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Diritto a morire senza accanimenti terapeutici, fra problemi, scelte politiche ed ideologiche e realtà concrete.

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Ogni tanto acquisto il giornale Avvenire perché ha degli articoli interessanti. L’ho fatto anche l’8 dicembre 2017 ed ho trovato ben tre spunti di riflessione: il primo relativo al ‘biotestamento’, (articoli di riferimento: Angelo Piccariello, Biotestamento, ora in senato si ragiona sulle modifiche, Francesco Ognibene, Così la vita umana diventa “disponibile” e “Medici cattolici. Grave preoccupazione va introdotta l’obiezione di coscienza”) il secondo sull’inquinamento ambientale nella terra dei fuochi (articoli di riferimento: Antonio Maria Mira, Terra dei fuochi altro che bufala, e Maurizio Patriciello, Abbiamo aperto una strada per ripulire l’Italia) il terzo sull’aumento del precariato lavorativo (Nicola Pini, Crescono i contratti. Istat: boom di precari. Sono 2,8 milioni).

Vorrei qui trattare il primo problema quello del biotestamento, inteso solo come possibilità di rifiuto di accanimento terapeutico, facendo però notare come, nella pratica e non nella filosofia, gli altri due aspetti possano incidere sullo stesso. 

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Il caso di Eluana Englaro ha portato sulla scena un grosso problema etico, che però ha spinto, purtroppo, l’intransigente fondamentalismo cattolico ad azioni riprovevoli e faziose, offensive per un padre il cui dolore doveva venir rispettato e per Eluana. All’opposto la scelta del santo Giovanni Paolo II, papa, di morire nella sua camera solo con antidolorifici, rinunciando ad un’ulteriore ospedalizzazione ed ad accanimenti terapeutici, (Mario Pappagallo, Il cardinale e la morte di Wojtyla: rifiutò l’accanimento terapeutico, in Corriere della sera, 4 ottobre 2007), e quella del cardinal Carlo Maria Martini, che ha comunicato al proprio medico curante di non voler venire sottoposto ad accanimento terapeutico, né sotto forma di ventilazione artificiale, nè tramite applicazione di peg, nè tramite altre modalità di alimentazione forzata (Antonio Ruggeri, Martini su eutanasia, accanimento terapeutico, aborto, fecondazione artificiale, embrioni, in: https://www.leggioggi.it/12 settembre 2012) non sono state così contestate, e semmai sono state immediatamente rimosse, se così si può dire, quasi non fossero state mai fatte.

E dal cardinal Martini prendo questa frase: «la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana». (Ivi). Lo stesso Papa Francesco ha recentemente affermato che «oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona” (Paolo Rodari, Fine vita, svolta del Papa: “Evitare accanimento terapeutico non è eutanasia“, in: http://www.repubblica.it/ 15/11/ 2017), e, nel 2015, aveva negato l’eutanasia, non la scelta contro l’accanimento terapeutico. (Francesco Antonio Grana, Papa Francesco: ‘No eutanasia, sì cure palliative. Stato non guadagni con medicina’, Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2015).

Ma su questo aspetto non fanno chiarezza né i medici cattolici, nel chiedere la possibilità di obiettare, non si sa su che cosa, né Francesco Ognibene nel suo: “La legge al Senato. Biotestamento: le 10 domande in attesa di una risposta convincente”, in Avvenire 7 dicembre 2017, confondendo anche i lettori. Infatti, relativamente alla proposta di legge in discussione al senato sul biotestamento, la senatrice del Pd Emma Fattorini precisa che la possibilità che si cerca di dare con la dichiarazione anticipata di trattamento, non comporta l’eutanasia a freddo, cioè la decisione di non voler più vivere, che può veramente aprire ancora di più a una “cultura dello scarto”, che finisce per mettere a rischio le persone più deboli, povere e indifese. (Emma Fattorini, “Sì al biotestamento, no all’eutanasia a freddo e alla “cultura dello scarto“, in: http://www.huffingtonpost.it, 7 dicembre 2017).

Così si esprimeva nel merito il Cardinal Martini: «Le nuove tecnologie, che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano, richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona». (Antonio Ruggeri, Martini su eutanasia, op. cit.). E aggiungeva: L’eutanasia è «un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte. Come tale è inaccettabile. Diversamente va, invece, considerato il caso dell’accanimento terapeutico, ovvero dell’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Ivi). Inoltre «nel decidere se un intervento medico sia da interrompere – proseguiva Martini – non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate». Ed infine concludeva che sul tema «è buona regola astenersi anzitutto dal giudicare frettolosamente e poi discutere con serenità, così da non creare inutili divisioni». (Ivi), ove il termine divisione è ancora all’acqua di rose perché in certi casi, come quello di Eluana, si è giunti all’assurdo, con politici e quant’altro diventati di colpo “dotti medici e sapienti” e con Silvio Berlusconi che, non si sa informato da chi che Eluana aveva ancora le mestruazioni, in spregio secondo me alla giovane donna ed alla sua privacy, dichiarava della possibile fertilità della stessa. E fra un turbinare di ‘fiaccole’, bottigliette di acqua e rosari, ci furono molti che accusarono Englaro di uccidere sua figlia…creando scene più attribuibili ad un qualche Ku Klux Klan che ad un ambiente socialmente democratico, e violando anche la sofferenza di un genitore per un figlio, che appartiene alla sfera dell’intimità. Ed Eluana aveva espresso la sua volontà. 

Ma ritorniamo al punto di partenza, cioè al biotestamento. Di per se stesso, se esso rappresenta solo una dichiarazione di volontà di una persona relativamente all’accanimento terapeutico, non credo possa essere contestato. Non hanno scelto per la terapia ad ogni costo né il santo papa Giovanni Paolo II, né il cardinal Martini, che ha anche affermato che, interrompendo le cure, «non si intende procurare la morte; si accetta di non poterla impedire». (Ivi).

Pertanto anche i cattolici più intransigenti, se vogliono essere coerenti e non guerrafondai, dovrebbero decidere uno dei problemi irrisolti nel merito e cioè quello di cosa si intenda praticamente, per accanimento terapeutico. Secondo l’Associazione medici cattolici (Amci), è grave che venga posto, tra i trattamenti che si considerano come accanimento terapeutico, l’idratazione ed alimentazione forzata, ma lo stesso cardinale Martini, che ritengo essere un esperto in dottrina della chiesa, negò per sé l’alimentazione forzata. (Medici cattolici. Grave preoccupazione, op. cit.).

E vi è un altro problema, quello eterno che in Italia non permette poi di fatto che leggi avversate dai cattolici e da chi vuole appoggi dagli stessi, vengano attuate. L’ associazionismo medico di questa matrice religiosa chiede già a gran voce l’obiezione di coscienza però non si sa su che cosa, quasi si ipotizzasse che la legge stesse chiedendo ad un medico di uccidere, e quindi inizia già a criminalizzare chi seguirà la volontà della singola persona, presentandolo come un assassino, senza motivo alcuno, mentre la classe medica farebbe bene pure a valutare i suoi errori e comportamenti che potrebbero aver portato alla morte di pazienti, che decedono anche per mancanza di sanità, per peggioramento del servizio sanitario, per lunghe liste di attesa, per povertà e via dicendo. Inoltre io credo che la tempesta emotiva intorno al caso Eluana sia ancora nell’aria e che alcuni medici cattolici pensino maggiormente a come si sarebbero comportati nello specifico, piuttosto che a cosa avrebbero fatto nel caso del Santo papa Giovanni Paolo II o del cardinal Martini.   

E si dovrebbe pensare anche ad un altro aspetto. In questa società italiana caratterizzata dai tagli enormi alla sanità, dal precariato, dall’accumulare come scopo della vita, i primi a perdere sono i poveri, che dovrebbero essere invece tutelati anche nella loro scelta di vita vegetativa, perché mantenere in vita uno che vegeta non è un problema di poco conto per i familiari, che devono ragionare sulle loro tasche, forze, possibilità economiche. Non sfugge ad alcuno che il padre di Eluana, Beppino Englaro, era una persona che non aveva problemi economici, perché le cliniche private dove fece vivere la figlia, ormai ridotta ad un vegetale, non credo proprio fossero gratuite. E così introduco il legame tra il problema del lavoro precario e della povertà in Italia, con homeless in aumento (Cfr. il dossier: “Italia: poveri si diventa. Sono stato per una settimana uno dei 50 mila senza tetto. Sono sempre di più e vivono così, in: Millennium, dicembre 2017 – gennaio 2018), e la possibilità concreta di mantenere in stato vitale una persona che vegeta.

Il tema non mi pare sia stato sufficientemente affrontato e nel film di Pedro Almodóvar, ‘Parla con lei’ 2002, il problema del mantenimento in clinica delle due donne in coma viene glissato, e sono comunque una torera ed una ballerina, mentre le ripercussioni sulla famiglia, che si deve tenere un soggetto in vita vegetativa con la continua speranza che si risvegli, che comporta oltre a fatica, spese, stress, obblighi, continua frustrazione man mano che ci si accorge che ciò non avverrà, vengono ampiamente toccate in Marco Bellocchio “La bella addormentata”. Pertanto quando si toccano problemi così importanti, non si può eludere dal dare alle situazioni anche scelte sostenibili attraverso hospices, e via dicendo. Ma in Italia nel merito dell’assistenza stiamo ritornando indietro per mancanza di soldi ed organizzazione.

Infatti ad un certo punto, un paziente in stato vegetativo, con i dovuti sorrisi, viene spedito a casa dall’ospedale, e chi è povero ed in difficoltà che fa? Chiediamocelo. Le badanti costano parecchio e comunque ci vuole in ogni caso la presenza attiva dei parenti, e credo che una famiglia media non le possa pagare, le cliniche costano, ammesso si trovi una disposta a prenderlo, e via dicendo. Immaginate se uno ha anche figli precari o disoccupati, o se lavora come precario o è disoccupato … cosa può fare del parente? Va a pregare di corsa che il congiunto se lo prenda Dio, sperando di avere le centinaia di euro per un banale funerale? Di tutto questo il mondo cattolico non parla, come i problemi non esistessero, come tutti potessero porsi solo problemi etici, che nella società della finanza e tecnocrazia e dei nuovi fascismi legali sono un lusso per pochi. Magari si potesse affrontare insieme i problemi di questo tipo, con discussioni anche fra la gente!

Inoltre non vorremmo che, a causa di terre dei fuochi e similari, l’inquinamento ambientale provocasse molti casi limite, a causa del crearsi di malattie progressive invalidanti, o di situazioni a rischio di peggioramento improvviso, perché il ricordo del coraggiosissimo vigile del fuoco Michele Liguori, morto di dovere ed isolamento, come scrive Il Fatto Quotidiano  (Cfr. Enrico Fierro, Terra dei fuochi: Michele, vigile morto di dovere e di isolamento, in Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2014) ci deve far pensare, e così il caso dei molti tumori presso l’Ilva di Taranto e tanti altri. E per questo invito a leggere su Avvenire del’8 dicembre gli articoli: Antonio Maria Mira, Terra dei fuochi altro che bufala, op. cit., e Maurizio Patriciello, Abbiamo aperto una strada per ripulire l’Italia, op. cit. E si salvano molte vite tutelando ambiente, acqua terra e salute.

Insomma i problemi possono e devono essere analizzati a livello teorico, ma dato che nel caso specifico non sono solo metafisici ma poi devono avere concreta attuazione, si dovrebbe pensare anche alla soluzione pratica per qualsiasi scelta, perché, come dice la senatrice Emma Fattorini, non si finisca per sposare la cultura dello scarto, questa sì nazista e da combattere. Questi sono solo degli spunti, delle mie riflessioni, fatte pensando che su argomenti così seri si deve riflettere, prima di iniziare crociate pro e contro non si sa neppure cosa. E credo ci sia sufficiente materia per riflettere, in una società anche italiana dove i diritti stanno sempre più configurandosi come appannaggio solo dei ricchi e potenti, e ove la politica non vede la realtà presente o non la vuol vedere, chiusa nel suo potere e nei suoi cavilli elettorali. E questo mi riporta all’articolo di Francesco Ognibene: Così la vita umana diventa ‘disponibile’, in Avvenire, 8 dicembre 2017 ed al concetto di ‘disponibilità’ della propria vita, primieramente per viverla pienamente, nel vero senso del termine, non solo in relazione alla morte, cosa che pare impossibile in questo mondo ed in questa società, se non si appartiene all’ ‘Olimpo degli dei’.

Scrivo queste righe per dare degli spunti di riflessione a chi li vorrà cogliere, senza voler offendere alcuno e senza essere un’esperta in materia.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 


LA VICìNIA. Legge 20 novembre 2017, n. 168 “Norme in materia di domini collettivi”. Finalmente un riconoscimento pieno alla Proprietà collettiva.

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Gli oltre 20 fra Consorzi vicinali e Vicinie della Val Canale, la trentina di Jus e Srenje del Carso, le 10 Amministrazioni frazionali dei Beni di uso civico della Carnia, del Friuli centrale e della Bassa e le decine di Comunioni familiari sparse per il territorio regionale, dalla laguna di Marano e di Grado alle Alpi, ricorderanno a lungo la data del 13 dicembre 2017. Essa, infatti, segna l’entrata in vigore della legge statale 20 novembre 2017, n. 168 “Norme in materia di domini collettivi”, che sancisce l’atteso, completo riconoscimento della Proprietà collettiva e dei «diritti dei cittadini di uso e di gestione dei Beni di collettivo godimento», nonché il solenne impegno della Repubblica alla tutela e alla valorizzazione di questo straordinario Bene comune.

Secondo l’incompleto Censimento agricoltura Istat del 2010, in Italia, gli ettari di «terre di collettivo godimento» appartenenti alle Proprietà collettive sono più di 1 milione e mezzo (pari a circa il 10% della “Superficie Agraria Utile”). Ciò significa che il 3% dell’intero territorio nazionale (il 7% di quello regionale, secondo le stime per difetto diffuse anni or sono dal Difensore civico) risulta costituito da terre inalienabili, indivisibili, inusucapibili, persino inespropriabili, e a perpetua destinazione agro-silvo-pastorale, nonché soggette a vincolo paesaggistico sulla scorta del Codice dei Beni paesaggistici e culturali.

L’entrata in vigore delle “Norme in materia di domini collettivi” è il sigillo di un iter parlamentare iniziato una decina di anni fa, per iniziativa della Consulta nazionale della Proprietà collettiva, cioè il sindacato degli enti gestori di tutti gli Assetti fondiari collettivi italiani. Superate le difficoltà e le lungaggini iniziali, l’attuale Legislatura ha dato un’accelerazione determinante al provvedimento legislativo, che è stato licenziato praticamente all’unanimità sia dal Senato, il 31 maggio, che dalla Camera dei Deputati, il 26 ottobre. Infine, si sono susseguite senza intoppi la firma del presidente Sergio Mattarella e la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, il 28 novembre.

L’evento è stato salutato con grande favore anche dal presidente della Corte costituzionale, Paolo Grossi, al termine della 23^ Riunione scientifica del Centro studi e documentazione sui Demani civici e le Proprietà collettive di Trento, nel novembre scorso. «Gli Assetti fondiari collettivi – ha dichiarato l’insigne giurista fiorentino (www.youtube.com/watch?v=aA5RzQlTohg&feature=youtu.be&t=6h42m22s) – hanno la loro matrice nell’articolo 2 della Costituzione (…). Siamo di fronte a formazioni sociali di carattere originario che hanno diritto ad esistere perchè rappresentano veramente una forma di quel pluralismo sociale e giuridico che è il nerbo della nostra Costituzione. Sono felice oggi di salutare come legge un atto di grande coraggio del legislatore italiano. Finalmente si sono deposti i mezzi termini, le riserve mentali, i dubbi e le sfiducie».

Identica soddisfazione ha espresso, il 13 dicembre, Michele Filippini, presidente della Consulta nazionale della Proprietà collettiva. «Finalmente, a 70 anni dall’approvazione della Costituzione repubblicana e a 90 anni dalle leggi che ne imponevano la liquidazione, – ha dichiarato – il legislatore ha riconosciuto piena dignità e vita alla storia vivente della nostra Italia: i Domini collettivi».

La portata rivoluzionaria delle “Norme in materia di domini collettivi” è stata sottolineata anche dal giornalista Paolo Cacciari, esperto di Decrescita, Beni comuni ed Economia solidale: «Aggiornate i manuali di diritto, le forme della proprietà si arricchiscono di una nuova fattispecie, non sono più due, ma tre: privata, pubblica e collettiva – ha scritto per il sito “Comune.info” –. La proposta che 10 anni fa la Commissione Rodotà fece di considerare “comuni” alcune categorie di “beni” da inserire nel Codice Civile, trova oggi una parziale, ma significativa attuazione di fatto».

«I Domini collettivi, oggi riconosciuti e valorizzati dalla legge 20 novembre 2017, n. 168, in attuazione degli articoli 2, 9, 42 e 43 della Costituzione – sottolinea il Coordinamento della Proprietà collettiva in Friuli-V. G. –, oltre a consentire alle popolazioni rurali di ricavare dai propri patrimoni le utilità tradizionali (legna da ardere e da costruzione, piccoli frutti, erbe spontanee, funghi, prodotti ittici…), garantiranno soprattutto la possibilità di gestire attivamente i valori patrimoniali collettivi come elementi propulsivi di un’Economia solidale e autosostenibile e come basi materiali per una produzione economica finalizzata alla crescita della Comunità territoriale e della sua capacità di autogoverno.

Mettendo a frutto i nostri valori patrimoniali – continua il sindacato del Popolo dei Beni collettivi del Friuli e di Trieste – saremo in grado di restituire ai territori stili di vita propri e originali, di rilocalizzare l’economia e di ridurre l’impronta ecologica, chiudendo, a livello locale, i cicli dell’alimentazione, dell’acqua, dei rifiuti e dell’energia e realizzando Filiere di produzione e consumo innovative, nell’ottica dei Distretti di Economia solidale, che anche la nostra Regione ha formalmente riconosciuto con la legge 4/2017.
 

LA VICìNIA – http://www.friul.net/vicinia.php – vicinia@friul.net – protezion e avignî des propietâts coletivis in Friûl e te provincie di Triest – zašcita in razvoj skupnih posestev u Furlaniji in na Krasu –  protezione e futuro delle proprietà collettive in Friuli e nella provincia di Trieste».

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L’immagine che correda il comunicato è stata da me tratta da: http://www.euricse.eu/it/sibec-prossimi-appuntamenti/, solo per questo uso. Laura Matelda Puppini

 

FVG. AAS3 E SANITÀ IN MONTAGNA.

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Prendendo spunto dal recente convegno intitolato “La sanità in montagna fra accentramento e articolazione territoriale dei servizi. È possibile una sanità di qualità in periferia?“, che poi, secondo radio studio Nord, doveva essere centrato sull’ospedale di Tolmezzo, (https://www.studionord.news/sanita-montagna-tavola-rotonda-promossa-dalla-pro-carnia-2020/) seguendo una logica vetusta e trita e ritrita di affrontare i problemi, vorrei scrivere alcune considerazioni sul tema, riprendendole da articoli già pubblicati su www.nonsolocarnia.info, e proponendole in un unico testo organico, premettendo che sono d’accordo con le proposte di Walter Zalukar, (Walter Zalukar. Ripensare la sanità regionale, in: www.nonsolocarnia.info) e sull’ urgenza di voltare subito pagina. E spiego qui nuovamente il perché, con particolare riferimento all’Aas3, di recente creazione, e per me di riferimento.

Caratteristiche territoriali della nuova AAS3.

La nuova Aas 3, figlia della riforma Marcolongo – Telesca, è caratterizzata da un territorio molto vasto: 3104 Kmq, circa il 40% del territorio regionale e circa il 63% della provincia di Udine, e comprende aree montane, collinari e di pianura. Anche la densità abitativa del territorio varia: vi sono aree in cui più della metà dei comuni ha densità inferiore a 22 ab per Kmq, ed aree in cui più della metà dei comuni ha densità superiore a 134 ab per Kmq. La popolazione complessiva è di circa 172.000 abitanti, e si presenta con una diversa struttura demografica correlata all’area geografica di residenza. In particolare si evidenzia un progressivo invecchiamento della popolazione da sud a nord (l’indice di vecchiaia passa da 182% nel distretto di Codroipo a 235% nel distretto della Carnia)», e, per quanto riguarda coloro che vivono oltre i 500 metri di altitudine, la quota di ultrasessantacinquenni si attesta a 23.819 residenti, pari all’89,2%. (Azienda per l’Assistenza sanitaria 3 Alto Friuli, Collinare, Medio Friuli, Relazione sulla gestione e Bilancio d’esercizio anno 2015, Relazione del Direttore Generale sulla gestione – anno 2015, in: bilancio_consuntivo2015integrale.pdf, dati citati in: Laura M Puppini. Quale politica sanitaria per la montagna? Qualche considerazione personale su dati ed informazioni relativi all’Aas3, in www.nonsolocarnia.info).

Pertanto l’Aas3 si configura territorialmente in modo ben diverso da altre aziende sanitarie regionali, che hanno il loro fulcro nella città, per esempio quella udinese o quella triestina, e che presentano una concentrazione di servizi locati in uno spazio ristretto. Ed a questo punto uno si chiede: ha senso un modello organizzativo univoco per tutto il territorio della regione Fvg?

Non può esistere uno stesso modello organizzativo per città e montagna.

Il problema se possa esistere un modello univoco di sanità per territori così diversi come la montagna, con i suoi mille piccoli centri dispersi e la città, è stato sollevato da Gianni Borghi, Presidente della Conferenza dei Sindaci dell’Aas3, nel corso dell’incontro tenutosi a Tolmezzo il 28 gennaio 2016.  

Così si è espresso Borghi: «nessuno ha pensato di porre attenzione, nel legiferare, alla montagna, ai suoi problemi specifici. E si è legiferato “erga omnes”, per tutti nello stesso modo. E questa non è solo una mia considerazione, è soprattutto la mia preoccupazione. Vi è poca consapevolezza nel pensare che ciò che vale per un centro, non equivale a ciò che vale per una periferia. Se poi la periferia è montagna, la cosa si complica sia per gli aspetti orografici che per quelli finanziari». Per questo il sindaco di Cavazzo Carnico, chiedeva, per il territorio rurale/montano, un modello organizzativo della sanità diverso da quello cittadino, che permettesse di soddisfare i bisogni della popolazione in loco, favorendo una sanità prevalentemente territoriale, e che gli ambulatori di medicina generale o dei medici di base che dir si voglia, restassero diffusi sul territorio, evitando di creare un cap unico per la Carnia intera, come allora si profilava. (Gianni Borghi su: “La nuova proposta per la salute in territorio montano”, in www.nonsolocarnia.info).

L’Aas3 era, e forse è, penalizzata nelle entrate.

Si sa che i bilanci sono fatti da entrate ed uscite. Alcuni aspetti mi hanno particolarmente colpito rispetto al budget di entrata per le aziende regionali ed in particolare per l’Aas3. Infatti nel 2015 il riparto del fondo sanitario tra le nuove Aas continuava a vedere in testa alla classifica per finanziamento regionale a paziente l’area triestina. A lei, infatti, spettavano 1.916 euro pro capite. Al secondo posto veniva la Aas4 Medio Friuli, con 1.845 euro; al terzo l’Aas 2 Isontino-Bassa Friulana con 1.484 euro per paziente; a cui seguiva la Aas 5 Friuli occidentale con 1.417 euro, ed infine, fanalino di coda, la Aas 3 Alto Friuli con 1.383. (Elena Del Giudice, Sanità, friulani penultimi in Italia, in: Messaggero Veneto, 27 aprile 2015, dati da me ripresi in: Laura M Puppini. Governo, regione, sanità, delle entrate e delle spese, in. www.nonsolocarnia.info).

Criteri di ripartizione? Secondo l’Assessora Telesca, dal 2014 è stato introdotto in Regione il criterio dei costi standard sulla base dei quali è stato ripartito il 70 per cento delle risorse, mentre il 30% è stato dato sulla base del costo storico. (Ivi) Ma se una azienda è appena formata, come si fa a parlare di costo storico? Ed è sicura l’Assessora che in montagna e nelle zone marginali le prestazioni costino come in città, in particolare dopo il procedere della sua riforma epocale, che taglia, distrugge, crea caos ed incertezza?

Pertanto a fronte di mille problemi, della novità e dell’ampiezza dell’azienda, siamo stati e forse siamo ancora quelli meno finanziati a residente, non si sa perché. Inoltre i finanziamenti dovuti per il 2016 non erano ancora stati introiettati del tutto da parte dell’Aas3 alla chiusura del bilancio consultivo per quell’anno. (Aas3. Documento di bilancio consultivo 2016, citato in: Laura M Puppini, Sanità: fra diritti messi in gioco e responsabilità non sempre chiare, in: www.nonsolocarnia.info).

Infine nel 2015, su un totale di 170.979 pazienti residenti nel territorio aziendale, 68.335 risultavano esenti da ticket, di cui un po’ più della metà per reddito ed un po’meno della metà per altri motivi, che credo siano patologie rare e gravi (Azienda per l’Assistenza sanitaria 3 Alto Friuli, Collinare, Medio Friuli, Relazione, cit., p. 5, citata in: Laura M Puppini. Quale politica sanitaria per la montagna? op. cit.).  Da questi dati si evidenzia, quindi, che molti sono i non paganti, il che incide ulteriormente sulle entrate aziendali. Pertanto non dovremmo rappresentare il fanalino di coda per i finanziamenti, anzi, l’opposto, se si vuole rispettare il diritto alla salute ed alle cure per tutti.

Si muore di più e prima in montagna.

Anche lo stato di salute generale riscontra diversità. Nell’area montana, come in altre simili del Nord Italia secondo il dott. Benetollo, l’aspettativa di vita è più bassa che nelle altre, e se il tasso grezzo di mortalità (numero di morti sulla popolazione di riferimento in un anno) è pari a 10,6 per 1000 abitanti nel distretto di Codroipo, in Carnia è pari a 13,05 per 1000 abitanti, ed in Carnia si vive decisamente meno che nel resto del territorio dell’Aas3, variando l’indice correlato agli anni di vita persi da 96 per 1000 abitanti nel distretto di Codroipo fino ad arrivare a 111 per 1000 abitanti nel distretto di Gemona ed a 117 per 1000 abitanti nel distretto della Carnia. (Ivi, p.2). Sarebbe interessante conoscere le cause di morte e le età, onde agire in modo efficace per la prevenzione, analizzando anche la possibilità che il servizio sanitario in montagna ed il suo utilizzo abbiano qualche limite per una miriade di motivi, per esempio le distanze, oppure aspetti sociali, comunicativi o paure (se vado dal medico sono ammalato, cuisà ce ca mi cjate, non avrò nulla e a l’è di bant disturbā il miedi) o il vivere soli, il disagio sociale o problemi interni allo stesso servizio. E senza conoscere non si può operare in modo efficace.

Per quanto riguarda la Carnia ed il gemonese, restano da comprendere l’alto numero di neoplasie precoci nella popolazione, ed il motivo del numero di morti premature, rispetto alla media di aspettativa di vita in regione, in particolare per i maschi, e come si pensa di affrontare il problema degli stili di vita, (Cfr. Flavio Schiava, Demografia e salute in Alto Friuli, in: www.nonsolocarnia.info) senza una politica che tenda a favorire il dialogo e l’incontro non in osteria o enoteca che dir si voglia, ed a scoraggiare forme di sballo, ed a promuovere la valorizzazione della persona. Ma questo può avvenire solo con l’aiuto dei comuni e del sociale, ora ingessati, e sostenendo una politica culturale che non favorisca solo sagre e mercati, in un’ottica meramente economicistica di guadagno e sponsorizzazione, o attività per pochi, ed ascoltando la popolazione. Inoltre particolare importanza dovrebbe venir data alla analisi alle condizioni ambientali di vita, come sottolineato dai dati Oms2012. (7 milioni di morti premature ogni anno: non è il cancro o il cuore, è l’inquinamento, in: www.lastampa.it/2014/03/25/scienza/benessere/).
«L’aria che tutti per forza di cose dobbiamo respirare […]  – si legge ivi – è ammorbata di sostanze e particelle che entrano nell’organismo e causano la morte prematura di 7 milioni persone ogni anno». L’inquinamento è quindi, come noto anche ai nostri vecchi, portatore di malattia, ma non ho letto grosse indagini nel merito per quanto riguarda la Carnia, che contemplino cause e soprattutto correttivi. Inoltre nella conca tolmezzina Dio solo sa quali siano e siano stati i dati, fra ‘palestra addestrativa’ per automobili, detta volgarmente ‘pista guida sicura’ o ‘l’autodromo della Carnia’, il poligono di tiro, moto rombanti, ecc. ecc. mentre un vecchio articolo su: In farmacia, anno I, n. 2, 2010, intitolato: “Ma che aria respiriamo?”, ci ricorda, attraverso le parole del dott. Francesco Mazza, pneumologo dell’Ospedale di Pordenone, che le Alpi sono una barriera naturale anche per i veleni che giungono dalla pianura padana e dal Veneto fortemente industrializzati, che si concentrano non permettendo la pulizia dell’aria, e che si disperdono solo se piove. Pertanto in zona alpina si potrebbero trovare alte concentrazioni di PM 10 e PM 2,5 che possono creare coagulabilità nel sangue, il che non è di poco conto. Cosa accadrà poi fra mutamenti climatici e captazione di ogni rigagnolo e fiume per produrre energia elettrica, Dio solo lo sa.

Sanità on the road.

Ultima novità della riforma Marcolongo – Telesca: la perdita della territorialità dei servizi. Infatti noi della montagna, con la riforma, abbiamo iniziato ad avere proposte di visite ambulatoriali “dai monti al mare” senza assicurazione di continuità medico/ospedaliera; e ci troviamo le liste di attesa dell’ospedale più vicino riempite da residenti anche al di fuori del territorio dell’ aas3, e io, un paio anni fa, abitando a Tolmezzo, per una visita ortopedica con priorità, non riuscendo quasi a camminare, mi sono sentita proporre, come da lista di posti disponibili,  Palmanova, mentre la mia anziana madre ha trovato posto per una visita specialistica a Gorizia, pur essendo domiciliata presso il centro anziani di Moggio Udinese. Inoltre il trasporto costa, quello pubblico spesso non c’è o per fruirne devi star fuori, per una consulenza specialistica che potevi avere sotto casa, una giornata intera, con ulteriori spese e disagi. Se poi sei anziano è possibile che tu rinunci alla visita stessa. Si impone quindi una distrettualizzazione dei servizi tra Gemona/Tolmezzo/San Daniele/ con priorità di accesso per visite ecc. dei residenti nel territorio aziendale. Non si può infatti, in ipotesi, doversi spostare da Forni di Sopra o Tolmezzo a Pineta del Carso, come faceva notare, al convegno del 14 dicembre 2017, il dott. Beppino Colle.

Quell’abbraccio riformato con Udine, che non permette di operare, in Aas3, in modo autonomo.

Se il dott. Benetollo aveva in mente, correttamente, lo scorporo definitivo di tutti i contratti e convenzioni ancora non perfettamente suddivisi tra le due Aziende Aas3 e Ass4, (Azienda per l’Assistenza sanitaria 3 Alto Friuli, Collinare, Medio Friuli, Relazione, op. cit.) ora il pasticcio si ripresenta, perché il personale del laboratorio analisi di Tolmezzo è passato all’Ass4, da cui già dipendeva il centro trasfusionale da prima del 2015, come il suo personale. (Cfr. ou.udine.it/reparti/trasfusionale/trasfusionale-tolmezzo). Così, forse, quella praticamente impossibilità ad operare in modo totalmente autonomo da parte dell’Aas3, evidenziata per il 2015 dal Direttore generale Pier Paolo Benetollo, di operare in modo autonomo da parte dell’Aas3 (Azienda per l’Assistenza sanitaria 3 Alto Friuli, Collinare, Medio Friuli, Relazione, op. cit., p.3) potrebbe diventare una costante. Inoltre pare che anche il personale laureato del laboratorio sia stato accentrato non solo per la busta paga, ma anche in concreto con lo spostamento, in Ass4, e che quindi siamo totalmente privi di un biologo, ma su questo aspetto chiedo informazioni, mentre il sistema informatico regionale, targato Insiel, su cui teoricamente dovrebbe reggersi tutto il ssr dal punto di vista della comunicazione, mostra spesso i suoi limiti, che possono gravare parecchio sui servizi sanitari. Io credo senza se e ma, che non si possa avere una sanità a metà, con un ospedale a metà, con le analisi che dipendono da un centro, che può essere anche intasato, distante da Tolmezzo 50 km, ed il cui trasporto dei campioni, sperando venga fatto in modo ottimale, grava sul bilancio dell’Aas3.

Incidono sulle spese dell’Aas3 …

Leggendo velocemente il bilancio consultivo 2016 dell’Aas3, da profana e non esperta in materia, che si chiude con un passivo di 8.721.064 euro, a me pare che il costo per il personale sanitario non incida sul deficit, e il lavoro privato degli specialisti comporti un attivo, mentre incidono i debiti con altre aziende anche regionali, i trasporti, spese per tecnici non sanitari, e spese anche verso aziende extraregionali, rimanenze, ecc., in una situazione in cui la quota regionale non è stata del tutto introiettata. (Aas3. Documento di bilancio consultivo 2016, citato in: Laura M. Puppini, Sanità: fra diritti messi in gioco, op. cit.). In sintesi stiamo pagando per i servizi che siamo stati costretti ad esternalizzare in altra azienda dalla riforma Telesca Marcolongo, perdendo pezzi indispensabili per gli ospedali ed i medici di base come il laboratorio analisi.

Per questo l’assetto della riforma regionale e quello della riforma statale devono venir modificati, perché sono costruiti, oltre che per tagliare ferocemente i finanziamenti del ssr e del ssn, pare per far guadagnare i grossi poli e per far perdere le periferie, come hanno capito anche nel resto d’Italia.  (Cfr. obiettivi del Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferiche, acronimo CISADeP).

Infine nell’incontro del 14 dicembre, citato, il dott. Colle faceva notare come i ricoveri in medicina interna presso l’ospedale di Tolmezzo, se ho ben capito, fossero calati, pur essendo chiuso il reparto gemonese. Detto aspetto, però, dovrebbe venir indagato, perché quella che sta aumentando è la mortalità, in Italia, anche a causa della rivoluzione – taglio nel ssn. (Cfr. Gian Carlo Blangiardo, “Analisi. Picco di decessi nel 2017, sfida per il welfare e la società”, in: Avvenire 7 dicembre 2017, parte del quale ho riportato in premessa e chiusura dell’articolo: Walter Zalukar, op. cit.). Pertanto non vorrei che detto dato fosse un indicatore della debacle della sanità regionale e montana, o fosse indicativo di uno spostamento di malati verso il polo udinese, ben servito dai trasporti.   

Ed ancora una ultima considerazione. Con un bilancio così difficile l’azienda dovrebbe far fronte alle spese ospedaliere, a quelle del settore assistenza e servizi socio – assistenziali ed ai dipartimenti della salute mentale e delle dipendenze, ai nuovi Lea, ed a quanto deliberato dalla regione Fvg con il DGR 2365/2015. «Detto Dgr, lunghissimo e non si sa come attuabile, – scrivevo nel mio Fvg. Ospedali marginali, fra “polvere di stelle” e macete, in www.nonsolocarnia.info –  impegna risorse delle aziende socio- sanitarie specifiche in progetti quali: Migliorare la salute nei soggetti a rischio MCNT e malati cronici; Promuovere la salute nelle scuole, che è aspetto proprio della didattica, e non necessariamente delle aziende sanitarie,  il cui personale, un tempo, veniva invitato a parlare all’interno di progetti scolastici; Prevenire le dipendenze e gli incidenti stradali, obiettivi che un tempo afferivano ai Ministeri di competenza; promuovere l’attività fisica, che era compito dello sport, altrimenti esso diventa solo agonismo; Prevenire gli incidenti domestici, quando basta un libretto, già prodotto anni fa; Migliorare l’attività del dipartimento di prevenzione, che non si sa cosa significhi; Prevenire e promuovere la salute nei luoghi di lavoro, che non so come si pensi di attuare con lo jobs act, la precarizzazione del lavoro e la sua, in certi casi, schiavizzazione, e creando un surplus di ore lavorative per il personale medico e paramedico ospedaliero, dando così non certo un buon esempio; Migliorare le condizioni ambientali, senza incidere sulla politica che, per esempio in Carnia, vuole i fiumi captati e ogni rio sfruttato a fini energetici, ed in una situazione in cui lo stato italiano e sociale volgono, per dissennate politiche anche renziane, alla fine, ed i privati comandano ovunque; Migliorare la sorveglianza e prevenzione delle malattie infettive, ove si scambiano le stesse, pare, con le malattie virali, ed il tutto si risolve con una serie di vaccini obbligatori, non si sa con che criteri scelti, che prosciugano il budget; Comunicare il rischio e gestione delle emergenze, che è quello che il medico ed ex primario del pronto soccorso dell’ospedale di Trieste Cattinara,  Walter Zalukar ed altri gratuitamente  stanno facendo da tempo, segnalando i limiti della centrale unica, e tutte le carenze del sistema emergenze urgenze regionale, ormai allo sbando tra volontari, privati non si sa come preparati, punti di primo intervento, carenze di personale e mezzi, e via dicendo; Puntare a sani stili di vita alimentari, senza ricordare che il cibo spazzatura costa meno, e senza poter condizionare la pubblicità. (Laura M Puppini, Fvg. Ospedali marginali, fra “polvere di stelle” e macete, in www.nonsolocarnia.info). Inoltre mentre in città si possono fare corsi centralizzati per più utenti ed in sale pubbliche, Tolmezzo non ne ha una che non sia a pagamento, e le distanze ecc. contemplano che vengano fatti corsi nei comuni, con spostamenti frequenti, il che moltiplica i costi.

Ed infine, relativamente alla sanità Fvg, vi è chi sottolinea che …

E per concludere, un recente articolo ci ricorda che: «Assieme ad altre regioni, il Friuli Venezia Giulia ha ottenuto la maglia nera della sanità: lo rileva la quinta edizione (2017) del ranking dei servizi sanitari regionali (Ssr), elaborata nell’ambito del progetto “Una misura di performance dei Ssr” condotto dal Crea Sanità – Università degli Studi di Roma Tor Vergata». (http://www.infermieristicamente.it/articolo/7882/il-friuli-ottiene-la-maglia-nera-della-sanita/), ove si leggono pure le dichiarazioni del Coordinatore Regionale NurSind Gianluca Altavilla, che sostiene che non vi è stato in Regione Fvg, «Nessun investimento reale, soltanto parole di ottimismo. Peccato che non realizziamo elettrodomestici, ma produciamo salute». (Ivi).

Intanto per noi carnici e per i nostri vicini del gemonese, tarvisiano e canal del ferro, per gli abitanti nelle valli del Natisone come per tutti gli italiani, ai problemi delle farmacie che aprono a turno nei festivi, così uno per acquistare un farmaco potrebbe trovarsi a dover fare anche 20 Km, si aggiunge, per decreto Lorenzin, un nuovo ‘ticket’ se si compra un farmaco di notte. (https://codacons.it/tariffa-doppia-sui-medicinali-acquistati-notte-farmacia/). Tutti, per sfizio, pare abbia pensato il Ministero, vanno di notte a rompere le scatole, magari con ricetta, per un farmaco! Bisognerà ritornare al vecchio detto popolare locale, che recitava «Guai un mal di gnot?» Inoltre si sa che di notte le farmacie, almeno fino tempo fa, in particolare nelle città, venivano visitate per aiuto farmacologico anche dal cosiddetto ‘ popolo della notte’, per usare un eufemismo.

Ed anche l’ordine dei medici della Provincia di Udine, nel corso dell’Assemblea annuale, ha precisato alcuni aspetti a livello regionale. Il presidente Maurizio Rocco ha affermato che la politica è attenta «soltanto a tagliare e bloccare il turn-over», che manca un progetto per superare il precariato dei giovani medici, che l’allungamento delle liste d’attesa è dovuto non certo al lavoro in livera professione degli ospedalieri, bensì «ai reali limiti di spesa imposti, […] alle carenze strutturali, alla ridotta offerta sanitaria pubblica, alla carenza di personale medico e ai limiti di funzionamento dell’apparato sanitario». (“Medici contro Regione su attese e turn over”, in Messaggero Veneto, 17 dicembre 2017). Altri limiti evidenziati: «l’eccessiva burocrazia […] e la carenza strutturale della rete informatica, assai scadente». (Ivi).

Per quanto riguarda i tempi di attesa per un esame o visita specialistica, il Messaggero Veneto pubblicava una intera pagina, il 31 maggio 2003, sugli stessi in Ass3, utilizzando sia l’ospedale di Gemona del Friuli che quello di Tolmezzo, oltre un paio di strutture private udinesi: l’Istituto di Diagnostica Radiologica sito ad Udine in via Marco Volpe, e Casa di Cura città di Udine, e risultavano davvero contenuti: 1 mese al massimo per una visita cardiologica, 25 giorni per una visita urologica, 10 giorni per una visita senologica, 20 giorni per visita e pap test, e mi fermo qui per non dilungarmi. Se quindi si sommano pure gli aspetti fatti presente dall’ordine dei medici alle problematiche specifiche dell’Aas3, si potrà capire come sia davvero ora di voltare pagina. 

Così non si può andare avanti, con la politica che taglia e fa tagliare a noi, o ai medici. Ma per ritornare all’Aas3, quadrare un bilancio in questa situazione aziendale, secondo me causata dalla riforma, è come cercare di quadrare i cerchi. Bisogna ripensare la sanità dell’Alto Friuli prima che sia troppo tardi, e bisogna scindere il bilancio della sanità da quello socio – assistenziale, facendo pressantemente presente alla politica che vivere in montagna è altra cosa che vivere ed operare nel contesto cittadino, e che la Costituzione deve essere rispettata.

Senza voler offendere alcuno, ma solo per sintetizzare i problemi dell’Aas3, per me di riferimento, dal mio punto di vista, in attesa di altri contributi o precisazioni nel merito.

Laura Matelda Puppini

L’immagine mostra l’amplissimo territorio dell’AAS3, nel contesto della regione Fvg, ed è tratta da: http://www.aas3.sanita.fvg.it/it/chi_siamo/azienda_cifre/aft.html solo per questo uso. Laura Matelda Puppini

 

 

 

Cortomontagna. La montagna di Mina, la montagna di Lucas.

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È una domenica pomeriggio come tante altre, e decido di passare il mio tempo andando a vedere la manifestazione in programma per Cortomontagna. Non ho capito bene se si tratti solo di una premiazione o anche di una visione, quando esco di casa, la pubblicità che ho guardato è stata avara nello specificarlo.
Raggiunto l’auditorium tolmezzino, ho la piacevole sorpresa di sapere che alcuni cortometraggi verranno proiettati. Li guardo, li valuto secondo dei miei parametri, e mi vengono alla mente alcune riflessioni, la prima delle quali è relativa ad ‘Agora’, che narra del free climber Lucas Lima, che posto sul mio profilo facebook, mentre altre mi affollano la mente.

La cosa più importante è che, secondo me, questi filmati non sono propriamente relativi alla montagna ma all’alpinismo, che è altra cosa. Insomma questa è la montagna del C.A.I., degli uomini in solitaria che scalano le rocce cercando di vincere la natura, seguendo un mito romantico poi sposato dal fascismo, non è la montagna nella sua completezza, come fonte di vita e di morte, con le sue luci e le sue ombre. Manca il bianco e nero, mancano i toni di grigio, in questa fotografia pura, che sfrutta le luci ed i mezzi tecnici, che parla di sfida, di piacere e di solitudine. Mina non c’entra nulla con questa visione della montagna, è tagliata fuori, lei che non è mai andata in montagna per piacere puro, se non forse qualche volta con i parenti per una breve gita.
E mi appare sempre più chiara la differenza tra il mondo di Mina e delle tante Mine che hanno popolato e popolano le montagne della Carnia, e quello di Lucas Lima, o della De Echer, o di Xabier Zabala.

Mina ha un gerlo con cui affronta la salita con un paio di stivali di gomma ai piedi e l’uncinetto in mano, Mina indossa un fazzoletto che raccoglie i capelli, una veste coperta da un grembiule o un paio di pantaloni da tuta, Mina non torna mai dalla montagna a mani vuote: mirtilli, lamponi, legnetti, radici di rabarbaro, semi di comino, funghi, sono il suo raccolto. Non è per lei importante quanti chilometri fa, quanto sale, ma quanto realizza.

Mina non si pone il problema del piacere di andare in montagna: la montagna è la sua vita, è fonte di cibo e legno, è l’ambiente che conosce sotto forma di salite, discese, rocce, boschi, sorgenti, radure, cime, e che si deve affrontare per avere un risultato concreto, pratico. Mina non ha scelto la montagna, è nata in montagna, e non sale le montagne d’inverno; Mina calcola i tempi, orientandosi anche con il sole, per rientrare prima di notte a casa; Mina sa apprezzare un bel tramonto, il colore dei fiori, l’odore del bosco, il rumore di un ruscello, il canto degli uccelli, il battere del picchio, ma teme le vipere, le zecche, la notte, i temporali improvvisi, quelle nubi nere che compaiono nel cielo, il rombo di un sasso che si stacca.

Mina vive la montagna come le donne di un tempo, e come ha imparato da sua madre Elsa e da sua zia Emma, quando le accompagnava a falciare in alto, fin quasi al limite del pino mugo, con il rosario in una tasca, la catenina al collo, la gerla sulle spalle, pane o polenta e formaggio per pranzo. Mina conosce le sue montagne, pezzo per pezzo, angolo per angolo.

 

La montagna dell’alpinismo è tutt’altra cosa, e si alimenta di tecnica, piacere, studio, fotografia, senso di sfida. È scelta, non è imposta dalla nascita. È hobby non necessità. E se il cason dei cacciatori, rifugio aperto a tutti, segna il passato, il rifugio – albergo ove tutto si paga guarda al futuro. Le prime ascese di persone non del luogo per libera volontà personale, datano milleottocento, e sono condotte, inizialmente, da studiosi ed amatori accompagnati da guide del posto. (Cfr. per esempio, Adelchi Puschiasis, Collina e l’alpinismo, in: www.alteraltogorto.altervista.org o Laura Matelda Puppini, Vittorio Molinari, commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi – Cjargne Culture, 2007, pp. 25- 27).

I ricchi cittadini borghesi vedono l’ascesa come un esercizio per ritemprare fisico e mente, e nasce così l’alpinismo, poi sviluppato in vario modo dalle organizzazioni specifiche quali il Club Alpino Italiano, fondato a Torino nel 1863, e la Società Alpina Friulana, sorta inizialmente come sezione Cai di Tolmezzo, nel 1874.  

E così affermava Giovanni Marinelli, primo presidente della Saf: «“L’alpinismo, oltre che alla cultura della mente, offre salute e forza. Le lunghe gite alpestri, l’aria pura e salubre, l’esercizio continuo dei muscoli, le corse, le salite, le rapide discese a balzi (…), il lento e faticoso arrampicarsi per scosceso ed erto pendio, il camminare sui ghiacciai, l’evitare e l’oltrepassare i crepacci, l’affrontare i geli, la pioggia, gli aquiloni…fortificano il corpo e lo rendono atto a sopportare le quotidiane battaglie della vita. …Ma giova altresì tener conto dell’effetto morale che esse producono. Lassù, dinanzi alla natura così bella, così giusta, in tutto il suo procedere, l’anima si sente ritemprare, si sente migliore. Lontana dai mille rispetti umani, dalle mille pretensioni e dai mille sospetti, che sono principio e fine della vita giornaliera, s’allarga lassù il suo orizzonte, il pensiero trascorre libero, la volontà non trova impacci nel suo procedere, l’osservazione cammina senza legami. Poi l’agitarsi del corpo, il fissare una meta ardua e raggiungerla, superando gli ostacoli che si parano dinnanzi, il contemplare a faccia a faccia il pericolo e vincerlo…e lo stesso stancare le membra colla fatica ed i pasti frugali e persino le privazioni a cui si è costretti sciolgono lo spirito dalle umane miserie, lo rendono più capace a valutarle secondo il vero valore, e cooperano in modo sommamente efficace a creare ciò che si esprime con una parola indefinibile: il “carattere”». (Giovanni Battista Spezzotti, L’Alpinismo in Friuli e la Società Alpina Friulana [Sez. di Udine del C.A.I.], Udine, 1963, p. 19).

