Val Dagno’, datata 3 maggio 1944:

«Con riferimento alla segnalazione N. 09639 del 27 aprile u.s., comunicasi che, in seguito alla morte del capo banda non identificato, per gravi ferite riportate durante l’attacco effettuato il 25.4. u.s. contro la caserma della Milizia Confinaria di Tolmezzo, quel Commissario Prefettizio ordinava il trasporto del cadavere dall’ospedale civile al cimitero per le ore sette del mattino del 27 successivo, senza suono di campane e senza alcuna pompa e che la salma fosse benedetta nella cappella dello stesso ospedale. Sennonché l’indomani, mattina, alle ore sette precise, un migliaio di donne ed alcuni ragazzi si facevano trovare davanti all’ospedale e si accodavano al carro funebre, obbligando ad un certo punto il conducente del carro a deviare l’itinerario prestabilito, e costringendolo a trasportare il cadavere in Chiesa per la benedizione.

Durante il trasporto certa Midolini Lena collocò sulla bara un cappello alpino. Inoltre, nel momento in cui il feretro veniva calato nella fossa la signorina Dirce Nascimbeni salutò il cadavere del ribelle dicendo: “Salute, fratello d’Italia”, al che altre donne, non identificate, avrebbero risposto “Presente”. Certa Sara Menghini, al ritorno dal cimitero, ebbe consegnate circa L.800 raccolte dalle donne che avevano costituito il corteo, allo scopo di ottenere dal comune la concessione di un’ara privilegiata per la sepoltura del capo banda. La predetta accolse l’incarico presentando lo stesso giorno al Municipio di Tolmezzo regolare domanda. È stato accertato che, contrariamente a quanto disposto dal Commissario Prefettizio di Tolmezzo, l’Arcidiacono d. Ordiner fece suonare le campane a morto, fatto, a suo dire, integrante della funzione religiosa, intervenne al funerale facendosi precedere dalla croce seguita da una ventina di ragazzi, benedisse la salma nella Chiesa Parrocchiale adducendo che la cappella dell’ospedale non è officiata né officiabile per esequie presente cadavere. Inoltre l’impresario Vidoni, minacciato di rappresaglia da alcune donne, eseguì il trasporto funebre anziché col carro di III con quello di I classe. Furono notate corone di (parte cancellata ndr)».  (Informativa della reggia prefettura di Udine al ministero dell’interno data 3 maggio 1944, con oggetto: attività ribelli in provincia, Archivio Centrale dello Stato – Roma).

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Chi era Lea, e non Lena Midolini? Non era persona notissima, era una donna immigrata dal Friuli per matrimonio, andando sposa a Balilla Vidoni, comunista. Così viene narrata dai dati anagrafici: “Midolini Lea Angela, fu Giovanni e di Caporale Amalia, nata ad Orzano di Remanzacco (Ud), il 24 marzo 1912, trasferitasi a Tolmezzo il 27 dicembre 1936, coniugata con Balilla Vidoni, vedova il 30 maggio 1948, casalinga. Abitò a Tolmezzo prima in via dei Molini n.4., poi in via Vittorio Emanuele n. 49, poi in via della Repubblica n. 49, quindi in via Carducci n. 5 ed infine in via Roma n. 21, in una abitazione che si affacciava sullo stesso cortile, chiuso da un grande portone, condiviso pure dalla famiglia del poi sindaco Dario Zearo, che ringrazio, assieme all’ufficio anagrafe di Tolmezzo per le informazioni datemi.

La storia di Lea Midolini fu triste. Rimasta vedova, aveva perduto pure, a causa di malattia, l’unica figlia, restando da sola ed invecchiando anzitempo.

Aveva lei, secondo l’informativa, sposa a Vidoni Balilla, comunista, di professione macellaio, denunciato al tribunale speciale e radiato, (Archivio Centrale dello Stato, Casellario politico centrale, busta 5405, fascicolo 118885, estremi cronologici 1937- 1942), posto quel cappello di alpino sulla bara del giovane ‘bandito’.

Il marito da che si sa grazie all’ Ufficio anagrafe, era figlio di Anna Menchini ed Antonio Vidoni, era nato a Tolmezzo il 21 febbraio 1908, si era sposato con Lea Angela Midolini il 27 dicembre 1936, ed aveva lavorato anche a Cividale ma poi era rientrato nel luogo di origine. Pare quindi, e neppure tanto pare, che fossero state famiglie socialiste, comuniste, antifasciste, a permettere al ‘ bandito’ un funerale grandioso, sparite poi dalla memoria, per sposare l’agiografia post- bellica.