Ma ben presto, fra gli stessi alpinisti, sorsero diatribe che contrapposero coloro che volevano una montagna diremmo attrezzata, a coloro che volevano la natura incontaminata, che permettesse prestazioni fisiche eccezionali. Ma, al di là di qualche rifugio, temo che, in Carnia, se i monti si dotarono di una qualche infrastruttura fu a causa della loro militarizzazione. E non era ed è per tutte le tasche l’alpinismo.

In quest’ ottica, per ritornare a Cortomontagna, così commentavo sul mio profilo facebook il film ‘Agora’ che narra di un free climber che cerca di superare uno sperone roccioso, cadendo più volte, finendo in una ortopedia o fisiatria, per poi ricominciare: ‘Agora’ secondo me parla del senso della vita. Una voce femminile di sottofondo dice, sempre meno insistentemente: “Dove sei andato a finire?” “Dove sei?” Io ti sto aspettando… ma il film si chiude senza più questa voce presente. C’è una mano che raggiunge una pietra più alta, su cui si posa una farfalla, ma nessuno sa se lo scalatore riuscirà a sollevare il peso e portarsi oltre. Ha senso allora, che un giovane viva solo per superare uno sperone di roccia, dimenticando tutto il resto che la vita può dargli? In fondo pareva più che stesse vivendo un’ossessione personale, senza esser neppure sfiorato dall’idea di abbandonare l’impresa, di ritirarsi prendendo atto di un proprio limite, ed optando magari per la scelta di cose più importanti delle proprie fissazioni. Perché si rischia invero che nello sport rientri il mito romantico del superuomo, solitario ed asociale, che affronta e sfida la natura, in una lotta a due fino alla fine, quasi come quella fra Moby Dick e capitan Achab, che però non appartiene alla realtà.

Inoltre avrei voluto vedere qualche cortometraggio non solo centrato sulla bella fotografia a colori, fatta nel momento in cui le luci, grazie anche all’alta quota, non creano ombre, e molto pittoricistica, ma pure focalizzato sulle contraddizioni della montagna, sulle sue ombre, sulla sua realtà. E credo cha anche la ‘fatica’ della montagna dovrebbe essere rappresentata, ed il suo essere ferita dal prelievo forzato dell’acqua per uso idroelettrico, da una politica che spesso non tutela l’ambiente, da moto che scorrazzano indisturbate sui suoi sentieri e prati, da recinzioni private che interrompono gli spostamenti di animali anche per abbeverarsi, dalla mancata manutenzione del suo territorio.

Insomma per me la montagna è viva, non è solo nuda roccia da superare o fotografare, è fonte, sostentamento, economia, equilibrio ambientale, è spartiacque, è pioggia improvvisa, è passo calmo e regolare, è isolamento, disagio, neve, ghiaccio, sassi, freddo, sudore ghiacciato, è una croce con i simboli della passione in una malga od una campana su di una cima, è sangue versato dai soldati, dolore e morte nelle guerre, è nascondiglio di partigiani e luogo di lotta, è una bandiera che sventola su di un confine, è guardare dove si mettono i piedi e non partire se il tempo è incerto.

Ho scritto questo non per criticare perché, come dice qualcuno, a me non va mai bene niente, ma solo per chiarire che i filmati erano incentrati sull’alpinismo, e per parlare di un ambiente che conosco ma in altro modo. Naturalmente fra il virtuosismo di Lucas e la necessità di Mina vi è un mondo che dovrebbe esser narrato, che ha portato molti sui sentieri montani alla ricerca di qualcosa che servisse per la loro vita o solo per curiosità, ma anche per obbligo o per passare, da clandestini, un confine o fare contrabbando. Ma questa è altra storia.

Laura Matelda Puppini

La prima immagine che si trova in questo articolo fa parte del mio archivio personale, è stata scattata credo da mio marito, e ritrae Mina al ritorno di uno dei suoi giri estivi in montagna. La seconda immagine è un fotogramma del film ‘Agora’ (Brasile) diretto da Mickael Couturier e Otávio Lima, sceneggiatura di Otávio Lima e Lucas Lima, visibile non so se in versione integrale su you tube digitando: https://vimeo.com/159668295, ed è tratta, solo per questo uso, da: http://www.wasatchfilmfestival.org/2017-films.html.  La fotografia che presenta l’articolo è stata da me scattata nell’estate 2017 fra Valdaier e Ligosullo. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

Giovanni Marzona. Io giovanissimo partigiano osovano del btg. Carnia. Intervista di L.M. Puppini.

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Riporto qui un’intervista gentilmente concessami dal sig. Giovanni Marzona di Invillino di Villa Santina, nato nel 1928, partigiano osovano del btg. Carnia, nome di battaglia Alfa, ed attualmente residente a Milano. Il signor Marzona, attivo nell’ Anpi, ha concesso anche altre due interviste: una udibile in: https://video.repubblica.it/dossier/partigiani-vite-di-resistenza-e-liberta/giovanni-marzona-a-me-staffetta-partigiana-dissero-se-ti-catturano-ucciditi/271646/272146?refresh_ce, intervistatrice Zita Dazzi, operatore video: Edoardo Bianchi; l’altra di G. Prunai, datata 2011, in: www.ilgalileo.eu numero 2 – aprile 2011, che si può ascoltare in: https://www.youtube.com/watch?v=Yc6Wo4NKGkw. In esse spiega pure che, da partigiano, portava informazioni ad altri gruppi osovani relativamente a punti di incontro per compiere azioni, alla tipologia delle stesse, diventando elemento importantissimo ai fini dell’organizzazione dell’attività resistenziale. Ma vediamo insieme, ora, cosa ha narrato, un pomeriggio estivo ad Invillino, a me e Cristina Martinis.

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Laura: «Bongiorno, signor Marzona. Siamo qui, ad Invillino di Villa Santina, in questa bella casa, con una bellissima stufa in maiolica, ed i suoi genitori che ci guardano dalla fotografia sulla parete. Io ho letto quello che Lei ha scritto, datomi da Cristina. E quanto conosco di Lei. La prima cosa che io chiedo sempre, quando intervisto una persona, è cosa facevano i suoi genitori, è qualcosa sulla sua famiglia».

La mia famiglia.

G.M. «Mia mamma, Cecilia Mazzolini, era di Invillino, faceva la casalinga e lavorava la campagna.
Qui, ad Invillino, ci sono tanti Mazzolini, ci sono due borgate: e stanno tutte sotto la chiesa. Mio nonno si chiamava Luigi. Poi c’era Mazzolini Leonardo, che stava ancor più vicino alla chiesa, e c’era un altro Mazzolini, il papà di Guido. Erano tre famiglie diverse, senza parentela fra loro.  
Mia madre ha avuto sei figli, quattro femmine e due maschi, ed era nata nel 1896. E, come tutte le donne della Carnia, nel periodo della guerra ’15-’18 ha subito molte sofferenze. Aveva una sorella del 1916, e, durante la ritirata di Caporetto, è scappata con la bambina nel gerlo ed è finita a fare la ‘donna di servizio’ a Sanremo.

Mio papà si chiamava Giuseppe, faceva il muratore, era un antifascista, e pertanto non si sarebbe mai iscritto al Partito Nazionale Fascista di sua volontà. Ma è stato obbligato a farlo, dopo la guerra del ’36 in Africa, per poter andare a lavorare. Egli apparteneva all’unico ceppo di Marzona presente ad Invillino, che ora non esiste più in paese. Rimaniamo io ed i miei figli, ma non abitiamo stabilmente qui.

Mio bisnonno, che era sempre di Invillino, è venuto in questa abitazione ‘in cuc’ come si suol dire, cioè è venuto ad abitare in casa della moglie, che era una Ellero. Questa era casa Ellero ed era una casa un po’ di preti, e qui viveva il sacrista. Gli Ellero erano i padroni di tante montagne, ed avevano i soldi per far studiare i loro figli da preti. Ed avevano due figli sacerdoti.
E si racconta per antico, ma secondo me è vero, che uno di questi Ellero, Antonio Ellero, nel 1790 è partito da qui per andare a Roma a prendere le reliquie di Sant’Ilario e Sant’ Ursulo. La reliquia di Sant’ Ilario l’ha lasciata a Tolmezzo, quella di Sant’ Ursulo l’ha portata qui. E Sant’Ursulo è il patrono di Invillino, e si festeggia il 9 di settembre, mentre Sant’Ilario è il patrono di Tolmezzo.
Si racconta pure che questo Antonio Ellero fosse alto più di due metri, e, da allora, questa casa è stata detta ‘di Tonòn’, cioè di Antonio il grande. E così se volete trovare me ora, se chiedete di Giovanni Marzona forse sanno di chi si parla ma se chiedete di Giovanin Tonòn, andate sul sicuro.  Comunque anche la mamma di mia mamma era una Marzona, ma proveniva da Verzegnis.

Mio padre, nel 1936, andò a lavorare in Africa e ritornò con gli occhi gravemente ammalati. Aveva preso un colpo di sole, che glieli aveva bruciati. Non divenne subito cieco, ma era impedito nella vita quotidiana da questa menomazione acquisita, e non poteva più andare in giro da solo. Per esempio quando io avevo 16 anni, andavo con altri a lavorare con da Todt, a costruire il campo di aviazione ad Udine. E mio papà poteva venire con noi perché io lo accompagnavo. E si andava a lavorare solo ‘di pala e piccone’, ed  io ero un ragazzino, ed a me facevano guidare quei trenini che trasportano la terra. E mio padre ha fatto forse trent’anni da cieco.

Mio padre era di tendenze socialiste.

Mio padre era di tendenze socialiste, e mio papà è stato uno di quelli che, nel 1938, quando sono venuti in casa a prendere la fede nuziale di mia mamma, non voleva dargliela. E mi ricordo che diceva che i fascisti volevano la fede, e poi, magari, utilizzavano quell’oro lì, per mandare in guerra suo figlio. E mi ricordo che non voleva dargliela. E la casa era circa come si presentava prima del terremoto.  
Ed i fascisti lo hanno preso, e lo hanno messo in un angolo, e gli hanno dato l’olio di ricino e poi un fracco di botte, finchè mia madre si è sfilata la fede dal dito e gliel’ha consegnata, ma non si può dire certo che abbia dato volontariamente l’anello nuziale alla Patria, bensì a causa della violenza subita da mio papà. E questo lo racconto per dire che, se i fascisti gli hanno dato l’olio di ricino, era proprio un antifascista, anche se non era uno che faceva politica.

Non erano i miei genitori due che avessero molta cultura, ma avevano ambedue la quinta elementare, che era il massimo che potessero avere le persone semplici. Poi si andava ad imparare un mestiere. Mio papà aveva imparato a fare il muratore, mia mamma invece ha allevato tutti i figli sino a che sono stati grandi, e lavorava la campagna. Per dir la verità la si lavorava tutti assieme, ed avevamo anche la mucca e le pecore. Questa era la mia famiglia, ed era una famiglia numerosa. Ed in questa casa vivevano: il nonno, la nonna, uno zio che era fratello di mio nonno, mio papà, mia mamma, e noi sei figli. Qui adesso, d’estate, fa fatica a starci mio figlio, e la casa è più grande!!!!

Le comunità di allora oggi ce le sogniamo, eppure mancava tutto.

Le comunità di una volta oggi ce le sogniamo, eppure possiamo dire che allora mancava tutto. Ed oggi uno che non ha vissuto allora non può neppure immaginare in che condizioni si vivesse. E ciò non accadeva solo qui, ma nell’Italia intera. E quando sono andato a Milano, nel 1949, ho abitato in una casa ‘di ringhiera’ cioè con il gabinetto fuori casa, sulla terrazza, fino agli anni ’60 quasi. E la terrazza era lunga anche 300- 400 metri, ed era su di un piano, ma la casa non era formata da un piano solo, era di due piani. Ed ogni volta che la ringhiera girava, c’era un gabinetto esterno senza acqua. E le donne, al mattino, portavano il vaso a vuotare nel gabinetto.  Qui portavano in campagna, o vuotavano sulla concimaia, ma a Milano lo portavano nel gabinetto… Tanto è vero che mi ricordo che una volta (è un po’ una barzelletta ma è vera) una signora è andata a versare due urinali, e le amiche hanno detto: “Guarda che oggi la Lucia non ci saluta perché ha i doppi servizi!” Lei si vergognava, mentre loro ridevano ….

Comunque, per ritornare qui, in una famiglia numerosa come la nostra, c’era sempre qualcuno in gabinetto, e mi ricordo da bambino che un giorno mio nonno mi ha detto se potevo andare a vedere se mio padre aveva finito di utilizzarlo (aveva finito “Di fare quel bambin” era il suo modo di dire per intendere una defecazione difficoltosa). Probabilmente, però, erano tutti stitici perché mangiavano solo ‘roba’ solida: polenta e formaggio, patate … Allora era un’altra vita … Noi, dopo l’ultima guerra, siamo andati avanti troppo veloci, e la gente anziana è rimasta indietro, mentre i giovani hanno trovato la vita facile. Adesso però la vita è di nuovo dura … e qualcuno pagherà, io non lo so. Ma so che, quando ha raccontato, al mio ritorno a Milano, quanto avevo ascoltato una manifestazione promossa dall’Anpi di Paluzza, ho detto che noi, in Carnia siamo ancora delle persone che non diciamo che alla fine dell’anno abbiamo perso perché abbiamo avuto un introito diverso, diciamo che abbiamo guadagnato meno. È questo un modo diverso di vivere le cose. È questo un modo diverso di intendere le cose».  

Laura chiede informazioni su di un anarchico, che il signor Marzona le aveva detto abitare ad Invillino.

Il Signore misterioso che aveva la bandiera di Garibaldi … E l’inizio dell’attività di aiuto ai partigiani.

G.M. «C’era un Signore qui, che aveva la bandiera di Garibaldi. Ed è passato per anarchico, probabilmente. Ogni tanto i fascisti lo andavano a prendere, e volevano sapere dove aveva la bandiera. Lui prendeva sempre un fracco di botte, ma non diceva mai dove aveva la bandiera. Qualcuno dice addirittura che non avesse neppure il vessillo, altri invece sostengono che ce l’avesse ma che lo nascondeva in un posto dove nessuno poteva trovarlo. Era una specie di artigiano, ed aggiustava tutte le cose: gli orologi anche a pendolo, per esempio. E poteva succedere che persone andassero da lui facendo finta di portare un orologio ad aggiustare e parlassero con lui. Erano quei tre o quattro che, ai tempi del fascismo, non potevano più incontrarsi in piazza, ed allora andavano da questo signore che abitava qui, ad Invillino, nei pressi della piazza, dove c’è la discesa. Ed andavano da lui anche ‘i nostri’ (1).

Ed ad Invillino io ho conosciuto i primi partigiani, fra cui c’era anche Fermo Cacitti, Prospero (2). Ed era una sera del ’44.  E mi ricordo che allora c’era comunque una specie di Comitato del paese, che vedevo che aiutava i resistenti, ed i cui membri si incontravano al buio in una casa posta anche quella sotto la chiesa.

E per combinazione una sera sono andato lì a cercare mio papà o qualcosa, ed ho incontrato Fermo. E lui mi ha detto perché non andavo a fare la staffetta partigiana, ma io mi recavo già a portare da mangiare a quelli del battaglione Carnia, a portar loro da vestire… Mia madre infatti raccoglieva per i partigiani un po’ di vestiti civili e io li portavo su, perché i partigiani avevano vestiti militari per lo più, e con quelli non potevano muoversi perché altrimenti li prendevano. Ma allora facevo questo così: lo facevo oggi, lo facevo domani, poi non lo facevo per un po’ di tempo… poi riprendevo … E se nasceva un bambino ad un partigiano lo andavo a dire, e se avevano bisogno di medicine le portavo, ed ogni tanto portavo loro anche la polenta. E da qui a Salvins ci vuole comunque, anche per un ragazzo giovane, un’oretta ad andarci, anche se noi non facevamo grandi giri per raggiungerlo, e si andava su qui, dritti, sopra i casolari Pilùc, e si giungeva in una località detta Cuelcovon. Almeno io seguivo questo percorso, che lascia Lauco tutto a sinistra. E mi portavo sotto Vinaio e poi raggiungevo Salvins. Ora è difficile raggiungere Salvins anche a piedi perché è tutto abbandonato, ma comunque io ci sono andato più volte ed ho accompagnato anche un triestino che voleva scrivere un libro, a cui ho indicato i sentieri che si percorrevano ai tempi del btg. Carnia, e che li ha anche fotografati. E poi c’è un ragazzo di Milano, un giovane regista, che verrà qui per filmare, perché vuole fare un film che durerà almeno due ore». 

Laura chiede al Signor Giovanni se le vicende familiari abbiano pesato sul suo antifascismo.

Giovanni, antifascista contro le ingiustizie.

G.M. «Mi sono accorto di poter essere definito antifascista dopo la guerra. Io, quando divenni partigiano, ero contro la prepotenza, che obbligava gente ad andare in guerra senza sapere perché. C’erano anche quelli che andavano volontari, sapendo probabilmente il motivo per cui andavano a combattere, ma gli altri, i più, andavano in guerra senza saper il perché e non andavano volentieri. Andavano e morivano. Però quando è stato il momento di scegliere, all’ 8 settembre, hanno detto no. Ed io sono diventato antifascista e sono andato ad aiutare i partigiani perché ho pensato che quelli stavano combattendo per la libertà e ho deciso consapevolmente di dare loro una mano, e poi di diventare uno di loro.
E ho capito cosa era il fascismo perché ho fatto dei paragoni. I partigiani sono andati a fare i partigiani da volontari, mentre quelli che sono andati in Russia non sono andati certo da volontari.  

E ho capito anche che i partigiani combattevano per la loro libertà, qui, dove, dopo l’8 settembre, c’era l’Operationszone Adriatisches Küstenland, e lo si sapeva, non era un mistero. E sapevamo anche che quelli che erano tendenzialmente fascisti, quasi tutti facevano le spie. Ed ad Invillino ne avevamo qualcuno …
Per questo noi si stava molto attenti. E tutta la paura che avevamo di questi qui, dei fascisti, era collegata al fatto che potevano essere delle spie e sapevamo che se i Tedeschi, che avevano la loro sede a Tolmezzo, fossero venuti a sapere dove c’era un gruppo di partigiani, di sicuro dopo una decina, quindicina di giorni, sarebbero venuti su a cercarlo. E i tedeschi bruciavano paesi, bruciavano le case, ammazzavano. Per esempio a Chiampamano, dopo la fine del ’44, sono venuti su ed hanno bruciato case con dentro gente. Ed è morto un partigiano, un Fior di Verzegnis, che era ammalato, ed è morto dentro la casa. Però lì non c’erano osovani, nell’inverno ’44-’45, perché noi eravamo in altra zona, eravamo nella Valle di Verzegnis. (3)

Ma poi diciamocelo chiaramente: quelli che stavano bene, quelli che avevano le malghe grandi, i piccoli possessori di terreni, o altri benestanti erano quasi tutti dei piccoli fascistelli. C’era il povero cristo e quello che mangiava con facilità, e fra loro c’era una enorme differenza. E allora il partigiano dove poteva andare a prendere da mangiare, dove non ce n’era? Era obbligato ad andare a prendere da mangiare a quelli che stavano bene e che erano tutti di famiglie fascistelle. E se non erano fascistelli erano di destra, e non erano certamente in linea con i partigiani.

Se vogliamo fare un’intervista a qualcuno sui partigiani, gli dobbiamo prima spiegare che …

Per quanto riguarda quello che dicono sui partigiani, noi, quando vogliamo fare un’intervista, dobbiamo vedere se, per esempio, la famiglia di chi vogliamo intervistare ha avuto un morto in Russia, e dobbiamo fargli capire prima che non sono stati i partigiani che hanno mandato il suo parente in Russia a morire, ma che è stato il fascismo, che è stato il Re.

E poi se facciamo l’intervista a Giovanni e prendiamo solo le cose che non gli sono piaciute e le trasmettiamo, vai poi a vedere tu se chi sente quell’intervista ad un certo punto non si ‘rompe le scatole’ e chiude!    
Ogni intervista va riportata per intero, cercando le cose che più interessano, cercando di cogliere ciò che non è giusto e ciò che lo è. A me, che sono stato partigiano, non piace che parlino male dei partigiani, ma c’è qualcuno ancora, anche qui in Carnia, che parla male di loro. Ma vediamo chi sono. Sono ancora una volta i piccoli proprietari, quelli la cui famiglia aveva le malghe, quelli che invece di avere una mucca nella stalla ne avevano quattro o cinque… A casa mia i partigiani non sono mai venuti a rubare niente, perché non c’era niente.

Mi ricordo quando i partigiani erano chiamati ‘banditi’, e poi sono stato uno di loro.

Inizialmente i partigiani li chiamavamo ‘banditi’, ma allora io non ero ancora dei loro. E andavano al mulino a prendere la farina, che era un po’ di tutti, forse anche un po’ di mia madre. E il mugnaio, l’indomani, cosa diceva?  “A son vignuz i bandìts e nus han puartat vie la farine”. E il mugnaio non poteva fare nulla. Ma portavano via la farina perché avevano fame. E se uno aveva figli o parenti partigiani sapeva che doveva aiutarli. Qualcuno ora dice “Ha robat, han copat”, ma anche quando ciò è accaduto c’era una motivazione. ‘Han robat e han copat’ perché obbligati.

E qui, ad Invillino, è stata ammazzata una ragazza di 16 anni, che era una spia, ma detta così resta così: era una spia, ma chi lo dice? Ma allora avevamo le prove che lo era. Noi sapevamo che le ragazze della sua età ed anche più giovani, quando veniva su il treno blindato a Villa Santina e continuava a sparare dalla nostra parte, si ritiravano, come anche gli adulti, in casa, mentre questa ragazza andava dove c’era il treno blindato. I coetanei di questa ragazza ed anche quelli più giovani, se lo ricordano questo fatto ancor’oggi. Io, con la mamma di questa ragazza, non che sia diventato amico, però ci ho parlato tante volte. Passava di qua e voleva sapere … Combinazione è stata uccisa su là, ed io ero su là …  Quello che però non mi andava giù è stata una altra cosa, e cioè il fatto che questa ragazza l’aveva presa Mirko, l’avevano presa i garibaldini, e non so per quale motivo è andata a finire in mano a Prospero» (4).

Laura spiega che vi erano accordi tra osovani e garibaldini su chi dovesse processare una presunta spia (5), e chiede precisazioni in merito ad una intervista rilasciata da Marzona, ma scritta in forma discorsiva. In particolare gli domanda come si possa dire che in epoca fascista esisteva emigrazione stagionale, dato che le frontiere erano chiuse.

Storia di uno zio disertore nella prima guerra mondiale e di un cognato reduce di Russia.  

M.G. «Quelli che erano emigrati in Francia restavano là. Quelli che emigravano in Austria rientravano. Non erano chiusi i confini con l’Austria neppure durante il fascismo, e si poteva andare a lavorare nel Terzo Reich. Io avevo uno zio che, durante la prima guerra mondiale, sul Freikofel, non ha avuto il coraggio di sparare col fucile, ed è scappato ed è andato in Austria. E per questo era ricercato dall’Italia sia qui che in Austria, ma riusciva a continuare ad andare a lavorare nelle malghe tedesche perché in quelle italiane non poteva proprio farlo. Lui rientrava di nascosto d’inverno, e poi, appena arrivava la primavera, doveva scappare, perché era stato renitente e lo fu per tutta la vita. Beh questo mio zio andava a lavorare in Austria, certo di nascosto, e così manteneva la sua famiglia. Ed anche quelli di quei paesi sopra Paluzza andavano di là a lavorare, ed anche altri della Carnia, e ci andavano tranquillamente. Si facevano accompagnare con il carro, non so, fino a Sappada, e poi entravano in Austria.  Poi è nata l’Operationszone Adriatisches Küstenland.

E la resistenza si è organizzata fondendo gruppi di sbandati che si trovavano uno qui uno là, nel 1944.  E mio cognato, il fratello di mia moglie, che era nato nel 1916 e aveva fatto la guerra di Russia dove era stato ferito sulla fronte e da cui era riuscito a tornare vivo a casa, è andato con i partigiani osovani, ed era a Pielungo nel ‘44. (6). Però la crisi che ne seguì non ha avuto riflessi sul battaglione Tagliamento, quello che d’inverno era in valle di Verzegnis, e per quanto riguarda il btg. Carnia, vi furono solo dei disguidi al comando». (7).

Vita partigiana durante la Zona Libera.

Quando sono nati qui i Comitati di Liberazione Nazionale della Zona Libera, di cui conoscevo alcuni esponenti: Mazzolini Guido che era di Invillino, Pellizzari di Villa Santina ed un altro che era di un paese vicino a Sutrio, io era già partigiano e tenevo i collegamenti per gli osovani del btg. Carnia, di cui facevo parte, e li ho tenuti tutta l’estate del 1944. E noi non abbiamo mai mollato e dovevamo mantenere anche i nostri confini della Zona Libera. Ed a Promosio era dura, perché lì venivano giù i nemici da tutte le parti. Controllare e tenere i confini verso il Cogliàns era più facile, ed è lì che ci siamo organizzati, perché altrimenti la Carnia non avrebbe potuto essere libera. Ed esistevano allora anche collegamenti fra di noi osovani. Si potrebbe dire, invece, che ce n’erano meno nella primavera, quando hanno incominciato a mandarci i lanci, a mandarci giù le cose. E anche se i lanci inglesi erano per noi, non prendevamo tutto, e io mi ricordo che abbiamo distribuito armi anche a quelli della Garibaldi.

E quelli come me venivano giù dalla montagna per tenere i collegamenti, ma se mi avessero beccato avrei fatto una brutta fine. Ed è facile dire: se fossi stato io non avrei parlato. E se avessi parlato io, avrei potuto dire tante cose che sapevo: chi erano i partigiani, chi erano i comandanti, chi faceva parte del Comitato di Liberazione … Sarebbe stata dura. Probabilmente prima di cadere nelle mani del nemico mi sarei ammazzato. Però tra il dire ed il fare…».

Laura chiede se si ricorda quando i tedeschi sono saliti alla base di Salvins, accompagnati da uno che conosceva il luogo, forse dopo aver ricevuto una spiata.

G.M. «Quando sono venuti su, quella volta lì, era il mese di luglio, e mi ricordo che ero lì. E non sono arrivati da Vinaio, sono arrivati da Buttea, sono arrivati dall’alto, e noi, che si scappava sempre per la Valle di Lauco quando c’era da scappare, per un pelo non siamo caduti nelle loro mani. Ma quella volta siamo fuggiti per la via bassa, siamo scappati per Runchia. E non eravamo in molti, eravamo in 25 o 30, allora, alla base di Salvins. Il battaglione Carnia, però, aveva anche un piccolo distaccamento sopra Lauco, in località Allignidis, e lì c’erano altri 20 – 30 partigiani, o forse anche meno, e poi c’era un gruppo a Lauco e poi un altro a Cuelcovon, sopra Villa Santina. Ma non eravamo in molti, non eravamo in mille, eh, bisogna valutare bene le cose. E poi avevamo un altro gruppo sopra le miniere (8).

Il gobbo di Priola e lo zingaro di Tolmezzo.

Quando ero partigiano, chi ci insegnava qualcosa, era uno di Formeaso, che aveva come nome di battaglia Carlo ed era un Leschiutta (9), che è andato, nel dopoguerra, a lavorare a Padova. Poi è rientrato in Carnia, ed è morto una decina di anni fa, forse. E conoscevo anche Albino Venier, Walter, ed eravamo insieme. Lui era di Zuglio. E ho conosciuto pure i suoi fratelli, Luigi ed Emidio, che poi faceva l’infermiere a Tolmezzo.

Io avevo i contatti con uno che faceva il sarto, un gobbo, che aveva la sartoria nel paesino di Priola, nella piazza. Lì c’era una fontana e sulla sinistra c’era questo sarto da cui andavo a portare e prendere notizie. Perché io non avevo bigliettini da ricevere o dare, ma si comunicava a voce. E io dicevo: “Succede così e così”, e lui mi diceva che era venuto da lui tizio e gli aveva detto questo o quello. E lì arrivavano anche altre staffette.

E andavo anch’io da altre parti: per esempio dagli zingari che erano a Tolmezzo, dietro la Cartiera, e da loro andavo solo io. Mi ricordo che c’era uno più anziano di altri, che si chiamava Toni, che poi l’ho incontrato di nuovo a Milano, addirittura. Ho visto questo uomo da dietro e ho pensato: quello lì è Toni, ma non mi ricordavo dove lo avevo già visto. Così mi sono avvicinato e l’ho chiamato: ‘Toni!!!’ E lui si è girato e ci siamo abbracciati, ma erano forse passati trent’ anni!  E questo zingaro, probabilmente aveva dei contatti con altre persone, e mi ricordo che mi diceva: “Sta atent, e fa cussì e cussì!”

L’arrivo dei cosacchi.

E quando sono arrivati i Cosacchi, il primo a sapere che questa armata stava arrivando, è stato Toni, lo zingaro. È lui che mi ha detto che stavano giungendo, che Amaro incominciava ad essere pieno di russi, e dopo questa notizia ho incominciato ad andare più spesso ad incontrarlo. E lui con questi cosacchi, che erano mezzi ‘zingari’ anche loro, probabilmente aveva dei contatti … E quando mi ha detto che stavano arrivando, l’ho fatto sapere a tutti. E mi ricordo che l’ultima staffetta che ho fatto per avere informazioni sui cosacchi, l’ho fatta proprio il giorno in cui sono giunti. Allora mi trovavo al ponte di Avons, verso Cavazzo, dove noi osovani avevamo un posto di guardia da cui si controllava tutto il ponte e l’attraversamento del fiume. E mi ricordo che avevo tante biciclette in giro, per spostarmi. e ne ho presa una e sono andato a Cavazzo. E lì ho gridato per il paese che arrivavano i tedeschi, perché non si percepivano ancora i cosacchi con i carri, ed ero convinto che ci fossero solo i tedeschi. E c’era tutta una fila che veniva qua dal Tagliamento, perché il ponte era saltato.

E a Ceclans c’era uno che era un po’ un attendente, e che si chiamava Deotto Enore, e l’ho informato di cosa stava accadendo, e poi gli ho detto anche che dovevano arrivare i cosacchi, un gruppo dei quali è venuto su dal lago di Cavazzo il giorno dopo.

Mi ricordo che da Cesclans, per andare alla Valle di Verzegnis, c’è un sentiero che parte da dietro il paese. E il primo borgo abitato che si incontra percorrendolo in salita, è Doebis, e poi si raggiunge la valle di Verzegnis. E lì i russi sono arrivati il giorno dopo, e li abbiamo mandati indietro una prima volta. Prima di arrivare alla valle di Verzegnis c’è un curvone grande, da cui si può sparare.

E quando i Russi si sono sistemati qui, c’è stato un periodo in cui mancava per tutti la roba, e allora i partigiani sono stati costretti a ‘rubare’ per mangiare. Non potevano scendere al paese, ed allora andavano dal primo montanaro e dicevano che doveva dar loro qualcosa per sfamarsi.
Io sono stato fortunato in Val di Verzegnis, perché c’era una donna che mi voleva bene, che conosceva mia mamma, e che mi dava qualcosa. Andavo giù, e facevo anche due ore con il gerlo sulla schiena, e lei mi faceva la polenta e la portavo su a tutti. E questo accadeva nell’inverno 1944. Ma quando noi avevamo il cavallo da mangiare, dato che sapevamo che i contadini non avevano carne, io gliene portavo un bel pezzo, e lei mi dava la polenta. Ma era solo polenta, non mi dava anche il formaggio! Forse dava a me un pezzetto di formaggio, e un po’ di polenta lì, perché se arrivavo dai partigiani che stavano con me con la polenta, non so se me ne avrebbero lasciato un pezzetto, tanta era la fame che avevamo! Era tale la fame, che appena aprivo lo zaino la polenta era già finita.

Quando ero in val di Verzegnis, durante l’inverno, non è che ci si potesse muovere tanto, non era che la staffetta avesse la libertà di movimento che aveva nella primavera – estate ’44 o nella primavera del ’45. Infatti durante l’inverno, come potevi far la staffetta con due metri di neve? Dove andavi? Si andava a prendere le notizie, per carità, non aspettavamo certo che arrivassero. Per esempio partivo dalla valle di Verzegnis ed arrivavo a Villa di Verzegnis, dove c’era un altro personaggio del Comitato di Liberazione, forse un Pecol, che ci informava. Andavo di notte, bussavo, e poi mi nascondevo finché non compariva. E mi diceva, per esempio: “Quelli dicono che … Ho ascoltato radio Londra e dicevano …” Ma mi diceva anche di cercare di avere pazienza. E anche gli alleati consigliavano, se possibile, di tornare a casa, di nascondersi da qualche parte, perché sapevano che eravamo senza cibo, senza niente.

Noi avevamo la base nella malga di Mont Grande, e poi, nell’inverno, siamo scappati più su, siamo andati a quella che chiamavano ‘Casera Rossa’, finchè mi sono ammalato».

Laura dice che molti partigiani si ammalarono per le proibitive condizioni di vita, e spesso delle stesse malattie: gastriti, coliti, diarree, malattie polmonari e dell’apparato respiratorio, a causa della scarsa e pessima alimentazione e del freddo. 

Note di vita vissuta nella guerra di Liberazione.

G.M. «Si mangiava sempre la stessa cosa. Noi, per esempio, si mangiava solo carne di cavallo, ed alla fine avevo la pellagra. E la pancia era piena di pidocchi. E, per tirarseli via, ci si spidocchiava, ma alla fine ce n’erano tanti che ti mangiavano. E mi ricordo che avevo un fil di ferro per tener su i pantaloni, e dove lo stringevo mi era venuta quasi una piaga. E poi con cosa ti pulivi il sedere? Con la neve, ma la neve è quasi un cristallo, e ti faceva … Meglio non parlare di queste cose. La vita era dura. E io mi ricordo pure un ragazzo, che era come me, che conoscevo bene e che avevo incontrato su a Mont di Rest. L’hanno preso i tedeschi, lui non ha parlato, e allora lo hanno scalpato e lo hanno attaccato ad un camion, e poi lo hanno tirato in giro per il paese, ed è morto. Aveva il nome di battaglia di uno dei sette nani, si chiamava Mammolo».

Laura dice che Romano Marchetti raccontava che era un problema anche fare i bisogni, perché restava la traccia e l’odore, ed allora bisognava utilizzare delle precauzioni. Ed anche Marzona concorda.

«E quando arrivava su qualche persona che noi non conoscevamo, soprattutto nell’estate del ’44, ai tempi della Zona Libera, non ci si poteva fidare. Arrivavano su, in montagna, anche repubblichini in abiti civili che dicevano di voler fare i partigiani, dicevano che non ne potevano più e consegnavano le armi, ma potevano benissimo essere spie. E noi di questi avevamo paura. E così per i primi 15 giorni non li mollavamo neppure un secondo. Anche quando uno di loro andava a far la cacca, lo seguivamo, per vedere dove andava, se faceva qualche segnale. Ed a questi nuovi arrivati era proibito andare sulle cime, dove qualche segnalazione si poteva inviare facilmente, e per 15-20 giorni non venivano mai mollati, neppure di notte. E questo perché bastava che uno accendesse qualcosa di notte per fare un segnale, per indicare la nostra posizione. Bastava una cosa da niente… E avevamo paura.

A me è capitato di rado di avere paura, perché ero un ragazzino, ma quando mi mettevano di guardia di notte, per esempio se si era in pochi e bisognava fare il giro, allora avevo paura … E mi dicevano: “Dai Giovanni, fai un turno anche tu”, e io dicevo di sì, e mi davano il fucile, perché io non lo avevo, avevo solo una pistola. E stavo lì ore, e avevo paura, perché se sentivo un rumore non sapevo se dare l’allarme o meno. E una volta mi è capitato di sentire un rumore e volevo sparare, ma poi mi sono detto: “Ma no, aspetta ancora un momento, Giovanni”. E aspetta un momento ed ancora un momento, infine è passata una volpe od una lepre. Per fortuna che non ho sparato. Perché se spari metti in allarme tutti i partigiani che sono a dormire, e vien fuori un casino. Sembra una stupidaggine, però te la fai addosso … Finchè non senti rumore va tutto bene, ma quando incominci a sentire anche un rumorino da niente …».

Partigiano a Salvins con Barba Livio o Livio che dir si voglia.

Laura chiede a Marzona come fosse Romano Zoffo, Livio, Barba Livio.

G.M. «Barba Livio era una brava persona, ed era molto cordiale. Per me è stato come fosse mio papà. Io non volevo quasi diventare partigiano, io volevo solo aiutare i partigiani, perché per me il partigiano era una persona straordinaria, che rischiava la vita per la libertà. Ma quando Barba Livio mi ha detto: “Dai, stai con noi, che ti facciamo fare cose più importanti che venir su a portare calzini, o tenere i contatti con una famiglia o con un altro gruppo”, mi ha convinto. Perché succedeva che, amici di qui e amici di là, tenevo i contatti fra gruppo e gruppo. Ma dopo, invece, mi hanno dato da fare anche cose pericolose, che se ti prendevano…  Barba Livio su questo punto è stato chiaro con me, e mi ha detto che loro si fidavano di me, ma che però era rischioso fare il partigiano. E la prima volta ho detto di no, e credo di aver detto che avrei chiesto a mia mamma cosa fare … ma Livio mi ha detto che dovevo decidere io … Comunque per me parlare di Livio e di Salvins è parlare della storia d’Italia».

Laura dice che però era pericoloso anche tenere contatti così con i partigiani, ed ad un certo punto certamente gli era convenuto unirsi a loro, perché era troppo esposto ed anche troppo esposta la famiglia. 

G.M. «In effetti, poi, da partigiano, io dalla mia famiglia non sono andato quasi mai, fino al mio ritorno. Solo quando andavo dallo zingaro e ritornavo indietro da Tolmezzo, attraversando il But dopo l’ospedale o forse più in basso, (dove una volta sono stato ferito), percorrevo un sentiero che portava a casa mia.
Sale non ce n’era per nessuno, e magari quello zingaro mi dava un pacchetto di sale per i partigiani. E allora lasciavo sulla finestra della mia casa, che aveva, come adesso, le inferriate, un cucchiaio di sale per mia madre, ma mi sentivo in colpa e mi pareva di aver fatto un furto. Comunque io fregavo ai partigiani, su un mezzo chilo di sale, un cucchiaio, che mettevo su di un pezzettino di carta per la mamma. Non la chiamavo, era troppo pericoloso, ma, quando trovava quel po’ di sale, sapeva che ero ancora vivo.  Ed era anche come darle un segnale.
Invece non mi sono mai permesso di prendere un po’ di tabacco per mio papà. Sapevo che il sale era una cosa indispensabile, il tabacco era invece un vizio. E io non fumavo. Altri della mia età sì, ma io no.

E mi ricordo che una volta a casolari Vinadia, dove incomincia un sentiero che sale alla forra, ero riuscito ad avere quattro o cinque litri di benzina, che non ce l’avevi neanche a morire. E noi a Salvins avevamo una moto, che avevamo sequestrato a uno che conoscevo e che era un garibaldino. E lui ne voleva un po’, ma io gli ho detto che la moto ce l’avevamo noi, e che se gli serviva, poteva venir su a prenderla. E lui: “Se tu non mi dai la benzina non passi di qua”.  È stata dura.

E a Salvins c’era l’intendente Carlo/Leschiutta, che aveva la fidanzata a Vinaio. E noi avevamo delle regole da rispettare. Per esempio nessuno poteva andare in giro da solo. Il Leschiutta, che ai tempi della zona libera andava a trovare la fidanzata, poi diventata sua moglie nell’ inverno ’44, veniva accompagnato da me, ed io lo aspettavo fuori, in sintesi facevo la sentinella ed il palo! E la giovane aveva una sorella di 14 anni, e anch’io le facevo il filo!!!!  Cioè io e lei si giocava, così … 

E mi ricordo pure che allora avevamo la parola d’ ordine, e la si cambiava quasi ogni settimana, anche se non eravamo in tanti a conoscerla. E non c’era solo la parola d’ordine fra osovani, c’era anche quella fra osovani e garibaldini, nei posti di guardia.

Donne organizzate in cerca di cibo ai tempi della Zona Libera di Carnia.

Le donne per sé e la famiglia andavano a prendere qualcosa per mangiare in Friuli, e io le collego a quelle che portavano armi e altro nella guerra ’15-‘18. Inoltre le nostre donne carniche sono particolari, capiscono, come del resto gli uomini, i sacrifici degli altri, ed hanno un comportamento diverso da quelli di altre città o valli. Io per esempio conosco donne delle valli del bergamasco, che vengono trattate peggio di come trattavano le donne i nostri genitori.

E le nostre donne, ai tempi della Zona Libera, quando ritornavano dalla furlanìa con il frumento che erano andate a prendere, con l’aiuto e l’organizzazione dei partigiani, passando per passo di Rest, lo distribuivano a tutte le altre donne, alle altre famiglie. Le donne non facevano questi viaggi solo per sé, ma per tutti. Un po’ di frumento lo prendevano i partigiani, ma più del 50% andava distribuito a chi non ne aveva e non aveva possibilità di recarsi a prenderlo.

E con i collegamenti che avevamo, non era che se tu andavi in Friuli, il frumento lo trovavi subito. Dovevi andare giù, fino a Tramonti e Meduno. E da Mont di Rest a Meduno noi partigiani avevamo dei camion che andavano a gasogeno, che si produceva con la legna, ed anch’io andavo con altri per aiutare a recuperare il frumento e portarlo in Carnia. In particolare mettevo l’acqua e la legna, che non doveva essere secca ma umida, che serviva per l’autista, in modo da non far perdere tempo.  Per produrre gasogeno, infatti, non serve legna secca perché non produce gas. E quindi nei paesi il frumento veniva distribuito a chi non aveva possibilità. E facevo anche tutto questo lavoro. Ma vi era anche allora qualche donna che non entrava nell’ organizzazione, e portava in Friuli le sue lenzuola, i suoi beni, la sua croce d’oro, e li barattava.

Noi partigiani non volevamo alimentare i fascisti ma alimentarci e combatterli.

Noi partigiani non volevamo che il formaggio andasse in mano ai tedeschi, e quello di andare a prenderlo nelle latterie era un modo come un altro per tenercelo, per distribuirlo alla popolazione e alimentarci. E non volevamo neppure che la gente della valle od i rappresentanti di valle avessero contatti con i fascisti, per scambiare, per esempio, legname con farina. Noi non volevamo avere nessun contatto con i fascisti: noi volevamo combattere il fascismo, non aiutarlo. Noi non volevamo avere questo tipo di scambi. Uno scambio con i fascisti poteva avvenire per un prigioniero importante, ma non in altri casi. Qui saranno stati fatti 4 o 5 scambi di prigionieri, non di più, mentre può darsi che in Lombardia e Val d’Aosta il numero fosse stato maggiore.  E non si può dire che la vita era durissima, si può dire che la vita non c’era.

E mi ricordo che dopo che erano arrivati i cosacchi, durante uno dei giri che facevo, sono andato in una località sopra Amaro, dove c’è una malga. E lì ho incontrato due di Invillino. E uno di loro aveva fatto una specie di grappa facendo fermentare le foglie del faggio, e quello lì, dopo averne bevuto un bicchierino o poco più, quasi crepava!!! E abbiamo dovuto portarlo di corsa all’ospedale di Tolmezzo. E c’era una partigiana osovana che si chiamava Maria Marzona (10), che era figlia del dott. Marzona, che abitava vicino all’albergo Stella d’oro. So che, dopo la fine della guerra, ha incominciato ad insegnare come maestra. Mi ricordo che era una mora … Ed era questa Maria che aveva i contatti con l’ospedale di Tolmezzo. Però questo partigiano abbiamo dovuto portarlo noi a piedi all’ospedale, di notte, e poi abbiamo dovuto metterlo in cantina, dove è stato curato. Infatti Maria Marzona aveva organizzato con un medico di Verzegnis che si chiamava Marchianò, un servizio di aiuto, e lo abbiamo salvato.

E a Salvins c’era l’ intendente Carlo/Leschiutta, che aveva la fidanzata a Vinaio. E noi avevamo delle regole da regole da rispettare. Per esempio nessuno poteva andare in giro da solo. Il Leschiutta, che ai tempi della zona libera andava a trovare la fidanzata, poi diventata sua moglie nell’ inverno ’44, veniva accompagnato da me, ed io lo aspettavo fuori, facevo il palo! E la giovane aveva una sorella di 14 anni, e anch’io le facevo il filo!!!!  Cioè io e lei si giocava, così ….

E penso anche al coraggio che ha avuto Livio di andar a chiedere la resa ai cosacchi, a fine guerra. Questi cosacchi ne avevano combinate di cotte e crude, e un personaggio come Barba Livio certamente sapeva com’era la loro storia, sapeva che erano dei poveri cristi, pieni di paura, dei zaristi che vivevano al soldo di chi li comandava … E ora dicono che sono stati distrutti … ma Putin dice che non è stato il suo esercito in Crimea a sterminarli, e comunque ciò vuol dire che questa grande armata quando vuole trova spazio e si riforma. E non era un popolo ma un insieme di vari gruppi che veniva da varie parti della Russia, e che andavano a combattere quando venivano chiamati. E quando ciò accadeva, la storia dice che questi qua si muovevano con la moglie ma non portavano con sé i bambini, almeno ho letto così. E se la moglie era incinta, mettevano la donna con la pancia per aria, e prendevano un pezzo di legno e picchiavano sopra finchè non moriva il bambino. Questo ho sentito raccontare, ma non so se sia vero. E per i loro capi, Krassnov e gli altri, erano solo schiavi che venivano pagati per andare a fare la guerra. Ed erano contro la rivoluzione russa, avevano combattuto contro. Erano stati per molti anni l’esercito dello czar, a pagamento. E quando si sono ritirati da qua, non hanno voluto consegnarsi ai partigiani perché temevano che li avrebbero consegnati ai russi, mentre volevano consegnarsi agli Inglesi, che poi li hanno consegnati realmente ai russi (come da accordi internazionali ndr). E secondo me i tedeschi hanno mandato in Carnia i cosacchi perché non sapevano dove mandarli».

Poi il mio rientro a casa nel gennaio 1945 …

Poi nel gennaio 1945, il rientro a casa dalla Val di Verzegnis. E se non era uno scherzo battere Hitler, non lo era neppure ritornare a casa per noi partigiani. Io sono rientrato dalla Valle di Verzegnis nel gennaio 1945, perché mi ero ammalato, e un altro partigiano mi ha accompagnato sino al di qua del fiume … E ho raggiunto casa. E lì dove c’è quella porta ed il camino, allora c’era un muro, e i russi mi hanno buttato contro il muro, ed io sono scappato di corsa, e sono andato in un’altra casa. Salvare o non salvare la vita, allora, era questione di un attimo».

Laura Matelda Puppini

1- Qui per ‘ i nostri’ presumibilmente Marzona intende i partigiani osovani.