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PER QUESTO 25 APRILE, CHE DEVE ESSERE FESTA DI LIBERAZIONE DA TUTTI I FASCISMI, I NAZISMI, I NAZIONALISMI ESASPERATI, RICORDO QUINDI UN GIOVANE CHE DETTE LA VITA  PER LA LIBERTÀ DI NOI TUTTI E PER LA DEMOCRAZIA NEL NOSTRO PAESE, CHE CADDE COME TANTI ALTRI GIOVANI, GIOVANISSIMI, MENO GIOVANI, UOMINI E DONNE, SENZA MOLTI COLORI POLITICI ESSENDO VISSUTI SOTTO LA DITTATURA, INQUADRATI NELLA GARIBALDI E NELLA OSOPPO, CON L’ARMA IN PUGNO, SPARANDO CONTRO I FASCISTI ED I NAZISTI.

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ONORE E GRAZIE A TE, RENATO, FRATELLO D’ITALIA.

E GRAZIE ED ONORE AI TANTI MORTI E TORTURATI PER UN SOGNO, PER UN IDEALE CHE SI AVVERÒ, E CHE NON POSSIAMO LASCIAR MORIRE.

VIVA LA LIBERAZIONE D’ ITALIA – VIVA L’ ITALIA LIBERA – MORTE AL FASCISMO – LIBERTÀ AI POPOLI!

VIVA IL 25 APRILE !!!!!!!!!!!!!!

Laura Matelda Puppini

L’ immagine che accompagna l’articolo, ritrae il tenente del R.E.I. Renato Del Din, nome di battaglia ‘Anselmo’ ed è tratta da: https://phaidra.cab.unipd.it/detail_object/o:5920. Si prega di avvisare se sia coperta da copyright, nel qual caso sarà sostituita. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Laura Matelda Puppini. Avasinis 2 maggio 1945. E fu una strage di vecchi, donne, bambini.

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Sto cercando, non per me perché non posso parteciparvi anche se lo vorrei tantissimo, fra le email giuntemi, un avviso che mi dica quando e come si svolgerà la manifestazione in ricordo della guerra di Liberazione ad Udine il 25 aprile, ed invece mi imbatto in un invito per la strage di Avasinis, il 2 maggio, ed improvvisamente mi viene alla mente di aver già ricercato e scritto qualcosa nel merito, nel lontano 2013, mai poi pubblicato.

«Laura, questo è per te» – mi dice mio marito, mentre sta aprendo la porta con mille pacchi in mano. È l’ultimo numero di Storia Contemporanea in Friuli, rivista dell’Ifsml, che, guarda caso, ha pure un interessante articolo di Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi sull’incendio di Forni di sotto, la strage di Lipa e quella di Avasinis, alla ricerca di colpevoli e motivi unificanti, che però non deve prestarsi a fornire giustificazioni per gli accadimenti, anche se fosse possibile dimostrare che furono risposte esagerate ad azioni di guerra partigiane, ove morì qualche tedesco. (Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, Forni di sotto, – Lipa- Avasinis: nuovi elementi su tre rappresaglie fasciste, in Storia contemporanea in Friuli, n.47, pp. 93-136).

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Lo studio, relativamente alla parte sui mezzi e reparti impiegati è rigoroso, tenendo conto della difficoltà a trovare fonti, ma ha pure il limite di non prendere posizione, se non in nota, su quanto narrano fonti orali (fra cui si comprendono anche diari e memoriali), discriminando le verità oggettive dalle reiscrizioni della realtà in funzione di ‘pararsi e parare il culo’ sancite dall’assioma degli ‘italianissimi sempre buonissimi’. Anche in questo caso vi è tale Roberto Decleva che sostiene, pare solo sul racconto di un milite di nome Dalcich, che truppe italiane non parteciparono al massacro di Lipa, che esso fu totalmente tedesco. Ma purtroppo per lui immagini scattate allora confermano il contrario. (Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, op. cit., p. 131 e, ibid. note 67-68). Ma Torquato Dalcich, perché pare si tratti di lui, era all’ epoca dei fatti un allievo Ufficiale della G.N.R, e secondo Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, «È evidente la sua intenzione di scagionare italiani dalla partecipazione alla strage, addossandone tutta la responsabilità ai tedeschi». (Ivi, nota 58, p. 127 e p. 116). E nel merito mi ritorna alla mente l’intervista rilasciata dal marò Sergio Denti ad un intervistatore ignoto, che pareva nulla sapesse della Xa Mas. L’ intervistatore gli chiede conferma del fatto che la Xa Mas avesse una regola per cui non doveva mai combattere contro gli italiani, e questi conferma sicuro. (Intervista a Sergio Denti della Decima Flottiglia Mas. Prima parte. In: https://www.youtube.com/watch?v=NweB6qMZz0w 28 dicembre 2017, da me citato in: Laura Matelda Puppini. Storia della collaborazionista X Mas con i nazisti occupanti, dopo l’8 settembre 1943. Per conoscere e non ripetere errori, in: www.nonsolocarnia.info).