2- Fermo Cacitti, nome di battaglia Prospero fratello di Bruno Cacitti, Lena, nato a Caneva di Tolmezzo il 16 ottobre 1914, da Giovanni Bartolomeo e Chiapolino Regina. Tenente degli alpini, sposò, il 30 dicembre 1937, Silvia Damiani e spostò, il 3 gennaio 1942, la propria residenza a Villa Santina. Salì in montagna con il fratello, dopo essersi recato, anche a nome di questi, a Pielungo per associarsi alla brigata Osoppo/Friuli, entrò a far parte del btg. Carnia, comandato da Barba Livio, a cui fu fedele come Carletto Chiussi. Dopo l’allontanamento di Livio, Fermo Cacitti andò con il btg. val But. Prospero svolse sia attività come intendente sia come delegato politico in seno al btg. Carnia, e varie mansioni con il Val But. Dopo la Liberazione, emigrò in Venezuela ove lavorava pure come gruista. Negli anni ’70, durante un lavoro di carico, la benna di un mezzo meccanico lo colpì alla schiena, rendendolo invalido per sempre. Morì a Caracas il 10 febbraio 1985. Di carattere introverso e piuttosto facile ad alzare le mani, se si crede a quanto narra Giacomo Leschiutta, nome di battaglia Carlo, venne, a suo avviso, consigliato di lasciare l’Italia dal fratello, maresciallo degli alpini. Sia per Romano Marchetti che per Giacomo Leschiutta, Prospero veniva talvolta travolto dall’ira e diventava violento per poi, secondo Marchetti, accasciarsi quasi senza forze. Lechiutta afferma, pure, che egli fu fatto segno di azioni che potremmo definire intimidatorie, presso l’osteria Fossâl di Lauco. (Fonti: Romano Marchetti e Giacomo Leschiutta, La resistenza sul massiccio dell’Arvenis, Amaro 2006, pp. 10 – 11). (Scheda Laura Matelda Puppini, pubblicata in. Romano Marchetti, a cura di Laura Matelda Puppini, Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, Ifsml, Kappavu ed. 2013, p. 382).

3- Nella cartina pubblicata da Mario Candotti in Prima fase dell’offensiva tedesca contro la zona libera della Carnia e del Friuli – Operazioni militari nella zona carnica: 8 ottobre – 20 dicembre 1944, in Storia Contemporanea in Friuli, ed. a cura I.F.S.M.L. 9, 1980, p. 224, relativa alla postazione dei partigiani il 7 ottobre 1944, risultano in zona Verzegnis, un gruppo del btg. Carnia, come dice Marzona, in zona che potrebbe essere la val di Verzegnis, (postazione siglata con il n. 11 nella cartina) ed il btg. Friuli della Garibaldi più a sud (postazione siglata con il n. 7 nella cartina).

4- Secondo Romano Marchetti la giovane fu processata dagli osovani e condannata a morte. Quindi vennero raccolti dei fuscelli, e chi, fra i partigiani, avesse preso il più lungo sarebbe stato il giustiziere, dato che non si poteva usare un plotone d’esecuzione. E la sorte scelse Prospero.

5- Laura spiega che vi erano degli accordi precisi, e che Giorgio Gurisatti, che era partigiano osovano ma non in Carnia, raccontava che uno, di nome Tamuk, che era stato un bravissimo cuoco, stava poi fuggendo con la mappa delle basi partigiane osovane ed era stato fermato e catturato dai garibaldini, che lo avevano poi consegnato agli osovani che lo avevano processato e quindi ucciso. (Giorgio Gurisatti (Ivo) Nel verde c’è la speranza, A.P.O. Ud., 2003, pp. 70 – 73). Insomma anche su chi doveva processare una spia c’erano degli accordi. E a Tolmezzo, per esempio, un parente lamentava la morte del pittore Dante Morocutti, che però, da quanto era emerso durante il processo ai garibaldini che lo avevano giustiziato, era stato trovato con la mappa delle basi garibaldine nell’ ampezzano mentre si dirigeva verso i tedeschi. (“Ritenuto una spia da un Tribunale partigiano fu subito giustiziato a colpi di pistola” in: Il Gazzettino, 11 maggio 1954, “Uno schizzo planimetrico compromise il giovane fotografo”, in Messaggero Veneto, 11 maggio 1954). E queste persone risultavano pericolose come ogni spia in ogni guerra, tanto che il bollettino del C.I.N.P.R.O., centro in mano agli alleati con sede presso il tempio Ossario di Udine, pubblicava periodicamente l’elenco delle spie da segnalare ed eliminare, e dei presunti tali.

6- La formazione Osoppo, del Corpo Volontari della Libertà, nacque da un accordo, siglato al Seminario di Udine il 14 febbraio 1944, tra il Partito d’Azione e la Democrazia Cristiana. Essa pose la sua prima base ed il comando presso il castello Ceconi, a Pielungo, che i tedeschi assaltarono di sorpresa il 19 luglio 1944, e diedero alle fiamme. L’ impreparazione a difendersi da parte degli osovani, creò una crisi interna che ebbe moltissimi riflessi negativi, tra cui la rottura dell’accordo con la Garibaldi per fare un comando operativo unico, dopo la ripresa del potere, con un vero e proprio golpe, diremmo oggi, da parte di Candido Grassi Verdi e don Ascanio De Luca, Aurelio, e della componente di fatto filo- democristiana, che trascinò anche Livio lontano dal suo battaglione.

7- Nel merito cfr. Laura Matelda Puppini, Barba Livio, il battaglione Carnia, e la crisi di Pielungo, in Romano Marchetti, op. cit., pp. 355-368.

8- Presumibilmente sopra la miniera di Fusea, sopra Chiassis, non sopra Cludinico. Sembra poi, come narratomi da Primo Blarzino, che inizialmente il battaglione Friuli della Garibaldi, comandato da Mirko, si trovasse a Lauco, nella zona detta ‘sopra la colonia’, ma poi si era spostato a Cuelcovon, per poi andare a finire in zona Raveo. Inoltre una via di fuga dagli accerchiamenti, indicata dal Blarzino ai partigiani del btg. Friuli, era anche quella che portava sul monte Forchedana (anche Forchedane) e quindi alla cosidetta ‘Piera centenaria’.

9-Si tratta, verosimilmente, di Giacomo Leschiutta, nome di battaglia Carlo, l’autore del libretto: La resistenza sul massiccio dell’Arvenis, Amaro 2006.

10- Maria Marzona, partigiana osovana, viene anche citata da Flavio Fabbroni nel suo: Donne e ragazze nella resistenza in Friuli, Quaderni della Resistenza n. 15, ed. a cura del Comitato Regionale dell ‘Anpi del Fvg., 2012, p. 106. Maria era nata a Verzegnis il 25 marzo 1925, e risulta partigiana dal 27 agosto 1944 all’ 8 maggio 1945.

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Intervista a Giovanni Marzona. Invillino di Villa Santina, 29 agosto 2017. Mediatore Cristina Martinis, che sentitamente ringrazio. L’ intervista è stata trascritta e curata da me, Laura Matelda Puppini. Il sig. Giovanni Marzona non ha visto la trascrizione, per approvazione, perchè non so come raggiungerlo, ma essa è fedele ed ho solo modificato talvolta un verbo, o la forma. Giovanni Marzona, dopo la guerra, si è trasferito a Milano, dove ha iniziato a lavorare come antennista fino all’assunzione in Rai, dove si è impegnato sia a livello professionale che sindacale. Residente a Quarto Oggiaro, è noto pure per il suo spendersi nelle attività sociali del quartiere e come presidente della locale sezione dell’Anpi. Nel dicembre 2017 ha ricevuto l’attestato Ambrogino d’oro. (http://ilmirino.it/2017/12/11/benemerenze-civiche-festivita-santambrogio-2017/).

L’immagine che accompagna il testo mi è stata data dal signor Giovanni Marzona, e lo ritrae, il 25 aprile 1954, in una foto ricordo dei tempi andati, in cui lottava con altri per la libertà e la democrazia.

Laura Matelda Puppini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gino Strada, premio “Sunhak peace”: Against war. Riflessioni in occasione del Natale 2017.

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Pongo queste righe come riflessione per il Natale, perchè, quando diciamo che è festa di pace, ci ricordiamo che la pace non esiste per tutti, e che se il mondo vuole avere prosperità, non può andare avanti così. Ed inizio con questo breve comunicato, dal sito di Emergency, che parla di un bambino, a cui la vita è stata negata dalla guerra, come a tanti altri bambini, donne, uomini.

Afganistan, 23 novembre 2017.  NON DOVEVA SUCCEDERE.

Attraverso la finestra della sala delle medicazioni vedo le foglie muoversi nel vento. Ci siamo spostati lì per farlo morire in pace. Ma quella che doveva essere l’ultima carezza per accompagnarlo fino alla fine, è diventata un momento infinito.
Un solo desiderio: che finalmente si lasciasse andare, che si arrendesse. Io e Samiullah, l’infermiere con cui lavoro, siamo uno a destra, l’altro a sinistra del letto. Senza poter far nulla. Teniamo una mano appoggiata su quel piccolo corpo per non farlo sentire solo. Si è aggiunto anche Padshah, un nostro collega infermiere, in silenzio. Le foglie continuano la loro danza nel vento. Non mi ricordo nessun rumore, nessun altro intorno.

Ma il bambino non vuole arrendersi, quel cuore non si vuole fermare. Spostiamolo, non si sa quanto continuerà a combattere. Tutto quello che posso fare è somministrare farmaci per alleviare il dolore e sperare con tutta me stessa che faccia veramente effetto. Nient’altro.
E te ne convinci perché altrimenti non resisteresti. Prima di portarlo via, prima di farlo scomparire tra tende bianche e letti bianchi, facciamo entrare il padre.
Chiede aiuto con gli occhi, in silenzio. Combatte contro le lacrime e anche se subito non scendono, macchiando le sue guance polverose, perde quella battaglia inutile. Sono rossi. Sono lucidi. Mi guardano mentre ascoltano la voce di Padshah che spiega che non c’è più nulla da fare. Che non potevamo neanche provarci. Perché ogni tanto le mine non lasciano nulla da salvare. E lui guarda me, guarda loro, guarda la piccola creatura che giace davanti a lui. Guarda il suo bambino di quattro anni e scuote la testa. “Non doveva succedere questo, non doveva succedere”.

Quella maledetta mina gli ha portato via le gambe e gli ha distrutto la pelvi. Il cuore però continua a battere. E così i minuti passano, nel silenzio, tra quelle lacrime di dolore soppresse. (https://www.emergency.it/blog/dai-progetti/non-piangere-non-piangere-davanti-lei/).

Gino Strada. Premio Sunhak Peace” – febbraio 2017 – Against war.

Il fondatore di Emergency Gino Strada ha ricevuto il premio Sunhak peace 2017, un riconoscimento nato a Seul, capitale della Corea del Sud, nel 2015 che viene assegnato ogni anno a persone o personalità che hanno contribuito a sviluppare e diffondere la pace nel mondo e migliorare la qualità di vita dei suoi abitanti. Un premio e uno strumento per contribuire alla ricerca di una soluzione pacifica al più grande flusso di rifugiati dalla Seconda guerra mondiale. Non è un caso che proprio nel 2015, anno di nascita del Sunhak, oltre 65 milioni di persone abbiano abbandonato, spesso senza possibilità di scelta, le proprie case a causa di guerre, persecuzioni e violenze.

Perché è stato premiato Gino Strada

Tra le motivazioni che hanno portato il comitato del Sunhak a scegliere Strada ci sono “le cure offerte in prima linea alle vittime dei conflitti” e “la difesa dei diritti e della dignità delle persone attraverso la garanzia del diritto alla cura”. E ancora “l’impegno culturale contro la guerra e per la messa al bando delle mine antiuomo”. Dal 1994, infatti, Emergency ha garantito l’accesso gratuito e indiscriminato a otto milioni di persone di 17 paesi che avevano bisogno di cure medico-sanitarie. Insieme a lui, anche la dottoressa Sakena Yacoobi per aver “sviluppato programmi educativi innovativi”, ovvero l’Afghan institute of learning da lei fondato e che finora ha offerto educazione e cure sanitarie a oltre 13 milioni di rifugiati. (http://www.lifegate.it/persone/news/gino-strada-premio-sunhak-peace). Il premio “Sunhak Peace”, è stato consegnato a Gino Strada, chirurgo e cofondatore di Emergency, il 3 febbraio 2017 a Seul, nella Corea del sud.

 Questo è il discorso di accettazione del Premio “Sunhak Peace” da parte di Gino Strada

«Signore e Signori,
È un onore per me ricevere il Premio Sunhak per la Pace, soprattutto in tempi come quelli odierni, sempre più segnati da guerra e violenza e in cui ogni messaggio di pace è percepito come irreale ed utopico.

Desidero ringraziare il Rev. Sun Myung Moon ed il Dr. Hak Ja Han Moon per aver dedicato la propria vita al raggiungimento della pace universale e alla promozione dei valori fondamentali della pace, del dialogo e della cooperazione nel nome della famiglia umana. Oggi più che mai, urge la necessità di costruire un mondo migliore per le generazioni future e di creare le condizioni per una pace sostenibile.

Ho potuto vedere le atrocità della guerra ed il suo impatto devastante coi miei stessi occhi. Ho trascorso gli ultimi trent’anni della mia vita in Paesi dilaniati dalla guerra, operando pazienti in Ruanda, Perù, Etiopia, Somalia, Cambogia, Iraq, Afghanistan e in Sudan. In questi e in altri Paesi, Emergency – l’organizzazione umanitaria che ho fondato 23 anni fa – si impegna a fornire assistenza medico-chirurgica gratuita e di alta qualità alle vittime della guerra – guerra i cui effetti non si limitano ai rifugiati e ai feriti, ma hanno gravi ripercussioni sul futuro di intere generazioni.

Molti dei conflitti che ad oggi affliggono tali Paesi, riducendo le loro popolazioni a una vita di fame e miseria, sono spesso non dichiarati o deliberatamente taciuti. I massacri però continuano ad aumentare, tanto che ormai è diventato difficile ricordarli tutti. Per la maggior parte di noi, tali eventi appaiono così lontani ed estranei alla vita quotidiana: è facile ascoltare i notiziari, senza però rendersi conto che per ogni bomba, per ogni colpo di mortaio, ci sono persone che lottano per sopravvivere. Il novanta per cento delle vittime delle guerre dei nostri tempi sono rappresentate da civili, persone proprio come noi, con le stesse necessità, le stesse speranze e gli stessi desideri, per sé e per i propri cari: il desiderio di poter vivere in un mondo sicuro, di stare insieme, di essere protetti.

Secondo stime recenti, otto persone nel mondo possiedono la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, ovvero 3,6 miliardi di persone. Nel frattempo, ogni giorno, una persona su nove va a letto affamata’. E ci sorprendiamo ancora del fatto che sempre più persone decidano di intraprendere viaggi pericolosi in cerca di un futuro migliore.
Lo scorso anno, oltre 60 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case in cerca di protezione e sicurezza.
Inseguivano il sogno di vivere in pace, ma noi ci siamo mostrati sordi di fronte alle loro speranze.
‘Cosa ho fatto di male?’ – mi ha chiesto una volta un ragazzo somalo appena approdato in Sicilia. Non sono stato in grado di dargli una risposta.

Benché i migranti che giungono in Europa rappresentino solo una piccola parte dell’intera popolazione di sfollati sparsi per il mondo, la cosiddetta “crisi migratoria” ha messo allo scoperto l’ipocrisia che caratterizza l’approccio europeo alla questione dei diritti umani. Da un lato, infatti, promuoviamo fermamente i princìpi della pace, della democrazia e dei diritti fondamentali dell’uomo, mentre dall’altro, siamo impegnati nella costruzione di una fortezza fatta di muri e barriere culturali, negando l’accesso e l’aiuto di base a migliaia di persone in fuga da guerre e povertà.

Il caso dell’Afghanistan ne è un esempio emblematico.

 Negli ultimi 15 anni, l’Afghanistan è stato devastato da una nuova guerra. Ogni anno, nei nostri ospedali sparsi in tutto il Paese, registriamo un nuovo record di feriti di guerra, un terzo dei quali è costituito da bambini.
L’Afghanistan è ad oggi il secondo Paese d’origine di rifugiati di tutto il mondo (superato solo recentemente dalla Siria). Circa 3 milioni di Afghani hanno infatti cercato rifugio al di fuori del proprio Paese e vivono principalmente in Pakistan e in Iran. Per molti anni, questa tragedia è stata ignorata dai Paesi occidentali, ed è diventata una priorità solo quando i rifugiati afghani hanno iniziato a dirigersi in Europa. In risposta a questo crescente flusso migratorio, piuttosto che investire in programmi di accoglienza e di integrazione e affrontare le cause alla base del conflitto, i leader europei hanno firmato un accordo con il governo afghano, che li autorizza a deportare legalmente i richiedenti asilo, facendo fare loro ritorno in Afghanistan in cambio di aiuti finanziari.
Le vite spezzate di tutte queste persone ci spronano a riflettere, ci chiedono di intervenire per mettere fine alla spirale della guerra e della violenza.

Se davvero vogliamo impegnarci per garantire la sopravvivenza del genere umano, l’abolizione della guerra è un presupposto necessario e inevitabile. Essa rientra nell’ambito del mandato delle Nazioni Unite, organizzazione fondata 67 anni fa, anche se, ancora oggi, ben poco è stato fatto per adempiere a tale mandato originario.

Noi di Emergency crediamo fermamente che l’abolizione della guerra sia l’unica soluzione realistica ed umana per mettere fine alla sofferenza del genere umano e per promuovere i diritti umani universali. (…). Quanto dico potrà sembrare utopico, ma in realtà si tratta di un obiettivo realistico e realizzabile. Spetta adesso ai cittadini del mondo agire e conquistare la pace. Rinunciare alla logica della guerra e seguire i princìpi di fraternità e solidarietà non è soltanto auspicabile, ma urgentemente necessario, se vogliamo che l’esperimento umano possa continuare.

Quest’oggi, sono molto lieto di avere la possibilità di invitare caldamente tutti voi a unirvi a noi in questo grande sforzo comune.

Grazie».

Gino Strada. (http://www.emergency.it/discorso-accettazione-premio-sunhak-peace-dottor-gino-strada.html).

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E rimando pure al discorso di Gino Strada a Stoccolma, pubblicato su: www.nonsolocarnia.info il 24 dicembre 2015, con il titolo: Gino Strada. Abolire la guerra unica speranza per l’umanità. “Sono un chirurgo e ho visto … ” Una riflessione per il Natale.

La foto che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: http://www.terranuova.it/News/Stili-di-vita/Gino-Strada-Lavoriamo-per-un-mondo-senza-guerre. Ho scritto EMERGENCY con solo la lettera iniziale maiuscola per ragioni di redazione. Infatti il tutto maiuscolo attira troppo l’attenzione del lettore, e disturba la comprensione dei contenuti.

Laura Matelda Puppini

 

Capodanno, festa che vince il buio e introduce la luce.

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«Le tradizionali costumanze che la festosa ricorrenza del Natale porta con sé sono quasi tramontate, quelle per la festa dell’anno che nasce rimangono immutate. (…). Il Capodanno viene per tutti come una scadenza fissa di un determinato tempo, oltre il quale sembra che la vita si rinnovi in un’atmosfera ricca di desideri, di promesse di volontà: primo gennaio anno nuovo, vita nuova». (Cino, Tradizioni di Capodanno, in: La Patria del Friuli, 1 gennaio 1927).

Per dir la verità, però, dopo la caduta dell’Impero Romano chi decise di fissare la data del primo gennaio come inizio d’anno fu Carlo IX di Francia, allora adolescente, nel 1564. Questa scelta fu gradualmente accettata dagli Stati cattolici, mentre fu osteggiata da quelli protestanti, tanto che in Gran Bretagna si continuò per un bel po’ a festeggiare il capodanno il 25 marzo. Ma molti stati avevano adottato, come inizio d’anno, pure il 21 marzo, equinozio di primavera, cioè la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. (https://www.agendalugano.ch/episodes/868/da-quando-l-anno-inizia-il-1-gennaio). Prima ancora vi erano date diverse, ma l’affermarsi del Cattolicesimo fece prevalere quelle collegate alla vita di Cristo, come il 25 marzo, data dell’Annunciazione (ab incarnatione) o il 25 dicembre, nascita di Gesù (ab nativitate). (Cino, Tradizioni di Capodanno, op. cit.).  

Per gli Ebrei, invece, le festività collegate all’inizio di qualcosa sono tre, di cui quella che ricorda la nostra è collocata tra il mese di settembre e di ottobre, in una data variabile, da cui dipende la datazione di altre feste, e si chiama Rosh ha Shanah o Capodanno dei Re. Quindi vi è il Capodanno detto Shavout o Festa delle primizie, e la festività Tu b’Shavat, conosciuta come il Capodanno degli alberi. (https://it.wikipedia.org/wiki/Capodanni_ebraici).

Il Capodanno, Nowruz, veniva e viene festeggiato nei paesi dell’ex Impero Persiano il primo giorno del primo mese di Farvardin, cioè del primo mese di primavera, con rituali precisi, di cui l’articolista Cino, nel 1927, ricordava pure alcuni relativi al lutto, ma forse collegati al seppellimento delle ceneri che simboleggiano dolore e negatività, da portare fuori dell’abitato. (https://www.greenme.it/vivere/costume-e-societa/23301-nowruz-capodanno-persiano e Cino, Tradizioni di Capodanno, op. cit.)

In India la festa di Capodanno indù, chiamata Diwali,  si colloca in ottobre od in novembre, dura più giorni seguendo precisi rituali, ed il primo giorno è dedicato alla completa liquidazione del passato, del buio e del male, gli altri alla ripresa della luce e del bene. (https://www.ilcapodanno.net/capodannoindiano/, Cino, Tradizioni di Capodanno, op. cit.)

Ancor più complesso è il capodanno cinese, detto capodanno agricolo, sempre espressione della chiusura del vecchio e dell’aprirsi al nuovo, che può cadere, essendo il calendario cinese lunisolare, entro un lasso di variabilità di 29 giorni, tra 21 gennaio e il 19 febbraio. In Cina non si può iniziare l’anno nuovo se non si sono pagati i debiti di quello vecchio, magari facendosi fare un nuovo prestito, e si utilizzano rituali per scacciare gli spiriti maligni. La sera che precede le due settimane di festa si consuma un banchetto, e quindi il padrone di casa prende un bastoncino acceso dalla tavola e lo getta nel cortile sopra un mucchio di rami di cipresso, e seguendo lo svolgersi della fiamma, i familiari traggono previsioni per l’anno a venire.  
Il primo giorno dell’anno nuovo è dedicato all’accoglienza ed a dare il benvenuto alle divinità benigne del Cielo e della Terra, e dopo una serie di rituali, il capodanno termina con la festa delle lanterne. La festa viene vissuta in famiglia o facendo visita agli amici. Il colore tradizionale del capodanno cinese è il rosso. Inoltre esso viene salutato con fuochi di artificio, che in Cina hanno avuto origine. Ma vengono sparati, durante la festa, anche mortaretti e razzi, per scacciare gli spiriti maligni. (https://it.wikipedia.org/wiki/Capodanno_cinese, e Cino, Tradizioni di Capodanno, op. cit).

In Giappone il Capodanno viene, dal 1873, festeggiato il 1 gennaio, seguendo il calendario gregoriano. Alla mezzanotte del 31 dicembre, i templi buddisti in tutto il Giappone suonano le campane per un totale di 108 rintocchi, a simboleggiare i 108 peccati originali nella fede buddista, in modo da allontanare i 108 desideri mondani racchiusi nei sentimenti di ogni cittadino giapponese. Gettato alle spalle il vecchio, si festeggia il nuovo con un banchetto a base di ‘soba’. Inoltre per celebrare in modo adeguato l’anno che incomincia, bisogna prestare particolare attenzione alle azioni che si svolgono per la prima volta nelle prime ore del nuovo anno, che deve essere accolto guardando l’alba e sorridendo. Infatti iniziare l’anno con un sorriso è di buon auspicio.
In tutto il Giappone il capodanno è anche festa dei bambini, che fanno volare degli aquiloni e ricevono doni anche in denaro dai genitori. Il Capodanno è pure il momento dei giochi in comune. (https://it.wikipedia.org/wiki/Capodanno_giapponese, Cino, Tradizioni di Capodanno, op. cit.).

Il Inghilterra ed in Russia i giovani si baciano sotto il vischio. In Italia è subentrato l’uso del banchetto, e si deve star attenti a chi si incontra il primo giorno dell’anno nuovo appena usciti di casa. «Guai se è una donna, un prete o, peggio, un trasporto funebre!» (Cino, Tradizioni di Capodanno, op. cit.). Naturalmente vi sono altre tradizioni, non note all’articolista di La Patria del Friuli.

Anche in Italia si attende lo scocco della mezzanotte, che segna la cesura fra vecchio e nuovo, e in piazza «Tutti sono lieti, come un grave peso fosse caduto dalle loro spalle, mentre nella vicenda umana, trecentosessantacinque giorni si sono uniti alla vita di ognuno. Ma a questo, il primo giorno dell’anno, non si pensa …». (Ivi).

Festa che caccia la notte, il buio, i peccati, i debiti, festa di chiusura che poi si illumina della luce del sole, della primavera, del nuovo raccolto, della fertilità che rincomincia, il capodanno assume connotazioni simili in questo nostro pianeta, che ci devono far riflettere maggiormente sul nostro futuro di cittadini del mondo e di cittadini di questa Italia. Speriamo quindi che i nostri futuri parlamentari e governi cambino con l’anno nuovo rotta, anche grazie a noi che ci dobbiamo impegnare in questo, inizino a prendere in seria considerazione i problemi reali del paese quali: la povertà dilagante; la schiavizzazione del lavoro dovuta anche allo jobs act ed al servilismo verso il sciur padrun da li beli braghi bianchi, però ora da noi cittadini sovvenzionato, che è uno dei motivi del crollo delle nascite; la crisi estrema in cui hanno fatto cadere il ssn, e globalmente la nostra vita con le svendita di territorio a privati ed una dissennata politica ambientale, energetica, e dei servizi; senza saper progettare e prevedere in modo scientifico. E speriamo di esser capaci ancora di dire la nostra, di parlare, di chiedere, di esercitare il diritto di indignarci di fronte alle ingiustizie, di credere in un mondo non in mano alla finanza. E speriamo di poter nuovamente essere fieri di essere italiani, perchè ora la ‘vedo dura’, grazie all’apporto di tutti.

 

UN GRAZIE PARTICOLARE A VOI LETTORI CHE MI AVETE SEGUITO IN QUESTO 2017 E CHE SPERO MI SEGUIRETE ANCORA .

BUON 2018 A TUTTI.

Laura Matelda Puppini

 

L’immagine che correda l’articolo è relativa la capodanno cinese ed è tratta da: https://nutriilneurone.wordpress.com/2015/12/30/capodanno-tradizioni-bizzarre-in-giro-per-il-mondo/. Rimando inoltre chi fosse interessato al mio precedente per la fine dell’anno, intitolato: Laura Matelda Puppini. Antiche tradizioni friulane per l’anno nuovo, come narrate in: Il Cjavedâl, nel 1952, e da me commentate, su www.nonsolocarnia.info

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

Storia della collaborazionista X Mas con i nazisti occupanti, dopo l’8 settembre 1943. Per conoscere e non ripetere errori.

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Premessa.

Io spesso mi chiedo quale storia del periodo resistenziale sia stata talvolta scritta e magari approvata in questa nostra Italia, e spesso mi domando se non sia la visione fascista e repubblichina degli avvenimenti, senza accorgersene, mancando di approfondimenti adeguati. Per esempio ritengo che non si abbia ben presente cosa fu davvero la Xa Mas e chi fu il principe Junio Valerio Borghese, scampato, nel dopoguerra, alla pena capitale per collaborazionismo con i nazisti e per i crimini commessi dalla ‘Decima’, e che fece temere agli Italiani democratici, nella notte dell’Immacolata del 1970, di cadere in un nuovo regime autoritario. E se  ritorno su un argomento che ho già toccato nel mio: “No alla X Mas nelle sedi istituzionali della Repubblica italiana. Motivi storici”, in: www.nonsolocarnia.info, a cui rimando, lo faccio per approfondire il perché labari della X Mas e chi ricorda la stessa, debbano restare fuori dalle sedi istituzionali della Repubblica ed anche dal suo territorio, e cercare di portare questi argomenti all’attenzione di voi lettori e di chi sia interessato.

E io credo che per comprendere cosa sia stata la Xa Mas e cosa abbia fatto in particolare dopo l’8 settembre 1943, si debba leggere come minimo l’esaustivo testo di Ricciotti Lazzero, intitolato ‘La Decima Mas. Compagnia di Ventura del Principe Nero’, Rizzoli, Milano, 1984, oltre che le sintesi dei processi, in particolare quello di Vicenza in corte d’appello, pubblicato in: digilander.libero.it/ladecimamas/intro.htm, o quello a Junio Valerio Borghese.  Mi rendo conto che nel merito esiste una vastissima bibliografia, ma ritengo che la linea di lettura dei fatti, basata su una ricca documentazione italiana ed estera a supporto, presente nel volume di Ricciotti Lazzero (cfr. Ricciotti Lazzero, op. cit., pp. 249 – 264), sia sufficientemente esaustiva, e permetta di aprire un serio dibattito sull’argomento.

Inoltre, in questa nostra Repubblica, pare che sia stato e sia ancora difficile cercare di analizzare in modo serio gli eventi di un periodo storico preciso, soggetto a visioni ed interpretazioni politiche e politicizzanti. Lo sottolinea pure Ricciotti Lazzero che premette al suo lavoro una nota sui problemi da lui incontrati «a causa delle bocche che restano chiuse, dell’abitudine alla non collaborazione, della mancanza di senso critico storico, in un’Italia che non ammette, per paura, apatia, scarsa cultura e deficienza di humour, il ‘processo a se stessa’ che altre nazioni si sono fatte e resta ferma su posizioni retoriche incomprensibili […]» (Ivi, p. 9), e che continua così: «Come sempre in un paese come il mio dove i mostri continuano a rimanere sacri, dove la ricerca storica sui fatti recenti è malvista ed osteggiata, dove la massa si rivolge con voluttà all’effimero, il tentativo di andare a fondo su un argomento particolare come questo è stato molto duro». (Ivi, p. 10). Ma vediamo insieme cosa ci narrano Ricciotti Lazzero ed altri sulla Decima Mas e le sue azioni.

LA X Mas.

La X Mas, (anche nota come Xª  o 10ª Flottiglia Mas, Decima Mas, X Mas, la ‘Decima’), esisteva prima dell’8 settembre 1943, ed era, allora, un’unità speciale della Regia Marina italiana, nata nel 1939 come 1ª Flottiglia M.A.S.. Essa non sempre aveva agito con esiti positivi, tanto che, inizialmente, le sue azioni non furono coronate da successo e comportarono molte perdite tra gli equipaggi, come nel caso del fallito attacco a Malta del 1941. Ma poi, grazie anche al perfezionamento dei mezzi tecnici e di supporto, essa ottenne la buona riuscita di alcune sue imprese, come quella della Baia di Suda (25-26 marzo 1941) o quella di Alessandria d’Egitto. (https://it.wikipedia.org/wiki/Xª_Flottiglia_MAS_(Repubblica_Sociale_Italiana). 28 dicembre 2017).

Guidata fin dal suo sorgere dal Principe Junio Valerio Borghese, appartenente alla nobile famiglia romana dei Borghese ed ufficiale di Marina esperto in sommergibili, doveva venir impegnata, nel 1943, in una operazione simile a quella denominata ‘Unternehmen Pastorius’ tentata senza successo, nel giugno 1942, dai nazisti, e terminata con 6 ex cittadini Usa, al soldo della Germania, finiti sulla sedia elettrica. (Riciotti Lazzero, op. cit., pp. 14-15). Forse per raccogliere informazioni utili a organizzare la stessa, nel 1942 il Principe Borghese viaggiò attraverso l’Europa incontrando, a Parigi, anche Karl Dönitz, comandante della flotta sottomarina nazista. (https://it.wikipedia.org/wiki/Junio_Valerio_Borghese). L’impresa prevista da Borghese aveva come obiettivo un grattacielo di New York, da far saltare con mine, grazie a militari che sarebbero giunti con un sommergibile al porto della città, ma non ebbe seguito. (Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 14). Ma vi è anche chi dice, invece, che egli volesse solo minare il porto della nota città statunitense, e avesse dovuto rinunciare all’impresa, una prima volta, per la perdita del sommergibile che doveva utilizzare. (https://it.wikipedia.org/wiki/Junio_Valerio_Borghese).

Poi giunse l’8 settembre 1943, quando Borghese comandava gruppi della Decima sparsi dal nord al sud Italia, ed uno locato pure ad in Spagna, ad Algerisas, di fronte a Gibilterra. Colto dagli eventi, il Principe decideva «di restare con le armi al piede e di non accettare la resa agli Alleati» (Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 15), mentre il Comandante in Capo delle Forze Navali da Battaglia, Carlo Bergamini accettava di obbedire, per fedeltà al Re e per il bene della Patria, alle clausole poste dall’Armistizio, e moriva in mare con la sua nave ammiraglia, colpita a morte, dopo accanita difesa, dagli aerei nazisti. (http://www.marina.difesa.it/storiacultura/storia/medaglie/Pagine/CarloBergamini.aspx).

Non così il Principe Junio Valerio che accettava di offrirsi, con la Flottiglia che comandava, ai tedeschi, prima ancora che nascesse l’R.S.I.. Infatti il 14 settembre 1943, si presentava a lui l’ufficiale nazista Max Berninghaus, capitano di fregata e «nazista duro e deciso», (Ricciotti Lazzero, op. cit., p.17) ed il Principe accettava di sottoscrivere un patto di Alleanza tra la X Mas ed il Terzo Reich, che stabiliva che la X Mas, con «capo riconosciuto» il comandante Borghese, era «alleata delle FF.AA. germaniche, con parità di diritti e doveri», pur mantenendo autonomia logistica, organizzativa, disciplinare ed amministrativa, nonché l’uso della bandiera italiana. (Ivi, p. 18). L’ accordo diventava esecutivo subito, mettendo la ‘Decima’ a disposizione dell’SS – Obergruppenführer und General der Waffen SS Karl Wolff, insediatosi il 9 settembre nel veronese con la carica di Höchster SS- und polizeiführer in Italien, che di fatto ne poteva stabilire l’utilizzo. (Ibid.).

Borghese – racconta il generale Wolff – «con le sue unità fu messo ai miei ordini per la lotta antipartigiana, così come per il mantenimento della pace, dell’ordine e della sicurezza alle spalle delle zone occupate dall’esercito tedesco in Italia […]». (Ivi, p. 19).
«La posizione della Decima Mas è chiara. – scrive a questo punto Ricciotti Lazzero – È la prima unità che abbia trattato con i tedeschi stringendo con essi un “patto di alleanza” ben preciso», prima ancora che qualcuno tra i gerarchi si sia mosso. (Ivi, p. 19). E vi è solo un altro caso simile, riportato da documentazione tedesca, di unità militare italiana alle dipendenze dirette di Karl Wolff ma con una certa autonomia: quello del btg. ‘Goffredo Mameli’, del Reggimento ‘Luciano Mannara’, costituitosi a Verona con volontari, e guidato dall’ufficiale della milizia Vittorio Facchini. (Ibid).

Ma cosa significava ‘operare in autonomia’ per l’Obergruppenführer Wolff? Significava, per esempio che la Xa Mas, per quanto riguardava l’impiego bellico e le operazioni di sicurezza, era alle sue personali dipendenze; da lui riceveva gli ordini di impiego, ed a lui doveva rendicontare del risultato delle azioni militari intraprese. Borghese aveva la facoltà di dare ordini all’interno dell’ambito deciso di servizio, ma per le azioni principali e più importanti doveva avere l’approvazione di Wolff. (Ivi, p. 20).    
I tedeschi vedono nella ‘Decima’, corpo autonomo italiano schierato con loro, un modo per indebolire la possibilità, per l’R.S.I., di richiedere la costruzione di un esercito ed una marina autonomi, (Ivi, p. 21) mentre il primo incontro fra Benito Mussolini, circondato ormai dalle SS, e il principe Borghese, il 5 ottobre 1943, non sortisce alcun risultato di rilievo. (Ivi, pp. 22-23).

«Borghese, che ha patteggiato con i tedeschi da solo, senza badare ai fascisti, anzi in barba a loro, è deciso a proseguire per la sua strada indipendente, il duce guarda a quell’unità che nasce con il beneplacito tedesco come a un ostacolo […]». (Ivi, p. 23). Ed anche successivamente «Rapporti formali tra Decima Mas – RSI, qualche entusiasmo da parte di qualcuno, ma niente di più. (…). La Decima è […] un corpo a sé, molto tenuto d’occhio e sorvegliato, che fa concorrenza al nuovo esercito in gestazione». (Ibid).

Pertanto chi sostiene che la X Mas combattè per la Patria, sta commettendo un grosso errore, perché fu al servizio dell’occupante nazista. E anche se fosse stata inglobata, ad un certo punto, almeno formalmente, nell’Esercito dell’R.S.I., come uno potrebbe intuire dall’intestazione del manifesto qui riprodotto, relativo al periodo in cui la ‘Decima’ si trovava in Veneto, sarebbe stata la stessa cosa. Anche i repubblichini avevano una certa autonomia ma dipendevano di fatto dai tedeschi. Coloro che combatterono per cacciare i nazisti furono i partigiani, gli Angloamericani ed i russi bolscevichi, che fermarono Hitler e dettero un nuovo corso alla storia, lasciando però milioni di morti sul terreno.  E colgo l’occasione per precisare ai friulani che proprio perchè del btg. ‘N.P.’ (Nuotatori  Paracadutisti) della X Mas, e poiché avevano partecipato a rastrellamenti nella zona di Valdobbiadene vennero giustiziati, la notte fra il 5 ed il 6 novemebre 1944,  da un gruppo di gappisti, il conte Giorgio di Strassoldo, ufficiale sottocapo del btg., ed il sergente Luigi Spazzapan. (Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 22 e p. 136).  

Manifesto che avvisa di un prelevamento di ostaggi precauzionale, che pagheranno con la vita se verrà toccata l’incolumità di un solo milite nei paesi di Carrè – Chiuppano, Caltrano, in Veneto. In esso si legge, pure, che «Ad essi non sarà fatto alcun male se nessun atto di sabotaggio, attentato alla vita, o delitti in genere saranno compiuti nella zona a carico di uomini e cose appartenenti alla Divisione X». Da: http://www.centrorsi.it/notizie/Archivio-storico/I-manifesti-murari-nella-Rsi-esempi.html.

Ma per ritornare al post 8 settembre ’43, sfasciatosi il Regio Esercito Italiano, anche la X Mas iniziò in modo autonomo l’arruolamento. I volontari non furono solo marinai – spiega Ricciotti Lazzero –  ma anche soldati ed ufficiali di fanteria, bersaglieri, alpini, genieri, autisti, radiotelegrafisti, che concorsero a formare nuovi battaglioni e reparti. (Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 24). Andarono nella Decima sia uomini sanguinari che fascisti convinti ed in fuga dagli Alleati al Sud e giovani ‘dal viso pulito’, spesso studenti che poco o nulla sapevano del fascismo, che anelavano a prestare servizio in un corpo organizzato, e che poi, senza magari saperlo, si trovarono impiegati in prima linea nella pulizia dell’entroterra, alle spalle della Wehrmacht, e nella lotta al ‘fratello italiano’.  A nessuno venne chiesto il giuramento all’ R.S.I. ma solo «Il rispetto ad un’idea ed alla bandiera che sventola sul pennone». (Ivi, p. 10 e p. 24).

Richiamavano gli slogans, la pubblicità, la divisa grigioverde con maglioncino grigio, giacca senza colletto e basco da paracadutista, ma la realtà poi fu altra cosa. Si formarono nuovi gruppi, si rimpolparono vecchi battaglioni, mentre il grosso delle truppe, subito dopo l’8 settembre 1943, era locato a La Spezia. (Per l’elenco dettagliato dei gruppi, battaglioni con numero delle compagnie, ecc. cfr. Ivi, pp. 25- 31). E dopo l’8 settembre 1943, aderì alla X Mas anche Umberto Bertozzi, ingegnere, amico di Junio Valerio Borghese, e figlio di un imprenditore dell’industria conserviera, che guidò l’Ufficio I, famoso per le torture, e la famigerata la Compagnia O, formatasi nel maggio – giugno 1944, autocarrata, composta da 120 uomini, e strutturata su tre plotoni fucilieri ed un plotone comando, e destinata, in un primo tempo, ad operare esclusivamente nell’entroterra spezzino. (Ivi, pp. 29-30, e https://it.wikipedia.org/wiki/Umberto_Bertozzi).

Umberto Bertozzi, giudicato colpevole «di oltre cento ‘omicidi volontari’, fra cui il concorso nella strage di Forno di Massa e di numerose sevizie particolarmente efferate perpetrate tra il 1944-1945», (Cfr. Pena capitale per il braccio Dx di Borghese, la sentenza della Corte di Assise di Vicenza, in: http://digilander.libero.it/ladecimamas/) verrà condannato a Vicenza, il 4 giugno 1947,  con Franco Banchieri, alla pena di morte, ma la condanna venne poi commutata in ergastolo, che negli anni, grazie anche alla concessione di condoni, divennero prima 30 anni e poi 19, fino ad estinzione della pena nel 1963. (https://it.wikipedia.org/wiki/Umberto_Bertozzi).

Comunque tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944, cominciarono a delinearsi i primi battaglioni da utilizzare nella lotta antipartigiana: il ‘Barbarigo’, il ‘Lupo’, il ‘Mai morti’ poi ‘Sagittario’, il ‘ Folgore’, (Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 34) che vennero addestrati anche dai tedeschi a muoversi sul terreno. (Ivi, p. 35). Nessuno sospettava allora che gli angloamericani sarebbero sbarcati ad Anzio il 22 gennaio 1944.

Simbolo 10a Mas. (https://wikivisually.com/lang-it/wiki/X%C2%AA_Flottiglia_MAS_(Repubblica_Sociale_Italiana) 28 dicembre 2017.

Distintivo del gruppo Fumai ‘Mai Morti’. (http://www.filatelicafiorentina.com/prodotti.php?catsel=1383&t=brigate%20nere%201943-45&i=1383&p=1369 – 28 dicembre 2017).

Il Btg. ‘Mai Morti’ poi diventato ‘ Sagittario’.

Oltre ad Umberto Bertozzi ed al sergente Schininà (nome non reperito) suo aiuto, (Ivi, p. 99), vi furono altri personaggi della ‘Decima’ che si resero tristemente famosi: uno di questi fu Beniamino Fumai, barese, che il 16 giugno 1921, assieme al fratello, aveva aderito al fascio di Bari, militando poi nella stessa squadra d’azione di Achille Starace. (Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 39). Quindi si era spostato a Nord, a Trieste, formando, dopo l’8 settembre 1943, un gruppo di 43 individui, a cui aveva dato il nome‘ Mai morti’, ed avente come distintivo uno scudo nero con al centro un teschio, ai lati la scritta “Per l’onore dell’Italia” ed in apice la data 8 settembre 1943.  Il gruppetto si definiva, pomposamente e non si sa a che titolo, F.A.F. (Forze Armate Fasciste), e pare che tutti i suoi componenti fossero soggetti «propensi alla più pura delinquenza», (Ivi, p. 39) e fu apprezzato pure da Christian Wirth, distintosi per i forni crematori di Lublino, e poi passato alla Risiera di San Sabba. (Ivi, pp. 39-40). 

A Trieste il ‘Mai Morti’ semina terrore: «i suoi uomini sono liberi di agire, possono razziare ciò che vogliono, saranno sempre impunti», finchè le loro rapine, estorsioni assassinii giungono a disgustare persino i fascisti. A questo punto interviene Alessandro Pavolini in persona, che scioglie il ‘Mai Morti’. (Ivi, p.40). Così Fumai ed i suoi lasciano la città giuliana e vagano per l’Italia settentrionale. Il 6 gennaio si trovano al Lago Maggiore, quindi, il 20 dello stesso mese, in zona Intra-Pallanza, quindi passano a Verona, poi a Brescia ed a Milano, ove Fumai contatta la Decima Mas, per poi caricare i suoi su autocarri e presentarsi a La Spezia. (Ivi, p. 40).

Il ‘Mai Morti’, diventato battaglione della ‘Decima’ al comando di Fumai, riesce a seminare «in ogni angolo del Piemonte dolori e sangue, ed un odio indicibile per i marò», tanto che il 6 marzo 1944 Dante Tuninetti, allora prefetto della Provincia di Novara, mandava un telegramma urgente al Ministro degli Interni dell’R.S.I.  per chiedere che si prodighi affinchè il gruppo ‘Mai Morti’ non giunga sul suo territorio, e venga, invece, utilizzato al fronte.  (Ivi, p. 40).
Il risultato è che il ‘Mai Morti’ comincia ad operare nello spezzino, lasciando chiare tracce del suo passaggio. Infine il battaglione, nel maggio 1944, si scioglie e sulle sue ceneri nasce il battaglione ‘Sagittario’, comandato sempre da Beniamino Fumai. (Ivi, p. 41). 

Ben presto il ‘Sagittario’ si caratterizzò per la ferocia nelle azioni e nella caccia ad antifascisti, partigiani, ed in particolare anarchici della Lunigiana e della provincia di Massa e Carrara, e si trovava pure nel Canavese, nell’estate 1944, a due passi da Cuorgnè, al fianco della Compagnia O guidata dal Bertozzi. (Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 85 e p. 99). «La sua azione è spietata: uccisioni, incendi, furti e saccheggi», e in quella zone rimane famoso per aver «seminato dappertutto il terrore: soprusi, violenze anche contro donne, rapine, uccisioni, incendi di case, razzie» (Ivi, p. 124), tanto da innervosire lo stesso Junio Valerio Borghese. Sicuramente vi fu un colloquio fra questi ed il Fumai, ma quest’ultimo ebbe la meglio, e con i suoi 700 uomini, armati fino ai denti, si spostò prima a Torino poi ad Ivrea. E dopo essersi arbitrariamente spacciato per ex maggiore della Milizia, ora Beniamino Fumai si spaccia per capitano di corvetta. (Ivi, p. 40 e 85).

Ma a quel punto anche i repubblichini iniziano a protestare. Infine Beniamino Fumai tenta di aggredire lo stesso Borghese a Ciriè. Così, nell’autunno 1944, viene convocato dal Principe, che, poco interessato alle sue minacce, gli revoca il mandato di comandante del ‘Sagittario’, nominando al suo posto il tenente di vascello Ugo Franchi, comandante in seconda del ‘N.P’.. (Ivi, pp. 124- 125). A questo punto il Fumai raccatta i suoi fedelissimi e, dopo aver rubato armi alla Caserma dell’Artiglieria a Torino, ove la Decima aveva un suo deposito, forma una propria banda, a cui aderiscono molti della ‘Sagittario’, che erano fuggiti da un treno durante lo spostamento in Veneto. (Ibid.).

Ad un certo punto il Fumai ed i suoi si piazzano a Milano in via Manzoni, presso la sede del Partito Fascista Repubblicano, e creano la II Brigata Nera ‘Arditi’, con il parere negativo dell’R.S.I., che non la vuole, sostenendo che Fumai risulta ancora in forze alla ‘Decima’, e quindi si sa che questi, il 5 marzo 1945, alloggiava al prestigioso hotel Danieli di Venezia, e non certamente in prima linea. Infine dopo la Liberazione, il Fumai viene processato ed incredibilmente, assolto, come tanti dei suoi, salvandosi la pelle. (Ivi, pp. 125-126).

Immagine da: “Il Messaggero Veneto”, 19 gennaio 2017. Essa correda l’articolo: La X Mas si raduna a Gorizia, partigiani e sinistra: “No, grazie”.