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È un capolavoro la memorialistica orale del dopoguerra – penso fra me e me, chiusa in quell’ ‘alluvione di memoriali, precisazioni, analisi, autobiografie, interviste pubblicati, da cui si deriva “tutto ed il contrario di tutto” o per cautelarsi, in alcuni casi, da una chiamata in correo, o per trasmette una ottima idea di sé, o per visione ideologica o a fini politici. ‘Fiumi di inchiostro’ sono stati spesi, in particolare sul web, per difendere reali ‘banditi’ ‘assassini’, ‘torturatori’, ‘collaborazionisti’ come quelli della X Mas, della Legione Tagliamento e via dicendo, nascondendo responsabilità tutte o parzialmente nostrane scaricandole magari sui tedeschi, falsando piani e contesti. Pure per questo sono da ringraziare Di Giusto e Chiussi: perché stanno vagliando anche la presenza di forze composte da italiani e repubblichini in eccidi e stragi. Però lo studio ha ancora un limite: quello che per ora i casi presi in considerazione sono solo tre, e per quello di Avasinis non ho trovato grandi novità, tranne che i tedeschi erano vestiti con tute mimetiche di telo tenda. (Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, op. cit., nota 78, pp. 135-136). I due autori, poi, cercano di evidenziare se le morti di civili e la distruzione di paesi possa essere associata, come nel caso delle fosse Ardeatine, a uccisioni da parte di partigiani di militari tedeschi, ma i casi riportati sono solo tre, e per la strage di Avasinis Di Giusto e Chiussi non portano prove che ciò sia avvenuto. Pertanto il materiale per sostenere che le stragi, nell’ Italia occupata, avvennero come ritorsione per la morte, nel corso di azioni di guerra, di ufficiali o soldati tedeschi per mano partigiana, mi pare, per ora e solo su questo materiale, indimostrabile. Inoltre i tedeschi, affiancati dall’ R.S.I. avevano in Italia una vasta zona di occupazione, e molti paesi vennero dati alle fiamme, presumibilmente, perché ritenuti ‘ covi dei partigiani’, dal Piemonte all’Ozak, che comprendeva pure l’attuale F-vg. (Cfr. nel merito i miei: ‘No alla X Mas nelle sedi istituzionali della Repubblica italiana. Motivi storici’, e ‘Storia della collaborazionista X Mas con i nazisti occupanti, dopo l’8 settembre 1943. Per conoscere e non ripetere errori”, in. www.nonsolocarnia.info. Ma di paesi bruciati e civili uccisi, furti ed angherie per mano fascista parla anche Nuto Revelli nel suo: Le due guerre, Einaudi ed., 2003).

Il ruolo dei fascisti collaborazionisti nelle rappresaglie è ben descritto da Nuto Revelli, partigiano nel cuneese, che così si esprime: «Non sono i fascisti che ci preoccupano. I fascisti – lo grido ben forte, perché li ho visti con i miei occhi – non sono dei combattenti. I fascisti li temiamo e li odiamo, sottolineo ‘li odiamo’, perché arrivano sempre dopo le operazioni di guerra, arrivano sempre dopo i rastrellamenti, al seguito dei tedeschi. I fascisti sono feroci nelle rappresaglie contro la popolazione, contro gli inermi. I fascisti della ‘Muti’ di San Dalmazzo li temiamo perché sono dei torturatori crudeli, spietati, che terrorizzano la popolazione, incolpandola di connivenza, di essere amica dei partigiani. (…). Rientrava nel loro compito quello di terrorizzare la popolazione». (Nuto Revelli, op. cit., p. 148).