Manifesto dell’R.S.I. – Da: https://wikivisually.com/lang-it/wiki/X%C2%AA_Flottiglia_MAS_(Repubblica_Sociale_Italiana) – 28 dicembre 2017).

Alla X Mas viveri e più che il necessario non mancano mai … ed anche i Repubblicani si allarmano.   

Pare proprio che alla X Mas non mancassero cibo ed armi. Ma come li aveva recuperati? Leggiamo nel merito sempre Ricciotti Lazzero, ricordando, pure che, dopo l’8 settembre varie caserme risultavano abbandonate od in mano agli occupanti.

Quello che notano molti è il parco macchine di Borghese, (Ricciotti Lazzero, p. 49) e quei giovani ufficiali sempre pieni di soldi. (Ivi, p. 56). La Mas One del Principe è una Lancia Astura mimetizzata, carrozzeria ‘ Touring’, requisita al ‘ Garage Europa’ di Firenze, ma non è l’unica auto a sua disposizione. Infatti il Comandante Borghese ne ha cinque, ed ha un autista anche se quasi sempre guida lui. In compenso l’autista si preoccupa del fatto che non manchi mai la benzina, o prelevandola dai chioschi autorizzati, in cambio di un buono del Comandante, o alla borsa nera, o al Comando di tappa di Milano, o al garage di via Morosini, sempre nella città lombarda. Chi procura carburante presso i pozzi di petrolio di Raglio di Rivergaro, in provincia di Piacenza, è Daniele Rigoni. Ma non manca neppure la ‘Avio’, benzina fornita dai tedeschi, di colore violetto. (Ivi, pp. 125-126).

E «anche per i viveri e le uniformi e tutto quanto occorre all’inquadramento di migliaia di uomini, la Decima provvede in modo autonomo, come previsto dal patto di accordo con i tedeschi, con intendenze che per lungo periodo lavorano a livello di battaglione. Esse si servono dei corredi della GIL, prendono scarpe e scarponi Vibran al Calzaturificio Brixia di Brescia riempiendone autocarri, prendono armi agli stabilimenti Berretta di Val Trompia, prendono a Bergamo coperte, nel Bresciano pentolame e calze lunghe di cotone. «È un modo di agire che sfiora la rapina, ma comprensibile, in concorrenza con i tedeschi che spogliano caserme, magazzini, depositi, stabilimenti». (Ricciotti Lazzero, pp. 49 – 51. Citazione pp. 51-52).  Ma se un partigiano prendeva una mela da un albero per mangiare, probabilmente ora si direbbe che era un ladro.

I generi alimentari provengono da contrabbandieri comaschi che trafficano con la Svizzera, e vengono distribuiti grazie ad una fitta rete di collegamenti. Il ‘commercio’ con la Svizzera pare non trovi ostacoli e implica il lavoro di molte persone: si parla di 150 addetti. E «gli Svizzeri non arricciano il naso su certe cose, e commerciano con chiunque procuri loro buoni affari». (Ivi, pp. 52-53). Ma quando la Decima vorrà passare i confini elvetici per inseguire dei partigiani, essi gireranno le armi contro di lei. (Ivi, p. 120).

Quello che colpiva particolarmente, però, era l’afflusso di denaro nelle casse della X Mas. Certamente le iniziative per raccogliere fondi non le mancavano, e sapeva far ricorso all’inventiva ed all’astuzia, sorretta da un ufficio propaganda di spessore. (Ivi, p. 57). Ma l’Hauptmann Kurt Hubert Franz riteneva che l’alta paga data ad ufficiali e soldati potesse favorire la diserzione dalle truppe repubblicane, (Ivi, p. 59) e gli appartenenti alla Decima, come si legge in un appunto al Duce di Mario Bassi, prefetto di Varese, continuavano comunque «azioni illegali […]. Furti, rapine, provocazioni gravi, fermi, perquisizioni, contegni scorretti in pubblico rappresentano quasi la caratteristica speciale di questi militari. (…). La cittadinanza, oltre ad essere allarmata per queste continue vessazioni, si domanda come costoro, che dovrebbero essere sottoposti ad una rigida disciplina militare, possano agire impunemente, e senza alcuna possibilità di punizione, in quanto, come è noto, nessun accertamento diretto è possibile presso il comando, il quale, col comodo pretesto che si tratta di delinquenti comuni travestiti da appartenenti alla Xa Mas, rifiuta di fornire qualsiasi notizia atta all’identificazione dei responsabili. Il pubblico non sa spiegarsi perché costoro, che sono giovani ed aitanti, non siano inviati in zona di operazione […]». (Ivi, p. 58).

Inoltre la Decima giocava sul fatto di dipendere direttamente dalle SS Obergruppenführer Wolff, di appartenere alle unità speciali dette Sondeverbände e di risultare in ruolo ai tedeschi (Ivi, pp. 57-58), anche se vi è chi, invece, afferma che amministrativamente dipendeva dall’R.S.I. (https://it.wikipedia.org/wiki/X%C2%AA_Flottiglia_MAS_(Repubblica_Sociale_Italiana).

 E la ‘Decima’ era abile a promuovere collette presso commercianti, industriali ed affini, e quando qualcuno gli mandava solo spiccioli, avvertiva l’interessato che probabilmente nella spedizione delle banconote vi era stato un errore, e quindi di provvedere a sanare il disguido. E si giunse al punto che Graziani invitò il Sottosegretario di Stato alla Marina ad intervenire sulla ‘Decima’ i cui ufficiali e sottoufficiali giravano pieni di soldi «in ambienti milanesi e fiorentini», utilizzandoli per scopi privati e muovendosi su «vistose autovetture di lusso», mentre il modo di amministrare dei militari della X Mas appariva, secondo il prefetto della Provincia di Milano, «non confacente all’ordine, allo scrupolo, al senso di responsabilità».  (Ivi, pp. 57-58). Ma nessuno pare potesse far nulla.

Gagliardetti del btg. Lupo della X Mas, (da: http://www.decima-mas.net/apps/index.php?pid=72).

Su cosa fece realmente la Xa Mas, impiegata in attività antipartigiane a terra.

L’elenco di quanto fece la Decima Mas in Liguria, in Piemonte, in Veneto, in Toscana, è lungo, ed i metodi che utilizzò quasi illeggibili: essi sono intrisi di violenza e morte.  E per meglio sottolinearne gli intenti, persino il Reggimento San Marco tolse al leone di San Marco, il vangelo aperto con la scritta: “Pax tibi Marce, evangelista meus” sostituendolo con un Vangelo chiuso, con una croce, e  sotto una scritta: “Iterum rudit leo”: “Il leone ruggisce di nuovo”. (Ivi, p. 35).

Esempio di leone di San Marco che veniva montato sulle mostrine dei reparti della X Mas. Da: http://kriegsmarine-dasboot.blogspot.it/2010/06/coppia-leoni-san-marco.html 

Già nel dicembre 1943 ‘decimini’, (come vennero chiamati quelli della X Mas), iniziano ad esser impiegati in azioni antipartigiane, ed il 16 gennaio 1944 effettuano, assieme ai tedeschi ed a guardie repubblicane, il primo rastrellamento in provincia di La Spezia, nella zona di Sarzana, Santo Stefano Magra, Fosdinovo e Pallerone. (Ivi, p. 80).

Il 13 marzo militari della Decima e tedeschi rastrellano trenta uomini a Pontremoli, ed uccidono due giovani potatori di viti a Vignola di Pontremoli solo perché si erano avvicinati a loro, mentre in zona vengono raggiunti, nell’atto di consumare un frugale pasto ed a causa di una soffiata, 13 partigiani. Due di loro vengono uccisi subito, uno viene ferito ad una gamba e fatto camminare per poi freddarlo, gli altri sono catturati e fucilati a Valmozzola, tranne uno. «La Xa non lascia invendicati i suoi caduti» – si legge su di un manifesto affisso in loco a fine marzo. (Ivi, pp. 81-82).
Nell’aprile 1944, un gruppo partigiano disarma il posto di blocco di Cerreto, impedisce la consegna del bestiame all’ammasso ed effettua alcuni attacchi improvvisi, ove restano uccisi due militi. La risposta di Kesserling si fa subito sentire: «Ogni villaggio in cui sia provata la presenza di partigiani o nel quale siano avvenuti attacchi contro soldati tedeschi o italiani, o nel quale siano avvenuti tentativi di sabotaggio a depositi di guerra, sia raso al suolo. Inoltre siano fucilati tutti gli abitanti maschi del villaggio, di età superiore ai 18 anni. Le donne ed i bambini siano internati nei campi di lavoro». Inizia così il rastrellamento dell’Alta Lunigiana. (Ivi, p. 83).
In questo caso l’azione di rappresaglia contro la popolazione civile è condotta dalla Xa Mas, da soldati della Guardia Nazionale Repubblicana, da camicie nere e tedeschi. I partigiani riescono a sgusciar via, ma per 4 giorni i militi, divisi in tre colonne, rastrellano la zona che va dalla valle del Rosaro, a quella alta dell’Aulella, da Sassalbo a Giuncugnano, dal Cerreto a passo dei Carpinelli. Risultato? Un centinaio di case bruciate, di cui 70 su 72 a Mommio, ventidue fra contadini e pastori uccisi, migliaia di capi di bestiame massacrati o razziati. (Ivi, p. 83).

Il 15 aprile 1944, un reparto del btg. Lupo, del Reggimento San Marco, percorre le strade di La Spezia facendo il saluto romano, e picchiando i cittadini che non rispondono loro allo stesso modo.  (Ivi, p. 79).
Quindi, il 13 giugno 1944, la strage di Forno, un piccolo paese a nord di Massa, verso le Apuane, nella giornata in cui si celebra la festa di Sant’Antonio. La Decima raduna 100 uomini giovani e qualche anziano del paese presso la caserma dei Carabinieri, presidiata dai Marò. Quindi ne vengono scelti 65, fra cui vi è il maresciallo dei Carabinieri Ciro Siciliani, che vengono condotti fino in località Sant’Anna ed ivi fucilati da un plotone di SS comandato da Umberto Bertozzi della Xa Mas, assieme ad altri ostaggi catturati durante il tragitto. Assistono all’esecuzione soldati nazisti e militi della ‘Decima’. I giustiziati sono 81, fra cui Ciro Siciliani, reo di aver cercato di intercedere per la popolazione e di non essersi efficacemente opposto ai partigiani. Due giovani sopravvivono per caso e riescono a mettersi in salvo. Prima di abbandonare il paese, i tedeschi danno fuoco alla caserma dei Carabinieri, ove sono rimasti alcuni partigiani feriti, che muoiono tra le fiamme. Secondo Massimo Michelucci, invece, i fucilati furono 60, 4 i sopravvissuti alla fucilazione, uno fu arso vivo, 52 persone vennero inviate nei campi di concentramento tedeschi, una donna ed un bimbo ed altri partigiani furono trucidati nel rastrellamento, e furono incendiate la caserma dei Carabinieri ed alcune case. (Ivi, p. 84, Episodio di Forno – Massa 13. 6. 1944 http://www.straginazifasciste.it/, A proposito di Decima Mas, in: http://digilander.libero.it/ladecimamas/pagina3.htm).

Per quanto riguarda Umberto Bertozzi, dopo l’eccidio di Forno «proseguì con la Decima la sua attività antipartigiana in Lunigiana, nello Spezzino e poi in alta Italia, soprattutto in Piemonte ed a Conegliano, a Maniago, a Cuorgné nel Canavese, dove dimostrò tutte le sue private qualità di carnefice, seviziando prigionieri, mettendo in essere una vera e propria squadra di torturatori, che bastonando, togliendo unghie, incidendo la X della Decima sui petti e sulle schiene di donne e uomini, ben poco ha da invidiare a più rinomate e famose bande e camere di tortura». (‘A proposito di Decima Mas, in: http://digilander.libero.it/ladecimamas/pagina3.htm).
E la strage di Forno è una di quelle ricordate al processo contro Umberto Bertozzi, Franco Banchieri e Benedetti Ranunzio, accusati «di collaborazionismo col tedesco invasore a sensi art. 5 D.L.L. 27/7/1944 n. 159 e 51 cod. pen. mil. guerra, per avere dopo l’8/9/1943, e fino alla liberazione, il primo quale comandante dell’ufficio J (I ndr) della X Mas ed ufficiale della medesima, gli altri quali sottufficiali e marinai della medesima, in varie provincie di Italia, collaborato col tedesco invasore sul piano militare, disponendo o partecipando a rastrellamenti, arresti, interrogatori, perquisizioni, deportazioni, incendi, saccheggi, uccisioni, rapine, usando sistematicamente e facendo usare sistemi vessatori e sevizie particolarmente efferate, in danno di numerosi partigiani allo scopo di stroncare il movimento di liberazione nazionale». (http://digilander.libero.it/ladecimamas/stragi.htm e http://digilander.libero.it/ladecimamas/sentenza.htm).

Ciro Siciliano, Maresciallo dei Carabinieri, reo di aver cercato di difendere la popolazione, vittima della Xa Mas a Forno. Da: http://memoria.comune.massa.ms.it/index.php?q=img_assist/popup/134.

Ma non sono i soli a finire sotto processo anche per collaborazionismo con il tedesco. Vengono accusati di nefandezze pure Nino Buttazzoni, comandante del battaglione ‘N.P.’, denunciato dalla Commissione Alleata per fatti accaduti ad Asiago, e per rapina ed incendio, Ignoti militari tedeschi e Marinai della X Mas, che vengono pure accusati di  «Violenza con omicidio», «distruzione […] Aiuto al nemico» (http://digilander.libero.it/ladecimamas/inc_insab.htm); Ignoti elementi della polizia fascista e della X Mas, Remigio Rebez di Muggia, (Ivi), al cui processo Flavio Rovere ha dedicato una pubblicazione, Beniamino Fumai e Junio Valerio Borghese. (Ivi). Ma poi … I due ergastoli a Borghese finirono per diventare tre anni di carcere, Fumai fu assolto, e nell’Italia repubblicana testimoni non si presentarono, mentre Togliatti proponeva “l’amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari” avvenuti durante il periodo dell’occupazione nazifascista trasformato poi in Decreto Presidenziale 22 giugno 1946.

Le stragi di Forno, di Guadine, di Borgo Ticino, di Castelletto Ticino, di Crocetta del Montello, ecc., furono una realtà e sulla X Mas così scrive Massimo Michelucci: «La Decima […]  non fu Nesi e la sua epica […]. Nella storia la Decima Mas, purtroppo per i suoi reduci, fu Bertozzi e la collaborazione nella repressione antipartigiana. Fu il nesso, il collegamento, l’ambiguità e la collusione in tal senso del suo capo e demiurgo Borghese con i vertici militari tedeschi che sovrintendevano alla Repubblica di Salò». (Le stragi documentate, Per l’onore … Ma dove è l’onore? in: http://digilander.libero.it/ladecimamas/stragi.htm).

E fu il Principe Borghese che, l’8 settembre ’44, ricevette da Wolff, plenipotenziario delle FF.AA. germaniche in Italia, a nome del Fuhrer, la Croce di Ferro di I classe come «riconoscimento e attestazione dell’opera svolta dalla Decima Flottiglia Mas per la rinascita delle FF.AA. italiane a fianco dell’alleato germanico», e per «premiare la fede, la lealtà e l’ardimento guerresco di tutti gli uomini della Decima che combattono per l’Onore d’Italia». (La decorazione ricevuta dal Generale delle SS Wolff per ordine di Hitler, in http://digilander.libero.it/ladecimamas/, Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 19).

Ma per continuare, quando il battaglione Complementi ‘Castagnacci’ giunge nel Canavese, il 26 maggio 1944, i suoi militi cercano alloggio presso la popolazione utilizzando anche «sistemi energici», (Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 88) non essendo stata organizzata la caserma che li doveva accogliere. Molti marò giungono in quella zona cruciale per la lotta antipartigiana, ma pare che fra loro vi fossero «pochi entusiasti, e molti sfiduciati», tanto che anche la ‘Decima’ contò diserzioni. (Ivi, p. 85 e pp. 89-90). Inoltre «la maggior parte dei volontari non è preparata alla controguerriglia», e la «famosa sezione dei mezzi di assalto della Marina ha generato, alla fine, una grande unità terrestre» (Ivi, pp. 90-91), con compiti precisi «coprire le spalle ai reparti germanici, […] ‘fare sicurezza’ e […] assicurare i collegamenti nelle zone di vitale importanza».  (Ivi, p. 90).
Il Canavese è zona di importanza strategica, perché vi passa la linea ferroviaria Milano Torino e, proprio in quella tratta, si stanno intensificando i sabotaggi alla stessa. (Ivi, p. 98). Ed anche per questo motivo i tedeschi vogliono che sia ripulita dai ‘ribelli’ e vi inviano la Decima.

Dopo l’uccisione ad Ozegna l’8 luglio 1944, del comandante del ‘Barbarigo’, Umberto Bardelli e di altri della X Mas per mano dei partigiani, incomincia un rastrellamento feroce del paese. «Ozegna viene perquisita casa per casa, molti gli ostaggi prelevati. Le perquisizioni ed i fermi si estendono a Valperga, Canischio e Alpette. A Feletto molte case vengono date alle fiamme. Numerosi partigiani prigionieri impiccati». (Ivi, p. 95). «È una estate, quella del Canavese e in altre province piemontesi-lombarde, veramente tremenda», e le cosiddette “azioni di polizia” che in gergo significano azioni di rappresaglia, si moltiplicano. (Ivi, p. 96).
E così scriveva, sulla X Mas, il canonico don Domenico Cibrario, parroco di Cuorgnè, «[…] arrivano la mattina del 31 luglio quasi tremila uomini, la Decima Flottiglia Mas, che lascerà tristissima memoria in tutto il Canavese». (Ivi, p. 98). Ed «Incominciano tosto le rappresaglie nelle famiglie dei partigiani. Tre mesi si fermano i soldati della Decima, e la caserma locale rigurgita di prigionieri civili. I familiari dei giovani datisi alla macchia sono quasi tutti imprigionati: sono ricercati gli indiziati politici. Fra i primi perseguitati sono i parroci, accusati di collaborazionismo coi partigiani». (Ivi, p. 98). Alcuni sacerdoti restano in galera anche per quasi un mese, villanie sono indirizzate al Papa ed all’Episcopato, e se i sacerdoti non vengono toccati, i luoghi di reclusione sono “bolgia d’inferno”. (Ivi, pp. 98-99).  «Vi sono camere di tortura, e parecchi escono malconci dalla caserma, per essere ricoverati all’ospedale», (Ivi, p. 99), e non si sa neppure quanti abbiano subito angherie e soprusi di ogni tipo, e vere e proprie persecuzioni, ma furono almeno 300 le persone che passarono nelle loro mani: sacerdoti, i medici di Cuorgnè, diverse donne ed anche bambini. «Quasi tutti vengono bastonati e torturati». (Ivi, pp. 99-100).

Pont Canavese si salva per un pelo dal rogo, ma continuano gli arbitrari fermi dei genitori di partigiani, che vengono portati a Cuorgnè ove ha sede l’Ufficio I e maltrattati. Ed ai nomi di Umberto Bertozzi e dello Schininà, tristemente famosi per i metodi utilizzati, si uniscono quelli dei loro collaboratori Ratta forse di nome Piero e Durante (nome non reperito), e quello di Luigi Carallo, comandante del Btg. Fulmine prima, comandante in seconda della Decima Mas poi. (Ivi, p. 99 e p.101).
Pont «aveva assunto un aspetto militare. In ogni postazione di blocco si erano costruite trincee ed istallati cannoncini e mitragliatrici, che venivano fatti funzionare ad ogni minimo allarme e quasi ininterrottamente tutte le notti». (Ivi, p. 101). La farina per il pane della popolazione non giungeva più dall’R.S.I., mentre le provviste annonarie erano ridotte al lumicino, ed era stato fatto divieto di suonare le campane. (Ivi, p. 102).

Ad un certo punto, il ‘Sagittario’, comandato sempre dal Fumai, si sposta in Val di Ribordone. Qui un partigiano e un marò si sparano contemporaneamente e muoiono, ma, a causa della morte del marò, i suoi compagni incendiano per rappresaglia tutte le case della frazione di Posio ed il Municipio e le scuole di Ribordone. (Ivi, p. 103). E si susseguono le torture ai prigionieri, fra cui si trova pure una giovane diciottenne partigiana, Luigina Trione, che viene violentata e torturata selvaggiamente anche a Torino, nella caserma di via Asti, (Ibid.) come capitato a molte altre, in altri luoghi, pure per mano di tedeschi, bande nere, repubblichini ecc. ecc., con esiti terrificanti a livello psichico e fisico nelle sopravvissute, ed anche in Luigina. (Cfr. per esempio, Imelde Rosa Pellegrini, “Omaggio alla memoria partigiana”, ed. Fondazione di Comunità Santo Stefano, Portogruaro, ‘Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera, Trieste-Istria Friuli -1919-1945, 3aedizione, Aned, Trieste 1978, ed altri ancora).  

Quindi tocca a Borgo Ticino. La scusa per una strage è l’uccisione di tre militari tedeschi. Fra gli allegati del processo alla Decima Mas, tenutosi a Roma contro Junio Valerio Borghese ed altri, vi è anche il “Rapporto del Nucleo dei Carabinieri di Borgo Ticino al Pretore di Borgo Manero in data 12 febbraio 1947”, che descrive detta strage. In esso si può leggere che il 13 agosto 1944, «erano giunti in Borgo Ticino reparti delle SS, tedesche e della X Mas, tutti provenienti da Sesto Calende, fu bloccato il paese. Armati di mortai, mitragliatrici, armi automatiche portatili di ogni genere e di autoblinde, portarono, con la minaccia delle armi e mediante sparatorie intimidatrici, tutti gli abitanti sulla piazza denominata ” Dei Martiri “. Ammalati, invalidi, bambini, donne, vecchi, tutti furono costretti a raggiungere la piazza». Quindi, terminato il rastrellamento, alla popolazione, tenuta a bada con le armi dai tedeschi e dalla X Mas, fu detto che si sarebbe bruciato il paese, per impedire che fosse dato ricovero ed assistenza ai partigiani, come ordinato dal Capitano Krumhar, che comandava il gruppo tedesco (mentre quello della Xa era guidato dal ten. Ongarillo ma anche Ungarillo Ungarelli). E pur essendo stata pagata una taglia di 300.000 lire, 13 giovani furono messi al muro, di cui 12 caddero sotto i colpi delle armi naziste ed uno miracolosamente si salvò. Dopo l’eccidio la popolazione «venne buttata fuori dell’abitato, percossa e braccata; i nazisti e quelli della X Mas […] si dettero a rapinare, incendiare e distruggere ogni cosa. (…). Prima di iniziare le devastazioni e gli incendi la soldataglia della X Mas in combutta coi tedeschi, commise rapine di maiali, animali da cortile, biancheria, biciclette, radio, riserve alimentari di ogni genere, liquori, oggetti preziosi, valori correnti, il tutto per una quantità ingentissima». (Rapporto del Nucleo dei Carabinieri di Borgo Ticino, op. cit., in ‘Borgo Ricino, in: digilander.libero.it/ladecimamas/stragi3.htm).

Poi è la volta di Feletto, centro del ribellismo del Basso Canavese. «Il 15 agosto 1944 un gruppo di partigiani tende un’imboscata ad automezzi tedeschi in transito a Feletto. L’operazione riesce e nella sparatoria che segue muore un soldato (tedesco ndr). Immediatamente scatta un’operazione di rastrellamento condotta dalla Decima Mas. Muore un civile, tre partigiani sorpresi in un cortile sono uccisi a colpi di bombe a mano, un altro uomo viene trucidato a colpi di raffica di mitra». Quindi il 16 il paese viene bruciato dopo una terribile caccia all’uomo. Le case distrutte sono 262, 31 persone vengono prese in ostaggio e finiscono in Germania, parte del bestiame ed il grano vengono razziati, «Alle 15 i tedeschi si allontanano. Restano gli uomini della Decima Mas che continuano a depredare il paese». (L’episodio di Feletto. 15.8.1944, in: http://www.straginazifasciste.it/, Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 105).
E la Decima non si ferma. Infatti rastrella 12 uomini anche a Corio Canavese, un piccolissimo paese di montagna. (Ibid.). 

Ma le stragi della Decima non avvengono solo qui. Il 24 agosto 1944, a Guadine, in provincia di Massa Carrara, ai piedi delle Apuane, uomini della Decima rastrellano civili, e liquidano a raffiche di mitra 13 persone del paese, uomini e donne, sparando a caso verso il bosco, sulla strada e verso gli usci, e ferendone altre. Quindi danno fuoco all’abitato, distruggendolo per il 70%. Poi ritornano e incendiano Gronda, Redicesi e Resceto. (‘Strage di Guadine MS, http://digilander.libero.it/ladecimamas/stragi2.htm, e Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 106). Inoltre, nell’agosto ’44, Bertozzi minaccia di dare alle fiamme Villanuova, di bombardare Frassinetto e Alpette. Ma se questi paesi vengono poi risparmiati, sottostando ad imposizioni e vessazioni precise, in compenso la Xa Mas bombarda per giorni in direzione di Ronco e Campiglia, in Val Soana, uccidendo un civile, ferendone altri, creando terrore tra la popolazione. (Ricciotti Lazzero, op. cit., pp. 108-109). Quindi viene dato fuoco anche a parecchie case di Cuorgnè, (Ivi, p. 112) mentre il btg. Lupo partecipa, assieme a truppe tedesche e repubblicane, ad azioni per ristabilire ‘la sicurezza’ nelle valli dell’Alto Piemonte a confine con la Francia. (Ivi, p. 113). Infine, nell’ottobre, si presentano a Pont Canavese «truppe russe al soldo del tedesco», mentre Ronco viene incendiata dopo un rastrellamento con il solito bottino, e molti partigiani vengono catturati e mandati in Germania. (Ivi, p. 115). Una colonna di Alpenjäger e marò della Decima salgono in zona Ausone ed Agaro, ove danno alle fiamme case. (Ivi, p. 117).

I Tedeschi sono particolarmente contenti dell’attività antipartigiana della Xa Mas, ed il contrammiraglio Wilhelm Meedsen-Bohlken, comandante della flotta tedesca in Italia, annota, nella seconda metà del luglio 1944, che «altri reparti delle unità della Marina italiana sono stati avviati dal capitano di fregata principe Borghese alla lotta contro i banditi» e nell’ agosto scrive che «L’impiego della Divisione Decima […] nella lotta antipartigiana è continuato con successo sotto la direzione dell’alto comandante delle SS e della polizia». (Ivi, p. 107).
Fino a questo momento a nessuno dei marò è stato chiesto di giurare per l’R.S.I., (Ivi, p. 24 e p. 90), ma non si sa invero come la Xa Mas potesse agire senza un accordo o una certa qual dipendenza dall’ R.S.I., visto che pare che Borghese fosse stato nominato, il 14 febbraio 1944, sottocapo della Marina Nazionale Repubblicana.  (https://it.wikipedia.org/wiki/Marina_Nazionale_Repubblicana).

Mappa del Canavese, da: http://digilander.libero.it/garibaldi17/il%20canavese.htm

Ma c’è chi senza leggere forse nulla, intervista marò, mostrando i limiti delle fonti orali. 

Letto e quindi scritto quanto, che ha documentazione a supporto e conferme, resto strabiliata quando ascolto, su you tube, alcune frasi dette dal marò Sergio Denti, che non conosco e che non intendo offendere, ad un intervistatore ignoto, che pare nulla sappia della Xa Mas. L’ intervistatore gli chiede conferma del fatto che la Xa Mas avesse una regola per cui non doveva mai combattere contro gli italiani, e questi conferma sicuro. (Intervista a Sergio Denti della Decima Flottiglia Mas. Prima parte. In: https://www.youtube.com/watch?v=NweB6qMZz0w 28 dicembre 2017). Ma come si fa a credere ed a pubblicare cose di questo genere? – mi chiedo. Inoltre Sergio Denti sostiene che egli non era a conoscenza della guerra partigiana, di cui seppe solo nel dopoguerra, il che pare come minimo incredibile, in quanto poi egli dichiara di esser stato egli a Milano ed a Sesto Calende come uomo della Decima, ed in ogni caso.

Invece nella stessa intervista appare interessante quanto il Denti dice sul suo arruolamento. Egli afferma di esser stato, in un certo qual modo, una vittima di Mussolini, perché, giovanissimo, quando era un Balilla, si sentiva orgoglioso con quelle “divisina”, e che per lui «Mussolini era il Dio». Quindi a 16 anni si era arruolato volontario in Marina, facendo la firma falsa di suo padre, e divenendo, poi, esperto in esplosivi. Successivamente fu imbarcato sulla torpediniera silurante Orsa, comandata dall’ Ammiraglio Bucci.  Quindi fu ferito e l’8 settembre 1943, ancora claudicante, si mise a ricercare la sua nave, e finì a La Spazia, dove incontrò Valerio Borghese. Poi con la Decima si trovò a Milano, a Sesto Calende e nel Varesotto. Infine, alla fine della guerra, egli temeva di essere ucciso se si fosse recato a Firenze, non si sa da chi e non si sa il perché, ma a suo dire fu salvato dai Carabinieri. E proprio perchè era con i Carabinieri, la gente non gli fece nulla perché era intoccabile, il che pare davvero strano. (Intervista a Sergio Denti della Decima Flottiglia Mas. Seconda parte. (1945), in: https://www.youtube.com/watch?v=FegXHJvr1Bs).
Inoltre, sempre nella seconda parte dell’intervista, egli narra che Mussolini voleva arrestare Borghese, perché per Pavolini, a sua detta, il Principe doveva diventare un fascista, confermando quindi la non aderenza di Borghese e della Decima all’R.S.I. (Ivi). Poi però, negando persino il Patto d’Acciaio, sostiene che Mussolini non fu mai alleato di Hitler, e non si sa perché l’intervistatore non dica nulla, prendendo per oro colato tutto quello che sostiene il Denti. (Ivi).  

Non si capisce poi come mai Tele RDR 193 pensi che la Decima Mas sia un argomento tabù, senza neppure conoscere il volume di Ricciotti Lazzero, documentatissimo, e altre pubblicazioni, e scambi per verità vera quello che narra uno della Decima nell’intervista in: https://www.youtube.com/watch?v=KCsqtfHmmmk, che è pura esaltazione secondo me, del Principe Borghese. Ma quello che spaventa maggiormente è che detta intervista abbia avuto più di 8000 ascoltatori. E ci sono altre interviste su you tube sull’argomento, ma non posso sentirle tutte, anche perché, credetemi, se sono come le tre ascoltate, per una storica sono una sofferenza.

Ma dopo questo inciso, ritorniamo, insieme, alla storia della X Mas.

La Decima migra in Veneto e quindi a Tarnova.

Nel settembre 1944, dopo lo sfondamento della Linea Gotica ed il superamento del Passo della Futa da parte degli Alleati, vi è già chi ha capito, fra i repubblichini, i nazisti, e i collaborazionisti con i tedeschi, che la sconfitta è vicina. Odilo Globočnik e Karl Wolff pensano di far spostare Mussolini a Cividale, ma poi non se ne fa nulla (Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 130), e la Carnia viene data in mano ai Cosacchi, anche per farne una zona cuscinetto e l’ultimo baluardo a difesa. (Cfr. nel merito: Enzo Collotti, Il Litorale Adriatico nel Nuovo Ordine Europeo 1943-1945, Vangelista ed., 1974, pp. 11- 12, e Intervista inedita a Ciro Nigris, 2000, di prossima pubblicazione su www.nonsolocarnia.info).                                

E verso il mese di ottobre o novembre, i primi reparti della Xa Mas entrano in Veneto. Ma solo i primi giorni del mese dicembre varcheranno i confini dell’Ozak, dove «le autorità dell’R.s.i. non contano nulla». (Ivi, p. 131 e p. 153). Il Veneto, che fa parte ancora della ‘Duce Italien’ che finisce al Livenza ed ai monti del Cansiglio, è diventato importantissimo nel caso il fronte finale sia quello dell’Est. (Ivi, p. 132). La Decima verrà sempre adoperata per attività antipartigiana, ma in questo caso «si sente pure, se in lontananza, odor di slavi, che il fascismo considera da sempre suoi nemici viscerali» (Ibid.).

Parte anche la Sagittario, ma metà dei suoi soldati, circa 300 – 350 marò, scendono a Monza dal treno per ritornare a casa od unirsi a Beniamino Fumai. (Ivi, p. 125).

La Decima pone il suo comando, il tribunale militare di guerra e l’ufficio arruolamento nel Castello di Conegliano, il comando operativo, con l’ufficio I, che rinnoverà ivi «le barbarie del Piemonte», (Ivi, p. 132) invece, si sistemano a Maniago, dove si trova anche un campo di aviazione, mentre si sente già parlare dello spostamento di un reparto a Tolmino. (Ibid.). Solo il btg. Lupo non segue il resto della Decima, e si trasferisce, da Alba a Milano, e quindi sull’Appennino bolognese. (Ivi, p. 133).  

Appena giunta in Veneto, la Decima inizia una caccia spietata ai partigiani. Il 6 novembre la compagnia guidata dal Bertozzi piomba su Orgnese, una frazione di Cavasso Nuovo, raduna gli abitanti, sceglie tre uomini a caso, li fa denudare e quindi il famigerato capo dell’Ufficio I in persona li percuote prima con un bastone poi con una striscia di cuoio, per terminare l’opera utilizzando cani per mordere le gambe dei disgraziati. (Ivi, p. 137). Quindi, qualche giorno dopo, ritorna sul posto ed opera un grande rastrellamento prendendo globalmente, in più giorni, circa una cinquantina di ostaggi. Parecchi sono inviati in Germania, altri interrogati e torturati. 14 di loro finiranno fucilati lungo il muro di cinta del cimitero di Udine l’11 febbraio 1945. (Ibid.).
A Crocetta di Montello, in provincia di Treviso, 13 partigiani vengono orrendamente seviziati e poi uccisi. (L’eccidio di Crocetta del Montello, in: digilander.libero.it/ladecimamas/stragi5.htm#).

Il 30 novembre 1944 tutta la Val Meduna viene occupata e setacciata, Tramonti di Mezzo viene occupata; muoiono a Palcoda Paola e Battisti; ed altri partigiani, sia osovani che garibaldini, vengono presi e giustiziati sia a Tramonti di Mezzo il 13 dicembre 1944, che a Pordenone l’11 gennaio 1945. (Ivi, p. 139). Anche a Tramonti di Sotto i marò catturano diversi partigiani, che fucilano a rate. (Ibid.). E la Decima continua nella sua spietata lotta antipartigiana, ma i tedeschi hanno già previsto che essa intervenga, assieme a elementi della loro polizia ed ad ustascia, domobranci, cetnici, contro l’Esercito di Liberazione della Jugoslavia, per frenare l’avanzata dei combattenti contro il nazifascismo da est, per chiudere le vie attraverso cui passano i viveri, e liberare vie importanti per una possibile resistenza in caso di sbarco od avanzata degli Angloamericani.

Tarnova.

Mappa della Selva di Tarnova, da https://it.wikipedia.org/wiki/Selva_di_Tarnova

La Selva di Tarnova (Trnovo) ha quindi rilevanza bellica, ed i tedeschi vogliono liberarla dal Novj ad ogni costo. Ma essa è anche fitta, montuosa, piena di rocce e doline, che possono dare rifugio ai partigiani in particolare sloveni. E l’Italia dell’Est appare, in quel momento, nel dicembre 1944 – gennaio 1945, uno degli ultimi baluardi di difesa del Reich.

I tedeschi non si possono più servire della 188a divisione di montagna, organizzatissima ed addestrata al combattimento perché è stata spostata, e così decidono di inviare la ‘Decima’ prima a due passi da Gorizia, a poi da lì nella selva di Tarnova, ma essa ha «molto entusiasmo ma scarsa preparazione in campo strategico […] e scarsa dimestichezza con la guerra di movimento». Inoltre è «anche armata […] in modo leggero, […] e difetta nei servizi di collegamento e comunicazione». (Ivi, pp. 155- 156).

La zona era stata già oggetto di una ‘operazione di pulizia’ da parte dei tedeschi nell’ottobre 1944, (AA.VV., La Slovenia durante la seconda guerra mondiale”, Ifsml, 2013, p. 353) Lo scopo primario di queste azioni era quello di occupare la zona in mano ai partigiani, tagliare le vie di rifornimento dalla Valle di Vipacco e dal Carso alle unità partigiane del Novj, cercando così di eliminare il IX Corpo, ed al tempo stesso di creare presidi a difesa dell’occupazione. (Ibid).  

L’azione incomincia il 19 dicembre, e vede impegnati il ‘Sagittario’, che sloggia i partigiani da Tarnova, ed il ‘Barbarigo’, che raggiunge Chiapovano (Čepovan) senza incontrare resistenza. L’azione pare quindi a favore della Decima, ma poi accade un fatto importante. Il vice- comandante della Xa Mas, Luigi Carallo, che si muove senza scorta, viene bloccato da soldati dell’esercito di Liberazione jugoslavo, che lo uccidono, e trovano, sul suo corpo, le carte del piano di attacco. (Ivi, p. 157).

Ma in zona l’Esercito di Liberazione Jugoslavo non ha molti partigiani da schierare a difesa, ed inizialmente cede, ma poi, con l’arrivo di rinforzi, la situazione si rovescia a suo favore. Arretrano i tedeschi, sterminati presso Chiapovano il 23 dicembre, mentre il ‘Barbariga’, che aveva conquistato detto paese, deve abbandonarlo. (Ibid.). Combatte il giorno di Natale il btg. ‘Sagittario’ a Casale Nenzi (Nemci), mentre gli uomini dell’‘N.P’ si trovano in posizione decisamente difficile, ma riescono a rientrare al paese di Tarnova, già occupato. E con questo termina questa offensiva che non è riuscita a distruggere il IX Corpo, ma ad indebolirlo, e che ha permesso la creazione di una serie di avamposti pericolosi per i partigiani del ‘Novj. Infatti Tarnova, Gargaro (Grgar), Montenero d’Idria (Črni vrh), con il villaggio di Col, sono caduti in mano ai collaborazionisti ed alle SS. (Ivi, p. 160, AA.VV., La Slovenia, op. cit., p. 353). La possibilità per i tedeschi di puntare al centro della Selva di Tarnova, diventa una realtà.

Gli uomini dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo si trovano in grande difficoltà, e devono combattere con il freddo e la neve, senza viveri, munizioni, equipaggiamento, mentre solo 18 aerei alleati sorvolano, il 4 gennaio, il cielo per portare aiuto. Ma poi la situazione migliora, ed il IX Corpo decide di contrattaccare per recuperare Tarnova, in mano al Btg. Fulmine della Decima Mas, formato da 214 uomini, (non reali bersaglieri, come precisa Ricciotti Lazzero nel suo: “La verità sulla battaglia della Decima Mas nella selva di Tarnova”, in: “La Resistenza Bresciana”, n. 19, aprile 1988, p. 72), che ha tre mortai da 81, quattro mitragliatrici e diciassette mitragliatori. Inoltre Tarnova è circondata da reticolati di filo spinato e da una cintura di 24 fortini in legno. (Ricciotti Lazzero, La Decima Mas, p. 160 e p. 163, e Ricciotti Lazzero, La verità sulla battaglia, op. cit., p. 75).

I combattimenti causati dalla controffensiva partigiana sono durissimi, ed i tedeschi non intendono mollare pure una possibile via di ritirata verso l’Austria. «Nevica, anzi c’è una tempesta di neve quando la 19a Kosovelova brigada inizia l’attacco, il giorno 19 gennaio alle 3 e mezzo del mattino. A fianco della Kosovelova vi sono, in posizione di difesa contro eventuali attacchi, la 157a Brigata ‘Guido Picelli ‘ che deve proteggere Dolenja Tribuša, la Bazoviška brigada, che fa altrettanto per Otlica, Col e Črni vrh [Montenero d’Idria], mentre la Gregorčičeva e la Gradnikova brigada, rafforzate con la compagnia d’assalto e con il 2° battaglione della Prešernova brigada, occupano le posizioni in direzione di Gorizia». (Ricciotti Lazzero, La Decima Mas, p. 163).

La Kosovelova brigada attacca con forza, ed i combattimenti diventano selvaggi.  Da Gorizia i tedeschi inviano una colonna motorizzata, che però non giunge mai a destinazione perché viene bloccata dalla Gradnikova brigada attestata sul San Gabriele (Škabrijel); una compagnia del Valanga arriva in aiuto fino a Prevallo dove finisce in un campo minato e trovano la morte 14 marò saltati con l’autocarro che li trasportava. (Ivi, pp. 163 -164). Infine il 20 gennaio 1945 i tedeschi, motorizzati, tornano all’attacco con 700 uomini, occupando monte San Gabriele dopo aver bombardato i partigiani sloveni. E quindi la battaglia vede impegnati il 3° battaglione del 10. SS Polizei – Regiment, i battaglioni della Decima ‘Sagittario’ e ‘Barbarigo’, ed il 3° battaglione del 15. SS. Polizei – Regiment con l’appoggio di 6 carri armati e autoblindo. (Ivi, p. 164).

L’attacco dei nazisti e dei collaborazionisti ha successo e un gruppo di loro penetra di notte, a causa di errori della Gregorčičeva brigada a Trnovo, attraverso Vitovlje e Krnica. Ma «a Trnovo trova vivi soltanto 35 italiani e ritorna precipitosamente a Gorizia senza sostare nel villaggio». (Ibid. L’ azione è descritta anche in: AA.VV., La Slovenia, op. cit., p. 354).

Cosa era accaduto? Un gruppo di attaccanti nazisti o collaborazionisti aveva puntato su Santa Caterina per occuparla, il ‘Barbarigo’ aveva combattuto per occupare Monte San Gabriele, un gruppo di tedeschi con una compagnia del ‘Sagittario’ con tre carri armati avevano conquistato, dopo aspri combattimenti, Monte San Daniele, 200 camicie nere della Milizia aveva tentato un aggiramento, mentre gli uomini del ‘Fulmine’ assediati a Tarnova morivano a decine. Gli aiuti richiesti non erano mai giunti. (Ricciotti Lazzero, op. cit., p. 164 e p. 167). Poi, il 22 gennaio, ricompariranno gli aerei degli alleati sulla selva di Tarnova, ma non saranno solo 18 apparecchi, saranno 80. (Ivi, p. 160).

Sul secondo testo pubblicato da Ricciotti Lazzero, La verità sulla battaglia della Decima Mas, op. cit., egli scrive, invece, che i tedeschi ed il ‘Valanga’ arrivarono a Tarnova all’alba del 21 gennaio e trovarono vivi 90 uomini del Fulmine su 242, con un solo ufficiale. Nella notte però, altri 24 uomini erano riusciti a passare in mezzo ai partigiani jugoslavi che li asserragliavano, ed avevano trovato riparo, feriti leggermente, a Sarcano. Furono abbandonati 6 feriti gravi, che nessuno poteva curare essendo morti il medico e gli infermieri del gruppo, e furono ritrovati colpiti da arma da fuoco ma nessuno seppe chi fu a sparare.  (Ricciotti Lazzero, La verità sulla battaglia della Decima Mas, op. cit., p. 73). Inoltre ad un certo punto da Tarnova, il comandante del ‘Fulmine’, chiese aiuto immediato a Gorizia, ma gli fu risposto testualmente: «Tenere duro. Siete i migliori della Decima. Borghese», anche se nessuno sa se fu davvero il Principe a mandare quel messaggio. (Ivi, p. 73).  I cadaveri recuperati furono 36 e vennero trasportati e tumulati a Conegliano Veneto. (Ivi, p. 74).

E se Il Notiziario addestrativo n. 17 dello Stato Maggiore Esercito della R.S.I. riportò che i superstiti rientrarono cantando inni, ciò non fu assolutamente vero. Ma leggendo l’intero articolo di Ricciotti Lazzero, La verità sulla battaglia della Decima Mas op. cit., pp. 75- 76, ci si accorge che i falsi furono più d’uno, e forse ora vengono presi per veri, compreso il rapporto a Mussolini, scritto da più mani dopo quello a Borghese. (Ibid.).

Alla seconda fase di ‘pulizia totale’ della zona in mano ai partigiani, all’interno della quale trova collocazione l’episodio di Tarnova ove morirono molti marò del ‘Fulmine’, nel marzo 1945 seguì la terza, ove unità del IX Corpo dell’esercito di Liberazione Jugoslavo restarono decimate dai combattimenti e dal cibo scarso, avendo il nemico occupato al Valle di Vipacco e subirono pure diserzioni. (AA.VV., La Slovenia, op. cit., p. 355).

Alla fine della guerra.

La guerra volge alla fine, ed anche la Decima Mas, nel gennaio 1945, pare entri a far parte dell’R.S.I., ‘per volontà del Duce’. (Ricciotti Lazzero, La Decima Mas, op. cit., p. 169). Essa deve spostarsi dall’Adriatisches Küstenland nuovamente in Veneto, per lasciar spazio alle truppe naziste e collaborazioniste che si ritirano da est. (Ivi, p. 170), mentre gli uomini del btg. ‘N.P’., composto da uomini addestrati a Valdobbiadene, che nell’offensiva di dicembre contro il Novj sono stati utilizzati nella zona tra monte San Daniele, Locavizza e Chiapovano, attendono di essere inviati contro gli angloamericani. Ma invece il Comandante Nino Buttazzoni li avvisa che saranno spediti a compiere un’altra azione antipartigiana. Dalle file del battaglione si levano urla di protesta, ed alcuni marò si strappano il distintivo della Xa Mas. Quindi un sergente originario di Roma inizia a parlare a nome degli insoddisfatti, ma viene zittito dal comandante con un colpo di pistola, che gli entra in bocca e gli esce dall’occhio, ed i suoi compagni si precipitano a soccorrerlo. Quindi il tribunale di guerra si riunisce a Conegliano il 12 gennaio e commina pene per ammutinamento che vanno da 8 a 10 mesi di reclusione. (Ivi, p. 162-163). 

Quelli del ‘Fulmine’ reduci da Tarnova, invece, se ne vanno dalla ‘Decima’ prima del tempo, con il loro comandante in testa. (Ricciotti Lazzero, La verità sulla battaglia della Decima Mas, op. cit., p. 76), mentre nel febbraio i tedeschi decidono di mandare i marò a combattere in Romagna e nelle Valli di Comacchio. Verso la fine della guerra, quelli della Decima vengono concentrati ivi e nel Ferrarese, mentre il comandante Borghese distribuisce croci di ferro a Marostica, ed ordina di difendere il Cansiglio, quando il generale conte von Schwerin si è già arreso agli inglesi. (Ricciotti Lazzero, La Decima Mas, op. cit., pp. 219-221). Junio Valerio Borghese, che ha sempre mantenuto contatti con il Sud, aspetto di cui era anche a conoscenza anche Wollf, che dal febbraio 1945 ha trattato la resa per sé e per il Principe, sa che sarà salvato, ed attende a Milano che giunga una Jeep, guidata dall’inviato della C.I.A. Jiom Angleton, a prenderlo, ed a portarlo a Roma, vestito da soldato Alleato. Per gli altri della Decima la storia del fine guerra è diversa, e varia da gruppo a gruppo, mentre il nucleo principale si arrese ai partigiani a Thiene. (Ricciotti Lazzero, La verità sulla battaglia della Decima Mas, op. cit., p. 76).

Poi i processi, e l’amnistia Togliatti, ma questa è altra storia.

No alla Xa Mas nelle sedi istituzionali della Repubblica Italiana.