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E nel merito delle rappresaglie sui civili, in territorio poi jugoslavo, così scrivevo in: Laura Matelda Puppini. Per la giornata del ricordo, www.nonsolocarnia.info, 6 febbraio 2017: «E come non ricordare Podhum, con 108 civili trucidati nel 1942 ed il paese distrutto dai fascisti, (http://anpimirano.it/2015/12-luglio-1942-strage-di-podhum/), come non ricordare i 7 villaggi incendiati nei pressi di Villa del Nevoso, sempre nello stesso anno, come non ricordare la distruzione di Lipa, in Istria, il 30 aprile 1944, con il massacro di oltre 269 civili, fra cui 3 bimbe di neanche un anno, e nella casa del vecchio Ivan Celigoi i suoi nipotini tagliati a pezzi? (Ivi, p. 74 e pp. 94-96 e http://www.memoriaeimpegno.org/storia-e-memoria/2d-guerra-mondiale/rappresaglie-nazi-fasciste/50-la-strage-di-lipa, e altri siti)». Per quanto riguarda l’incendio dei villaggi in zona Monte Nevoso, nel 1942, esso avvenne nel contesto della caccia ai partigiani, in particolare alla banda ‘Maslo’ che aveva ucciso militi italiani in una azione di guerra. «La caccia alla “banda Maslo” viene data congiuntamente da esercito, polizia, carabinieri e milizia. Il 5 aprile viene incendiata la casa dei Maslo, in Monforte del Timavo dove i soldati italiani uccidono due contadini e il 7 aprile presso Villa del Nevoso vengono incendiati 7 villaggi e impiccati 5 contadini di lingua slovena (30 secondo fonti jugoslave)». (www.storiaxxisecolo.it/Fortebravetta.rtf, Roma 2000).  

Furono tutte risposte a morti di militi? A sostegno di quanto ipotizzano Di Giusto e Chiussi, sulla politica dell’ “occhio per occhio, dente per dente” all’ ennesima potenza, da parte dei nazifascisti e collaborazionisti, si pone quanto accaduto ad Ovaro il 2 maggio 1945, quando i cosacchi infierirono sul paese ed i suoi abitanti, anche bruciando abitazioni oltre che uccidendo, dopo che Alessandro  Foi, ‘Paolo’,  comandante della Brigata Osoppo – Carnia aveva dato l’ordine al Btg. Canin, osovano, di far saltare la caserma di Chialina, provocando la morte di un certo numero di cosacchi.

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Ma passiamo ora a quanto ho appreso sulla strage di Avasinis, ponendo due punti fermi: gli uomini erano andati in montagna; vi erano sui colli partigiani e qualcuno di loro forse sparò sui tedeschi in ritirata sulla strada Nazionale, facendoli volgere ad Avasinis, tanto da far dire a don Zossi, prete del paese, che si doveva rispettare il detto «Al nemico in fuga, ponti d’oro». Il limite di quanto ho letto è che si basa solo su fonti orali ed assimilate alle stesse.

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Don Francesco Zossi, parroco di Avasinis, così ricostruisce i fatti della fine aprile primi maggio 1945: «Gli italiani con le loro vittorie sul fronte italiano restringevano sempre più lo spazio ricalcato odiosamente dai tedeschi. Essi dicevano di aspettare l’arma segreta […], ma il rimedio non veniva mai ed essi si videro perduti». I bombardamenti alleati venivano fatti sempre con maggior accanimento, la contraerea non esisteva più, lo scalo ferroviario di Gemona era “un cumulo di rovine”. Il ponte di Cornino era stato più volte colpito, così pure il viadotto ferroviario e la strada nazionale per Rivoli Bianchi. «Ad Osoppo, in un terribile bombardamento, furono n. 63 le vittime.». E gli alleati illuminavano il suolo di notte con i loro razzi, mentre i Tedeschi erano massimamente preoccupati di avere «alle loro spalle le porte aperte».

In zona «c’erano Cosacchi, Tedeschi, Partigiani […], c’erano troppi conti da saldare». Quella parte della popolazione che non si preoccupava troppo della situazione “era molto euforica” ma per troppi la fine della guerra non si presentava così semplice.

«Si era giunti verso gli ultimi giorni di aprile e gli Alleati erano già ad Udine. Il Comandante del presidio cosacco mi vuole; ha bisogno di trattare la resa del presidio. Faccio allora chiamare il podestà Rodaro Augusto Rossit e si conviene che essi si metteranno a disposizione dei partigiani alla sola condizione che venga ad essi salvata la vita. Si parla con i partigiani che accettano ed un giorno si partono verso la montagna lasciando libero il paese. (…). Si è saputo dopo che i patti non furono osservati. (…).

Inoltre «La strada Nazionale è una congestione ed ingorgo continuato di tedeschi in fuga. Alcuni partigiani hanno l’infelice idea di compiere un ultimo atto e di andare a disturbare la loro fuga sulla stessa nazionale all’imbocco della nostra strada. Non l’avessero mai fatto. (…). Costoro si buttano contro gli stessi partigiani che inseguono per la strada e vengono in zona. (…)». Poi «pensano che la Nazionale, congestionata, non sia più praticabile e che gli Alleati stiano arrivando da Osoppo e Gemona».

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 Avvisati del fatto che una compagnia di tedeschi si muove verso il paese, molti fuggono. Fuggono gli uomini, come in precedenza, e riparano sui monti.  Anche il prete si prepara alla fuga, ma essendosi troppo soffermato, a suo dire, con persone rimaste in paese che egli definisce: «un centinaio circa di ostinati», non riesce a prendere in tempo la via dei monti. «Questa volta – commenta a posteriori – non ci sarà nulla da fare».

Il giorno 2 maggio a Gemona ed Osoppo le campane suonano a festa per la liberazione avvenuta e ne giunge, anche ad Avasinis, l’eco. Lo stesso giorno i tedeschi da Trasaghis raggiungono Avasinis. Poi «la parola è […] lasciata alle armi. Le pallottole fischiano da ogni parte e si capisce che è meglio ritirarsi in casa». Il parroco è in canonica con alcune donne e bambini ivi rifugiatisi, sotto il tiro di un tedesco che vuol sapere dove si siano nascosti i partigiani. E fuori, da ogni parte si sentono spari. In piazza «giungono ancora soldati, con carri di munizioni e vettovagliamento, ed è tutto un concitato andirivieni di armati, di ordini secchi e di parole forti ed arrabbiate, ed un rifornirsi a quei carri. Evidentemente c’è nell’aria qualcosa di grave». Il prete si salva, accasciandosi come morto, e, dopo averlo ferito alla mano, il tedesco continua a sparare contro donne e bambini. Due donne ed una bimba muoiono, altre donne e bambini sono feriti. A chi, nel paese, è ferito, si dà il colpo di grazia. Vengono uccisi tutti quelli che si fanno sorprendere fuori casa ed alcuni pure nelle loro abitazioni. «e si sparò anche all’impazzata.». Si cercavano partigiani, si cercava dove fossero finiti. «Erano SS, reparti raccogliticci di ogni nazione, la feccia dell’esercito tedesco». Finalmente, alle 12, viene dato l’ordine, ai soldati tedeschi, di terminare di sparare. Verso le tre del pomeriggio una cortina fumogena rossastra copre il paese.
Alle 10. 30 del 3 maggio 1945, con gli Alleati alle porte, la compagnia della SS lascia Avasinis.

(La descrizione, scritta a mano su dei fogli a quadretti, è datata: Avasinis 3 marzo 1948, ed è firmata dall’allora Parroco di Avasinis, don Francesco Zossi, ed è stata pubbblicata in: “AVASINIS 1940 – 1945. Il diario del Parroco di Avasinis ed altre testimonianze sulla seconda guerra mondiale nel territorio di Trasaghis”, note e ricerche integrative a cura di Pieri Stefanutti, ed. a cura del comune di Trasaghis, Udine 1996, pp. 35-45).

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Quello che narra il sacerdote trova riscontro nella testimonianza riportata da Giovanni Angelo Colonnello, nel suo: Friuli – Venezia Giulia, Zone Jugoslave, Guerra di Liberazione, Ud, 1966, pp. 276 -277, resa da Mario Di Giannantonio, testimone oculare.  dal suo racconto si evince che i fatti si svolsero nel seguente modo. Lungo la strada pedemontana che da Pinzano va a Cavazzo e Tolmezzo, transitavano ancora le truppe tedesche, che avevano ritenuto quel percorso più sicuro, per la ritirata, dai mitragliamenti aerei e dalle molestie dei partigiani. I paesi parevano deserti. «Solo dai costoni delle montagne di Avasinis, nel punto in cui la pedemontana muta versante, fra questo paese e Trasaghis, un gruppo di partigiani, con una mitragliatrice pesante, tentava di ostacolare e di molestare il passaggio delle truppe germaniche.  Non si conosce l’effetto dell’azione partigiana. La reazione del nemico, però, è stata immediata e violenta. Fatta tacere la mitragliatrice […], un reparto in ordine sparso, prese d’assalto il paese.

La popolazione era ormai abituata a questi episodi e, come le altre volte, gli uomini si erano messi al sicuro in montagna e le donne, i vecchi, i bambini, avevano continuato nelle loro faccende. (…). S’ erano sempre comportati così, ogni volta che il paese era stato occupato. (…). Gli uomini in montagna, le donne, i bambini e i vecchi a casa. Ma questa volta i soldati tedeschi parevano invasati da una bestiale follia omicida. La carneficina durò oltre un’ora. (…). Poi l’ordine di un ufficiale trattenne quelle belve scatenate.».  Poche righe prima Colonello così scrive: «Il nemico ha voluto seminare di croci e distruzioni anche le ultime tappe della sua ritirata in terra friulana, e dopo aver colpito, come già si sa, Feletto Umberto, eccolo infierire, mostruosamente, sempre il 2 maggio, sulla borgatella di Avasinis, di appena 700 abitanti. (…). Dopo esser stata attaccata da due battaglioni, un garibaldino e l’altro osovano, una colonna nemica […] riesce a penetrare nell’abitato, operando un eccidio di civili senza precedenti, per rappresaglia».