Sapete, mio padre mi diceva sempre che dovevo essere orgogliosa di essere italiana. E proprio perché sono italiana e siamo italiani, non possiamo ammettere che i simboli di chi lottò a fianco degli occupanti nazisti contro chi voleva riportare l’Italia agli italiani ed alla democrazia, entrino nelle sedi della Repubblica, nata sul sangue versato da tanti cittadini della penisola, dando valore, credibilità e spessore ad un gruppo militare come la X Mas.  E francamente non so, ammesso sia vero, come lo stesso Giorgio Napolitano, nel 2013, abbia reso onore alla nota formazione. (http://uncrsimilano.blogspot.it/2013/03/il-presidente-napolitano-rende-onore.html). E rimando pure al mio precedente: ‘No alla X Mas nelle sedi istituzionali della Repubblica italiana. Motivi storici’, in: www.nonsolocarnia.info, che  ho modificato nella parte relativa a Tarnova, che era inesatta. 

E chiudo dicendo che un paese come l’Italia merita di conoscere la sua storia e non la mistificazione della stessa, e deve rendere omaggio ha chi ha partecipato a costruire una Nazione repubblicana e democratica, non a chi ha collaborato con i nazisti.

Laura Matelda Puppini

Si ringrazia Alessandra Kersevan per avermi inviato con email l’articolo di Ricciotti Lazzero: ‘La verità sulla battaglia della Decima Mas nella selva di Tarnova’, in: “La Resistenza Bresciana”, n. 19, aprile 1988. Chi volesse leggere il volume di Ricciotti Lazzero, ‘La Decima Mas. Compagnia di Ventura del Principe Nero’, Rizzoli, Milano, 1984, lo può prendere in prestito presso la Biblioteca centrale o quella della circoscrizione E di Udine, oppure presso l’Anpi di Udine o la biblioteca di Tarcento, ma può darsi si trovi anche da altre parti. Da parte mia cercherò di trovare in prestito il volume consigliatomi un anno fa da tale Lorenzo, di Sole De Felice.

L’immagine che presenta l’articolo è una di quelle che si trovano al suo interno, rappresenta il simbolo 10a Mas ed è tratta da:  https://wikivisually.com/lang-it/wiki/X%C2%AA_Flottiglia_MAS_(Repubblica_Sociale_Italiana). Laura Matelda Puppini

 

 

 

 


Francesco Cecchini. Il Mali tra oro, miseria, calore e musica.

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Introduzione.  

Io trovo molto belli i racconti di Francesco, perché aprono la mente a paesaggi, culture, realtà, spesso a noi sconosciuti, attraverso l’esperienza diretta, non attraverso immagini in patinata e qualche testo trovato qui e là. Vi invito pertanto caldamente a leggerli, per non chiudere la mente in una visione friulan – lumbard – italiano centrica, condita da più di un pizzico di neoliberismo, come vi invito, con lo stesso spirito, a visitare a Roma l’interessantissimo Museo delle Civiltà – Museo Preistorico Etnografico ‘Luigi Pigorini’ all’Eur. Laura Matelda Puppini

«Ad Aminata Traoré, la voce del Mali.

Il Mali è immenso. Immensa la sua geografia, la sua storia, la sua cultura. Quasi metà del Mali è un immenso deserto, il Sahara. Anche la povertà è immensa come il deserto, e non tutti i bambini arrivano ai cinque anni.

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Ho trascorso in Mali una quarantina giorni, trenta a Manantali per lavoro, e dieci in giro, un tempo sufficiente per rendermi conto della vastità del paese, ma non per conoscerlo.                                                                

Arrivo di sera a Bamako ‘lo stagno del caimano’ in lingua Bambara (1), la capitale, con un volo Air France da Parigi. L’ ‘Hotel De L’Amitié’ è un albergo moderno senz’anima e personalità, salvato solo dalla posizione, che dona una vista spettacolare sul fiume Niger, sotto un cielo stellato.

Appena sveglio mi affaccio al balcone: il sole è già alto nel cielo. Di fronte c’è il fiume, chiaro e calmo; in basso i giardini verdi e gli alberi di palma alti ed immobili. Di là del fiume il profilo della città si confonde in una leggera nebbia tropicale. L’aria di questa Africa è tiepida, non ancora infuocata, ma tra poco inizierà il calore, mentre la stagione delle piogge è lontana.

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Per andare a Manantali prendo il treno per vedere un pezzetto minuscolo di Mali. Un proverbio dice: «Meglio vedere una volta con i propri occhi che ascoltare cento volte». Ad ogni stazione donne in ‘boubou’ colorati offrono riso con verdure, frutta ed acqua. Le ore del viaggio procedono lentamente, come il treno.                                                                            

Manantali è incastonata tra montagne, fiume e foreste, ed offre alla vista un contrasto architettonico tra i tetti a punta delle capanne rotonde in bambù e le case del cantiere. I tetti delle capanne mi ricordano i cappelli vietnamiti: ho lasciato il Viet Nam da poco.
Per me Manantali è letteratura poliziesca, lavoro, acqua, è la diga che produce elettricità, anche per il vicino Senegal, sbarrando il corso del Niger e del Senegal.  

Il fine settimana visito i dintorni fatti di laghi, fauna selvaggia, villaggi. Le sere leggo i gialli, che mi sono portato dall’Italia, ma li termino in un paio di settimane. Un collega francese, Jean-Philippe mi impresta un libro con due romanzi polizieschi, L’assassin du Banconi’ e ‘L’honneur des Keïta’ di uno scrittore maliano, Moussa Konaté. Oltre che polizieschi i due romanzi sono un ritratto della società del Mali. Il primo racconta le credenze popolari, l’influenza dei ‘marabout’ e, soprattutto, i metodi di tortura della polizia politica. Il secondo è imperniato sul racconto della vita di una famiglia in un villaggio: un clan chiuso con pesanti segreti. In certo senso per me rappresentano un’introduzione al paese dove sto trascorrendo alcuni giorni.

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L’oro del Mali è la ricchezza del paese, come del resto lo era ai tempi dell’Impero del Manden.
A Manantali, nel quartiere Bamako-Coura in centro città, vi sono decine di orefici che vendono gioielli di produzione artigianale maliana. Molte sono ancora le miniere d’oro nel Mali, ma appartengono, in genere, a stranieri.

Con un aereo privato volo da Manantali alla miniera di Syama, 300 chilometri a sud-ovest di Bamako. Mi porta là l’interesse a comprare due sonde che sono state importate per il consolidamento della diga di Manantali, ma che possono essere utilizzate pure per sondaggi con la tecnica “a diamante”. A Syama il rumore assorda, giorno e notte e fa davvero molto caldo, mentre le perforazioni individuano l’estensione del deposito d’oro.  Gli strati estratti vengono poi analizzati, ed una fabbrica rompe il minerale recuperando circa un paio di grammi d’oro per tonnellata.

Mentre in miniera e nella fabbrica lavorano neri, maliani e africani, l’unico luogo frequentato quasi solo da bianchi è il Bar Gold: un caffè dove si beve birra, datato di una piscina, un biliardo ed aria condizionata.
La miniera, già sfruttata, ed è ormai un grande mare di fango, profondo due o tre metri. Ogni tanto l’oro estratto prende il volo, ma non tutto atterra a Bamako, città musulmana.

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Quando ritorno a Bamako vado ad abitare di nuovo all’Hotel De L’Amitié, ed il canto un muezzin, con la prima preghiera del mattino, mi dà il buongiorno. Il sole non è ancora sorto, e l’alba mi trova a far colazione sulla terrazza dell’albergo.

Per andare in centro attraverso il Niger, vi è un lungo ponte, a Bamako, che un cartello dice chiamarsi ” Pont du Gardien du Lieux Saints de l’Islam” ma che è più noto come “Pont de Roi Fahd’, perché dono del re saudita, e in precedenza come “2e pont de Bamako”. (2).
Sui muri della città albergano scritte: “Viva l’Islam”, ” Abbasso la pornografia”, “Chiudere tutti i bar e i night club”, “Allah Akbar”. Bamako però è colorata, nelle strade si sente musica e si odono canzoni anche sensuali, le donne non portano il velo, ma hanno le spalle nude e alcune ragazze indossano minigonne. Nei mercati si vendono molti ‘gris-gris’, amuleti vudù che proteggono dalla sfortuna e attirano la buonasorte, niente a che fare con l’Islam, ma con religioni etniche. Insomma, Bamako non sembra per niente a una città musulmana dell’Arabia Saudita.

Ed il Mali è anche musica e canto, ed ogni gruppo etnico ha la sua musica ed i suoi canti, che accompagnano, tradizionalmente, tutti gli eventi della vita.

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Prendo il treno per Manantali alla stazione di Bamako per fare ritorno alla città che mi ospita. Nel 1970, nel buffet del Station Hotel, fu fondata la ‘Rail Band’ divenuta poi la ‘Super Rail Band’ tappa fondamentale per Salif Keita, l’albino detto the Golden Voice of Africa e Kante Manfila, il chitarrista nero originario della Guinea e leader del gruppo’ Les Ambassadeurs’. Quando ritorno a Bamako compro diversi cd di Salif Keita, che mi propongo di ascoltare per conoscere, per capire … per gustare …

Il francese, Jean-Philippe, che mi ha prestato i due romanzi di Moussa Konaté, mi parla del cinema del Mali, che si è sviluppato dopo l’indipendenza ed in particolare nel periodo socialista cioè dal 1962 al 1968. Poi la dittatura militare ha condizionato, ma non completamente, la libertà d’espressione anche filmica. I film hanno temi vari, ma profondamente radicati nella cultura e nell’ambiente socio-politico del Mali.
Jean-Philippe mi fa il nome di alcuni cineasti: Souleymane Cissé, Cheick Oumar Sissoko ed altri, che mi segno.

A Bamako leggo regolarmente sui quotidiani i film che proiettano nei cinema della città, il ‘Rex’, vicino alla stazione, il ‘Soudan’, il ‘Babemba’. Tutti proiettano film americani con sottotitoli francesi o doppiati in francese.
Visito pure il ‘Centre français de documentation de Bamako’ presso l’ambasciata di Francia, ma, al momento, danno solo film francesi di qualità. Casualmente compro la video cassetta di un vecchio film di Cheick Oumar Sissoko, ‘Nyamanton ou la leçon des ordure’. È un film per ragazzi, con protagonisti due giovani, fratello e sorella, costretti a lavorare per potersi comprare un banco a scuola. Il fratello raccoglie immondizie. La trama si svolge a Bamako e ed è una forte denuncia delle condizioni di vita nei quartieri poveri della città.

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Quindi il mio viaggio prosegue a Ségou, Mopti, importante porto fluviale, Djenné, la “città di fango”. Ségou si trova a nord-ovest di Bamako, a circa 200 chilometri. A tratti, lungo la strada sui lati, si vedono alberi verdi, che contrastano con un paesaggio di terra color ocra e di sabbia rossa.

La visita a Ségou è un viaggio nel passato coloniale. Gli edifici pubblici, il municipio, la caserma, l’ospedale, la cattedrale appartengono all’architettura coloniale dai colori delicati: giallo dorato, arancione, azzurro. Anche le abitazioni, spesso a due o tre piani, e le ville sono costruzioni che risalgono a quando il Mali era Sudan francese. Non è difficile immaginare come i francesi vivessero qui comodamente: la siesta nel pomeriggio, ricevimenti la sera con abiti lunghi e smoking tropicali, camerieri in livrea.

Ma ora tutta Sègou è in uno stato di abbandono. Il fiume, il Niger, è sempre là, presente: in una strada che porta al fiume, in un portone aperto che dà su un cortile, in una sala cinematografica dell’epoca coloniale, sulla spiaggia del fiume. I muri che recintano il cinema sono gialli, i banchi e lo schermo sono in pietra ancora intatta, la sala di proiezione è piccola ed in mattoni. Lì, un tempo, venivano proiettati film francesi con Jean Gabin e Michelle Morgan, ora, forse, se il tempo e le piogge lo permettono, si possono vedere film americani, indiani, di Hong Khong.

A Mopti mi fermo un paio di ore per guardare un edificio, un centro di ricerca e di formazione, creato da un architetto italiano, Fabrizio Carola (3), che ha pure progettato il Mercato delle Erbe Mediche a Bamako.
Carola mi appare interessante perché non usa materiali che contribuiscono alla desertificazione, ed il suo sistema costruttivo si basa sull’esclusivo utilizzo di strutture funzionanti per compressione: archi, volte e cupole.

I materiali sono pietra locale per la piattaforma, mattoni di terra cotta per gli archi, le volte e le cupole. Gli archi e le volte sono stati costruiti con l’aiuto di forme di legno fatte sul posto, e la costruzione è essenziale, priva di rifiniture, e costa certamente poco. Sono colpito per il sostanziale disinteresse in Mali per le costruzioni di Fabrizio Carola: originali, rispettose dell’ambiente, ma ben poco replicate.

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Djenné è una città-monumento storico, circondata dalle acque del fiume Bani, e si raggiunge in traghetto.
È isolata, e mi chiedo se il secondo millennio, che nel resto del mondo sta terminando, sia arrivato sin qui. Vi è una sola linea telefonica che non sempre funziona, la posta arriva e parte una volta alla settimana, con irregolarità. Non c’è nessuna parabola per captare segnali, che pure esistono in Mali.

Djenné richiede tempo per conoscerla, ed io vi ho trascorso solo poche ore, l’ho solo velocemente guardata, ed ho letto poco e nulla su di lei. È una domenica pomeriggio, quando vi giungo, e Djenné è abitata solo dal calore.

Ritorno il giorno dopo, lunedì, giorno di mercato.
La spianata di fronte a una maestosa moschea si riempie, come per incanto, di vita e colore, e
per lo più donne, vendono di tutto. Le più giovani hanno gioielli e sorridono. Le merci arrivano, da sud e da nord, in piroghe zeppe di cotone, riso, pesci, noci di cola.
Al mercato si possono comperare pure montone grigliato e thè alla menta che riempiono del loro odore ogni cosa, e si possono incontrare tuareg, vestiti di blu, che vendono oggetti d’argento. La musica che esce da radioline riempie l’aria.

Cammino un po’, con una guida, per le stradine di un quartiere della città. Le case sono tutte in mattoni di terra cruda color ocra, l’architettura è omogenea. Rimpiango di non avere con me una macchina fotografica. Me ne vado presto, un po’ dopo il mezzogiorno, ma prima di lasciare Djenné, la guida mi racconta la leggenda della fondazione della città, databile intorno al 1200. Gli dico di parlare piano, mentre traduco e scrivo le sue parole su un quaderno.

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Djenné era un tempo un villaggio ove convivevano contadini ‘Bobo’ e pescatori ‘Bozo’. Dopo la distruzione di Koumbi, capitale del regno di Wagadu, i ‘Soninké’ si stabilirono a Djenné.

Non volendo tetti di paglia, volevano costruire case in muratura. Ma ogni volta che innalzavano un muro, raggiunta una certa altezza, l’argilla si trasformava in sabbia e le pareti crollavano. Ora bisogna dire che i costruttori si erano impegnati a erigere un recinto per proteggere il loro luogo di residenza dalle aggressioni, ma non riuscivano a portarlo a termine. A questo punto fu consultato un oracolo, per scongiurare quello che si riteneva un incantesimo malvagio. Questi disse che semi umani (sperma) avevano inquinato l’acqua del fiume, facendo adirare gli spiriti dell’acqua, e che era necessario un sacrificio umano per ristabilire l’ordine. L’oracolo disse che Tapama, una giovane ‘Bozo’, doveva essere murata viva in modo che le pareti reggessero.

La designazione della ragazza provocò un sentimento di dolore, costernazione e pena, ma i genitori di Tapama accettarono la decisione dell’oracolo con orgoglio: per loro la scelta del sacrificio della loro figlia era un motivo d’onore. Per questo la madre di Tapama incoraggiò la giovane a sacrificarsi con dignità e onore. Il sacrificio doveva avvenire il settimo giorno del mese lunare.

Nel giorno stabilito, mentre le ragazze che l’accompagnavano piangevano, Tapama cantava: «Che onore per me! Ah, che onore! Sono orgogliosa di morire per il mio villaggio. Orgogliosa di morire per prosperità del mio villaggio. Domani il mio nome sarà onorato. Il nome di mio padre sarà onorato. Il nome di mia madre sarà onorato. Sono orgogliosa».

I muratori erano al lavoro e aspettavano la ragazza per murarla viva. Tapama era vestita come una principessa e fu consegnata ai muratori. Vennero cantati i meriti del padre, Kalifa Djenepo, e della madre della ragazza.

Tapama ora piangeva e il fiume si infuriò, le acque strariparono. Le pareti si sciolsero sotto la furia delle acque. I muratori non si scoraggiarono e ripresero la costruzione del muro. Quando le pareti raggiunsero le ginocchia della ragazza, le sue lacrime si mescolarono con le acque e le pareti crollarono di nuovo.
E ciò accadde più volte, finchè i muratori riuscirono a erigere la parete sino al collo di Tipama.
Allora Tipama Djenepo smise di piangere, fu murata e morì. Il lutto durò sette anni, sette mesi e sette giorni.  La tradizione dice che ogni volta che qualcuno canta la canzone di Tapama, conosciuta come ‘Canzone di Mezzanotte’, a Djenné, si sente il respiro della ragazza.

Ella è ricordata come la giovane vergine martire di Djenné.

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Non ho tempo per visitare i paesi dei Dogon e Timbuctù e men che meno il Sahara. In un piccolo museo di Bamako vedo esposti maschere, costumi, foto della gente, della falesia e dei villaggi dei Dogon. Compro ‘Les Dogon du Mali’ di Gérard Beaudoin. Lo sfoglio quanto basta per capire che la terra dei Dogon è un universo a parte non solo dal Mali africano, ma da tutto il mondo.

Per quanto riguarda Timbuctù, leggo della città su di una rivista culturale maliana, della sua sinagoga, del mercato e del cimitero ebraici, della biblioteca, dell’università e delle sue moschee, arti, musiche, danze.

A poche ore di cammello o di fuoristrada c’è il Sahara, quasi la metà del Mali. Il Sahara è abitato dai tuareg che non sono maliani, ma popolo a sé. Non conoscono confini e limiti territoriali, e non è difficile vederli a Bamako o in altri luoghi mentre vendeno gioielli in argento.

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Di notte, sull’aereo che mi riporta in Europa, a 11.300 metri di altezza, penso a quello che porto con me. Dal Mali porto una maschera in legno Dogon, che in Italia scopro rosa, all’interno, dai tarli, i cd di Salif Keita, la videocassetta di ‘Nyamanton ou la leçon des ordures’ di Cheick Oumar Sissok, il libro ‘Le Dogon du Mali’, una guida turistica, molti ricordi e il rimpianto di doverlo abbandonare.

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Tempo dopo aver lasciato il Mali, compro e leggo ‘Le viol de l’imaginaire’ di Aminata Traoré.

Ho sentito parlare molto a Bamako, di Aminata Traoré, per il ruolo politico di ministro della cultura e per il suo impegno sociale nel quartiere popolare di Missira dove ha fondato il centro culturale ‘San Toro’, che ha, pure, una galleria artistica che espone sculture, quadri, costumi maliani.

Lo scopo del libro è analizzare il ruolo della globalizzazione nel creare povertà, ma nei primi capitoli Aminata Dramane Traoré ricorda l’indipendenza del 1960. Sono ricordi personali di una adolescente, ma anche ricordi storici. Dopo l’indipendenza il governo di Modibo Keita tentò di costruire una società socialista. Il tentativo fu fatto fallire dall’interno e dall’esterno, con in prima fila l’ex paese colonizzatore, la Francia, inferocita per la nazionalizzazione di imprese dove aveva interessi. Politici ed economisti liberisti francesi, o filo francesi, definirono il governo di Modibo Keita una dittatura e la sua economia disastrosa. Il Mali visse quello che vissero gli tutti gli altri stati africani, che con l’indipendenza sconfissero il colonialismo, ma dopo furono riconquistati dal neocolonialismo.

Questo mi porta a riflettere sul destino dei popoli che non riescono a riprendere la loro libertà ed il loro rapporto con il territorio a causa del mondo degli affari, che ha rotto e spezzato esperienze secolari, creando poi anche migrazioni epocali, origine di conflittualità crescenti e di nuovi ‘razzismi’».

Francesco Cecchini

(1) Per il significato di Bamako, cfr. http://www.inognidove.it/mali-senegal-guinea-bissau/.

(2) Per il secondo ponte di Bamako, cfr. Rénovation du pont Fadh: L’Arabie saoudite pose ses conditions in: http://www.afribone.com/spip.php?article23047.

(3) Per Fabrizio Carola cfr. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2006/08/27/fabriziocarola.html e https://www.architetturaecosostenibile.it/architettura/progetti/nel-mondo/fabrizio-carola-africa-cupole-terra-cruda-architetto-napoletano-090/

(4) Per Djenné, la “città di fango”, cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Djenn%C3%A9.

(5) Per la leggenda di Tapama, cfr. anche https://fr.wikipedia.org/wiki/Tapama_Djenepo, su cui, però vi sono solo due righe. La leggenda è a mio avviso molto interessante per comprendere il modo di procedere dei costruttori di Djenné. Essi non riescono a costruire un muro solido ed appena cercano di salire in altezza, il muro crolla, forse per un errore nell’impasto dei mattoni, forse per mancanza di collante fra gli stessi. Con gran fatica, ogni volta che il muro crolla, riprendono da capo, studiando come migliorare la situazione, finchè, prova e riprova, infine giungono a realizzare un muro alto fino al collo della ragazza, ed allora prendono coscienza che non crollerà più e che hanno raggiunto il loro scopo e risolto i problemi tecnici che li angustiavano. Ed un risultato del genere vale per loro un sacrificio umano.

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Ricordo infine ai lettori gli altri racconti di Francesco Cecchini pubblicati su www.nonsolocarnia.info:

Francesco Cecchini. Vivere il Perù.

Francesco Cecchini. Feng Shui a Sai Gon.

Francesco Cecchini. Rosso Bombay

Francesco Cecchini. Tango ad Asunción.

Francesco Cecchini. Camila O’Gorman e Ladislao Gutierréz: un amore tragico nell’Argentina dell’ 800.

Francesco Cecchini. C’era una volta in Algeria …

 

Introduzione, note e grafica di Laura Matelda Puppini.

L’immagine che accompagna il racconto rappresenta la moschea di Djenné in un momento di mercato, è stata scattata da Mario Matteuzzi, ed è tratta, solo per questo uso, da http://www.fabiolottero.it/Djenne%20mercato.JPG.

Laura Matelda Puppini.

 

 

 

 

 

 

 

 

Delio Strazzaboschi. Beni Collettivi: verso una nuova economia in Carnia e Friuli.

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Non uno spettro, ma una nuova speranza si aggira per il mondo. Si chiama Comunità. Quando il mercato non soddisfa bisogni e non valorizza risorse, quando aree interne e montagne sembrano non avere più speranza, Comunità è la nuova parola d’ordine.

Si considerino ad esempio le ancorché limitate e pur recenti esperienze delle cosiddette Cooperative di Comunità, soggetti che si fanno imprenditori per rispondere a interessi collettivi a favore di un territorio definito, secondo i princìpi di sostenibilità sociale e ambientale.

Analogamente, ove presenti, i Domini Collettivi possono produrre beni e servizi con attività multisettoriali, per incidere in modo stabile e vantaggioso su aspetti fondamentali della qualità della vita delle persone, e massimizzare i benefici collettivi a favore della maggior parte dei soggetti del proprio territorio.

Creare valore e rigenerare il tessuto economico e sociale, fornire lavoro alle persone, reinvestire gli avanzi di gestione nel potenziamento e nell’espansione delle attività e nel progressivo ampliamento degli interessi coinvolti. La Comunità degli abitanti, fattasi impresa di produzione attraverso il proprio Dominio collettivo, è peraltro anche collettività di consumatori, come avviene nelle filiere corte alimentari ed energetiche.

In Italia ci sono 5 mila 683 Comuni con meno di 5 mila abitanti (il 70% del totale), nei quali vivono oltre 10 milioni di persone (il 17%). A fronte delle carenze del mercato e delle difficoltà delle aree interne più montuose e isolate, con popolazione molto ridotta, gli abitanti stessi delle Comunità spingono dal basso affinché qualcuno faccia qualcosa, invocando anche l’indispensabile partnership pubblica.

La Comunità locale può diventare allora l’attore rilevante del proprio destino mediante l’Amministrazione del Dominio collettivo, strumento di servizio per il territorio e la cittadinanza. In funzione delle attività che incidono sul proprio ambiente, essa esercita maggiore partecipazione e controllo attraverso i suoi cittadini, stimolando ad esempio trasparenza verso l’interno e l’esterno o una frequente rotazione delle cariche.

Produrre ricchezza e contribuire alla ricchezza della Comunità locale, secondo criteri e rapporti anche diversi dal puro scambio economico, definisce il valore sociale del Dominio collettivo. Ma tutto questo può avvenire soltanto se c’è la capacità di attuare un numero ingente di investimenti. In questo senso, le Amministrazioni del Dominio collettivo non soffrono della debolezza strutturale delle Cooperative di Comunità (insufficienti capitali iniziali e necessità che i soci si indebitino), possono ottenere contributi pubblici a ogni livello, mentre lo stato patrimoniale della Proprietà collettiva costituisce lo zoccolo duro che può garantire i finanziamenti a medio termine destinati agli investimenti stessi (che a quel punto possono essere maggiori).

Di seguito, alcuni possibili nuovi ambiti di intervento delle Comunità, mediante i propri Domini collettivi, alla luce delle nuove opportunità sancite dalla legge statale 20 novembre 2017, n. 168 “Norme in materia di domini collettivi”, entrata in vigore il 13 dicembre scorso.

  • Servizi pubblici di comunità, quale risposta ai processi di impoverimento, spopolamento e abbandono (bar, alimentari, consegna a domicilio della spesa o dei farmaci);
  • Servizi patrimoniali di Comunità (acquisizione di edifici dismessi – come ex-latterie/scuole/caserme ecc. – e loro recupero e valorizzazione, ad esempio realizzando sale multimediali, centri benessere, spazi espositivi e di commercializzazione dei prodotti locali);
  • Servizi per la produzione e distribuzione di energie rinnovabili locali, per il fabbisogno energetico di Comunità (biomasse, piccolo idroelettrico, teleriscaldamento di villaggio);
  • Servizi turistici di Comunità (anche scolastici), per favorirne l’“incoming” (gestione posti letto extra-alberghieri, itinerari naturalistici e culturali, organizzazione eventi, corsi – marketing esperienziale – su natura e cultura locali, tradizioni, mestieri, gastronomia e manifatture tipiche);
  • Servizi ambientali di comunità (manutenzione del verde e del territorio, interventi idro-geologici).

 

Delio Strazzaboschi – Segretario del Coordinamento della Proprietà collettiva in Friuli-V. G.

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 L’immagine che accompagna l’articolo mi è stata inviata da vicinia@friul.net a corredo di questo testo, con email 2 gennaio 2018, ed è stata scattata il 2 dicembre 2017 in occasione dell’inaugurazione dei lavori di ristrutturazione della vecchia Latteria di Givigliana di Rigolato, ove il Comitato frazionale ha allestito l’Hostario Pura Follia. Da sinistra si vedono:  il presidente della Proprietà collettiva di Givigliana e Tors, Adriano Faleschini; Caterina Tamussin di Collina, che gestisce il nuovo locale, e Delio Strazzaboschi.

Laura Matelda Puppini

 

 

Quale Carnia vorremmo domani?

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Ho ascoltato gli interventi di Marco Lepre e Franceschino Barazzutti a Videotelecarnia, non essendo a Tolmezzo al momento dell’incontro pubblico intitolato: “La Carnia ieri, La Carnia oggi, La Carnia domani?”  
Essi hanno riassunto alcuni punti salienti della storia della Carnia dopo la Liberazione, che qui riprendo come da me appuntati. Ma non hanno proposto nulla sull’oggi e sul domani che sarà pur da affrontare, e uno dei due ha sostenuto che la gente di Carnia deve ancora esprimersi. Ma vedremo come lo abbia già fatto non solo tantissime volte, senza essere di fatto ascoltata, e finendo magari per maledire “il Governo, il Papa, il Re”, ma anche ora.

Pure la parte di storia che ci hanno raccontato Lepre e Barazzutti appartiene alle fasi in cui il popolo chiese … ma non ottenne, in un quadro di accentramento udinese, tanto amato in particolare dalla DC, che non lasciava repliche.

Ma partiamo dallo ‘sciopero della Carnia’ del 1967. (1). Passato il dopoguerra, i carnici guardavano angosciati- come ha ricordato Marco Lepre – agli effetti della Sade, che aveva prodotto energia per altri, ma impoverito e dissestato il territorio; agli effetti dell’alluvione del novembre 1966, che aveva contribuito a cancellare le segherie, ucciso 12 persone e provocato 15 milioni di danni;  all’Enel che non pagava più i sovra-canoni elettrici, alle distanze tra casa e lavoro, a quella militarizzazione forzata del territorio che imponeva servitù di ogni tipo. Con la legge 18 dicembre 1959, n. 1079, era stata tolta l’imposta comunale di consumo sul vino, fonte di entrate per gli enti locali, ed ora si voleva cancellare il trasporto merci su ferrovia, essendo già sparito quello passeggeri.

Poi il terremoto che fu esperienza scioccante che mise tutti in ginocchio ma che in Friuli ebbe anche, nella ricostruzione, una delega di funzioni ai sindaci ed una proposta popolare, poi scemata. Senza i comitati delle tendopoli e gli incontri con la popolazione, forse Gemona e Venzone non sarebbero come si presentano ora, ma come paesi anonimi di case in muratura o prefabbricate. (2).

Ricordava inoltre Franceschino Barazzutti quella legge 1102 del 1971 – Nuove norme per lo sviluppo della montagna –  che aveva istituto le Comunità Montane, tanto sostenuta anche dall’onorevole socialista Bruno Lepre, che però poi andò, come il solito, a svanire nei suoi totali effetti benefici a causa della parificazione di comuni collinari e di bassa quota a quelli montani; quel tentativo di autonomia che allora i sindaci carnici cercarono di attuare attraverso la stesura del primo statuto, poco ben visto dalle alte sfere, e quindi le recentissime lotte per l’acqua e per l’elettrodotto interrato. Si possono ancora ricordare le manifestazioni contro le servitù militari, in particolare quelle in opposizione al poligono del Bivera, il tentativo, ben più recente, di creare una provincia della Carnia, le manifestazioni e gli scritti contro la centrale di Amaro, la lotta in difesa del tribunale che aveva portato in corteo più di 1000 persone il 30 giugno 2012 (3); i numerosissimi convegni ed incontri sulla montagna. (4).

Possibile che da ciò non sia scaturito nulla? O una risposta adeguata politica, alle richieste della gente, tranne che nella fase della ricostruzione, mancò, regalandoci il non desiderato e cioè il super – carcere tolmezzino; una pineta rovinata a Villa Santina dall’impianto di compostaggio, cattedrale nel deserto; impianti sportivi non si sa per chi e perché; ampie proprietà boschive vendute all’uno ed all’altro, senza pensare di acquisirle; paesi con la loro ‘zona industriale’, la loro ‘zona artigianale’, la loro… Leggete per cortesia la lucidissima analisi di Tiziano Miccoli al I° Convegno sul tema: La cooperazione nella nuova Comunità Montana”. Tolmezzo il 26 febbraio 1972” (5). Metri e metri di suolo furono rubati all’ambiente ed ad una economia ad esso più rispondente, e finirono a pesare sulle nostre comunità. Si sposarono, sbrigativamente, i modelli di ‘sviluppo’ in voga, per poi cadere in un nuovo ‘sottosviluppo’ e la Carnia continuò ad essere zona emarginata o depressa o area interna, a seconda dei diversi momenti. (6).

Le cattive politiche, i giochi al ribasso, la ricerca ad oltranza del ‘becjut’, fine a sè stessa, a lungo andare si pagano, qui come là, come il non badare all’inquinamento ed ai dissesti idrogeologici, in nome dei posti di lavoro.

E Miccoli, senza peli sulla lingua, ci ha detto la causa di alcuni fallimenti: il considerare la Carnia un caso a sé; il parlare sempre di “montagna in crisi”, senza cercare positività; l’essere molti amministratori locali abbagliati da prospettive fantastiche; il volere ogni comune, nel proprio piano urbanistico, zone residenziali per una popolazione doppia o tripla di quella presente in loco, una grande, grandissima, zona industriale ed una artigianale, oltre una per un possibile sviluppo turistico; il dissesto idrogeologico.  (7).
«Il dissesto idrogeologico, di anno in anno, assume proporzioni tali, – scrive Tiziano Miccoli – con manifestazioni ricorrenti e ben visibili, per cui le possibilità di una vera ed accettabile soluzione del complesso problema si sono contratte a tal punto da essere, ormai, sostanzialmente nulle.  (…). Il bosco, che dovrebbe essere un elemento determinante per un’agricoltura in montagna, soprattutto in virtù della sua produttività proprio sui terreni non accessibili dalle macchine agricole e non facilmente utilizzabili a pascolo, è distribuito e frazionato in modo assurdo, coltivato in modo casuale, spesso soltanto malamente sfruttato». (8).

«È infatti mancata, ed ancora manca, una qualsiasi forma di sostanziale programmazione, per cui si sono finanziate e si finanziano iniziative tutt’ora in concorrenza collocate spesso sul territorio nel modo più irrazionale e molte volte concepite in modo errato, quasi esclusivamente per orgoglio di partito politico, con prospettive di ulteriori fallimenti e con un irresponsabile sperpero di pubblico denaro.-  E il pubblico denaro, sperperato e cioè buttato via, fino a qualche anno fa, e per certi casi tuttora, nell’elargizione di contributi ad apparente vantaggio dei singoli ma a grave, concreto e definitivo danno dell’intera comunità, […] per ammodernamenti e nuove costruzioni di stalle e fienili oggi cantine, depositi non agricoli, e garages neppure funzionali, per acquisto e vendita (sarebbe più giusto dire svendita) di bestiame selezionato, non è valutabile a pochi milioni, ma a centinaia e centinaia di milioni». (9).

Quanta ragione ha Miccoli in questo caso, quanti soldi si sono buttati senza una visione d’insieme e senza guardare, come si fece al momento della creazione della Comunità Carnica, alle esperienze estere, in particolare a quella elvetica! Si sono sposate mode, ogni vincitore delle elezioni ha voluto, come nello stato italiano negli ultimi anni, regalare una riforma o una nuova cementificazione, in nome di uno sviluppo mai studiato, nelle sue ipotesi di realizzazione, fino fondo. Chi si è fatto bello o ha creduto di farsi tale con una piazza, chi con un bocciodromo, chi con una pista di pattinaggio, chi con un arco per il Giro d’Italia, chi con … senza chiedersi per chi si stesse costruendo, magari dopo aver distrutto altro (cfr. a Tolmezzo passaggio fra piazza XX settembre e piazza Centa, prima realizzato su progetto Francesco Schiavi, poi demolito e quindi pavimentato con inserimento nel progetto Lenna e c., oppure la distruzione del giardino pubblico della ex- ferrovia di Ovaro che ricordava il tenino a scartamento ridotto, solo per fare due esempi), pagando fior di quattrini pubblici per abbellimenti o presunti spazi sportivi anche discutibili e riempiendo i comuni di mutui.

È forse questo vivere e progettare la montagna come risorsa? – mi chiedo.

Romano Marchetti, invece, da anni parla di Udine come la città accentratrice, ed a cui molti politici locali hanno guardato invece di guardare verso le vette alpine, di raggi possibili di pendolarità, di distanze dei luoghi di lavoro che comportano uno spostamento di interi nuclei familiari, eppure ciò non è accaduto in Trentino Alto Adige. Ci ha narrato di vivai, di stalle sociali, dell’allevamento delle capre, sino a Baita Torino. Non pensava certo ad una Carnia il cui futuro sarebbe stato quello di moto rombanti sui sentieri, di poligoni di tiro per amatori e non, di pista guida sicura, e chi più ne ha più ne metta. Nessuno di noi, amanti della nostra terra, avrebbe pensato alle moto cavalcate, ai trial, alle gare di rally, tutti nell’ottica immediata del becjut, (magari mai giunto, o giunto per un giorno solo), sulle nostre montagne, ed i cui sentieri percorriamo a piedi, come dovrebbero fare tutti.
Inoltre che interi nuclei familiari si stessero spostando non più solo verso l’estero, ma verso l’interno, ed anche persone diplomate e poi laureate, è stato pure da me sottolineato nel mio: “Carnia: Analisi di alcuni aspetti demografici negli ultimi anni, in: La Carnia, quaderno di pianificazione urbanistica ed architettonica del territorio alpino, Del Bianco 1975”. Anni di tentativi, proposte, ricerche di una economia più consona, ma anche il modificarsi dei paesi e della loro vita, sono magistralmente descritti da Romano Marchetti nel suo “Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, a cura di Laura Matelda Puppini, Ifsml, Kappa – Vu ed, 2013, che vi invito a leggere.

E PASSIAMO ALLE PROPOSTE.

Non è vero che l’ attuale Carnia agonizzante non si sia espressa sui temi che le stanno a cuore e su una progettualità futura: semplicemente la politica che governa sinora non ha saputo o voluto affrontare seriamente alcuni elementi di criticità e di possibile crescita locale in nome del neoliberismo, del taglio della spesa pubblica, con i soliti eh mah, e via dicendo.
A settant’anni dalla Liberazione, le richieste sono spesso le stesse, mentre il territorio si degrada inesorabilmente, grazie a partiti di destra e sinistra che passano per il centro, che parlano ma non affrontano i problemi reali, che scambiano il senso di responsabilità con lo smorzare qualsiasi richiesta non di ‘becjuz’, per poi, in sintesi, fare quello che avevano già deciso, come la gente non contasse nulla. E così mostrano e praticano una politica che palesa il mero esercizio del potere, che allontana invece che avvicinare, che smorza invece che affrontare, che promette senza mantenere. E ciò va avanti da una amministrazione regionale all’altra, da un governo all’altro, dalla comunità montana poi commissariata e svuotata di potere all’Uti, mentre la realtà mostra il suo volto tragico.
Eppure quando la morente Comunità Montana della Carnia, con commissario Lino Not, si occupò di possibili suggerimenti per il piano paesaggistico, essi sortirono dalla popolazione, e io li riassunsi nell’articolo intitolato: “Piano paesaggistico regionale e richieste della popolazione carnica”, in: www.nonsolocarnia.info. (10).

Cosa chiedevano i carnici allora?

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Il «Mantenimento e cura dell’elemento acqua nel paesaggio comprensoriale, maggiore controllo locale nella gestione del bene acqua».
Come?
Con la revisione dell’attuale livello di minimo deflusso vitale, con il mantenimento dell’acqua in superficie nei greti dei fiumi, con impossibilità a deroghe; con opere di sistemazione meno impattanti; con un aumento degli interventi di pulizia degli alvei fluviali e torrentizi; con lo sghiaiamento dei greti secondo metodi scientifici e la costruzione di argini secondo regole definite e snellendo le normative e le leggi che, in materia ambientale, sono troppe e talvolta non convergenti.
Fermando la concessione di utilizzo acque per centraline private ed acquisendo, al termine delle concessioni già date, le centraline esistenti; non permettendo che uffici tecnici diano o.k. ad interventi in ambito territoriale paesaggistico senza delibera di giunta o consiglio comunale, impedendo così l’assalto selvaggio alle acque montane, come qualcuno ha definito il fenomeno in corso; valutando l’impatto di alcune chiuse, come per esempio quella prevista a Caprizi.
Gestendo in proprio il sistema di erogazione dell’acqua potabile, e la ricaduta locale delle risorse economiche collegate alla produzione idroelettrica.
Inoltre sono troppi gli enti che intervengono sulle acque e sull’ambiente.

La «Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio storico, culturale, e architettonico, e archeologico ed, in sintesi, dei beni artistici di valore storico e paesaggistico, dei siti archeologici, di monumenti, musei, di elementi di valore memorialistico e del patrimonio architettonico
attraverso:
Il recupero del complesso detto La Fabbrica a Tolmezzo, e la valorizzazione e restauro, se del caso, di  altri edifici caratteristici e di valore storico nei centri abitati carnici; il restauro, se non già presente, e la valorizzazione delle chiesette carniche erette dal 1300 al 1500 e delle loro opere d’arte, già catalogate dalla Curia e dal Centro Regionale di catalogazione Villa Manin di Passariano, e dei siti archeologici, impedendo il sovrapporsi di competenze che portino a problematiche e conflitti come accaduto, pare, per i siti di Raveo e Socchieve. ll recupero di stavoli e stalle, per esempio quelli presenti in località Valdie ed altri e loro possibile trasformazione in rifugi e bivacchi. La conversione, ove possibile, degli edifici militari dismessi.
Lo snellimento del numero enorme di leggi che sono presenti e la loro conoscenza, la risoluzione della sovrapposizione di competenze e della mancata continuità nei procedimenti.

La Tutela del paesaggio
attraverso:
La valorizzazione della risorsa bosco, non dandola in gestione a privati, commassando ma lasciando la proprietà e non dandola in uso a grossi gruppi, ed evitando il taglio raso dei boschi e la vendita di grosse proprietà boschive e malghe a privati anche esteri;
La valorizzazione dei parchi già esistenti come quello delle Colline Carniche, finanziato e poi di fatto abbandonato, essendo terminati i finanziamenti, e creazione di nuovi parchi.
Il recupero siti degradati.
L’eliminazione del poligono del Bivera.
Il divieto transito di moto su sentieri e di attività motoristiche che possano disturbare la fauna, distruggere la flora, rovinare i sentieri, che vengono, tra l’altro, mantenuti dal C.a.i. attraverso l’opera di volontari.
La creazione del catasto tavolare previsto.
La continuità nei procedimenti e la non approvazione di progetti come quello del villaggio turistico previsto sullo Zoncolan da parte di privati, che possono togliere servizi a valle per portarli in quota.

Una progettazione integrata per una viabilità migliore ed adeguati servizi per tutti e la creazione di percorsi tematici a fini anche turistici
attraverso:
la redisposizione di una adeguata manutenzione delle strade esistenti e del manto stradale, sia all’interno dei paesi che per quanto riguarda strade Anas e Fvg strade.
In particolare gli abitanti della Carnia domandano: servizi essenziali per tutti, anche per le piccole frazioni, fra cui: punto vendita alimentare; servizio comunale recupero foraggi dei privati, banda larga per permettere studio e telelavoro; progettualità comprensoriale e non comunale anche i per poli sciistici; attenzione all’impatto paesaggistico per elettrodotti.
Per quanto riguarda i sentieri si chiede: l’aumento dell’intervento anche privato nella manutenzione, nella segnaletica, nell’arredamento dei sentieri, in particolare per quanto riguarda quelli vicini ai centri abitati, l’omologazione della segnaletica, sull’esempio di Torino; la creazione di percorsi tematici.

La Valorizzazione del patrimonio agro-silvo-pastorale ed il mantenimento della biodiversità
attraverso:
La diminuzione dell’inquinamento floristico con piante alloctone, la diminuzione delle specializzazioni e omologazioni dei coltivi, l’incentivo all’utilizzo di sementi locali e la creazione di figure che si curino del territorio con forme specifiche di contratto; e la creazione di cooperative per la pulizia e manutenzione del territorio.
Una pianificazione della gestione pubblica- privata del bosco condivisa, ed anche in funzione dell’utilizzo locale di biomasse a fini energetici; Piani agricoli e commassazione mantenendo la proprietà; la valorizzazione dell’agricoltura non intensiva; Incentivi per il mantenimento delle specie autoctone ed il recupero di varietà locali; la creazione di filiere di produzione con adeguato marchio, il contenimento della fauna selvatica.
Per l’alpeggio: semplificazione normativa per produzioni malghive; il favorire forme di co- investimento, gruppi di acquisto solidale, marketing dei prodotti locali. Si richiedono, inoltre: figure che si curino del territorio con forme specifiche di contratto; e la creazione di cooperative per la pulizia e manutenzione del territorio;
la tutela delle specie vegetali autoctone e la creazione, in collaborazione con l’Università di Udine, di una “banca” dei semi autoctoni, per non giungere a problemi, come già accaduto, di contaminazione delle specie autoctone con altre importate, per esempio foraggi, ed al fine di valorizzare la biodiversità.

La valorizzazione e recupero attività legate al territorio
anche attraverso il recuperodi alcune attività artigianali riguardanti il territorio che stanno andando perdute, come le conoscenze, e la creazione di corsi professionali che le riprendano ed insegnino, sotto la guida di artigiani anziani esperti, salvandone il bagaglio culturale legato allo specifico ambientale. (11).

♦

Nel 2013, alle porte della nuova legislatura regionale, ad un incontro a Lauco, il I Maggio, organizzato dal Pd, avente come oggetto il lavoro, mi alzavo e chiedevo che si ritornasse al vecchio concetto di operaio, non solo edile, e che i muratori rimasti a casa iniziassero, dopo debiti corsi di riconversione, ad agire per il mantenimento del bosco. Inoltre scempi ulteriori, come l’autostrada che avrebbe distrutto la piana di Cavazzo, dovrebbero venir cancellati.

Infine la Carnia ha sempre domandato una sanità adeguata e rispondente ai suoi bisogni. Ed ha chiesto la valorizzazione della cultura, affidata a mani capaci e tecniche, mentre spesso si è prodotto di tutto e di più, ma senza grossa competenza, trasformando l’uno e l’altro in esperti, e confondendo un memoriale personale con un testo di storia degli accadimenti.

Cosa abbiamo ottenuto sinora?

Nulla di quanto richiesto, né con gli uni né con gli altri, se non qualche briciola per opere inutili, come le piste di pattinaggio, i campi di tennis o i bocciodromi ed altro, frutto non certo di una richiesta ponderata, ma di una visione senza ottica d’ insieme e futura, sognando ancora sviluppo e turismo, quando 18 milioni di italiani sono in povertà. Il tribunale se ne è andato, la polizia pure, i militari si sono spostati in pianura, la sanità viene sempre più accentrata, mentre in montagna si continua credo a morire più che altrove. Il poligono del Bivera è là, come quello di Illegio, moto continuano a scorrazzare sui sentieri fregandosene del lavoro di quelli del Cai, e Tolmezzo merita un discorso a parte per quanto è brutta ed invivibile, con tutto a pagamento ed una piazza che ha tolto anche le 2 panchine che vi erano per parlare insieme senza dover bere un caffè. Il comune continua a non misurare il rumore prodotto da varie situazioni, e il piano regolatore è stato di fatto stravolto dalle ‘mille’ varianti.

Quello che si nota in Italia e qui è il modificarsi del ruolo delle pubbliche istituzioni, stato, regione, comuni in testa, che invece che portare avanti e sostenere le richieste dei cittadini, impongono spesso dall’alto le loro scelte, bocciando quanto i cittadini domandano, pronte ad inventarsi qualche scusa “per rasserenare il popolo”. E si è tornati ad una politica che previlegia il leader, tanto cara a Mussolini, con i suoi gerachi, gerarchetti, podestà e similari, che imponevano quello che il ‘duce’ e le alte sfere volevano, anche dal punto di vista economico. Ora come allora? – mi chiedo.  e certamente il ‘Rosatellum’, legge che pare fatta apposta per mandare un gruppo al potere, non fa ben sperare.

Intanto con l’Uti si è passati dalla Comunità prima Carnica poi Montana, all’Unione dei territori impersonali, che non sono più comunità ma meri spazi geografici e forse terre da sfruttare, con il potere e le scelte decisionali in mano a una persona o due. Vi ricordate le scelte di Francesco Brollo sulla chiusura di Carniacque ed il precipitoso passaggio a Cafc con un anno di anticipo, vi ricordate il suo scegliere, assieme a Gallizia, per noi, di portare il laboratorio analisi a Udine, vi ricordate…?