Del resto se si scorre l’elenco delle vittime si nota come manchino, quasi completamente, gli uomini giovani. (Sull’argomento vedi anche: Pieri Stefanutti, Novocerkass e dintorni, l’occupazione cosacca della Valle del Lago (ottobre 1944 – aprile 1945), ed. I. F.S.M.L.,1995).

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Ed in chiusura di questo mio articolo, preciso che sarebbe interessante sapere se qualcuno, magari del btg. osovano Prealpi, comandato da Dino Ferragotto, Furlan, sparò con una mitraglia sui tedeschi in ritirata sulla nazionale, uccidendone qualcuno, e facendo deviare il gruppo nazista verso Avasinis. Infatti Pieri Stefanutti e Walter Rodaro hanno raccolto l’interessante testimonianza del partigiano osovano Roberto Bellina, Due, che così narra: «Al ponte di Braulins c’era un piccolo posto di blocco nostro, composto da due partigiani che, il primo maggio 1945, sono arrivati tutti spaventati dicendo che le SS avevano fatto saltare il ponte alle loro spalle e poi si erano sistemati a Trasaghis. Si sono resi conto che era gente assai pericolosa (a erin bandîts) e sono scappati subito, senza tirare un colpo. Ad Avasinis erano scesi dalla montagna anche parecchi altri partigiani che non conoscevo: abbiamo deciso di circondare il paese, di fare una specie di frontiera per bloccare l’avanzata tedesca, se avessero deciso di venire avanti.

Al mattino c’era tutta una confusione, con partigiani che giravano da tutte le parti. Si sentivano colpi di mortaio ed ho sentito che era già stato ferito Pizzato. Il comandante Furlan mi ha dato un nastro da cartucciera da portare al poveretto che se ne stava da solo sul Col del Sole a sparare. Lo ho raggiunto e quello mi ha detto sconsolato di non poter fare nulla, sia per i colpi di mortaio sia perché le SS avanzavano in basso protette dalle arcate del ponte. Dal Col del Sole vedevamo queste SS, in divisa grigioverde, avanzare a piedi, nascosti dietro le pile del ponte. Il partigiano alla mitragliatrice diceva che non poteva fare fuoco continuo, perché entrava sovente in azione il mortaio.
Abbiamo cambiato il nastro ma la mitragliatrice si è inceppata, non abbiamo sparato neanche un colpo. Nemmeno un quarto d’ora dopo è passata una squadra, parlavano in tedesco. Li abbiamo visti scendere mentre dall’altra parte della montagna i partigiani salivano. Una mezzoretta dopo siamo scesi, raggiunti i partigiani e c’è stata anche qualche polemica su chi avesse dovuto sparare e perché non era stato dato l’allarme alla popolazione. Non si capisce comunque perché gli SS si siano comportati con tanta ferocia, non c’era alcuna ragione di rappresaglia…» (Intervista a Roberto Bellina, Due, a cura di Pieri Stefanutti e Walter Rodaro, 2005, in: https://blog.libero.it/2diMaj/1846631.html). Per la verità l’intervista è più lunga e dice anche altro, forse ora è inserita, parzialmente, in un film, che ha diritti riservati.

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E per ora mi fermo qui, ricordando quanto si sia coperta la responsabilità osovana per quanto accadde ad Ovaro, della cui strage fu accusato per anni il povero Elio Martinis, garibaldino, combattente ma innocente. Infatti furono gli osovani ad accendere la miccia che provocò la distruzione della caserma di Chialina, compiendo una azione di guerra. Non solo: per anni su è parlato delle due giornate di Ovaro, ma essa fu una sola. Inoltre nessuno si è dato la pena, ritenendolo fatto legato unicamente all’ossessione antipartigiana, di sapere perché, come mi narrava Romano Marchetti, quando egli ed altri partigiani si recavano ad Avasinis per la commemorazione della strage, venissero mal accolti.

Infine, a mio avviso, le rappresaglie contro la popolazione per fatti di guerra o attentati causati da ‘ribelli’ o le stragi e gli incendi nel contesto della ricerca degli stessi, hanno la loro origine nel modus operandi, qui come là, del colonialismo europeo, spesso grande dimenticato, e non presenta caratteristiche di novità.  Pensiamo solo a cosa hanno fatto gli italiani in A.O.I. ma anche prima e poi, francesi, inglesi, spagnoli, portoghesi ecc. nelle loro colonie.