Che fare? Riprendere, secondo me, in mano un programma già scritto dai carnici ai tempi del piano paesaggistico e trovare in che mani affidarlo, vigilare, chiedere alla politica di riprendersi il suo ruolo, mandare a casa chi non si è dimostrato capace di sostenere praticamente, e non solo a parole, le nostre richieste di cittadini, ed incominciare a parlare a discutere anche del nostro futuro, come abbiamo dimostrato di saper fare, ascoltando, leggendo, informandoci, senza la paura che ormai si palesa sui volti di moltissimi italiani, assieme alla fatica di vivere. Dobbiamo ritornare ad essere fieri di essere italiani e di questa nostra Italia tanto bistrattata, e dobbiamo smettere di pensare alla montagna come una zona depressa guardandola e vivendola come risorsa. E ringrazio Paolo Iussa per avermi inviato lo scritto che ho riassunto in: “Dalla montagna perduta alla montagna risorsa”.

Quale Carnia, domani? Se continua così è facile capirlo, sarà terra di conquista con tutti i problemi sollevati irrisolti, altrimenti non lo so. Ma so che il “vento soffia ancora” e che la speranza è e deve essere l’ultima a morire, che bisogna scegliere bene i nostri rappresentanti, che si può fare cultura con un blog, che si può organizzare incontri con sindacati, partiti, ecc., che si può cercare di riprendere in mano la progettualità della Carnia, senza timore. Siamo cittadini di uno stato democratico, non siamo sotàns.

E termino dicendo che ho scritto queste righe senza voler offendere alcuno, e per aprire un dibattito sulla Carnia del futuro, partendo da quello che è già stato detto.

Laura Matelda Puppini

Ringrazio per alcuni suggerimenti grafici Paolo Querini. L’ immagine che accompagna il testo è una foto da me scattata nel 2017 in zona castel Valdaier- Ligosullo, e l’ho scelta perchè mi piace e rappresenta quei fiori che tenaci vivono qui, nel verde, e che vorremmo tutelati come il nostro ambiente. Gli articoli linkati in nota si trovano tutti pubblicati su www.nonsolocarnia.info e sono miei. Laura Matelda Puppini

Note.

(1) Cfr. il mio: La Carnia tace. Ma non fu sempre così. Il grande sciopero del 29 novembre 1967.

(2) Per il terremoto cfr. anche i miei “Quei terremoti del 1976, che cambiarono il Friuli”,
Terremoto del Friuli e ricostruzione. Esiste un “modello Friuli” e cosa si dovrebbe imparare da questa esperienza?
1976. Dopo i terremoti del 6 maggio e del 15 settembre, la gente abbandona i paesi. L’esperienza del Centro Operativo Scolastico Scuola Elementare per sfollati di Grado.”

(3) Tribunale di Tolmezzo: la marcia dei 1000 per dire no alla chiusura. Gesto simbolico di 44 sindaci del circondario, che hanno consegnato le fasce tricolori in prefettura. La manifestazione da piazza XX Settembre al carcere di massima sicurezza, in:  http://www.udinetoday.it/cronaca/manifestazione-tribunale-tolmezzo-30-giugno-2012.htm.

(4) Cfr. “Montagna problema nazionale” – Tolmezzo 6-7-8 novembre 1986, prima ed. ’Ifsml, seconda ed. Cassa Rurale ed Artigiana ed i numeri del periodico Nort, edito dal Gruppo Gli Ultimi;

Cooperare per vivere di Laura Puppini  

 “Quali proposte per il futuro della Carnia e della montagna friulana? A margine degli Stati generali per la montagna, recentissimi…”;

Montagna, imprenditorialità, cooperazione: con l’anpi a Paluzza”;

Quale politica per la montagna in questa Italia?

Dalla montagna perduta alla montagna risorsa.

 “Salvaguardia della montagna e piccoli comuni. Riflessioni su alcuni temi presentati ad un convegno”;

FVG. AAS3 E SANITÀ IN MONTAGNA.

Economia, beni primari, ed Aree dette ora “interne”, nel quadro dell’Europa della finanza,

(5) Carnia, problemi di oggi problemi di ieri. L’intervento di Tiziano Miccoli al I° Convegno sul tema: La cooperazione nella nuova Comunità Montana”. Tolmezzo il 26 febbraio 1972”,

(6) Cfr. Economia, beni primari, ed Aree dette ora “interne”, nel quadro dell’Europa della finanza”.

(7) Carnia. Problemi di oggi problemi di ieri, op. cit.

(8) Ibid.

(9) Ibid.

(10) “Piano paesaggistico regionale e richieste della popolazione carnica”.

(11) Tutti i punti sono ripresi da: Piano paesaggistico regionale e richieste della popolazione carnica”.

Laura Matelda Puppini

Immigrati e residenti: un problema da affrontare in un’ottica globale.

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Non so perché da alcuni giorni penso di scrivere qualcosa su di noi italiani, sui migranti e sulle migrazioni, problema che ora pare solo richieda un pollice verso – stop a migranti e migrazioni – se si è di destra ed un pollice alzato se si è di sinistra. E preciso subito che lo ‘ius soli’ chiesto dal Pd in fretta e furia, quando già si sapeva che si sarebbe andati a votare di lì a pochi mesi, a me è parsa solo una trovata pre-elettorale, come il solito, mentre ritengo che l’argomento richieda un dibattito approfondito, non una crociata dell’ultima ora.

Scrivevo il 24 giugno 2015, su storiastoriepn.it, come commento alla presentazione di un vecchio volume sulle migrazioni di Max Mauro, che il tema, a mio avviso, richiedeva una riflessione più complessa e completa, dato che la situazione odierna non era assimilabile a quella di ieri, dal punto di vista politico ed economico. Ora domina una Europa ove la finanza comanda su tutto e tutti con la scusa dell’euro, facendo gli interessi di chi ‘muove i fili’, e non delle nazioni e dei popoli, tanto che mi domandavo, già allora, dove fosse andata a finire la democrazia. Dobbiamo renderci conto che molti italiani vivono in povertà, e che il rapporto fra loro e gli immigrati potrebbe configurarsi come guerra fra poveri. Ora gli italiani poveri o a rischio povertà assommano a 18 milioni! E se è vero che la ricchezza non abbondava neppure ai primi del Novecento, i contesti erano diversi.

Ma cosa fanno i politici? Invece di studiare le cause della povertà, e cercare di porvi rimedio, invece di tentare di provare a risolvere il problema degli immigrati, come qualsiasi soggetto al governo dovrebbe fare, si occupano di altro, ora delle elezioni, mentre il paese annaspa, e se sono di destra sostengono che ogni disagio è attribuibile ai migranti, il che è pura demagogia; se sono di sinistra talvolta pare non si rendano conto della vastità del problema e di tutte le sue implicazioni e correlazioni con quelli della Nazione, e talvolta sembra che cerchino di affrontare situazioni più grandi di loro, ‘a mani nude’, per poi restare stremati e senza prospettiva, non avendo  valutato sufficientemente i contesti. «Il volontariato, con tutta la sua buona volontà, non può reggere a tutto» – pensavo fra me e me guardando, a notte fonda, un posto di ristoro allestito in una stazione sul confine tra Germania e Austria, nel 2015, con un vento gelido che soffiava e pattuglie in ogni dove.

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Mentre sto sfogliando alcuni numeri di ‘Le monde diplomatique’ alla ricerca di qualche spunto interessante, mi imbatto nel dossier di Benoît Brevillé: “Disagio della sinistra sull’immigrazione”, pubblicato su quello datato aprile 2017.

Il sottotitolo riassume subito un aspetto politico saliente: «La strategia conservatrice che mira a contrapporre i ceti più svantaggiati è riuscita a fare dell’immigrazione una questione decisiva per molti francesi». (Ivi).  Come in Italia – penso tra me e me. E qui come là, le destre «attribuiscono agli stranieri ogni sorta di problemi, dalla disoccupazione al terrorismo, dalla crisi delle finanze pubbliche alla mancanza di case, dall’insicurezza al sovraffollamento nelle classi scolastiche» (Ivi),

Ed il centrodestra come il centrosinistra in Italia si guardano bene dal dire che la povertà dilagante esiste a causa delle politiche dei nostri soliti noti al governo, sia prima che poi, senza uno straccio di progettualità per il popolo italiano, ed a causa del prosciugamento delle risorse pubbliche per i  soldi buttati fra ‘diamanti padani e feste romane’, amici degli amici, evasione fiscale, corruzione, su cui non posso certo dilungarmi, perché mi ci vorrebbero mesi e mi rovinerei la salute al solo pensiero di quanto si è sperperato, di quanto si è tollerato, quasi legalizzato, di quanto la politica sia lontana dalla realtà e dalle buone pratiche.

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Sinora, come scrive Benoît Brevillé, sembra che esistano, per affrontare il problema migranti, due opzioni: quella dell’estrema destra e quella dell’imprenditoria. Per quest’ultima i migranti rappresentano mano d’opera a basso costo, che accetta condizioni di lavoro non tutelate, in competizione con i poveri locali, e che copre attività lavorative non molto ambite. Ma anche agli emigranti carnici ai primi Novecento accadde di essere posti sul mercato della ‘carne umana’ per un posto di lavoro, di accettare occupazioni usuranti, di coprire operai in sciopero, di essere manovalanza a basso costo, di vivere in precarie baracche.

Inoltre la politica, in Francia come in Italia, ha fatto in modo che siano «i ceti popolari a doversi far carico concretamente della questione del rapporto con l’altro» (Ivi), ed in generale del problema migranti e loro convivenza nelle periferie, già degradate, delle città. Perché i migranti non alloggiano certo nei quartieri ‘bene’- scrive sempre Benoît Brevillé.

Così, in Francia come in Italia, le classi agiate, a cui anche i politici appartengono, possono permettersi di arringare le folle sui problemi dell’immigrazione e parlare di migranti guardando la situazione da lontano, come fanno del resto i politici europei. L’Olimpo degli Dei non viene scalfito dalla marea umana dei poveri spesso in lotta fra loro. Ma a questo punto non capisco come il problema di chi giunge possa essere affrontato senza esaminare le difficoltà dei paesi di accoglienza, come, per esempio, quelle presenti nelle sacche di degrado e miseria delle periferie, anche a causa dei senza tetto che aumentano pure fra i connazionali, grazie al lavoro precario, alla disoccupazione dilagante, alla mancata liquidità che non permette di pagare più mutui o spese condominiali, e che può trascinare una famiglia in strada. E ciò accade anche in America, basta leggere il bellissimo romanzo di John Grisham “L’avvocato di strada”.

Però queste situazioni «non sono frutto di fatalità». – precisa Benoît Brevillé. Esse infatti derivano spesso da leggi, da scelte urbane, e da decisioni politiche, che portano pure conflittualità fra poveri e fra immigrati, e fra questi e quelli.

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Nel 2015, scrivevo su www.nonsolocarnia.info, il mio “Migration. Europa: un gigante dai piedi di argilla”, i cui contenuti pienamente condivido anche ora, ed a cui rimando. Infatti quello che balza subito agli occhi è che, dopo un fuoco fatuo di alcuni dibattiti, l’Europa, in quel luglio 2015, si è defilata dal voler farsi carico realmente del problema delle migrazioni, andandosene in ferie, mentre noi italiani eravamo persino all’oscuro di ciò che aveva accettato il governo di Matteo Renzi per noi, venuto alla luce solo nel 2017. (Cfr. Gian Micalessin, “Migranti in cambio dei conti. Suicidio firmato Renzi e Alfano” – L’ex ministro della Difesa: “Abbiamo ceduto sovranità per una maggiore flessibilità. È un errore capitale”, in: ilgiornale.it, 7 luglio 2017, e Luca Cifoni, Def, con i migranti più sconti sul deficit: in campo fino a 16 miliardi di flessibilità, in: Il Messaggero.it, 19 settembre 2015).

Tutto si baratta per uno scorporo finanziario, penso sconsolata, creando situazioni impossibili in questo nostro paese, mentre l’Europa ha permesso di alzare muri, di chiudere frontiere al suo interno, in modo palese o subdolo, scaricando migranti sulla Grecia e sull’Italia e su altri paesi già poverissimi. E mi sovviene il povero sindaco di Arta Terme che, anni fa, pieno di buona volontà, dichiarava che sarebbe andato lui a parlare con il collega Carinziano per studiare il da farsi, mentre la giunta Serracchiani nicchiava, tra le dichiarazioni di uno e dell’altro, e se la prendeva con la vicina Austria, già satura. Inoltre, nello stesso periodo, l’Ungheria alzava muri, la Slovacchia poneva in 200 il numero di rifugiati che avrebbe accettato, a patto che fossero, tutti, rigorosamente cristiani, la Lettonia non aveva ancora deciso nel merito, la Polonia non intendeva prendere  più di 2000 migranti provenienti da Italia e Grecia, (Vittorio Giorgetti, “Rifugiati, le porte chiuse del gruppo di Visegrád”, in East Journal, 27 luglio 2015), e nessuno sapeva quanti ne avessero presi i Paesi Bassi o la Svezia, la Danimarca e la Finlandia, nazioni quasi defilate dalle cronache sull’argomento.

Pare però che nel dicembre 2017, dopo circa due anni di incertezze, l’Unione Europea abbia deferito Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca alla Corte di giustizia europea, «per il loro costante rifiuto di partecipare al programma di ridistribuzione dei richiedenti asilo da Italia e Grecia», deciso, a maggioranza, dall’Europa nel settembre 2015, con voto però contrario della Romania, della Repubblica Ceca, della Slovacchia e dell’Ungheria, e con l’astensione della Finlandia.  (https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/22/migranti-ocse-nel-2015-un-milione-di-richiedenti-asilo-costi-umani-spaventosi/2056829/). Ma, sulla politica da tenere verso le quote degli immigrati da accogliere, vi sono divergenze fra quello che pensa di fare la Commissione dell’Unione Europea e quello che pensa di fare il Consiglio dell’Unione Europea, più favorevole ad una ridistribuzione dei migranti fra i vari paesi su base volontaria, se non vi è reale situazione di crisi. Ma secondo me la crisi è già in atto da tempo. Invece pare che esse siano concordi sulla creazione di una specifica task force che permetta di veicolare nei paesi europei i presenti nei campi libici; sul controllo delle frontiere da parte dell’Agenzia di guardie di frontiera e costiera Ue; su una revisione del trattato di Dublino. (Giovanni Maria Del Re, Ue, deferiti i paesi anti-migranti, Avvenire, 8 dicembre 2017). Ma si pensa anche ad una governance mondiale. (http://www.eunews.it/2017/07/29/eppur-si-muove-la-governance-globale-delle-migrazioni/91105).

E nel frattempo vi è chi è passato al fai da te È notizia di oggi, 20 gennaio 2018, che l’Austria sta predisponendo una sua polizia la ‘Grenzschutzeinheit’, da schierare ai confini per serrati controlli, e pare in funzione anti – migranti. (“Austria, task force contro migranti, in Messaggero Veneto, 20 gennaio 2018). Ormai la Convenzione di Schengen sembra abolita.

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Intanto la nostra Nazione cerca, dopo aver accettato alcune condizioni, di frenare l’esodo verso l’Italia, e si precipita a riferire, sotto elezioni, un giorno che i migranti giunti sono meno di prima, un altro che il loro numero tende nuovamente a salire. (Lorenzo Salvia, Migranti, nel 2017 sbarchi in calo del 34%: ma a gennaio sono tornati a salire, in Corriere della Sera, 14 gennaio 2018).  E si è varato il decreto legge n.13 del febbraio 2017, noto come ‘Minniti Orlando’, che prevede 26 sezioni di tribunale specializzate a decidere sull’«immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Ue» (Leonardo Filippi, Discriminazione a norma di legge, in Left, 11 novembre 2017, p. 14). I giudici delle stesse, però, devono decidere sul migrante e sulla possibilità di concedergli asilo senza averlo davanti, senza potergli parlare o ascoltarlo, perché è considerata sufficiente la registrazione e trascrizione in lingua italiana di quanto il soggetto ha dichiarato, anche rispondendo a domande precise, davanti alla commissione territoriale o ad uno dei suoi quattro membri, adottando così quello che viene definito ‘rito camerale’ (Ivi). Ma secondo Leonardo Filippi, detto modo di procedere comprime le garanzie del primo grado di giudizio e cancella del tutto il secondo e qualsiasi possibilità di ricorso avverso la decisione del giudice. (Ivi, p. 15).

Ed almeno, ci si guardasse dal pasticciare con le missioni all’estero e si fosse ponderato o si ponderasse su come muoversi in Libia – dico io. E poi serviva andare anche in Niger, quando i francesi sembra stiano desistendo?  Ci andiamo pure sperando in un po’ di uranio, dopo che il petrolio nigeriano ha portato l’Eni e la Shell in tribunale? O ci andiamo per fermare una delle principali rotte dei migranti? (Roberto Colella, L’Italia non va in Niger solo per fermare la rotta dei migranti, in Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2018).

E stiamo cercando forse accordi con Macron al di fuori dell’Europa? http://www.repubblica.it/esteri/2018/01/11/news/macron_loda_l_italia_e_il_suo_impegno_con_i_migranti_e_stipula_il_trattato_del_quirinale_-186275696/). Mi pare un gioco assai pericoloso. Inoltre non possiamo dimenticare che Gheddafi sembra sia stato ucciso dai francesi, che hanno così destabilizzato il territorio, portando di fatto una nuova guerra di tutti contro tutti, che continua, donandoci una marea di persone in fuga. (Cfr. http://www.occhidellaguerra.it/libia-cinque-anni-gheddafi/).

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«Aiutiamoli in casa propria» – sosteneva con foga Matteo Renzi, dopo aver firmato che li avremmo accolti noi italiani, per poi smistarli. Peccato che ‘casa loro’ sia distrutta da politiche demenziali di multinazionali, dalla siccità, dalla desertificazione, da splendidi territori trasformati in discariche abusive per chilometri e chilometri, da un inquinamento senza confini, da guerre disastrose che i civili hanno subito e stanno subendo. Bisogna smettere le guerre e ricostruire, ma temo sia troppo tardi per eliminare i danni ambientali, ripristinare il tessuto sociale, ritornare ad antiche forme di coltura e cultura, mentre il fondamentalismo islamico mostra il suo volto. (Cfr. Massimo Fini, Comodo dire migranti economici, in: Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2015).  E le guerre continuano, distruggono, fanno fuggire la gente, e noi siamo sempre più poveri pure perché investiamo per pagare gli F. 35, ma però sembra anche che l’unico settore economico che regge sia quello per produrre armamenti che poi magari vendiamo agli Emirati Arabi per distruggere lo Yemen, od ad altri, collaborando attivamente ad aumentare i flussi migratori. (Cfr. nel merito. Laura Matelda Puppini, Pillole di informazioni su cui riflettere, da vecchi giornali pronti per il cassonetto, in: www.nonsolocarnia.info).
Se vogliamo aiutarli in casa propria non distruggiamo la loro dimora, ed applichiamo la legge 185/90, relativa alla riconversione dell’industria bellica.  

Non da ultimo, come non dare ragione a Massimo Fini, quando dice che sono gli Usa «che stanno praticando […] una politica irresponsabile di aggressività nei confronti del mondo musulmano che ha dato origine, fra l’altro, all’insidiosissimo fenomeno dell’Isis»? (Massimo Fini, op. cit.). Ma – continua Fini – «Loro se lo possono permettere perché quel mondo ce l’hanno a diecimila chilometri di distanza, noi no perché ci sta sull’uscio di casa» (Ivi) e comporta anche masse di migranti.

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Inoltre stiamo parlando sempre dei migranti che entrano. Ma poi? Bisogna integrarli – scrive qualcuno – mentre i nostri paesi si riempiono di giovani stranieri che viaggiano in gruppo, senza vedere più un domani, come anche del resto i giovani nostrani, e la loro permanenza pare sempre più configurarsi come a lunghissimo termine, vivacchiando, senza poter lavorare, con un piatto di minestra ed una stanza assicurate come un cellulare, e nulla più. Inoltre vi sono anche molti irregolari e pare che, visto il numero di minori che giungono qui e poi spariscono, lo stesso fenomeno migratorio dopo lo sbarco sia solo parzialmente sotto controllo, non certo a causa delle forze dell’ordine, che sono sempre in numero esiguo per tutto ciò che accade in questa nostra povera Italia.

Sembra quasi che, nei fatti, l’Europa ricca della finanza abbia deciso, ad un certo punto, di creare ai suoi confini delle aree di poveri e migranti, delle zone da lasciare a se stesse, barattando, talvolta, qualcosa per la loro sopravvivenza, e fra queste vi siano Italia e Grecia, che gli sbocchi sul mare li hanno, eccome!  

Inoltre nel 2015, donna Merkel aveva aperto le frontiere a coloro che fuggivano dalle guerre, distinguendoli dai ‘migranti economici’. Ma come distinguerli? E come rimandare indietro chi sta morendo di fame e sete per causa dell’occidente? Ai primi del Novecento l’Africa Nera era alimentarmente autosufficiente e lo era ancora, sostanzialmente, nel 1961. Poi sono giunti i paesi industrializzati alla caccia di mercati ed hanno introdotto in Africa Nera il loro modello di sviluppo, disarticolando la cultura, la socialità e l’economia di sussistenza, con i risultati che si vedono. (Massimo Fini, op. cit.).

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Io credo che la di là del buonismo, i politici dovrebbero prendere in seria considerazione la nostra situazione e quella degli immigrati, allo stesso modo, studiandole pure insieme, dato che convivono insieme sul territorio.
E anche i nostri figli stanno migrando, ricordiamocelo, i nostri figli non trovano lavoro o lo trovano schiavizzante e precario, i nostri figli andranno in pensione a 68 anni o più, con quote ridicole se non sono nel gota degli dei, i nostri figli e nipoti forse si troveranno tagliata la luce, l’acqua, il gas, fino alla possibilità di diventare clochards, e non a caso avevo pubblicato, su www.nonsolocarnia.info, nel dicembre 2015, un articolo intitolato: “Natale 2015: fra Babbo Natale e la piccola fiammiferaia”, che vi invito a leggere.

Infine non possiamo negare che vi siano in fuga buoni ma anche ladri e profittatori, con chissà che idea dell’Italia, e che la mafia degli scafisti, e non solo quella, possono fare davvero affari d’oro con chi fugge per disperazione.

Che dire? Che fare? Non siamo noi o i migranti che possiamo dire o fare, ma quella politica sempre pronta a schierarsi con il pollice verso o alto, mai ad affrontare seriamente situazioni previste e prevedibili, quella politica che deve anche parlare di noi, italiani, delle nostre difficoltà, possibilmente in modo serio e sistemico, e non, magari e forse, tra un discorso, una stoccata, un brandy.

Senza voler offendere alcuno, ma per parlarne.

Laura Matelda Puppini

Sull’argomento vi invito caldamente a leggere, su: www.nonsolocarnia.info:

Laura Matelda Puppini. Pillole di informazioni su cui riflettere, da vecchi giornali pronti per il cassonetto.

don Pierluigi Di Piazza sui migranti. Lettera aperta ai componenti del Consiglio e della Giunta Regionale del FVG.

Laura Matelda Puppini.  Migration. Europa: un gigante dai piedi di argilla

Laura Matelda Puppini  Sulla guerra e contro la guerra, per la pace, ai margini di un convegno al centro Balducci.

 

L’immagine che correda l’articolo è tratta da: http://www.eunews.it/2017/07/29/eppur-si-muove-la-governance-globale-delle-migrazioni/91105.

Laura Matelda Puppini.

 

 

 

 

 

 

 

 

27 gennaio 2018. Jean Amery ebreo a Auschwitz: dove l’orrore divenne realtà.

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Era il 15 settembre 1935, quando il Reichstag Nazista emanò, a Norimberga, tre leggi fondamentali per la storia successiva: quella per la protezione del sangue e dell’onore tedesco, che proibiva i matrimoni e i rapporti extraconiugali tra ebrei e non ebrei; quella sulla cittadinanza del Reich, che permetteva solo a chi aveva ‘sangue tedesco’ o ‘ simile’ di essere ‘cittadino del Reich’, e che dette origine allo sterminio degli ebrei nel Terzo Reich ed in Italia, soprattutto grazie al decreto attuativo, datato due mesi dopo; quella sulla bandiera del Reich, la cui esposizione venne vietata  ai ‘giudei’.

Ma esse non furono che il coronamento dell’antisemitismo ‘di Stato’ che aveva già visto Il 1° aprile 1933 medici, negozianti ed avvocati di origine ebraica subire il primo boicottaggio, a cui seguì la legge che vietava agli ebrei di ricoprire impieghi statali, relegandoli ai lavori più umili. Infine, dopo la promulgazione delle leggi razziali, i cui effetti furono ampliati con ulteriori norme e decreti, iniziò la persecuzione e sterminio degli ebrei, che fece dai 5 ai 6 milioni di vittime, uomini, donne, bambini, vecchi e giovani, perseguitati, uccisi, dileggiati, sfruttati, e privati di ogni loro bene materiale.
Ed un segno forte venne dato ‘la notte dei cristalli’, fra il 9 ed il 10 novembre 1938, sotto la cui dicitura, però si indicano le azioni antisemite iniziate il 7 e terminate il 13 di quel mese, nel corso delle quali furono distrutti od incendiati sinagoghe, cimiteri, luoghi di aggregazione della comunità ebraica, e migliaia di negozi e case private. Il numero delle vittime decedute per assassinio o in conseguenza di maltrattamenti, per atti terroristici o per disperazione, venne stimato  tra 1300 e 1500. (1).

Ma non furono solo motivi di ‘sangue’ a spingere i nazisti al genocidio ebraico. Infatti gli ebrei detenevano le leve dell’economia in Germania, ed i figli dei primi commercianti, o la terza e quarta generazione, avevano spesso riempito le università, e laureatisi, avevano formato una classe di intellettuali ed artisti di altissimo livello, che il Terzo Reich non riusciva a sopportare, perché ben altri dovevano formare la classe dominante, con il ferro, il fuoco e la schiavizzazione.
Usciti dai ghetti, gli ebrei, tra fine Ottocento e primi Novecento, cercavano l’assimilazione con la popolazione autoctona, ed il loro sogno era quello di “diventare indistinguibili” all’interno della società, di non essere dei diversi ma dei cittadini a pieno titolo nella Nazione in cui vivevano. Ma questa problematica doveva venir spazzata via, brutalmente, dal Nazionalsocialismo che costrinse gli Ebrei europei a trasformarsi in vittime dell’Olocausto od in profughi. (2).  

In questo contesto si colloca l’esperienza tragica di Jean Amery (vero nome Hans Chaim Mayer, poi da lui modificato come segno della sua dissociazione dalla cultura germanica), ebreo, torturato, internato ad Auschwitz, vittima del nazismo, ed intellettuale, che propongo come spunto di riflessione per la giornata della memoria.

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La sua esperienza di vita potrebbe iniziare così: «Nel Voralberg, in Austria, viveva un tale, proprietario di un ristorante e di una macelleria, del quale mi raccontavano che parlava correttamente l’ebraico. Era il mio bisnonno. Non l’ho mai conosciuto e deve essere morto quasi cent’anni fa.». (3).

Ma Jean Amery nega di appartenere personalmente a livello identitario al popolo ebraico, dicendo che prima delle leggi razziali, che lo fecero scoprire ‘ebreo’, il suo interesse per l’ebraismo era assai limitato, perché l’ambiente in cui era cresciuto non era ebraico, sia dal punto di vista culturale che del folclore. E precisa: «L’antisemitismo mi ha generato come ebreo». (4).
Infatti egli, che da bambino e giovane aveva abitato a Vienna con la madre, e si sentiva austriaco a tutti gli effetti, non aveva conosciuto il padre perché era morto «ove il suo imperatore gli aveva comandato di andare», e la sua immagine, ritratta in una fotografia, lo mostrava come un cacciatore delle Alpi tirolese, con l’uniforme della prima guerra mondiale. Inoltre la madre non aveva mai rinunciato all’albero di Natale adornato con noci dorate, e se doveva supplicare qualcuno, si appellava a Gesù, Giuseppe e Maria (5), essendo cattolica.

Ma improvvisamente, a 19 anni, Jean era diventato un ebreo, per «legge e decisione della società», e l’urlo: ‘Juda, verreche!’ iniziò a riguardare, di colpo, anche lui.
«Da quel momento in poi – scrive Amery- essere ebreo per me significò essere un morto in licenza, un morituro, che solo per caso ancora non era dove secondo la legge avrebbe dovuto essere […]». Ed aggiunge che però non furono solo i nazisti radicali a sostenere le politiche antisemite (6), ma «Esisteva una Germania che conduceva alla morte ebrei ed avversari politici, ritenendo di potersi realizzare solo in questo modo». (7).

Poi la fuga da Vienna all’inizio del mese di gennaio del 1939, nella notte, con altri compagni di sventura e la giovane moglie, verso il Belgio, seguendo i sentieri dei contrabbandieri, senza passaporto e visti, con il terrore di esser fermati da doganieri e gendarmi. «Affondavamo nella neve sino al ginocchio – scrive Amery – gli abeti scuri non erano diversi dai loro fratelli in patria, eppure erano già abeti belgi, e noi sapevamo che non ci volevano. Un vecchio ebreo, che perdeva ogni momento le calosce, si aggrappò alla cintura del mio cappotto e gemendo mi promise tutte le ricchezze del mondo se solo gli avessi permesso di sostenersi a me». Quindi un camion li aveva raccolti e portati ad Anversa. «Da allora – aggiunge – ho passato clandestinamente tanti di quei confini che ancora adesso è fonte di stupore e meraviglia passare una dogana in macchina, ben equipaggiato con tutti i documenti necessari: ogni volta il cuore mi batte più forte, rispondendo ad un riflesso pavloviano». (8). 

Ed iniziò, per Amery, l’esilio. La vecchia vita era abbandonata per sempre, ed egli e la moglie dovettero incominciare a vivere con quindici marchi e cinquanta pfenning. Jean, ben presto, capì che, nella vita quotidiana, l’esilio mostrava il volto della ‘desolazione’, in particolare per chi aveva dovuto, come lui, lasciare la patria costrettovi. Egli ed i suoi compagni di viaggio avevano perso tutto: gli affari, le proprietà, la casa, il patrimonio, i prati e le colline della propria terra, il profilo della città e delle chiese …e non solo.
 «Perdemmo gli esseri umani: il compagno di banco, il vicino l’insegnante. Si erano trasformati in delatori o picchiatori, nel migliore dei casi si conformavano ad un imbarazzato attendismo». Ed anche ‘la popolazione’ «ebbe molta paura di nascondermi». (9).

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Poi l’adesione di Jean Amery alla resistenza antinazista belga, l’arresto nel luglio del 1943, la tortura nel forte Breendonk, , l’internamento ad Aushwitz. Non sarebbe andato partigiano Jean o Hans che dir si voglia, se non lo avesse costretto il nazismo, e ciò vale anche per gli altri appartenenti alla resistenza europea. Tutti avrebbero preferito curare le proprie attività, stare a casa vicino al fuoco con la moglie ed i bambini, o con genitori, fratelli e sorelle, ma furono costretti a scegliere un’altra via, ed ad opporsi a chi cercava di occupare l’Europa intera con le armi, e facendo lavorare per sé o uccidendo, sterminando.

«La tortura è l’esperienza più atroce che un essere umano possa conservare in sè»- scrive Amery, e supera qualsiasi immaginazione, anche perché è realtà pervasa da una sensazione di abbandono totale, ove, dalla prima percossa, si perde la fiducia nel mondo. Non c’è soccorso o misericordia, sotto tortura.  «La tortura non fu un accidente – sostiene Amery- ma l’essenza del Terzo Reich» (10).  «I nazisti torturavano al pari di altri […]. (…). Ma torturavano soprattutto perché erano aguzzini». E «chi è stato torturato resta tale». Bastava una pressione della mano su uno strumento di tortura, per trasformare una persona in un «maialetto che urla terrorizzato, mentre viene portato al macello». Vi è sadismo in chi tortura- scrive Amery-  vi è una immagine del mondo come un inferno in cui il torturatore domina incontrastato. (11).

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Infine Auschwitz ed altri campi di concentramento e sterminio, ove egli dice che l’internato viveva «nella stessa stanza con la morte». Mancava tutto nel Lager, ed «all’entrata si veniva privati di tutto, e successivamente dileggiati dai depredatori perché non si possedeva niente», e «davanti al prigioniero s’innalzava mostruosa e insuperabile la rappresentazione dello stato delle SS», cosicchè l’inimmaginabile diventava realtà ancora una volta (12).  A Birkenau si diffondeva l’odore dei cadaveri bruciati, la morte era onnipresente, le selezioni per le camere a gas avvenivano ad intervalli regolari e «per un nonnulla i prigionieri venivano impiccati nella piazza dell’appello, ed i loro compagni dovevano […] sfilare davanti al corpo penzolante, accompagnati da un’allegra marcetta. Si moriva in massa sul lavoro, nell’infermeria, nel bunker, nelle baracche». (13). Poi la liberazione, il 15 aprile 1945, a Bergen-Belsen da parte degli inglesi.  «Dal Lager uscimmo denudati, derubati, svuotati, disorientati e ci volle molto tempo prima che riapprendessimo il linguaggio quotidiano della libertà». (14).

Alla liberazione, «noi risorti avevamo tutti, più o meno, l’aspetto che mostrano le fotografie […] scattate in quei giorni di aprile e maggio del 1945: scheletri rimessi in forze con scatolette di corned beef angloamericane, fantasmi rapati, sdentati, a malapena utilizzabili per rendere in fretta testimonianza […]». (15).
E «Quanto è avvenuto è avvenuto. Ma il fatto che sia avvenuto non è facile da accettare. (…). Le ferite non si sono rimarginate». (16).
Eppure, scrive sempre Jean Amery, quando egli decise di uscire dal silenzio, in concomitanza con il processo ad Auschwitz apertosi a Francoforte nel 1964, e di scrivere la sua esperienza di torturato ed internato, si sentì dire da un amico di stare attento, di essere prudente, e di indugiare il meno possibile, se avesse voluto scrivere su “Un intellettuale a Auschwitz”, su Auschwitz, sottolineando particolarmente gli aspetti spirituali, non le condizioni di vita. Ma invece, anche a suo parere, testi e memorie su Auschwitz e sugli altri Lager, dovrebbero essere utilizzati come testi scolastici obbligatori per le scuole secondarie. (17).

Secondo Amery, nel dopoguerra si iniziò un nuovo corso nella Germania Occidentale, ove gli uomini politici, che ben poco avevano avversato il nazismo, cercarono di ricongiungersi all’Europa saldando, in nome dell’ordine, la Germania hitleriana a quella successiva, ed egli, che si considerava vittima del nazismo, diviso dai carnefici da mucchi di cadaveri, affermava di non sentirsi a suo agio nella nuova Germania, «in questo paese pacifico, bello, popolato da persone capaci e moderne», dove si sposava la teoria del dimenticare, della pacificazione, della conciliazione, e si sottolineava come ormai i tedeschi non ce l’avessero più con gli ebrei, e come questo aspetto fosse visto come una conquista. (18).
Criminali nazisti furono assolti o condannati a penne irrisorie, e, termina Amery, «Nessuno meglio di chi all’epoca dovette assistere al tramonto della libertà in Germania sa quanto sia necessario vigilare». (19).

Nel momento storico attuale, vi è un revival pauroso di movimenti che inneggiano a Hitler e Mussolini, che sposò l’antisemitismo nazista e la caccia agli ebrei, spesso composti da giovani che ben poco sanno. È tempo che in questa nostra Europa si riprenda a studiare seriamente la storia, sottolineando i pericoli di certe derive. Per questo ho riportato, in occasione della giornata della memoria, queste esperienze e considerazioni di Jean Amery, pseudonimo di Hans Chaim Mayer, che fino alla morte portò il numero datogli come internato ad Auschwitz. Per non dimenticare.

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Vorrei anche invitare gli insegnanti delle superiori a prendere in seria considerazione, come letture proponibili, non solo ‘Intellettuale ad Auschwitz’ di Jean Amery o il testo del carnico Pietro Pascoli, “41927, I deportati”, leggibile on line, in: http://www.deportati.it/static/pdf/libri/pascoli_deportati.pdf, ma anche i romanzi e racconti di Heinrich Böll, premio Nobel per la letteratura nel 1972, che ci ha descritto magistralmente le falsità della guerra e la Germania del dopoguerra, e non solo. Infine ricordo i bellissimi: “Il nazista & il barbiere”, di Edgar Hilsenrath, Marcos y Marcos, ed., 2010, e “L’Adamo risorto”, di Yoram Kaniuk, Giuntina ed., oltre che lo stupendo testo di Francesco Guccini ‘Auschwitz’, questo per tutti, che permettono ulteriori riflessioni.

Laura Matelda Puppini 

(1) Notizie da: https://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_di_Norimberga; https://it.wikipedia.org/wiki/Notte_dei_cristalli; https://it.wikipedia.org/wiki/Olocausto.

(2) Sull’argomento cfr: Hannah Arendt, “Il futuro alle spalle”, il Mulino ed.. Riferimenti al problema si trovano anche nella ricerca inedita di Annalisa Candido, “Il mio popolo, se ne ho uno”, relazione al termine del tirocinio presso il Centro Ebraico Italiano ‘ Il Pitigliani’ – Università Roma Tre, Roma, 23 maggio 2006.

(3) Jean Amery, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, terza edizione italiana, 1987, p. 146.

(4) Ivi, pp. 146-147.

(5) Ivi, pp. 128-129.

(6) Ivi, p. 132.

(7) Ivi, p. 41

(8) Ivi, p. 78.

(9) Ivi, p. 79.

(10) Ivi, pp. 57-61.

(11) Ivi, p. 67 e p. 71.

(12) Ivi, p. 40, p. 42, p. 44, p. 47.

(13) Ivi, p. 42 e p. 47.

(14) Ivi, p. 43 e p. 52.

(15) Ivi, pp. 105-106.

(16) Ivi, p. 21.

(17) Ivi, p. 29.

(18) Ivi, p. 106 e pp. 106-109.

(19) Ivi, p. 19.

L’immagine che correda questo testo è tratta, solo per questo uso, da: http://www.modenatoday.it/eventi/eventi-giorno-della-memoria-serramazzoni-2016.htm.

Laura Matelda Puppini

Romano Marchetti, intellettuale, agronomo, antifascista, partigiano. Per il 105esimo compleanno.

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Vorrei scrivere qualcosa per i 105 anni di Romano Marchetti. E così, guardando le mie presentazioni del volume che contiene le sue memorie: ‘Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, Ifsml, Kappa Vu ed., 2013, da me curato, penso ad una sintesi per sottolineare alcuni aspetti, prendendo in particolare da quella per l’incontro di Gmünd e da quella pubblicata su Storia Contemporanea in Friuli.

Avevo intitolato il testo per la cittadina austriaca, scritto in Italiano ed Inglese: “Montagna – Resistenza – Lotta all’emarginazione – Cooperazione fra i popoli”, riassumendo così temi cari a Romano, e penso di non aver sbagliato.

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Romano Marchetti è nato a Tolmezzo il 26 gennaio 1913, si è laureato in agraria a Firenze, è un mazziniano, un seguace del pensiero di Cattaneo, un socialista, un repubblicano, un sostenitore del circondario montano. Egli ha vissuto la sua infanzia a Maiaso, un villaggio carnico, e, fin da bambino, ha iniziato a conoscere i problemi della montagna. Gli uomini emigravano principalmente in Germania dove apprendevano gli ideali socialisti. Anche il padrino di cresima di Romano era un emigrante, ed egli ascoltò i suoi racconti. Le donne, invece, lavoravano i campi ed allevavano il bestiame ed il loro lavoro era molto faticoso.

Maiaso era, allora, un villaggio di circa 20 ‘fuochi’ ed ogni famiglia aveva una stalla. Una delle case era casa Minót (la casa di Giacomo Diana) dove Romano visse la sua infanzia. La famiglia di Romano apparteneva al ceto borghese, e suo nonno materno, Adamo Diana, era un possidente. Suo padre, Sardo Marchetti, fu prima direttore didattico poi ispettore della scuola elementare, sua madre, Rachele Diana, era una casalinga. I nonni erano cattolici e la madre di Marchetti chiuse le imposte delle finestre quando, di fronte alla loro casa, passò un corteo di dimostranti con bandiere rosse.

Sardo Marchetti era un mazziniano; uno zio di Romano, Mario Agnoli era un ufficiale degli alpini, un socialista, un massone, e Romano crebbe alla loro scuola. Mario Agnoli fu perseguitato dal regime fascista per le sue idee politiche, i mobili della sua casa furono distrutti da un gruppo di picchiatori fascisti, rimase senza lavoro ed alla fine si uccise.

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Nel piccolo villaggio di Maiaso, come in ogni villaggio, c’ erano un falegname, un fabbro, un casaro, un uomo che riparava di tutto, un calzolaio ed un prete. E c’erano una chiesa, una latteria, una piccola scuola elementare. La latteria e la scuola elementare si trovavano nello stesso edificio, costruito dalla popolazione di Maiaso.

I bambini facevano spesso giochi pericolosi ed imparavano a vivere in mezzo alla natura. Le madri, talvolta, prendevano a schiaffi i loro figli a causa dei guai che causavano e perché disubbidivano, e i genitori pretendevano dai figli il rispetto della proprietà privata e delle regole sociali. Una volta Romano, bambino piccolo, disse alla madre: «Mamma, mamma, guarda quel piccolo melo: la neve ha piegato i suoi rami!» E la madre rispose: «Non è importante per noi: l’albero è della zia Dalia!».

Il tempo era scandito dalle stagioni, dai lavori stagionali e dalle principali feste religiose: Natale, Pasqua, i santi Pietro e Paolo, san Michele ed altre. Le giornate erano ritmate dal mattino, il mezzogiorno e la sera, e si doveva rientrare a casa prima che scendesse la notte. I bambini aiutavano i genitori a costruire oggetti che servivano per la famiglia e così imparavano ad usare gli attrezzi ed ad arrangiarsi.

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Da ragazzo, Romano incontrò a Maiaso alcuni emigranti antifascisti come Coleto da Cjastelana, forse comunista, che era rientrato a Maiaso per morire, essendosi ammalato di tisi. Romano, trovatosi in piazza con loro, parlò bene del fascismo e del popolo italiano ma Coleto ed un altro emigrante non erano d’accordo con lui. Coleto gli “sputò in faccia” un torrente di ragionamenti da cui traspariva un secco odio, documentato e motivato, per il fascismo, accumulato anche da emigrante sfruttato, mentre Tin di Menia si alzò e disse a voce alta: « Italians …rochs, rochs come pioras! (Gli italiani sono stupidi,  stupidi come le pecore!)», la bocca storta a smorfia sprezzante, la mano che toccava i testicoli. E così Romano incominciò a conoscere l’antifascismo.

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Romano, crescendo, abbandonò la religione cattolica ed incominciò a sviluppare un pensiero libero. Ad Udine, al liceo, vide e sentì parlare di Andea Manfreda, uno sloveno che era membro del gruppo Orjuna e che poi fu imprigionato per un attentato al faro di Trieste. Così Marchetti imparò che vi erano altre persone, oltre gli emigranti, che odiavano i fascisti.

Sempre al liceo egli dovette iscriversi al Partito Fascista, come tutti, ma Ottavio Franz, su compagno di banco, non volle farlo. Quando il docente gli chiese perché disse solo: «Mio padre non vuole».
Una volta due fascisti accusarono il padre di Romano di cattiva organizzazione per ricordare il 28 ottobre, ed egli urlò: “No, no!” E Romano rimase scioccato da ciò.
Un’ altra volta Romano ed il suo amico Sardo camminavano lungo una via di Tolmezzo. Quando furono vicino alla casa di un noto fascista, Sardo iniziò a cantare, a voce bassa, bandiera rossa. Il fascista uscì di casa e schiaffeggiò sardo e Romano rimase incolume solo perché il fascista conosceva suo padre.

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Romano fece l’università a Firenze. Egli seguì il corso di studi in agricoltura ed ebbe professori molto quotati. Si laureò nel 1935. A Firenze incontrò molte persone e conobbe degli ebrei. Egli divenne amico di Vittorio Curiel, un ebreo di Trieste, e, dopo la specializzazione, egli e Vittorio decisero di andare in Africa, in Somalia, per lavorare. Così si imbarcarono insieme.

Quando, nel 1938, il regime fascista promulgò le leggi razziali, Romano aiutò Vittorio a fuggire dall’Africa e poi dall’Italia.
In Africa Marchetti s impiegò nel monopolio banane e come libero professionista. Fu anche in Libia, e vide bambini che lavoravano come schiavi per porre il tabacco nelle scatole e fu impressionato da ciò.
A Merca e Chisimaio egli conobbe molti italiani, ma, secondo Marchetti, là non c’era moralità e gli italiani volevano solo arricchirsi.
Inoltre il fascismo proibiva il matrimonio fra un bianco, un italiano, ed una somala. Così il Pino Cantù, famoso pittore di Varese, era stato costretto a rientrare in Italia a causa del suo amore per una bella donna del luogo.  Marchetti dice anche che, dopo la vita africana, sentiva il bisogno di una nuova moralità, di una nuova vita, e l’esperienza come partigiano nella guerra di liberazione gliela donò.

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Nel 1940 l’esercito italiano entrava in Grecia dall’Albania, e Romano fu inviato a combattere nel settore operativo del Golico. Egli era un ufficiale degli alpini e comandava un gruppo di soldati. Marchetti ordinò ai suoi di sparare contro le truppe greche. «Improvvisamente- egli racconta – pensai: “Sono io un assassino di patrioti?”» Questo fu, certamente, un altro motivo, per lui, per diventare antifascista. Forse molti soldati italiani divennero antifascisti durante le guerre fasciste.
Sul Golico Marchetti incontrò il carnico Mario Candotti di Ampezzo, anche lui ufficiale dell’esercito italiano, e, poi, comandante della Divisione Garibaldi Carnia nella resistenza.

Quindi Romano si ammalò e fu rimpatriato. Così l’esercitò lo assegnò ai servizi sedentari, ad Udine, presso la caserma Di Prampero. Lì Marchetti incontrò Nino Del Bianco, un altro ufficiale degli alpini, un antifascista, un membro del Partito d’Azione, illegale. Romano prese un’importante decisione per la sua vita: egli divenne un membro del movimento antifascista non comunista ed iniziò la sua rinascita morale.

Romano incominciò a diffondere stampa clandestina.

Dopo l’8 settembre 1943, trovandosi ufficiale in Slovenia decise di unirsi ai partigiani sloveni, ma non ci riuscì. Allora, rientrò a Maiaso e, sul ‘cjast’ di casa Minòt promosse incontri con altri antifascisti. Il 14 febbraio 1944 sorse, ad Udine, la ‘Osoppo’ e Romano vi aderì. Così diventò un partigiano a tutti gli effetti, ma fu anche uno dei primi organizzatori militari della formazione, ed il delegato politico del Comando Unico Garibaldi – Osoppo Carnia, che egli tenacemente sostenne, perché da ufficiale qual era, riteneva che le forze della resistenza dovessero muoversi in modo coordinato. Marchetti sognava una nuova società, senza dittatori, dove fosse possibile avere più partiti politici. E già all’epoca sognava molti paesi europei uniti in un’Unione Europea, in funzione dei popoli.

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La guerra finì, ma la nuova società non giunse ed il sogno si ruppe contro i problemi del dopoguerra. La miseria era grande, i paesi dovevano esser ricostruiti, non c’era lavoro. Molti uomini, che erano stati partigiani, dovettero emigrare in Argentina, Venezuela, Australia, ed altri paesi a cercare lavoro mentre gli impiegati fascisti mantenevano il loro posto.
Romano incominciò a lavorare presso l’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura, ma, in un primo tempo, non riuscì a trovar casa per sé, la moglie ed il figlio.