L’immagine che correda l’articolo rappresenta il monumento memoriale della strage sito ad Avasinis, Avasinis, ed è tratta da: http://cjalcor.blogspot.it/2014/05/il-programma-della-commemorazione-del-2.html.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

Primo maggio: festa dei lavoratori e dei proletari, in uno stato che volge verso quello che fu prussiano?

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Vorrei incominciare questo mio testo per la festa dei lavoratori (e proletari) del primo maggio con il titolo di un articolo di Franco Mostacci in: Il Fatto Quotidiano dell’11 aprile 2018: “Vent’anni di diseguaglianze: in Italia godono solo i più ricchi”, perché rappresenta, a mio avviso, la realtà.   Scrive l’autore: «Negli ultimi 20 anni, la numerosità dei nuclei familiari è passata da 20 milioni scarsi nel 1995 a oltre 25 milioni nel 2016, per effetto sia dell’incremento della popolazione […], sia della diminuzione del numero medio di componenti. […]. Ma le diseguaglianze tra i gruppi sociali sono rimaste pressoché inalterate: la distanza tra chi sta bene e chi se la passa peggio non è attenuata, come si fosse cristallizzata al livello raggiunto a metà degli anni novanta».

Sin qui Mostacci, su dati Bankitalia, che ci dice, in sintesi, come la società italiana non sia migliorata negli ultimi vent’anni, ed io direi anzi, notevolmente peggiorata. Inoltre ho provocatoriamente scritto che il primo maggio è la festa dei lavoratori e dei proletari, perché coloro che formavano la “classe operaia”, una classe operaia consapevole del proprio sfruttamento e dei propri diritti sono quasi scomparsi, sostituiti dai ‘nuovi schiavi’ del lavoro, e dello jobs act, figlio perverso di un capitalismo coperto da bandiere destrorse e democratico – centriste. E ormai a livello sociale predominano, fra la classe povera, il non- lavoro, la disperazione, il nichilismo, la precarizzazione dell’esistenza, la perdita di ogni speranza.

E come non essere d’ accordo con chi ha scritto che ormai non si lavora per vivere, ma si vive per lavorare in qualsiasi condizione, anche in Italia?

Ho in mano un volume di Francis Wheen: “Marx, vita pubblica e privata”, Mondadori ed., e due riflessioni colpiscono la mia mente mentre scrivo di poveracci e ricchi sempre più ricchi. La prima è che anche il conservatorismo liberale, espresso da fasce di popolazione più che agiate, poteva interessarsi alle privazioni del popolo, magari dando qualcosa in beneficenza, pronto però a non rinunciare a nulla, se non a spiccioli, ed a godere «fino in fondo degli agi che la vita gli riservava» (Francis Wheen, op. cit., p. 19).

 La seconda è relativa al concetto di Stato- governo come assoluto immodificabile (Ivi, p. 24), verso cui una classe politica – oligarchica vorrebbe volgessimo anche in Italia, anche se allora non si parlava, come attualmente qui, di “senso di responsabilità” per non modificare nulla e rimandare tutti i problemi seri e veri ad un domani lontano, anno dopo anno … .  E forse, in quest’ottica, anche l’italiano dovrebbe, ora, ‘se razionale’, riconoscere «l’oggettiva necessità e ragionevolezza del mondo (inteso dello stato e dello status quo sociale ndr) così com’è»?  (Ibid.) Per fortuna a molti italici manca questa “razionalità”, e da anni ed anni chiedono alla classe politica cambiamenti.

Inoltre credo che ci sia un profondo legame tra quel senso di ‘responsabilità’ che impedisce in Italia di mutare qualcosa e l’‘inevitabilità’ del governo prussiano nella prima metà dell’Ottocento, allora sostenuta da Hegel. Il problema è solo che questi concetti vanno bene per chi governa e per le classi agiate, che non vogliono cambiare nulla perché non vogliono perdere privilegi acquisiti non si sa su che base, ma non vanno bene per i lavoratori e per il popolo e per chi allora come ora, diventava e diventa sempre più povero. Ma pare che se allora «sfidare l’assolutismo prussiano significava di fatto sfidare la natura: era come chiedere che venisse riformata la struttura delle querce o abolita la pioggia» (Ibid.), ciò possa valere anche ora in Italia, per il domandare un governo più attento ai problemi popolari e meno immobilista e piegato su se stesso e sugli interessi personali di pochi.