Nel 1945, dopo la liberazione, egli creò anche un giornale, il Carnia, che descriveva i problemi carnici e del dopoguerra. Quindi egli contribuì alla creazione della Comunità Carnica, un’organizzazione amministrativa politica locale, simile all’ attuale Comunità Montana.

Marchetti si interessò di politica: si iscrisse prima al partito repubblicano poi a quello socialista, ed entrò in contatto con molti uomini politici nazionali tra cui Ferruccio Parri e Fermo Solari, un carnico che divenne il vice- comandante di tutte le truppe partigiane in Italia. Ed aiutò pure gli agricoltori sloveni. Nel 1953 prese posizione contro una legge che dava tutto il potere al partito più votato, detta “legge truffa”, e fece attivamente parte di Unità Popolare. E si accorse, ad un certo momento, di essere pedinato. Nel 1954 venne trasferito improvvisamente a Savona, con l’accusa di essere pericoloso in Friuli, perchè “colluso con Tito”, che egli neppure conosceva. Ma forse i democristiani vollero così fargli pagare il fatto che avesse con veemenza apostrofato Tiziano Tessitori, ed in particolare la sua adesione a U.P..

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Romano Marchetti è contrario all’accentramento produttivo ed amministrativo. Egli sostiene che coloro che vivono nei paesi di montagna non possono viaggiare per oltre un’ora per andare sul luogo di lavoro e ritornare a casa. Così costruì la sua teoria dei baricentri – poli di sviluppo – che riguarda la distanza tra i paesi di montagna ed i luoghi di impiego. Ma il centrismo, che ancor oggi fa da protagonista, iniziò, nel secondo dopoguerra in particolare, ad uccidere lentamente la periferia, svuotandola di servizi, di scuole, di intelligenze, di uomini, di giovani. E urla Marchetti il tradimento della montagna tutta, con il mancato circondario, con l’accentramento di servizi e, di conseguenza, di famiglie e persone, per sempre.

Nel campo dell’allevamento, egli ritenne importante selezionare la razza bovina. Per questo motivo prese la decisione, aiutato dall’università di Torino, di importare il seme congelato della razza bruno alpina per fecondare le vacche, onde ottenere mucche che producessero più latte.  Ma nacque solo un toro. Marchetti creò anche un centro di fecondazione artificiale bovina a Tolmezzo per evitare l’aborto bovino, dovuto a infezioni sessualmente trasmesse dal toro.

In campo economico egli sostenne la cooperazione ed in particolare: le latterie cooperative di vallata; le stalle cooperative comunali; i consorzi fra malghesi; ed inoltre: la creazione di corsi di studio relativi all’agricoltura, alla frutticoltura, all’allevamento, alla fioricoltura; l’allevamento delle capre; l’artigianato. Perorò e perora ancora la diffusione delle scuole professionali ed il conferimento di una borsa di studio a tutti gli studenti meritevoli della Carnia; condivise le ipotesi politiche ed economiche del suo amico il socialista Enzo Moro, ed è ancora favorevole al traforo di Monte Croce Carnico ed alla creazione di un parco naturale sopra lo stesso.

Nel 1953 si recò con altri, compreso Geremia Puppini, in Svizzera, per studiare la soluzione data a vari problemi ed imparò l’importanza del maso chiuso, dell’educazione professionale, della difesa dell’ambiente naturale, le interessanti modalità della concessione di un finanziamento agli agricoltori, e le tecniche per cercare di superare le conflittualità paesane.

Marchetti nel corso della sua vita ha diffuso le sue idee, ed ha sostenuto e sostiene il valore della cooperazione fra i popoli, della democrazia, della libertà e la Costituzione Italiana del 1948 nata dalla guerra di Liberazione, alzando la quale, in piedi, ha terminato un suo incontro ad Ampezzo, quando chi voleva modificarla era un governo Berlusconi, dicendo con voce alta e ferma: «Io giuro ancora su questa!»

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Un unico rimpianto, girando per la Carnia da pensionato e per Maiaso post – terremoto del 1976: i paesi che si spopolano.
Restano le case vuote, non si sentono più «liti di bimbi, chiocciare di galline, versi di falchi, abbaiare di cani», sostituiti dagli «schiamazzi e rumori frutto dello “sviluppo turistico” raggiunto grazie ai figli degli emigranti». E come segno della nuova modernità, che molti paesi omologa, Marchetti nota: «Nella baracca che funge da osteria, posta non lontano da dove esisteva il pozzo, a segno dei tempi mutati, campeggia, in un ritratto a colori, la foresta vulvare di un bellissimo nudo. I tetti si sono coperti di antenne televisive ed anche Maiaso ha partorito, come altri paesetti, due o tre laureati e qualche perito industriale, tutti accumunati dalle non rosee prospettive di lavoro.». Il sogno della resistenza è tradito e si è forse infranto.

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Ed egli chiude le sue memorie, con una considerazione molto attuale sul rapporto tra autorità e legge: «Ed ancora: l’autorità e la legge: due parole che mi frullano per la testa in chiusura di questo scritto. Sempre più si fa presente, ed allo stesso tempo incomprensibile per la maggioranza, il come risolvere i problemi della vita. Ciò significa che il rapporto giuridico ha ormai il sopravvento su quello umano. Ed allora sono i più abili a vincere, non i più umani. E se i più abili giudicheranno che il meno peggio, per loro e secondariamente per l’umanità, sia l’olocausto di molti altri, ciò avverrà, e lo sfruttamento dei più attrezzati a livello legislativo, potrebbe comportare un lievitare dell’ingiustizia che va di pari passo con il lievitare del numero delle leggi. La legge diventa, allora, un’arma da usare, secondo me, contro chi ne dovrebbe fruire a questo mondo.»

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Pertanto, invitandovi a leggere: Romano Marchetti, (a cura di Laura Matelda Puppini) “Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona. Una vita in viaggio nel Novecento italiano“, Ifsml- Kappa vu ed. alzo il mio bicchiere rosso e brindo a Romano, grande intellettuale e partigiano, che ha onorato la nostra montagna, nel giorno del suo compleanno,  con l’augurio di averlo ancora molti anni fra noi.

Laura Matelda Puppini

L’immagine ritrae Romano Marchetti mentre parla ad Ampezzo, il 18 marzo 2011, in occasione del conferimento a lui della cittadinanza onoraria del comune. La foto mi è stata data da Romano Marchetti, senza specificazione dell’autore. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

Franceschino Barazzutti. Attenti a quella rupe e no a quella centralina! Relazione/appello sulla zona di San Candido di Somplago.

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Può accadere che si progettino centraline senza, forse, conoscere bene il territorio e la sua storia, e che questo sia il caso di quella che dovrebbe essere costruita in località San Candido. Può accadere poi che in una zona pericoli reali non siano noti a chi la frequenta, e non siano stati presi in seria considerazione. Leggiamo insieme cosa ci racconta il dott. Franceschino Barazzutti, già insegnante di scienze naturali, nel merito della rupe di San Candido e zona circostante, attraverso la pubblicazione di una lettera da lui inviata a più indirizzi, sperando che quanto scrive e documenta possa essere oggetto di valutazione approfondita. E già che ci sono, accolgo la richiesta di una persona che mi ha detto di scrivere, pure, di togliere il pesce rosso che abbrutisce il paesaggio. Laura M Puppini.

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«All’on. Debora Serracchiani, Presidente della Giunta Regionale, Trieste
All’Assessore Regionale all’Ambiente ed Energia, Trieste
Alla Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio del Friuli Venezia Giulia, Udine
dott.ssa Silvia Stefanelli, Regione Friuli Venezia Giulia, Trieste
Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale (ARPA), Palmanova
Servizio Geologico d’Italia, (ISPRA), Roma
Servizio Geologico del Friuli Venezia Giulia, Trieste
Al Prefetto di Udine
Al Presidente dell’UTI della Carnia, Tolmezzo
Al Sindaco di Cavazzo Carnico
All’Ecomuseo della Val del Lago, Gemona
Alterenergy, Regione Puglia, Bari
Adriatic IPA, Regione Abruzzo, L’aquila
Ecuba Srl, Bologna
dott. Marco Pascolini, UTI della Carnia, Tolmezzo
ing. Valentino Pillinini, UTI della Carnia, Tolmezzo
Legambiente del Friuli Venezia Giulia, Udine
Legambiente della Carnia, Tolmezzo.

Oggetto: realizzazione di un impianto micro idroelettrico in località San Candido in Somplago

Cavazzo Carnico. Promemoria.

Egregi Signori,

leggendo il notiziario informativo del Comune di Cavazzo Carnico ho appreso che tra le opere pubbliche in progettazione figura la “centralina di San Candido”. Ben conoscendo i particolari problemi di tale località nella frazione di Somplago, essendo stato di questo Comune, gravemente colpito dal terremoto del 1976, vicesindaco dal 1975 al 1977 e poi sindaco ininterrottamente dal 1977 al 1995, ho cercato di documentarmi su tale centralina, tanto più che sulla opportunità della sua realizzazione la comunità locale non è stata coinvolta.

Fortunatamente, digitando “sorgenti di San Candido a Somplago” in internet, ho trovato lo “WP4 – Studio di fattibilità per la realizzazione di una centrale mini idroelettrica presso Somplago di Cavazzo Carnico (UD)” datato 29 luglio 2015. Tale studio porta le intestazioni di “Strategic Project alterenergy Energy Sustainability for Adriatic Small Communities, di Regione Friuli Venezia Giulia – Direzione Centrale Ambiente ed Energia, di Let’s grow up together Adriatc IPA Cross Border Cooperation 2007-2013 e di Ecuba. (vedi allegato 1)

Ho letto attentamente tale studio ed ho constatato che non tiene minimamente conto del contesto in cui la centralina dovrebbe inserirsi, in particolare l’incombente rupe di San Candido, il che mi ha lasciato basito.
Per cui mi sono chiesto se gli estensori dello studio di fattibilità e gli altri enti e soggetti coinvolti si siano documentati sullo stato di quella rupe, ovvero, se siano stati informati dal vicesindaco di Cavazzo Carnico, che figura tra i collaboratori dello studio, e che necessariamente ne è a conoscenza, essendo stato dipendente del Comune nel periodo del mio incarico sindacale.

Dopo le scosse del 6 maggio 1976 su incarico dell’on. Giuseppe Zamberletti, Commissario Straordinario del governo per il Friuli terremotato, il Servizio Geologico Nazionale eseguì uno studio sulla parte della rupe soprastante l’abitato di Somplago, constatando l’esistenza di linee di frattura aperte, profonde, continue con isolati blocchi ciclopici potenzialmente instabili (vedi foto 1; 2; 3).

                                           

Foto 1 – fessurazione parallela al ciglio della rupe.                        Foto 2 – Fessurazione verso l’interno coperta da fogliame

Foto 3 – Prosecuzione della fessurazione con sostegni dei tensori

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Conseguentemente, il Commissario Straordinario assunse i seguenti provvedimenti in base alla simulazione della caduta dei blocchi:
– installazione di alcuni sensori, i cui sostegni sono tuttora visibili nonostante la ramaglia ed il fogliame sedimentati da allora, (vedi foto 4; 5; 6) segnalatori dei movimenti sulle linee di frattura collegati ai semafori sulla strada statale (ora regionale 512);
– sbarramento della stradicciola di accesso dalla strada statale alla località San Candido;
– tracciamento di una linea di rispetto che “tagliava” quasi un terzo dell’abitato di Somplago, la strada statale e terreni agricoli.

                                          

Foto 4 – Sostegni dei tensori su frattura ricoperta da fogliame.               Foto 5 – Sostegni di tensori su frattura

Foto 6 – Sostegni di tensori su frattura ricoperta da fogliame

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Per superare la grave situazione, da incubo per gli amministratori comunali di allora, si discusse ampiamente sulle possibili soluzioni: l’abbandono dell’esistente tracciato stradale e la costruzione di uno nuovo a monte dell’abitato che però avrebbe incontrato un ostacolo nell’autostrada in costruzione; d’altro canto l’elaborazione del piano particolareggiato di ricostruzione di Somplago si presentava estremamente problematico a causa della citata linea di rispetto, dei vincoli del tracciato autostradale e delle caratteristiche di non edificabilità dei terreni adiacenti a sud dell’abitato; un intervento sulla rupe, che poteva essere attivo con enormi “chiodi” fissanti la parete ed i suoi blocchi, oppure passivo con la barriera in cemento armato, che poi fu effettivamente realizzata (vedi foto 7).

Dal canto suo la Società dell’Oleodotto Transalpino (SIOT) provvide subito a stendere uno spesso materasso protettivo di terra sul tracciato dell’oleodotto esposto all’eventuale caduta dei blocchi dalla rupe e qualche mese fa ha ricaricato tale materasso in un tratto sotto lo sperone parzialmente isolato più a nord della rupe (vedi foto 8).    

Foto 7 –  Muro di difesa della SR 512 e dell’abitato


Foto 8 – Sperone isolato della rupe

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Già, la barriera! Mi chiedo se al Comune proponente, ai vari Enti e agli elaboratori dello studio di fattibilità sia sfuggito il fatto che la barriera protegge ciò che sta a valle della stessa, ma non può ovviamente proteggere ciò che sta nell’area a monte sino alla base della rupe. Invece, proprio lì si vuole costruire la centralina con prese, condotta e installazione della turbina! Proprio lì si vanno a collocare mezzi finanziari pubblici!Mi chiedo se hanno letto la Relazione geologico-tecnica e idraulica di adeguamento al P.A.I del Piano Regolatore Generale Comunale redatta dal dott. geol. Danilo Simonetti, datata marzo 2015, sulla pericolosità della rupe di San Candido e sul fatto che, addirittura, la stessa barriera non elimina la pericolosità, ma permette solo “di abbassarla a valle dell’opera a grado elevato, P3” (vedi allegati copertina, e geologia della rupe). La leggano i dirigenti dei vari Enti promotori della centralina e ne traggano le dovute conseguenze!Quello di garantire la sicurezza è un dovere primario di ogni ente pubblico. Ebbene, mi chiedo perché e da chi sia stata tolta la sbarra che precludeva l’accesso alla stradicciola per San Candido, di cui è rimasto solo il supporto di destra (vedi foto 9) e perché si permetta che la località sia normalmente frequentata da numerose persone con relativi autoveicoli (vedi foto 10).

Foto 9 – Strada per S. Candido senza lo sbarramento di un tempo.

                                                 

Foto 10 – Visitatori ignari     

Mi chiedo se la creazione di diverse vie di arrampicata sulla parete rocciosa (vedi foto 11), una addirittura da parte dell’Ecomuseo della Val del Lago con tanto di cartello (vedi foto 12) che attraggono numerosi frequentatori, abbia considerato le conclusioni sulla pericolosità della rupe del Servizio Geologico Nazionale del 1976 e la citata relazione del dott. geol. Simonetti del marzo 2015. Mi chiedo se i frequentatori di San Candido siano o no informati della pericolosità della sovrastante rupe. 

 

                                              

Foto 11 –  Arrampicatori ignari                               Foto 12 – La tabella dell’Ecomuseo della Val del Lago

Mi chiedo se sia responsabile ritenere – per labilità della memoria – che il terremoto, essendo un evento passato di 41 anni fa, non debba più colpire, mentre è sempre lì in agguato come ci ricordano i recenti terremoti nel mondo e i ciclopici massi staccati e precipitati nel corso dei secoli e millenni proprio dalla rupe di San Candido e che giacciono ben visibili lungo ed ai piedi del suo declivio. Mi chiedo se in questa situazione vi siano responsabilità che possano interessare l’autorità giudiziaria.L’inserimento delle opere relative alla centralina nell’area tra la base della rupe e la sottostante barriera difensiva investe alcuni importanti aspetti di carattere ambientale. Infatti, vista dalla postazione panoramica di Interneppo la notevole verticalità della rupe di San Candido, il suo profilo superiore e la pieve di Cesclans che si stagliano sullo sfondo delle montagne della Carnia costituiscono l’ammirevole scenario settentrionale del lago e della sua valle: ne sono il simbolo. (vedi foto 13).  

Foto 13 – Veduta del lago di Cavazzo verso nord 

Vista da una postazione più vicina da Somplago (vedi foto 14) si comprende maggiormente l’assurdità dell’inserimento delle opere di una centralina nel contesto di San Candido.

Foto 14 – Veduta da Somplago della SR 512, del muro, di una della cascate, della chiesetta e della rupe

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La sovrastante rupe, la sottostante chiesetta omonima (inattiva), i diffusi ruscelletti, le varie cascatelle che dalle sorgenti sparse lungo la base della rupe percorrono, animandolo, il sottostante declivio per alimentare la diffusa rete di acque confluenti nell’immissario del lago, rappresentano un unicum ambientale che non può tollerare l’inserimento di un corpo così estraneo come una centralina e che, pertanto va lasciato integro, così come è. Tanto più che la captazione delle sorgenti alla base della rupe potrebbe ripercuotersi negativamente sul sistema di sorgenti minori poste subito a valle.Che lo si guardi da lontano o da vicino il complesso di San Candido rappresenta l’immagine- simbolo di Somplago e dell’intera Val del Lago. Che la condotta alimentante la centralina sarebbe mascherata dalla vegetazione – come scritto nello studio di fattibilità – pare solo una trovata, poiché alla caduta delle foglie sarebbe ben visibile la sua bruttura, mentre l’esecuzione dello scavo per il suo interramento creerebbe instabilità del declivio e comporterebbe uno sconquasso anche del sistema delle acque. Pertanto, le acque di San Candido vanno lasciate scorrere libere come sono e, perché possano essere ben visibili ed ammirate, vanno – al contrario – liberate dalla vegetazione che a tratti ne impedisce la vista, mentre il lavatoio (vedi foto 15), anziché essere utilizzato come vano turbina, va conservato come testimonianza storica indipendentemente che sia tutelato o no dalla Soprintendenza.  

Foto 15 – Il vecchio lavatoio 

Mi sembra che la magistratura contabile potrebbe avere qualche perplessità in presenza della spesa di denaro pubblico in uno studio di fattibilità, progettazione e costruzione di una centralina senza considerare la pericolosità del sito. Inoltre, ove i proponenti volessero proprio costruire una centralina potrebbero costruirla sul Rio Vaat (vedi foto 16), località appartata nei pressi di Cesclans, in sicurezza geologica e senza particolari danni ambientali.

Foto 16 – Rio Vaat

Ancor meglio potrebbero battersi per l’attribuzione alla nostra Regione Autonoma di quei poteri di cui godono le Province Autonome di Trento e di Bolzano in forza dei quali i concessionari idroelettrici sono tenuti a consegnare a quelle province – che poi l’assegnano gratis o agevolata a vari Enti – una quantità di kW rapportata alla potenza dell’impianto.

In tal caso non servirebbero ulteriori centraline ed i ricavi della notevole produzione della vicina centrale a2a di Somplago resterebbero in parte in loco e non andrebbero ad irrobustire soltanto i bilanci degli azionisti Comuni di Milano e di Brescia, lasciando il lago di Cavazzo sconvolto dallo scarico dalla centrale di acqua gelida, che ha distrutto la fauna ittica, e di fango che finirà per interrarlo – se non si realizza un bypass che porti lo scarico fuori dal lago – nel tempo di 110 anni, come dimostrato sia dalla perizia del marzo 2011 dell’ing. Garzon, incaricato dai tre Comuni della Valle del Lago, dalle Comunità Montane della Carnia, del Gemonese e dal Consorzio BIM del Tagliamento, sia dallo studio dell’ing. Franzil “Lago, Energia, Ambiente”.Quella proposta è una centralina sbagliata nel posto sbagliato! 

Lasciamo, lasciate in pace San Candido e le sue acque! Restando a Vostra disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti porgo distinti saluti».

13 novembre 2017

dott. Franceschino Barazzutti, già sindaco di Cavazzo Carnico,

Via Marco Davanzo 9 – 33028 Tolmezzo(Udine) – franceschino.barazzutti@gmail.com.

Allegato 1. Copertina studio di fattibilità per la realizzazione di una centrale mini idroelettrica presso Somplago di Cavazzo Carnico.WP4-

Studio di fattibilità per la realizzazione di una centrale mini idroelettrica presso Somplago di Cavazzo Carnico (Udine).Studio di fattibilità per l’ipotesi di realizzazione di un impianto micro idro elettrico per la produzione di energia elettrica presso Somplago di Cavazzo Carnico. (Ud).  Data 29 luglio 2015. Somplago di Cavazzo Carnico Udine. 

 

Franceschino Barazzutti.

Ringrazio Franceschino Barazzutti per avermi inviato questo materiale ed avermi permesso di pubblicarlo. L’immagine che correda l’articolo è una di quelle che si trovano al suo interno, la numero 8, pervenutami senza autore, e rappresenta uno sperone isolato della rupe. L. M. Puppini

 


Il friulano nella scuola: da Pasolini ad oggi di Annalisa Candido

10 febbraio a Torino. Su quel convegno che, per qualcuno, “non s’ha da fare”, ma non si capisce perchè.

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Ho acquistato ieri l’altro’ Avvenire’, incuriosita pure da un titolo: “Torino, un convegno ‘bufala’ contro le vittime delle foibe” di Lucia Bellaspiga, mai sentita nominare in campo storico, che wikipedia scrive essere figlia di genitori istriani e lavorare come giornalista dal 2001 per il noto quotidiano cattolico.
Il titolo mi faceva propendere per il fatto che fosse girata voce di un convegno sulle «vittime delle foibe» poi rivelatosi una ‘fake news’, e questo aspetto mi incuriosiva, ma poi ho compreso, invece, che non era così.

Ma incominciamo insieme a capire qualcosa dell’accaduto dal testo in questione, firmato da una giornalista che, in questo caso, sa usare le parole per dare solo la sua versione personalissima dell’incontro programmato presso il Museo dell’ex- carcere ‘Le nuove’ di Torino.
Il suo pezzo inizia così: «La stella rossa che campeggia in locandina è quella di Tito, il maresciallo comunista jugoslavo responsabile delle Foibe e della pulizia etnica contro gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia. E a organizzare il convegno negazionista a Torino il 10 febbraio, proprio nel giorno dedicato per legge al Ricordo delle Foibe e dell’Esodo giuliano dalmata, è un certo “Coordinamento nazionale per la Jugoslavia” (per gli amici “Jugocoord”). Il paradosso è grottesco e anacronistico: la Jugoslavia manco esiste più, Croazia e Slovenia (ormai Europa) hanno da un pezzo sfrattato i busti di Tito come da noi decenni fa sparirono quelli del Duce e a Mosca quelli di Stalin, ma nel capoluogo torinese i fan del maresciallo sanguinario esistono ancora e “celebrano” a modo loro il ricordo dei suoi eccidi… (Lucia Bellaspiga, Torino, un convegno ‘bufala’ contro le vittime delle foibe, in Avvenire, 1 febbraio 2018).

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Allora, in primo luogo il giorno del ricordo prevede anche l’analisi “della più complessa vicenda del confine orientale”, secondariamente il convegno che la giornalista del cattolico ‘Avvenire’ afferma essere “negazionista”, e “celebrativo degli eccidi di Tito” in programma a Torino, ha come oggetto un bilancio sulla “giornata del ricordo” (http://xcolpevolex.blogspot.it/2018/01/torino-10-febbraio-convegno-nazionale.html) e non ha come argomento “Le vittime delle foibe”, come il titolo dell’articolo sostiene. Pertanto non si sa da dove la Bellaspiga abbia tratto le informazioni per sostenere quando scrive.
Ma la giornalista pensa che la scelta dell’argomento sia una furbata per nascondere altro, svelato dalla stella rossa, ma per dirlo dovrebbe aver letto tutte le relazioni prima. E i relatori previsti sono diversi, e vanno da Angelo Del Boca, scrittore, giornalista, storico, ad Angelo D’Orsi, professore universitario; da Alessandro “Sandi” Volk a Gabriella Manelli, presidente Anpi Parma; da Marco Barone, laureato in Giurisprudenza, blogger, libero professionista e ricercatore indipendente, a Nicola Lorenzin, di cui nulla ho reperito; da Davide Conti, storico e consulente dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica, a Claudia Cernigoi del sito http://www.diecifebbraio.info/ ed Alessandra Kersevan, editrice, saggista, storica. Che poi, inevitabilmente, si possa, nel corso di un convegno su questo argomento, anche parlare di ‘foibe’, mi pare ovvio, ma non è solo questo il tema della giornata del ricordo, altrimenti si dovrebbero cancellare dalla memoria gli internati italiani a fine guerra e morti nei campi di concentramento jugoslavi ma non infoibati. Inoltre anche molti collaborazionisti slavi e sloveni subirono la stessa sorte, assieme a tedeschi ecc. ( Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha, La Slovenia durante la seconda guerra mondiale, ifsml, 2013, pp. 374-375).

E credo che sia legittimo che si possa parlare di detta giornata istituzionale dopo anni dalla sua creazione, se si può parlare anche del Padre eterno e via dicendo, e della giornata della memoria, tanto che lo stesso Moni Ovadia metteva in guardia dal trasformare la stessa in una giornata celebrativa invece che di riflessione sui perseguitati, sulle ‘vittime’ di allora e di ora. (https://www.wikieventi.it/roma/259159/moni-ovadia-per-giornata-della-memoria-sono-laltro/). E nessuno né della comunità ebraica né di quella cattolica si è mosso per fermarlo urlando ‘ Al lupo, al lupo”, anzi più siti ne riportano il pensiero critico.

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Inoltre leggendo le righe di Bellaspiga sull’Associazione che ha sponsorizzato il convegno, il lettore ha, umanamente, qualche problema. Infatti se è vero che esso è organizzato da ‘Jugocoord’ (che la giornalista dovrebbe sapere poter essere un modo di sintetizzare una lunga sigla per un articolo), cioè da una Associazione che si chiama “Coordinamento nazionale per la Jugoslavia”, non si capisce però perché questo le dia tanto fastidio.
Infatti tale associazione, che attualmente vanta un comitato scientifico-artistico di tutto rispetto, (Cfr. Comitato Scientifico-Artistico, in: http://www.cnj.it/home/it/associazione/2-csa.html), potrebbe essere stata fondata ai tempi in cui esisteva la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, che aveva la stella rossa sulla sua bandiera, o volerne studiare la storia e la cultura. Ma la stella rossa non era peculiarità dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo comandato dal generale Josip Broz detto Tito, alleato di Americani, Inglesi e Sovietici nella seconda guerra mondiale, ma segno distintivo, ben prima, dell’Armata rossa. Inoltre non si sa come la giornalista si permetta di definire i soldati del NOV i POJ, che versarono il loro sangue per fermare Hitler al fianco degli alleati, ‘sgherri’. (Lucia Bellaspiga, cit.).
Infine ci mancherebbe solo che ora, nell’Italia democratica, non si potesse nemmeno chiamare più ‘Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia’ un’associazione privata.

Quindi, in sintesi, io ho capito, leggendo questo articolo, solo che la giornalista odia visceralmente sia la stella rossa, che però nell’icona dell’Associazione non è solitaria, ma inserita parzialmente in un logo con i colori bianco ed azzurro della bandiera jugoslava, di cui la stella faceva parte, sia i partigiani jugoslavi che combattevano contro il nazifascismo e per la liberazione delle terre invase ed occupate dal Terzo Reich, e mi chiedo se, forse, propenda per i nazisti. (Per la situazione geografica dal settembre 1943 alla fine della seconda guerra mondiale cfr. Laura Matelda Puppini, Confini, geografia e politica ai tempi della Resistenza, in www.nonsolocarnia.info).

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Infine vi è poi anche un altro organizzatore dell’incontro in questione, che Lucia Bellaspiga si è scordata di citare: la rivista “Historia Magistra”, della Franco Angeli editori, i cui rappresentanti magari potrebbero anche offendersi di esser stati dimenticati, e forse anche di tutto l’attivismo di ‘Avvenire’ perché l’incontro non si possa svolgere.

Ma la giornalista, non doma, fa anche di peggio perché scrive: «Per intenderci, è come se l’associazione nostalgici del Terzo Reich organizzasse gli eventi commemorativi per la Giornata della Shoah il 27 gennaio». (Lucia Bellaspiga, cit.). Ma per scrivere questo, la Bellaspiga dovrebbe dimostrare che il “Coordinamento nazionale per la Jugoslavia”, è Associazione di nostalgici non si sa di che, e che Tito fu come Hitler, nel corso della seconda guerra mondiale. Ma ciò non è assolutamente vero, e questo non lo dico io, ma la storia. Tito non consta abbia invaso stato alcuno, ma combattè il nazifascismo che aveva occupato mezza Europa compreso il regno di Jugoslavia, quando se lo trovò in casa, e non fece olocausto alcuno. E questo non è parere personale, ma dato oggettivo. E se qualcuno potrebbe avere da recriminare nei suoi confronti, questi potrebbero essere sicuramente sia l’Unione sovietica sia i numerosi comunisti filo Urss finiti prigionieri sull’isola calva, per la sua scelta ‘autonomista’ avvenuta nel 1948. Ma proprio perchè l’ignoranza è grande nel merito delle vicende della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, e forse le favole tante, lo Stato italiano ha creato, meritevolmente la giornata del ricordo pure per studiare ed analizzare. E sulla storia del confine orientale esistono anche un documento Italo- Jugoslavo, pubblicato su vari siti, per esempio su: https://www.balcanicaucaso.org/Dossier/Dossier/Commissione-italo-slovena-per-una-storia-condivisa-41189, ed una prima analisi stilata da studiosi per l’Anpi, pubblicata pure da me su www.nonsolocarnia.info, con titolo: “Documento dell’Anpi nazionale. Il Confine italo- sloveno. Analisi e riflessioni”.

Per quanto riguarda un incontro di nazisti il giorno della memoria, in effetti è stato organizzato ad Azzano Decimo, il 27 gennaio 2018, un concerto di filonazisti noti per i loro testi, messaggi, segni e simboli inequivocabili, e dato che si teneva in locali privati, il prefetto non è intervenuto a sospenderlo.

Inoltre pare che Lucia Bellaspiga abbia una particolare antipatia per la dott. Alessandra Kersevan e per Claudia Cernigoi, che io ho ascoltato una volta e non mi pare proprio fossero delle negazioniste di quanto accaduto in quelle terre. E vorrei sapere quante volte le ha ascoltate la giornalista di ‘Avvenire’, o se il suo sia un ‘partito preso’. E non da ultimo la Bellaspiga dovrebbe sapere che, se definisce una persona ‘ negazionista’ di qualcosa lo deve dimostrare. Su quante poi fossero state le vittime italiane e fasciste dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo nel 1945, io credo che quanto riportato in Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha, op. cit., pp. 374-375, possa essere realistico. (cfr. Laura Matelda Puppini. Per la giornata del ricordo, in: www.nonsolocarnia.info). Ma vi furono anche le cosiddette foibe del ’43, per cui rimando a quanto riportato e citato nel mio: “Non avrei scritto queste righe se non avessi letto il titolo dell’articolo di Maurizio Cescon, Vergarolla 1946 …” su www.nonsolocarnia.info).

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Due parole solo, infine, sulle dichiarazioni relativamente a detto convegno programmato a Torino, del senatore della Repubblica Maurizio Gasparri, prima del MS.I. e poi di A.N., infine del Popolo delle Libertà. (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Maurizio_Gasparrihttps://it.wikipedia.org/wiki/Maurizio_Gasparri).
Egli mi pare abbia fatto confusione, forse sull’onda politic – emotiva, sull’organizzazione del convegno perché l’Anpi non ha organizzato questo convegno, come pare egli abbia affermato dal titolo di un articolo del Secolo d’Italia. (Augusta Cesari, Foibe, il convegno della vergogna. Gasparri. L’Anpi offende le vittime, in: Il secolo d’ Italia’ 31 gennaio 2018).

Inoltre non si sa, senza aver letto gli atti del convegno od averlo ascoltato, come questo rappresentante della nostra Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, possa affermare che: «Il prossimo 10 febbraio a Torino è stato […]  organizzato l’ennesimo convegno […] cui hanno aderito tra gli altri l’Anpi e una serie di associazioni di combattenti antifascisti, nel vergognoso intento di ribaltare verità storiche acclarate e offendere la memoria di migliaia di nostri concittadini che hanno perso ogni bene e la vita stessa a seguito della sanguinaria repressione del regime di Tito». (Ivi).  Ma si sa, siamo sotto elezioni, penso sconsolata, leggendo pure il comunicato stampa sempre del senatore Gasparri nel merito, sul suo sito, ove però può legittimamente esprimersi come desidera, e che nessuno è obbligato a leggere. (Foibe: vergogna ennesimo convegno giustificazionista, in: http://www.gasparri.it/). Si deve però notare come il senatore abbia qui utilizzato il termine ‘giustificazionista’, non ‘negazionista’, che fa una bella differenza.

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Ricordo infine, le zone A e B, da tutti dimenticate nella ‘foga antitina’, e invito sull’esodo a leggere il volume di Raoul Pupo, “Il lungo esodo” Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli ed. che, sin dal titolo, richiama il fatto che l’abbandono dell’Istria e di paesi della Slovenia da parte di italiani e sloveni italianizzati nonchè, forse, di slavi pure italianizzati collaborazionisti con i tedeschi, avvenne nell’arco di anni e per motivi diversi, in un quadro di spostamenti vari a livello europeo, ed anche di popolazione triestina verso l’Australia e carnico – friulana verso l’Europa e le Americhe alla ricerca di lavoro. Inoltre l’Italia non fu insensibile a questi profughi istriani e dalmati, e emanò una serie di norme a loro favore, che li privilegiavano rispetto agli italiani stanziali, sia per avere un posto statale, sia per avere un alloggio popolare, da che mi consta.

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 Che poi Chiara Appendino non sapesse nulla di quel convegno, come di mille altre riunioni ed incontri a Torino è possibile, perché un sindaco di una grande città, se non personalmente coinvolto in un evento culturale, può anche non conoscerlo, ma invero non so invece come non sapesse nulla il Museo (Lucia Bellaspiga, cit.) che aveva concesso non si sa se a pagamento la sala. E parimenti non capisco come tale Felice Tagliente, gestore del museo, abbia potuto dire, solo dal titolo dell’incontro, che: «Mai e poi mai abbiamo aperto le porte a un convegno che definire una vergogna è poco» o il direttore, che francamente ci si chiede che cultura abbia, ad affermare «Piuttosto lo chiudo» si intende il museo, che ospitare il convegno con oggetto la giornata del ricordo. (Lucia Bellaspiga, cit. e ibid, sottotitolo). É forse vergognoso parlare della giornata del ricordo? Siamo a questo punto in Italia?

Ma così va ormai il mondo, penso sconsolata, mentre tristemente vado con la mente al titolo tanto veritiero di un vecchio volume di Marco Travaglio: ‘La scomparsa dei fatti’, per far spazio alle opinioni, ed a come dovremmo ricordarci, quando parliamo e scriviamo, che siamo in Europa, non al bar o dal salumaio in attesa. (Cfr. per esempio il mio: Seconda Guerra Mondiale. Friuli e Carnia in Ozak, Bretagna nella Francia occupata: Terre diverse, esperienze similari, in: www.nonsolocarnia.info).

Insomma a me pare che in questo caso Lucia Bellaspiga abbia scritto un articolo ove ella riversa i suoi odi, i suoi pregiudizi, le sue paure, la sua personalissima visione delle cose, utilizzando uno stile ‘romantico – noir’, prendendosela con un convegno che non mi pare, per quello che sinora so dello stesso, abbia nulla di particolare, e ritengo che il cattolico Avvenire, per altri testi benemerito, abbia fatto malissimo a non ponderare maggiormente la pubblicazione dello stesso.

Senza voler offendere alcuno, ma per esprimere il mio parere documentato e discutere sull’informazione in Italia.

Laura Matelda Puppini

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 Link per alcuni articoli pubblicati su www.nonsolocarnia.info citati:

Laura Matelda Puppini. Per la giornata del ricordo.

Non avrei scritto queste righe se non avessi letto il titolo dell’articolo di Maurizio Cescon, Vergarolla 1946 …

Seconda Guerra Mondiale. Friuli e Carnia in Ozak, Bretagna nella Francia occupata: Terre diverse, esperienze similari.

Per la parte metodologica si invia anche all’articolo mio e semrpe pubblicato su www.nonsolocarnia.info:

Mode storiche resistenziali e non solo: via i fatti, largo alle opinioni, preferibilmente politicamente connotate.

L’immagine che correda questo mio testo è la scannerizzazione di una parte dell’ articolo di Lucia Bellaspiga comparso su Avvenire. 

Laura Matelda Puppini

Marco Puppini. Quel 18 febbraio 1923, giorno di elezioni a Venzone, mentre il fascismo prendeva il potere.

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INTRODUZIONE.

Il mio gemello mi ha inviato questo prezioso contributo che racconta un fatto sanguinoso accaduto a Venzone mentre il fascismo, dopo la marcia su Roma, cercava di andare al potere, e che contiene pure cenni sulla storia di Domenico Tomat di Venzone, che ne fu invischiato, e che forse fu troppo sbrigativamente condannato in toto dall’opinione pubblica friulana per un fatto accaduto nel maggio 1945, a guerra finita. Ma quello per cui il Tomat fu accusato e giudicato colpevole, non fu il solo caso in Italia di persona ritenuta collaborazionista o fascista uccisa a fine guerra. Vi furono anche altri casi, per esempio in Carnia, secondo Romano Marchetti, quello di un certo Valle, ed alcuni partigiani, anche osovani,  pensavano che la ‘resa dei conti’ fosse legittima, e che si potessero processare coloro che non si era riusciti a processare prima, in un contesto di luogotenenza inglese. Inoltre non ci si ricorda di quello che subirono i partigiani nel dopoguerra, non solo i garibaldini ritenuti comunisti anche a sproposito (per esempio se si vede il numero di comunisti nella Divisione Natisone, come da documento in archivio Gramsci Roma, esso è bassissimo), nel contesto di una politica che penalizzava ogni rinnovamento, e cercava di criminalizzare chi aveva aderito alla resistenza, liberando il paese dai tedeschi e dai fascisti. E ci furono anche, dopo la fine della guerra, azioni criminali verso partigiani: basta vedere quello che accadde a Giovanni Pellizzari, nome di battaglia Bruno e conosciuto come ‘Pronti’, che, nell’autunno 1946, fu oggetto di un attentato da parte di due individui in motocicletta i quali si recarono a Villa Santina, all’albergo Trieste gestito dalla sua famiglia, e posero una bomba sulla finestra della cantina che demolì un angolo dell’edificio, (Gianni Conedera, L’ultima verità, Andrea Moro, 2005, pp. 163- 164); o quanto accadde a Fermo Cacitti, Prospero, osovano. Una sera del settembre 1945, abitando a Lauco, Fermo si era recato, come faceva di solito, all’ osteria ‘Fossal’ e stava osservando delle persone che stavano giocando a bocce. Tra loro c’era anche un giovane di Vinaio, Mario A., forse un Adami,  che improvvisamente lanciò la boccia con grande forza contro la testa di Prospero, che per fortuna si schivò in tempo. (Ivi, p. 165). Inoltre furono istituiti molti processi ai partigiani, mentre i criminali di guerra fascisti italiani non furono sfiorati da processo o da consegna, come da accordi internazionali, allo stato dove avevano compiuto nefandezze, anzi vennero quasi considerati degli eroi. Pagò per tutti probabilmente Nicola Bellomo, ricordato anche dall’Anpi, che forse sapeva troppo sulla fuga del Re e di Badoglio. «C’è troppa trascuratezza, siamo sinceri nei riguardi dei patrioti» – si legge su:“Commento a: “La coscienza giuridica degli ex- partigiani” trasmesso dall’A.N.P.I. di Tolmezzo per la pubblicazione, riportato da “La voce della giustizia” di Torino”, in: Lavoro, 1 settembre 1945. «Tutto va bene. Bisogna impedire un nuovo squadrismo. (…). Ma lo strano è questo: che coloro che hanno avuto il posto perché squadristi sono ancora là, duri come macigni nei loro uffici; che coloro che hanno combattuto idealmente e materialmente i patrioti ed il loro grande movimento insurrezionale ridono dalle finestre dei loro uffici a quei poveri diavoli di partigiani che passano straccioni e affamati per la strada.» (Ivi).  In questo contesto si deve collocare anche il fatto di cui fu accusato il Tomat, nel dopoguerra, un dopoguerra che fu tutt’altro che semplice e che fu caotico, con continui movimenti di persone, con odi e ricordi, ed un tessuto sociale da ricostruire. Per quanto riguarda il fascismo ed i metodi con cui prese il potere, molto è stato già scritto da studiosi seri, ma pare dimenticato. Questo articolo permette di ricostruire un fatto ed uno scenario locale. Laura Matelda Puppini

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Marco Puppini. Quel 18 febbraio 1923 … 

«Tra pochi giorni saranno passati novantacinque anni dai fatti accaduti a Venzone il 18 febbraio 1923, fatti che a mio parere hanno avuto una certa importanza nella storia non solo dell’antifascismo friulano, ma addirittura internazionale. Fatti di sangue e violenza, come accadeva in quegli anni, che seguivano di poco una guerra condotta con tutte le armi di distruzione e di propaganda di massa dell’epoca, guerra che aveva “insegnato” che la vita umana valeva poco e che era il momento, per chi voleva affermarsi, di agire in modo violento e spregiudicato. Lezione appresa molto bene dalle squadre fasciste che ormai in Friuli avevano il controllo delle strade e delle piazze grazie alla stretta collaborazione con le cosiddette forze dell’ordine. Dal 1921 al 1923 i fascisti appoggiati dalla “forza pubblica” avevano scatenato in Friuli una lunga serie di violenze causando morti e feriti. Sarebbe qui troppo lungo elencarle. Arriviamo invece subito ai fatti di Venzone.

Il 18 febbraio era il giorno delle elezioni municipali a Venzone. Le leggi speciali metteranno fine in seguito ai consigli comunali liberamente eletti. La vecchia amministrazione si era dimessa per uno scandalo finanziario, ed ora in competizione c’erano la lista del Blocco Nazionale, sostenuta anche dai fascisti, e quella formata da socialisti ed ex combattenti. Fin dal mattino in paese stazionavano forti gruppi di operai socialisti, molti rientrati dalle località di emigrazione, e di ex combattenti di ispirazione antifascista, ed un contingente di carabinieri. Ma ecco che compare anche una squadra fascista, proveniente da Artegna e guidata da Licinio Ermacora, giunta su ordine della coorte di Udine. Pochi giorni prima (il 1 febbraio) le squadre d’azione fasciste erano state trasformate in un nuovo corpo militare, la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, al servizio però di un partito politico; i militi prestavano giuramento al capo del governo (Mussolini)  e si ritenevano i custodi dei valori della rivoluzione fascista. La squadra viene alloggiata in una sala dell’albergo Tomat. Cosa era venuta a fare? Qualcuno dirà che i fascisti erano intervenuti a “mantenere l’ordine”. Da quando in qua si chiama una delle parti in causa (i fascisti, che sostenevano la lista del Blocco Nazionale) a mantenere ordine in una disputa? Fatto è che la squadra nel pomeriggio interverrà con pugni e legnate (non risulta uso di armi da fuoco) contro la parte avversa.

Stando all’inviato del quotidiano borghese e conservatore “La Patria del Friuli” (Le elezioni amministrative a Venzone. Un’imboscata. Un morto  e un ferito. Altri incidenti e altri feriti, in “La Patria del Friuli” 19 febbraio 1923) un primo incidente era avvenuto al mattino, quando un fascista gemonese che vendeva il giornale “Friuli Fascista” era stato malmenato. Un secondo incidente avviene alle 16 e 30 quando il Pretore ordina ai carabinieri di riportare al seggio con la forza un segretario di sezione, Valentino Zamolo, che si intratteneva con amici in piazza Umberto 1°. La folla, vedendo Zamolo accompagnato dai carabinieri e pensando fosse stato arrestato, aveva circondato il gruppetto e ”due o tre fascisti presenti” che erano intervenuti. A questo punto la squadra di sua iniziativa era uscita dall’albergo ed era intervenuta a suon di randellate. “La piazza e le strade furono fatte sgombrare dalla forza pubblica coadiuvata dai fascisti”, racconta l’inviato del quotidiano. Da quel momento forza pubblica e fascisti controllano assieme le operazioni di voto sino a notte con sistemi che possiamo immaginare. Va detto che le elezioni verranno vinte con maggioranza schiacciante dal Blocco Nazionale (ma potevano essere ritenute valide  con quanto era successo? Con una delle due parti che controllava le votazioni con la violenza?). L’intervento della squadra fascista aggrava senza rimedio un incidente che, se gestito diversamente, poteva essere risolto senza ulteriori problemi e senza la coda che invece ha avuto.

Cosa è successo poi? La squadra fascista al termine delle operazioni di voto si era avviata per rientrare ad Artegna ma quando arriva nei pressi del cimitero, qualcuno spara in direzione del camion.

Al “Giornale di Udine” (Vigliacca imboscata a Venzone contro un camion di fascisti in “Il Giornale di Udine” 19 febbraio 1923)  ) Ermacora racconta che il camion aveva lasciato Venzone alle 21. Giunto alle ultime case del paese, era stato accolto da “una scarica di fucileria” da una cinquantina di metri di distanza, scarica proseguita anche nei momenti successivi contro il camion che stava allontanandosi rapidamente. In un primo momento nessuno di coloro che viaggiava sul camion si era reso conto che vi erano dei feriti, gli squadristi se ne erano accorti solo dopo qualche tempo ed il camion si era fermato. Le fucilate avevano ucciso un giovane squadrista di 18 anni, Alfredo Giorgini, colpito all’avambraccio ed anche alla spalla, questa ultima pallottola aveva proseguito la sua traiettoria ed aveva colpito la testa del malcapitato. Si trattava, stando a Ermacora di “pallottole esplosive”. Era stato colpito anche un altro fascista, Canci, alla coscia. Il camion aveva ripreso la corsa e Canci era stato accompagnato all’ospedale di Gemona, mentre il corpo di Giorgini era stato portato ad Artegna e deposto alla sede dal Fascio.

Un poco diverso il resoconto fatto sempre da Ermacora a “La Patria del Friuli” (Come è avvenuta l’imboscata. La mobilitazione della Legione fascista, in “La Patria del Friuli” 19 febbraio 1923) con alcune importanti precisazioni. Il camion si era allontanato dal luogo della sparatoria, ma aveva dovuto fermarsi in località Rivoli Bianchi, tra Ospedaletto e Gemona, perché i fanali si erano improvvisamente spenti. E solo allora i fascisti si erano accorti che Giorgini era stato colpito a morte. Come avevano fatto una quindicina di uomini stretti nel cassonetto di un camion a non accorgersi che un loro camerata era stato colpito da pallottole esplosive al braccio ed alla testa? I fascisti arrivano a Gemona alle 22, un ora per percorrere pochi chilometri tra Venzone e Gemona. Probabilmente il panico, o chissà cosa, fanno loro perdere tempo prezioso.

Si diffonde subito la voce che i sovversivi avevano sparato per uccidere e si mobilitano le coorti fasciste friulane. In realtà c’è da dubitare della volontà di uccidere. Se veramente erano state sparate molte scariche di fucileria con pallottole esplosive contro un camion a cinquanta metri con l’intento di uccidere, sarebbe stata una strage. Stando alla polizia sul posto erano stati rinvenuti una settantina di bossoli di fucile 91, in dotazione alle forze armate (ma sicuramente conservato in casa da molti ex combattenti della “grande guerra”). Il dubbio sulle reali intenzioni degli sparatori viene anche da una fonte insospettabile, il parroco di Venzone, che parlando dell’episodio nel libro parrocchiale scrive che “Mentre i fascisti fanno ritorno ai propri paesi sul camion che li conduce avviene la morte di uno di essi,  certo Giorgini di Artegna. Fu caso? … o delitto?  Mistero“  (Diario storico della parrocchia di Venzone 1900 – 1961, in Archivio dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, fondo Libri storici parrocchiali, busta 5 fascicolo 61). Giorgini in ogni caso era morto e le squadre fasciste, sempre assieme ai carabinieri, invadono la mattina seguente Venzone sequestrando una cinquantina di persone, che qualcuno, una spia che però in paese non poteva passare inosservata, indica come sospetti. Persone che evidentemente non hanno preso precauzioni e si fanno trovare tranne un paio di eccezioni in casa, e che i fascisti trascinano in piazza con scene indicibili di violenza che lasceranno un trauma profondo in paese.

Domenico Tomat al centro in Valtellina.

“Poco dopo l’arrivo (ad Artegna) del camion i fascisti della Coorte di Udine iniziarono l’opera di rastrellamento degli elementi sovversivi (…) Quasi tutti gli arrestati non opposero resistenza” (Come è avvenuta l’imboscata, … cit.) Il gruppone di arrestati viene radunato da fascisti e carabinieri in piazza, iniziano gli interrogatori, poi alcuni sono rilasciati, altri portati in caserma dei carabinieri dove gli interrogatori continuano con bastonate e violenze, lontano dagli occhi di testimoni. Ma percosse e violenze c’erano state anche in strada, sotto gli occhi dei passanti. “L’uccisione di Giorgini avvenuta sulla strada da Venzone a Gemona il 18 febbraio 1922 (in realtà 1923) e le scene selvagge che ne seguirono hanno suscitato l’odio contro il fascismo e la madre patria – scriverà il nuovo parroco quindici anni dopo i fatti, che evidentemente non erano affatto stati dimenticati – Molti individui colle rispettive famiglie esularono dal proprio paese giurando che non sarebbero mai ritornati e con la vendetta nel cuore“ (Diario storico della parrocchia, cit. p.17). Pieri Stefanutti riporta il testo di una canzone di contenuto antifascista che veniva cantata proprio a Venzone clandestinamente e che faceva riferimento a quei fatti (il 18 febbraio 1923 era la prima domenica di quaresima): “Il primo di Quaresima / è un giorno disfortunato / che dai fascisti son stà bastonato / e in  prigione me gà tocato andar / Maledetta sia anche la spia / che non potrà aver più bene / ma se esco da queste pene / anche la spia pagherà” (P. Stefanutti, Venzone in guerra. Bollettino dell’Associazione Amici di Venzone, a. XLI, XLII, 2012 – 2013 p.13).

Le violenze non si limitano a Venzone. Una squadra devasta la sede della Camera del Lavoro di Tolmezzo rubando i documenti che erano all’interno, portandoli in camion a Venzone e bruciandoli, ccon un grande falò che attira molta gente, davanti alla sezione degli ex combattenti. Che relazione c’era tra l’attività della Camera del Lavoro e l’episodio dell’uccisione di Giorgini resta un mistero. In realtà pare che a fascisti e forza pubblica importasse più picchiare e incarcerare il numero maggiore possibile di sovversivi e devastarne le sedi che fare seriamente indagini. Ventitré “sovversivi” finiranno in prigione, ma verranno poi tutti assolti dal tribunale di Venezia per insufficienza di prove dopo due mesi di carcere preventivo. Nei due anni successivi partirà da Venzone per la Francia un gruppo numeroso di socialisti, che giudicavano impossibile continuare a vivere in paese.

La volontà di piegare il gruppo antifascista continuerà negli anni successivi, soprattutto da parte di persone originarie di Venzone stessa. Ne fanno fede alcune lettere che miravano a colpire antifascisti espatriati dopo quei fatti segnalando alle autorità il loro rientro temporaneo in Italia e sollecitando misure repressive. In data 28 gennaio 1933 C.E. scrive da Parigi al podestà di Venzone, Orsi, avvisandolo che Bellina Valentino, comunista militante della sezione di Troyes, era rientrato in paese. Lui ed il “famoso comunista Tomat” (Domenico Tomat) avevano partecipato a scontri con i fascisti italiani a Troyes. Pertanto C.E. si augurava che Bellina ricevesse una “buona lezione”. Bellina Valentino e Domenico Tomat erano due degli arrestati per i fatti del 18 febbraio 1923 (Archivio centrale dello Stato, categoria J5, fascicolo Tomat Domenico). Nel settembre 1938 giunge invece alla stazione dei carabinieri di Carnia una lettera anonima scritta a mano in francese in cui si informava che Michele Tomat, responsabile di propaganda antifascista in Francia e padre di due figli naturalizzati francesi di cui uno in Spagna (Domenico), era rientrato temporaneamente a Venzone, e si invitava i carabinieri ad occuparsi subito di lui. L’anonimo dava ai carabinieri anche l’indirizzo di Michele. Nell’inviare la lettera alla Questura i carabinieri di Tolmezzo (che evidentemente la avevano ricevuta dalla stazione di Carnia) scrivevano che non era possibile identificarne l’autore ma era: “persona nativa di Venzone e che (pare) si sia valsa di questo mezzo per tentare di far fermare in Italia il  Tomat Michele per poter essa occupare il posto che lo stesso occupa presso un’impresa edilizia di Treves” (Archivio di stato di Udine, Questura, fondo A8, fascicolo Tomat Domenico). Questo è quanto emerge dagli archivi, non siamo in grado di documentare la repressione spicciola, quotidiana, che probabilmente i familiari rimasti in Friuli di queste persone hanno dovuto subire.      

Da quanto letto, emerge bene il nome di Domenico Tomat, uno dei tanti giovani che allora non aderivano ad alcun partito politico ma si sentivano ribelli contro un sistema che aveva voluto la guerra e favoriva ricchi e “pescecani” (per usare la terminologia del tempo). Stando alla testimonianza del fratello, raccolta da Pieri Stefanutti, in seguito ai fatti del 18 febbraio era stato arrestato e duramente bastonato perché facesse dei nomi. Era poi finito in carcere al castello di Gemona ma dopo due mesi era stato anche lui assolto per insufficienza di prove. Le persecuzioni però erano continuate ed anche la sua radicalizzazione politica e desiderio di ottenere giustizia per quanto aveva subito. Nel 1924, svolto il servizio militare, viene processato, evidentemente su denuncia di qualcuno, per detenzione di armi da guerra ma è assolto. Alla fine di quell’anno, come racconta lui stesso in un italiano infarcito di friulanismi: “incontrai nello scuro uno di quelli che mi aveva bastonato ed arrestato nel febbraio 1923 (…) e gli resi le sue legnate” (Domenico Tomat, Sunto biografico, 2 dicembre 1971). Finisce così nuovamente in carcere per un mese e mezzo. Nell’aprile 1926 espatria clandestinamente attraverso il Moncenisio stabilendosi in Francia, dapprima a Troyes e poi a Parigi e prendendo la cittadinanza francese.

Da quel momento, Domenico inizierà uno straordinario percorso politico internazionale. Nel 1928 aderirà al PCd’I. Parteciperà al congresso per la pace di Parigi del 1933, a quello di Bruxelles contro la guerra di Abissinia nel 1935, l’anno dopo sarà arruolato nella XII^ Brigata Internazionale, la Garibaldi, in Spagna. Farà una rapida carriera militare, da sergente a capitano a maggiore, nel febbraio 1938 sarà comandante provvisorio dell’intera Brigata, che guiderà con grande efficacia. Ferito gravemente, rientrato in Francia, organizzerà un percorso clandestino attraverso le Alpi e guiderà molti dirigenti comunisti dalla Francia in Italia per dare inizio alla Resistenza sotto il naso della Milizia confinaria. Combatterà lui stesso con le formazioni partigiane in Francia e poi in Italia, in Valtellina, comandante della 40^ brigata Matteotti e brigata Rinaldi, fino ai primi di maggio del 1945. I primi giorni di maggio rientrerà brevemente a Venzone dove ritroverà amici e nemici di un tempo. E qui la vita avrà una nuova svolta, meno positiva.

Verrà infatti accusato di aver ucciso un fascista del paese i primi giorni di maggio, a guerra finita, dopo aver organizzato un processo popolare improvvisato, però in quel momento illegale, cui in ogni modo aveva chiamato ad assistere anche un esponente osovano (P. Stefanutti, Venzone in guerra, cit, p. 218). In realtà rintracciare la documentazione relativa alle vicende giudiziarie di Tomat dopo la guerra è difficile, perché i fondi dei tribunali di Udine e di Tolmezzo degli anni Cinquanta non sono stati versati all’archivio di stato. Sappiamo in ogni caso che verrà condannato all’ergastolo ma la Francia – per la cui liberazione aveva combattuto e rischiato la vita – rifiuterà di estradarlo. Dovrà fermarsi in quella nazione molti anni (a Les Pennes Mirabeau, presso Marsiglia) prima di ottenere la grazia, grazia che aveva rifiutato di chiedere per anni ritenendo evidentemente di aver compiuto un atto di giustizia. Un errore, fatto però da un uomo che aveva conosciuto e subito la violenza fascista fin da giovane, e che aveva passato gli ultimi dieci anni (dal 1936 al 1945) rischiando mille volte  la vita impegnato in una guerra contro fascismo e nazismo, per dare il suo contributo alla liberazione dell’Europa.

Marco Puppini».

L’immagine che correda l’articolo mi è stata fornita da Marco Puppini. Laura M Puppini

 

Storie paularine e carniche, da Giacomo Solero, detto Jacum l’infermîr.

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Negli anni settanta, ottanta ho fatto, quasi sempre accompagnata da mio marito, il dott. Alido Candido, originario di Rigolato, una serie di interviste a vari personaggi, di cui uno era l’allora universalmente noto Jacum l’infermîr, originario di Paularo, una colonna dell’ospedale tolmezzino. La pubblico in due parti, perché è molto lunga, e spero vi interessi perché a mio avviso dà molti spunti di riflessione e conoscenza.

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In Carnia si viveva di miseria ed emigrazione.

Laura: «Signor Giacomo, io vorrei che lei ci raccontasse come viveva la gente in Carnia quando Lei era piccolo …»

Giacomo: «In Carnia vivevano nella miseria e con l’emigrazione.  Quelli che erano muratori andavano all’estero, e partivano in aprile e tornavano in novembre. Portavano soldi scarsi e spesso non riuscivano a mantenere la famiglia. Le mogli lavoravano tenendo anche una mucca ed andando in montagna. Quando trovavano un appezzamento di terreno a mezzadria dovevano pure portare il fieno per il padrone nella sua stalla. I mariti rientravano d’inverno e ripartivano subito dopo Pasqua a fare gli emigranti. E quelli che non erano muratori, facevano i boscaioli. Infatti nel comune di Paularo, di cui sto parlando, vi erano molti boschi da tagliare. E le ditte che tagliavano erano. Brunetti, Tarussio e i tre fratelli De Crignis.

I boscaioli non venivano pagati molto: 2 lire al giorno, 2 lire e venti; mio padre che era ‘capo’ prendeva 5 lire al giorno. E con 5 lire al giorno si poteva comperare l’indispensabile, mangiando patate e fagioli, polenta e formaggio, polenta e fagioli, latte e quello che c’era in famiglia. Un altro problema era che la paga non arrivava mai, e anche per questo motivo le famiglie non riuscivano a sbarcare il lunario, e così le donne erano costrette a lavorare, ad andare a far fieno, a far legna, a lavorare i campi a mezzadria, e via dicendo».

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Mezzadria. Un problema tutto femminile.

Giacomo: «C’erano tanti poderi, e chi poteva pagare l’affitto con i soldi li affittava per lavorarli, chi non riusciva a pagare l’affitto doveva andare a mezzadria, (metà raccolto al padrone, metà al fittavolo ndr). E la ‘mezzadria’ veniva portata in casa: un carico di granoturco, un carico di patate, tanto granoturco a chi lavorava e tanto al padrone, tante patate a chi lavorava e tante al padrone del terreno, e questo valeva anche per il fieno. E c’erano anche quelle che prendevano a mezzadria le mucche, e metà latte andava al padrone, metà a chi lavorava. E se nasceva un vitello, metà del vitello andava al padrone, anche se le mezzadre lo avevano cresciuto. Facevano così: quando lo avevano allevato lo vendevano, e prendevano metà soldi per ciascuno.

Inoltre le donne dovevano arrangiarsi a ‘far tutto’ anche in casa. La pulizia, occuparsi dei bambini, che allora erano molti, non come adesso che ce n’ è uno o due per casa. Quella volta ce n’erano anche tredici o quattordici per famiglia. Noi eravamo in quattordici. E mia madre e la mia matrigna hanno dovuto sempre fare quei mestieri lì: lavorare in montagna, falciare, portare il fieno a portata di slitta, fare i covoni del fieno e d’inverno andarlo a prendere. Perché era più facile portarlo a valle d’inverno con la neve. Si faceva meno fatica. Tutto con le slitte. Ma le donne lo portavano anche con il fascio in testa, nel fienile. E dopo il 1920 sono venute pure le teleferiche, non prima, ma non per farne un uso in agricoltura, cosa che ha preso piede solo pochi anni fa.

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Le prime teleferiche e donne portatrici.

Hanno messo una prima teleferica sul monte di Cuc, e l’ha posta Guerrino di Gleria, una seconda sul monte di Varleit, per la frazione di Misincinis. A Salino, invece, avevano una corda diciamo a sbalzo, con cui mandavano qua i fasci del fieno. Altrimenti le donne dovevano andare giù con il fascio del fieno fino al greto del fiume, e quindi fare un bel pezzo di strada per salire a Salino, Lambrugno e Tavella; e c’erano tre sentieri.

Queste povere donne dovevano alzarsi presto la mattina, fare i mestieri di casa, e poi andare in montagna, portando con sé anche i bambini perché non avevano a chi affidarli, perché non c’era asilo, non c’era niente, e non potevano affidarli a nessuno. E il più piccolo lo mettevano nel gerlo con un po’ di stracci dentro, e quando arrivavano sul prato da falciare, mettevano il gerlo sotto un albero, per paura degli animali, e lì il bambino si dondolava con tutto il gerlo. E quando era ora di mangiare piangeva, e allora la madre gli dava da mangiare.

Le donne non emigravano, almeno prima del 1920, stavano sempre a casa. Chi poteva andare a servizio andava a servizio, ma sempre in paese, non fuori. Potevano però anche andare ‘a giornata’ a fare il fieno od a lavorar nei campi per qualcuno, ‘per poco e per niente’, perché mi ricordo che le pagavano settanta centesimi al giorno, pochissimo. Poi, dato che c’erano molte malghe dalla parte di Paularo, c’erano donne che andavano a portare il cibo ai pastori, e camminavano cariche anche per tre ore di seguito, ma se andavano in Chiàula erano quattro ore di cammino. E salivano portando anche 35 chili, e scendevano anche con 45 – 50 chili di formaggio nel gerlo. Quelle prendevano 1 lira e 40 centesimi al giorno, perché il viaggio era doppio.

Poi hanno fatto la malga di Meledis. Mi ricordo che le donne dovevano prendere un sacco di cemento, che pesava 50 kg a Paularo e portarlo o a Meledis bassa o a Meledis di sopra, per una lira ogni sacco di cemento.

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Ragazzi e uomini: emigranti, boscaioli o artigiani.

I ragazzi si adattavano ad aiutare la madre, ed emigravano dopo i vent’anni, gran parte di loro dopo aver fatto il soldato. Prima frequentavano fino alla quinta elementare e poi alcuni, quelli che avevano una famiglia che poteva farlo, andavano ad imparare un mestiere, o altrimenti facevano i muratori, lavoro per il quale non serviva avere una qualifica, perché la si imparava dagli altri. Il muratore vecchio insegnava al più giovane, il boscaiolo più anziano insegnava a quello più giovane. I ragazzini iniziavano a 12 anni ad andare nel bosco, mentre i padri di questi ragazzi erano andati ad 11 anni in Germania con il genitore, e questo sempre prima del 1920. Dopo, finita la prima guerra mondiale, hanno aperto l’emigrazione per la Francia, e sono andati moltissimi in Francia, ma anche a Milano e Roma, in Sardegna a lavorare. Prima facevano invece gli stagionali. Gli emigranti in Germania dicevano che, come vitto, li trattavano molto bene. Vi erano poi boscaioli che emigravano in Bosnia, prima del 1915. Quando non c’era più lavoro qui nei boschi, andavano in Bosnia, o qui o là, dove lavoravano il legno.

Un tempo poi, a Paularo, c’erano molti artigiani, mentre ora ce ne sono davvero pochi. C’era una famiglia Del Negro, chiamata ‘Foraduç’ che lavorava il legno. Erano 5 o 6 fratelli, non ricordo bene, e facevano mobili, casse da morto, ed intagliavano anche il noce. Poi c’era uno mezzo nano, molto, molto intelligente, che faceva sempre il falegname. Quello ha fatto, assieme ai suoi allievi, tutta la mobilia, intagliata a mano, per il castello di Valdaier, il castello di Craighero. Erano questi artigiani molto intelligenti, ma non avevano i mezzi che hanno adesso e facevano tutto ‘di testa loro’. Poi c’erano i Gardelli che facevano mobili.

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Due righe su Dierico.

Dierico è stato il paese più difficile del comune, perché c’era tanta gente e molta miseria, anche se gli abitanti erano molto bravi a lavorare, ed erano molto onesti. Erano persone molto cattoliche, e non si sentiva mai una bestemmia, e nulla di nulla. Ci sono stati, fra loro, molti ufficiali, i Silverio, i Fabiani, i Dereani, anche se non posso ricordarmi i nomi di tutti. Ma io mi ricordo che è morto Tommaso Silverio, che era un generale, e suo fratello, che era un mutilato, era capitano degli alpini.  

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Le latterie turnarie e la filiale della Cooperativa Carnica.

Poi a Paularo hanno fatto la latteria sociale turnaria. Era stata creata prima del 1920, ed il casaro era Giobatta Screm, un ottimo casaro. Poi però l’hanno sciolta e hanno creato tante piccole latterie: una a Ravinis, dove mi pare fosse casaro Benito Ferigo, una a Paularo, dove erano casari Gortani Leonardo e Michele, due fratelli, una a Villa Mezzo dove era casaro Leonardo Screm, e una a Villa fuori dove c’era Giacomo Spiz. Anche a Dierico avevano la latteria turnaria, e pure a Salino, Lambrugno, Tavella, Chiaulis e Trelli.

A Paularo, poi, c’era anche una filiale della Cooperativa di Tolmezzo, ma non faceva politica.  La Cooperativa centrale era socialista, ma la filiale non aveva colore politico, che mi ricordi io. E anche gli artigiani del legno non erano collegati alla cooperativa, e facevano tutto da soli, ed erano: Ignazio Screm, Luigi Tarussio, Di Giorgio, che era un ottimo artista che è stato anche premiato. E c’erano a Paularo pure dei fabbri, che si arrangiavano da soli (cioè non erano uniti in cooperativa di lavoro ndr)».

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Scioperi nel 1919- 20 – 21. E venivano giù dalla valle di Gorto.

Laura chiede se sa qualcosa degli scioperi che fecero gli operai, dopo la creazione delle cooperative carniche.

Ho sentito dire che ci sono stati scioperi nel 1919 – 1920- 1921, ma non posso ricordarmi bene. So che sono scesi in massa quelli della valle di Gorto: Ovaro, Prato… Da tutte quelle zone lì è venuta giù una massa di scioperanti a Tolmezzo, ma non mi ricordo perché scioperassero. Ma era forse un problema di partito, perchè quelli della cooperativa erano prima socialisti ma poi sono passati coni fascisti». 

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Tolmezzo. Il primo ospedale e le continue malattie.

Il primo ospedale era vicino al duomo, in una casetta di cui era padrone l’avvocato Burelli, che io sappia. Ma credo fosse stata acquistata dal dott. Metullio Cominotti. Poi era passata, sempre utilizzata come ospedaletto, al dott. Moro di Sutrio. Successivamente hanno fatto l’ospedale un po’ più ingiù, e lo gestiva il dott. Cecchetti, che ne era il direttore. Il personale non era pagato dal comune, e l’ospedale era un ente a sé che aveva però a che fare con la Prefettura, che io sappia. Le malattie erano molto frequenti, e la tubercolosi era in ogni angolo in Carnia, a causa delle sofferenze della guerra e della miseria, perché la gente non aveva niente neppure da mangiare, e c’era davvero molta, molta tubercolosi. E poi erano diffuse molte altre malattie anche infettive. Basti ricordare la ‘spagnola’ nel 1918.

La ‘spagnola’ anche in Carnia ha fatto disastri, specialmente nella valle di Incaroio, ed è morto un mucchio di gente, specialmente gioventù fra i 15 ed i 16 anni, non invece bambini, che io sappia, e colpiva le famiglie intere. Molti bambini, invece, morivano in nascita, anche perché non c’erano le levatrici diplomate, e le donne delle frazioni e del paese si arrangiavano a sgravare le incinte. E accadeva che morissero anche donne di infezioni da parto. Mia madre, per esempio, è morta con un’infezione da parto.

C’erano più casi di donne che morivano così ed anche di bimbi che morivano durante il parto. Dopo a Paularo è venuta una levatrice che era di Preone, e aveva studiato, e la mortalità è diminuita, mentre prima quella che accudiva a tale compito non aveva fatto né studi né niente, ed aveva imparato qualcosa dalla madre, che si chiamava mi pare Antonia, ed era una Bellina.

Un altro problema era quello del trasporto dei malati. La strada carrozzabile per Paularo è stata fatta prima del Novecento, ma non so la data precisa, ed altre strade non esistevano. In tempo di guerra (della prima guerra mondiale ndr) hanno fatto prima la strada da Paularo a Pizzûl, poi quella da Paularo al comune di Ligosullo, mentre prima erano tutte mulattiere, non carreggiabili, e andavano tutti a piedi. E se dovevano portar giù un ammalato lo portavano con la barella o con la slitta. Poi sono venuti i carri. Ma a Paularo, ad un certo punto, c’era anche la diligenza per Amaro, che andava e tornava.

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Tante piccole scuolette.

Nelle scuole c’erano pochissimi maestri. Che io mi ricordi, c’erano due maestre e due maestri nel centro, a Paularo. Ma anche Casaso, Misincinis, Quelalt, Ravinis, Cogliat, Rivo, Villamezzo, Villa fuori. I bimbi di Salino e Dierico, prima venivano a scuola a Paularo, come quelli di Trelli, ma poi hanno avuto anche loro la scuola nell’abitato. E non tutti facevano fino alla terza elementare».

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Giacomo infermiere e problemi di salute della popolazione.

Laura chiede che percorso abbia fatto per diventare infermiere.

Giacomo. «Io avevo fatto la quinta elementare, e quindi ho fatto due classi del corso inferiore a Tolmezzo. Se si aveva buona volontà si riusciva anche allora a fare molte cose, ma all’epoca non si era come adesso. Oggi qualsiasi può studiare, qualsiasi può diventare qualcuno ma quella volta nessuno ti diceva: fa questo mestiere o fa l’altro, impara questo o impara l‘altro; nessuno pensava a coltivare nello studio o nell’apprendimento di un mestiere questi giovanotti o queste ragazze, solo sfacchinare e lavorare nei campi, nei boschi, nelle montagne. Slitta e via ….»

Laura chiede se si trascuravano anche dal punto di vista della salute, e spesso andavano dal medico troppo tardi.
Giacomo: «Guardi, andavano dal medico quando non c’era più tempo, quando erano moribondi. Finchè potevano camminare camminavano, e quando non potevano più camminare chiamavano il medico, ma molti morivano anche senza riuscire a chiamarlo. Non voglio criticare il mio paese, per l’amor di Dio, ma al confronto di oggi erano tutti molto più inesperti e molto più trascuranti. Io mi ricordo che alcune famiglie trascuravano persino i figlioli, perché il padre o la madre non credevano che il figlio o la figlia fossero ammalati, e lasciavano passar via il tempo così, finchè i mali si impossessavano dei loro bimbi e ragazzi».

Laura chiede se magari potesse accadere che dessero poco da mangiare ai bimbi con la scusa che erano piccoli, ma Giacomo dice che non gli consta e che «Madre è madre, e padre è padre, e forse trattavano meglio il piccolo che il grande». Inoltre, continua Giacomo «Non si può dire che abbiamo veramente patito la fame, perché era raro che uno saltasse il pasto. E in più dico che chi saltava il pasto era anche negligente. Perché noi si andava a fare la fascina delle frasche, se ne portava cinque o sei al fornaio, per avere il pane. Allora si faceva il fuoco con la legna. Era una specie di baratto, si dava legna e si riceveva in cambio pane».

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Commercianti del legno e padroni di segherie e malghe a Paularo.

 Giacomo: «A Paularo non c’erano grandi commercianti, se non quelli del legname, i Tarussio, i Brunetti, i De Crignis di Amaro, ma altre industrie non c’erano. C’erano, invece, le segherie. E andavano a tagliare i tronchi nei boschi, e li portavano a valle con il metodo della fluitazione. C’era il bacino di Stua Ramaz, che chiamavano “la Stua”. Nel mese di maggio preparavano tutto il legname a portata di fiume, lo buttavano nel bacino, lo aprivano, e l’acqua lo trascinava a valle, fino al porto delle segherie, dove si trovavano i carradori, che avevano i carri tirati dai cavalli o dai manzi, e che andavano fino a Stazione per la Carnia con il carico del tavolame. Nelle segherie, all’esterno, lavoravano anche donne, chiamate “le sfilere”. Esse portavano fuori dalla segheria il tavolame, e poi lo accatastavano benissimo, in modo che si asciugasse e rimanesse ‘a livello’. Doveva essere a livello, perché se una tavola era fuori livello diventava storta. Erano molto brave, ed in genere erano più donne sposate che ragazze, ed erano ambite dai padroni quelle che avevano più esperienza Dopo il 1920 erano gli uomini che lo facevano. Hanno fatto un ‘gater’, un macchinario per segare con più cilindri e più seghe, di tipo industriale, ed hanno preso a lavorare solo uomini.

Ed alcuni commercianti di legname avevano anche molti terreni, per esempio Tarussio.
Tarussio aveva molti poderi, ed era padrone di malghe, e prendeva molti braccianti agricoli, che chiamavamo “fameis”, a lavorare per sé.  E lavoravano molto mentre erano pagati ben poco. Questi dovevano tenere le mucche, fare i lavori nelle stalle, falciare, fare il fieno. E Tarussio aveva moltissime mucche, credo una cinquantina e gestiva da solo le malghe di Cuesta Robia, mentre suo figlio gestiva quella di Timau, mi pare od un’altra.

Le bestie restavano in malga fino alla fine di ottobre e poi venivano fatte scendere e le portavano nelle stalle. Tarussio non aveva capre, ed era raro che la gente ne avesse. Ce n’erano prima della guerra, ma poi la forestale diceva che rovinavano i boschi e nessuno le ha potute più tenere. (Cfr. RDL 30.12.1923. Ndr.).

Un altro che aveva terreni era Screm, che aveva la bottega di generi coloniali, ed aveva 11 o 12 figli. Era uomo ottimo, comprensivo e molto intelligente, onesto e caritatevole, e faceva molti piaceri alla gente.  Ed anche sua moglie era persona caritatevole ed aiutava i poveri. E Screm, che io sappia, ha comperato anche i terreni di quelli che andavano ad acquistare terra in Friuli. Ma spesso poi fallivano e ritornavano a Paularo più poveri di prima. E ciò accadeva perché il vero friulano era molto geloso della sua agricoltura, e certi contadini mi dicevano che si facevano i dispetti l’uno con l’altro. E poi uno che è friulano sa gestire, sa coltivare e sa lavorare la terra friulana, mentre noi carnici lavoriamo meglio di loro, però in Friuli non sappiamo come fare, non conosciamo che semi mettere, e via dicendo. E molte famiglie hanno dovuto rientrare a Paularo, nei primi anni venti, nel 22-23-24, nel periodo fascista».

Laura chiede se ciò fosse avvenuto a causa del fascismo.

Giacomo: «Guardi, a Paularo il fascismo non ha fatto proprio niente, e il podestà ha fatto più degli altri sindaci. E a Paularo non c’era municipio, non c’erano caserme, non c’era niente, ed in quel periodo hanno costruito con i soldi del comune, perché il fascismo non ha dato una lira. Ma poi il podestà ha dovuto dare le dimissioni perché era troppo onesto e non era ben visto dalla gente. Qui la mentalità era così, mentre altri sindaci si diceva avessero rubato le malghe intere, … ma non si può dir tutto».

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Sul taglio dei boschi comunali, e su un modo non proprio onesto di arricchirsi….

Io del conte Calice mi ricordo molto bene Era anche lui un uomo onesto, ed ha ereditato la sua fortuna un cugino di mia mamma, che era suo nipote. Il palazzo Calice ha 86 stanze. Ed anche suo nonno, Laura, è stato in quel palazzo, perché il cugino di mia mamma, Tita Valesio, era un capitano, ed anche suo nonno, Laura, era un ufficiale, e si sono conosciuti sul Pal Piccolo.

Quelli delle segherie tagliavano anche i boschi del comune. Un bosco veniva messo all’ asta, e chi pagava di più si aggiudicava il bosco dove tagliavano le piante numerate dal numeratore. Ma chi voleva imbrogliare poteva farlo lo stesso. Per esempio nelle numerazioni si mettevano d’accordo con un guardiano o con la forestale … e via. Io non ho avuto fiducia fino al 1925, della misurazione boschiva del comune. E chi partecipava all’asta erano sempre i soliti: Brunetti, Tamburlini, Tarussio e De Crignis.

Alido chiede se l’usura fosse praticata a Paularo, in particolare a famiglie che attendevano il rientro degli emigranti e si trovavano senza di che vivere. Giacomo dice di non sapere che ciò sia accaduto, però aggiunge che «raccontavano i vecchi, anche i miei di famiglia, mio nonno, mia nonna, mia bisnonna e via, che certi prestavano cento lire. Il debitore andava a portare, allo scadere del tempo, le cento lire, e si sentiva dire: “Vieni domani”, in modo che l’indomani era passato il tempo, e così si appropriavano del pezzetto di terreno del debitore. E così si arricchivano. Lasciavano passare la notte in modo che la cambiale andasse in protesto, e pignoravano il terreno. E così chi voleva tenersi la mucca doveva dipendere poi da loro, prendendo il terreno in affitto. Ed in particolare quelli di Villa Mezzo prendevano in affitto prati da Ligosullo, perché Ligosullo è un comune molto ricco di prati e di boschi, anzi, da quel punto di vista è il comune più ricco della Carnia. Ligosullo è un comune ben diretto ora, tra Partito democristiano e comunista, che non hanno mai avuto litigi fra loro per gli affari comunali. E anche la chiesa di Ligosullo ha molti poderi, molti lasciti.

Si moriva più giovani allora, anche per le fatiche, ma pure per risparmiare …

E il conte di Valdaier dava la gran parte dei suoi prati in affitto a quelli di Villa Mezzo, di Villa Fuori, che poi portavano giù il fieno con la slitta, facendo una grande fatica, cosicché tanti si ammalavano di cuore, e morivano molto più giovani di adesso, morivano a cinquant’ anni ed anche meno, per il lavoro e la miseria, e mangiar poco.
E poi c’è anche questo da dire: morivano perché volevano risparmiare troppo: condir poco la minestra, poco latte, molta acqua nel latte, polenta misurata, patate misurate, non tutte le famiglie facevano così, ma molte …
E poi a mangiar crauti e brovada ….».

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L’esperienza della guerra ‘15-‘18.

Alido chiede a Giacomo di raccontare la sua esperienza di infermiere, ma egli non vuole, dicendo che altrimenti diventerebbe un romanzo. Invece vuole raccontare qualcosa sulla guerra 15-18.

Giacomo: «Durante la guerra anche i bambini di terza, quarta, quinta elementare erano obbligati ad andare a tirar su i cannoni con la corda, e sono stato anch’io. E il caposquadra era Giobatta Plozzer di Sauris, un parente di suo nonno, Laura. Poi Giobatta Plozzer è andato soldato, ed è rientrato ammalato, ed è andato a morire a Sappada presso un suo zio che era prete lassù.
E tutti andavano a portare i cannoni: bambini, uomini; tutti a tirare i cannoni! Si facevano cento, duecento metri al giorno! E dove c’era un po’ di piano il cannone andava avanti, ma dove era da tirarlo insù, procedeva solo centimetri, perché era mulattiera! E lo si tirava da un ruscello ad un altro ruscello, ad una collina all’altra, e via, po’, fino allo Zermula !!!!  Lo si tirava da Paularo a Misincinis, e da Misincinis a Ravinis, fino a Tamai.

Poi c’erano i cannoni a Prabon, però quelli li hanno messi dopo fatta la strada nuova, che era stata costruita dal battaglion Saluzzo. Fino al 28 ottobre del 1917, gli uomini che non erano in guerra, anziani e gioventù nata dal 1900 in poi, (perché gli altri erano tutti sotto le armi, anche i nati nel 1899), e le donne ed i bambini più grandicelli. facevano questo trasporto di cannoni. E non solo. Si doveva prendere un carico di cibo e portarlo con la gerla fin su, sullo Zermula, al fronte, per due lire e cinquanta centesimi. E si doveva andar su di notte, per non essere visti. E si dovevano portar su al fronte anche tavole, perché potessero fare le baracche, e rotoli di reticolato. E qualcuno pesava di meno, ma gli altri erano tutti, su per giù, di cinquanta chili. E si doveva portar su le granate, e portar tutto. Poi hanno costruito una strada, detta la Cinturia, dal nome della milizia territoriale, e i vecchi ed i richiamati li facevano lavorare sulla strada, con i borghesi.

Infine la ritirata, che ha fatto un danno terribile. E alcuni sono andati profughi, ma erano davvero pochissimi, forse quelli di Salino erano andati via, ma quelli delle altre frazioni no.
E c’era tanta miseria, perché i tedeschi avevano portato via le mucche, e saccheggiavano tutto, proprio tutto, ed anche se non hanno mai ucciso, ci sono stati dei problemi. Per esempio qualche ufficiale era scappato dalla prigionia, come Giacomo Tarussio dal campo di Mauthausen, ed era bersagliato, ed ha dovuto stare, dal mese di maggio quando è giunto in zona, sempre nascosto sulle montagne, come molti altri prigionieri transfughi.

Non erano tanto “i crucchi” a dar fastidio in tal senso, secondo me, ma ci dovevano essere due o tre che facevano la spia, e di ciò sono sicurissimo, anche se non farò mai i loro nomi. Infatti mi ricordo benissimo che gli austriaci avevano requisito le mucche, e da Cedarchis le portavano a Paularo, e da Paularo a Paluzza, ed io ed altri ragazzi, con l’aiuto di un prete, abbiamo pensato di rubarne qualcuna ed ucciderla per mangiarla. C’era una strada che andava in un ruscello, e lì si portava via la bestia. E l’abbiamo fatta franca diverse volte, e il prete portava la carne in canonica e la distribuiva ai poveri, ai più bisognosi, ai malati.
Beh, chi andava giù per il ruscello con il carico della carne eravamo io ed un altro uomo, di cui non mi ricordo il nome, che in paese chiamavano ‘Bonan’ ma era un Valesio. Ed una volta abbiamo voluto passare per la strada, e non abbiamo visto il ‘tedesco’, non abbiamo visto il cosacco, perché c’erano anche prigionieri russi a Paularo nella prima guerra mondiale, e abbiamo visto solo un uomo…E non eravamo neppure arrivati vicino alla canonica, che ci ha arrestato un tedesco. Quindi credo che l’uomo sia partito appena ci ha visti, abbia preso la scorciatoia, e sia arrivato prima di noi … E così siamo stati arrestati. Io ho fatto 18 giorni di galera qui a Tolmezzo ……»

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Ho salvato molta gente ed ho fatto carità, ma non amo mettermi in mostra.

Laura vorrebbe che parlasse della sua esperienza di infermiere, ma egli risponde: «No, guardi, no. La mia esperienza di infermiere l’ho fatta generosamente, e non voglio farmi pubblicità. Inoltre parlare del mio lavoro è una cosa molto delicata, per conto mio, perché se io ho fatto del bene, io non l’ho fatto per ambizione di denaro. Io non prego tanto, ma se posso fare la carità cristiana, quella l’ho sempre fatta. E questo è stato sempre il mio desiderio: quello di fare la carità. E l’ho fatta verso ammalati e l’ho fatta anche verso sani, e vi dico che ho salvato molta gente, anche magari non sapendolo. E specialmente in tempo di guerra, (della seconda guerra mondiale ndr) li ho tolti dalle braccia dei tedeschi, dalle braccia dei partigiani e li ho salvati.

E quando sono stati presi tutti quelli di Paularo, donne e uomini, per rappresaglia perché dicevano ce erano partigiani, il 10 giugno 1944, io ho fatto molto.

Sa dove è la roggia di via Chiamue, a Tolmezzo?  Beh, io ero dentro la roggia, e le donne si buttavano giù dalla finestra che era alta 8 metri. Chi riusciva a salvarsi bon, ed altrimenti finivano nell’acqua, ma nessuna è morta. Una sola si è rotta un braccio, che poi è andata monaca. E avevo messo via un po’ di soldi, ed ho comprato quello ed ho comperato l’altro, e ho dato, e poco mi è rimasto ma non importa.
Io sono rimasto nell’ oscuro, non ho voluto proclami, non ho voluto niente. Io facevo uscire dalla caserma degli alpini, dalla Cantore dalla porta, e li ho salvati, e non è un vanto il mio».

Laura Matelda Puppini.

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Prima parte dell’intervista di Laura Matelda Puppini a Giacomo Solero di Paularo, detto Jacum l’infermîr, nato nel 1902. Tolmezzo il 7 luglio 1978. Trascrizione di Laura Matelda Puppini. L’immagine che correda l’articolo è stata scattata da me negli anni ottanta, e mostra l’interno di una malga in Carnia, sulle pesarine, lungo il sentiero che porta a Sauris. L’ ho scelta perchè rappresenta la vita di un tempo, anche se gli abiti tradiscono tempi più recenti di quelli descritti da Giacomo Solero. Avrei voluto corredare questo scritto con una foto di Giacomo, ma non ne posseggo, Sapete chi potrebbe inviarmene una? Laura Matelda Puppini


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giacomo Solero. Esperienze vissute per l’ospedale tolmezzino.

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Questa intervista è la seconda parte di quella fatta a Giacomo Solero il 7 luglio 1978 da me e da mio marito, e ci racconta delle esperienze che ora paiono incredibili, ma che furono reali nel tempo della seconda guerra modiale.

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Laura chiede a Giacomo di parlare di alcune su esperienze in ospedale, senza parlare di singoli casi, senza violare la riservatezza.

«Ho sfacchinato molto all’ospedale, davvero molto, molto, e per dir il vero ho patito anche molto la fame.
Quando andavo in giro per l’ospedale, Suor Scolastica mi faceva un pacchetto con un po’ di carne e un po’ di pane nero, ma quando ero arrivato ad Udine forse lo avevo già mangiato tutto, e dovevo restar senza mangiare per il resto del viaggio. E mi muovevo per andare a cercare medicine, cibo, tutto per l’ospedale. Perché ero io che andavo all’ Ufficio Alimentazione a “rompere le scatole”, per il buono del grasso, per il buono delle uova, per il buono della stoffa, il buono della tela, per quello e per quell’altro … E mi davano per l’ospedale, sapete …

Andavo fino a Torino o Pavia a prendere medicinali. Ero sempre in giro. Però la mia piazza era Genova. A Genova c’era una parente di un cugino di mia mamma che faceva l’arrotino ed aveva una bottega di rasoi ed altro. Lei faceva l’interprete per i tedeschi, e questi mi tiravano fuori ‘roba’ per l’ospedale.  Ma il problema più grosso era quello di andare e ritornare, ed i viaggi erano sempre rischiosi, allora. C’erano i bombardamenti, si dovevano utilizzare mezzi di fortuna, perché se si partiva da Genova con il treno, si doveva scendere a Pavia a cercare un mezzo per proseguire, ed io avevo tutta quella roba!!!!
Una volta andai a Grado. E che fame avevo!!! Non avevo il coraggio di chiedere per le case da mangiare, ma quella volta mi son fatto forte e sono entrato in una casa e mi hanno dato una minestra fatta di finocchi, e l’ho mangiata eccome!!!

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Ma non mi aspettavo niente dall’ospedale, niente, ma mi hanno trattato proprio male, molto male. Non sono stati giusti nei miei confronti per quanto riguarda le trattenute ecc. Non sono stati giusti con me. L’ ospedale di Tolmezzo, con tutto quello che ho fatto, rischiando la vita diverse volte, il giorno in cui me ne sono andato in pensione non mi ha offerto neppure un caffè!!! E il caffè c’era, perché non erano più i tempi della miseria, e costava poco, ma a me non hanno offerto neppure un caffè. 

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Per quanto riguarda l’esperienza ospedaliera, quella è coperta da segreto professionale e non ve la posso narrare. E mi dispiacerebbe anche offendere i miei superiori. Però come esperienza ne avrei un mucchio da raccontare, e come esperienza ospedaliera tanta che potrei scrivere un romanzo!!!

Per citarne una, vi racconto questo. La latteria sociale di Tolmezzo ci dava 10 litri di latte al giorno fra ospedale e sanatorio, (come per legge ai tempi della tessera ndr.) che era niente.  E così dovevo mettere la damigiana in un gerlo ed andare fino a Buttea a cercare un po’ di latte. E la gente me lo dava. Poi mi diedero una mucca i partigiani, che produceva solo 4 litri di latte al giorno, ma di grazia di averla, ed ho incominciato a tenere mucche per l’ospedale con quella.
Poi una me l’hanno data i tedeschi, ancora una i partigiani, due o tre le ho rubate ai russi, e se trovavo una mucca che vagava, la prendevo, la uccidevo, la dividevo in pezzi, due secchi di acqua e via in ghiacciaia!
Poi ho costruito una stalla alla buona, e mi ha dato 14 carri di fieno Mazzolini di Caneva, quello che aveva la centralina elettrica. Insomma ho dovuto fare una stalla per avere un po’ di latte.

Una volta giunsero qui i tedeschi, che avevano portato dalla Jugoslavia delle mucche, ed ho domandato ad Angelo, quello che gestiva il ‘Tripoli’ e faceva l’interprete, se ne poteva chiedere una per l’ospedale. Non avevo speranza che me l’avrebbero data. Ma il capitano della polizia mi ha detto: «Andiamo giù». E mi ha portato dove avevano la scuderia dei muli, e mi ha fatto scegliere una mucca. E l’ho portata in ospedale attraverso la campagna, lungo un sentiero che usciva dove c’è la cella mortuaria, e mi ero anche pentito di aver preso quella, perché avevo visto nel sacco del latte che aveva il latte, tanto latte, ma le era iniziata la diarrea. E non mi ero accorto che la mucca era incinta. Non avendo ancora una vera e propria stalla, perché per le due mucche che avevo per l’ospedale, avevo piantato solo un palo e posto una cassetta di legno dove mettevo il fieno, e veniva una ragazza di Ravascletto ad accudirle, l’ho portata nella stalla di Mion. Poi sono andato dalla Madre Superiora per dirle che avevo fatto un buon affare, che mi avevano dato una mucca i tedeschi, e l’ho portata a vedere la bestia.

Poi sono nati due vitelli, e uno lo abbiamo allevato, l’altro lo abbiamo mangiato. Lo ha ammazzato il portinaio. Eravamo solo in due uomini all’ ospedale, io che ero infermiere, e Leon, il portinaio.   E se dovessi raccontare tutto quello che ho passato….

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Una volta era il 4 di maggio (1944 ndr), e i partigiani hanno tagliato i fili del telefono perché dovevano venir ad ammazzare Farello, perché dicevano che era fascista. Così ho dovuto andare a Cadunea per incontrare il capo partigiano che si trovava lì, che era Zan Zan di Ampezzo. E l’ho incontrato ed abbiamo parlato ed ho fatto in modo che lasciassero perdere.  Ed ero sempre in giro.

E poi i partigiani hanno fatto saltare gli acquedotti, (ai tempi della zona libera per isolare i tedeschi, che avevano tolto il cibo alla Carnia intera ndr.) e si doveva andare a prendere l’acqua a Caneva od a Stazione per la Carnia, per l’ospedale. Siamo stati nove mesi senza acqua. Avevano tolto l’acqua perché non ne entrasse per i tedeschi che si trovavano a Tolmezzo. Ed in tutta Tolmezzo non c’era acqua. E per i gabinetti bisognava andare a prenderla nel But e per mangiare e bere bisognava andare a Stazione per la Carnia. E questo lavoro lo facevo io assieme ad altre infermiere. Perché di uomini c’eravamo solo io che ero infermiere e Leon. Poi c’erano le suore e le infermiere, che hanno lavorato tanto, più che mai. Con i secchi dell’acqua, eravamo sempre bagnati, e poco da mangiare e meno da bere… Ma non si poteva bere, perché se non si mangia non si beve! Ci pascevamo di frutta, perché quell’anno ce n’era tanta a Caneva, e la mangiavamo quando andavamo a prendere l’acqua. E Leon ci preparava i cavalli alle tre o alle quattro del mattino e si partiva per Caneva».

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Laura chiede dell’Assemblea della Cooperativa Carnica del 1948.

«Guardi io non posso proprio specificare, perché non posso conoscere tutto minimamente. Però è stato un gran bordello. Perché i magnati della Cooperativa volevano rinnovare l’amministrazione della Cooperativa fra loro, fra i partiti. Ma però non ci sono riusciti, ed han dovuto andare a votazione. Sono stati pure suo nonno Emidio, Laura, e suo padre a votare, sono stati tanti a votare. Il mi ricordo solo che hanno mandato via quel direttore, Colledan, che è stato molto bravo ed ha fatto molto per l’ospedale nel 1944. Se avevano un chilo di fagioli, ce lo mandavano all’ospedale, o andavo io a prenderlo. Se aveva una partita di formaggio e ce ne dava una forma alla volta, e ci diceva: «Quando l’avete finita, ritornate, perché so che voialtri mangiate solo formaggio, non avete molto altro». Ha fatto molta carità all’ ospedale Rinaldo Colledan. Ma perché era stato un fascista nel 1948 lo hanno mandato fuori. Ma il popolo lo aveva tornato a votare, ma gli è stata fatta una lotta segreta finché sono riusciti a mandarlo fuori, ed è entrato Sylva Marchetti.

Ma io vi dico che era un ottimo uomo, un bravissimo uomo, ed a me del partito e della politica non interessa. Mi interessava l’uomo, perché ha pensato ed ha fatto molto, molto, molto bene per la Carnia.

Mi ricordo che avevano sequestrato il riso e lo mandavano a Milano. Pensate: prendere il riso a Tolmezzo per mandarlo a due passi da dove lo producevano! E Colledan fece portare un po’ di riso fino sull’argine del But, per mandarlo ad Ovaro, per mandarlo nei paesi della Carnia. Ne avrà mandato poco, però lo ha mandato. Ed anche a me ha dato qualche quintale di riso per il comune di Paularo. Sono venute le donne con il gerlo a Caneva, a prenderlo».  

Laura dice che lei ed Alido non hanno più tempo perchè devono prender la corriera per Rigolato, e Giacomo dice che ritornino a trovarlo, che forse altro ricorderà e meglio.

Laura Matelda Puppini

Per l’ospedale tolmezzino e le malattie dei cosacchi nel 1944-45 cfr. anche: Fabio Verardo, Otkryrt kaza ij Gospital. L’occupazione cosacco – caucasica della Carnia attraverso le cartelle cliniche dell’ospedale San Antonio abate di Tolmezzo, in: Storia Contemporanea in Friuli, n. 43, 2013.

L’Immagine dell’ospedale civile di Tomezzo è tratta da: http://www.youreporter.it/gallerie/TOLMEZZO_D_EPOCA/#1

 Laura Matelda Puppini

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