Una terza considerazione mi viene alla mente e riguarda lo scollamento fra i problemi della classe dirigente, di cui i giornali ci informano, e quelli della popolazione della penisola. Eppure di problemi al tappeto, da risolvere in Italia ce ne sarebbero, tra inquinamento, disastri ambientali e sociali oltre che culturali; perdita di diritti, appannaggio ora sempre più dei soliti ricchi (provate voi, non agiato o politico, a fare una lamentela per un disservizio, come da carta dei servizi, e vedrete che o nessuno risponde, o vi è una risposta difensiva mentre qualcuno inizia subito a prender informazioni su di voi, o vi dicono che, se non vi va bene così – disservizio compreso – potete cambiare subito aria, alla faccia della carta dei servizi), precarietà del lavoro e nella famiglia; perdita di valori condivisi e di comunità; svendita di beni comuni a privati; e via dicendo, ma pare che si faccia la politica dello struzzo, anno dopo anno, governo dopo governo, mentre la stampa ci informa sulle solite storie di tatticismi, per mantenere il potere e fregarci.

E se andate in un bar, vedete forse qualcuno che parla di alleanze e nuovi governi, che disquisisce, con un bicchiere in mano, come un tempo, sulla politica per il paese? Io francamente no. Silenzio ed immobilismo caratterizzano, in Italia, questo momento storico, mentre da più parti si continua a segnalare che il governo italiano,  visto il ‘senso di responsabilità’ dei nostri rappresentanti istituzionali, deve almeno incominciare ad abbassare la corruzione. (Corruzione, Italia ancora tra le peggiori d’Europa. Sotto di noi solo Grecia e Bulgaria, in: (http://www.repubblica.it/economia/2017/10/10/news/corruzione_italia_ancora_fanalino_di_coda-177861235/ e Ue: “Rischi internazionali da alto debito e bassa produttività dell’Italia. Giustizia inefficiente ostacola lotta a corruzione” in: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/07/ue-rischi-internazionali-da-alto-debito-e-bassa-produttivita-dellitalia-giustizia-inefficiente-ostacola-lotta-a-corruzione/4209925/). Ma pare non senta da quell’orecchio.

Ora invece che di lavoro per gli italiani, in modo da trasformarli almeno in lavoratori, così potrebbero, a pieno titolo, festeggiare il primo maggio, si parla di carità ai poverelli, di politica di San Martino ma tagliando il mantello altrui, non si sa con che denaro e fino a quando, invece di scegliere pure la via del dopoguerra e cioè quella di calmierare i prezzi dei generi di prima necessità, ora fuori controllo.
Inoltre se qualcuno leggesse il bellissimo libro di Mauro Corona: “Vajont, quelli del dopo” vedrebbe quali disastri sociali può comportare un sussidio fisso alternativo al lavoro, che allora riempì le osterie di nullafacenti ed ubriaconi per non perderlo. In Germania è diverso, si coprono periodi di disoccupazione, il che è sacrosantamente giusto, ma con precise garanzie di nuova occupazione. (Cfr. Nicola Pini, L’Inps: aiuti al reddito per 900mila italiani. Scontro Boeri-M5s sull’assegno pentastellato. “Costerebbe 38 miliardi”. “No, solo 14,9», in Avvenire, 29 marzo 2018). Ma molti aspetti ci dividono dalla Germania, come giorni fa faceva notare, in un suo editoriale, Marco Travaglio. Magari quelle coperture che danno per le armi al Quatar e via dicendo, utilizzando soldi nostri per affari ‘ loro’ potrebbero impiegarli in servizi per noi, che mi pare siamo stati bistrattati dai nostri governi, non dagli extra – comunitari. (Stefano Feltri, Cipe, via libera alla garanzia di Stato per vendere armi. Approvato l’impegno pubblico fino a 18 miliardi per gli affari con Egitto e Qatar. Rinviato il tentativo di regalare la gestione di due autostrade per 30 anni, in: Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2018).

Brindiamo al primo maggio, in questa società che odora di marcio lontano un miglio, volgendo verso una sud- americanizzazione? Sì, per ricordarci cos’ è la dignità, cos’ è la rivendicazione dei propri diritti, per chiedere lavoro ma anche il giusto compenso ed otto ore di lavoro, otto di riposo ed otto di svago, per non dimenticare il passato e reimpossessarci di alcuni concetti per il presente e futuro. E non ditemi , per cortesia, che sono rivoluzionaria.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo rappresenta il famoso dipinto di Giuseppe Pellizza da Volpedo: “Il quato stato”.  Da: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Quarto_Stato.jpg#/media/File:Quarto_Stato.jpg.  Di Associazione Pellizza da Volpedo, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2588195. Laura Matelda Puppini.

 

 

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