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Tolmezzo. Sempre più anonima, sempre più brutta: è davvero ancora un capoluogo?

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Riporto qui alcune mie considerazioni, riallacciandomi a quelle di Marco Lepre in: “Tolmezzo, identità perduta” in: L’arco in cielo, n. 1 maggio 2003, ancora, a mio avviso, attuali.

Qualcuno, guardando la “nuovissima” piazza XX settembre diceva che è vuota, spoglia, e lo penso anch’io. Via le panchine e quell’embrione di verde che c’era a ridosso, una insulsa aquila in metallo che non si sa cosa significhi davanti al Municipio, dei lampioni che stridono con quelli a palla bianca e rotonda del Palazzo di Ettore Gilberti, essa si è trasformata nel luogo culto del nulla dell’attuale Tolmezzo, segnata nelle ore del giorno e nei giorni della settimana dal rumore assordante di pista guida sicura e del poligono di tiro, a cui se ne aggiungerà un secondo per volere della giunta Zearo. Brum – brum, pam – pam, questa è la Tolmezzo di oggi, senza più anima, idee, vita sociale, priva di qualsiasi dialogo tra amministrazione e cittadino, abbruttita, anche se mai fu bella, svilita, senza dibattito, senza cultura, appiattita, ectoplasma. La sensazione di decadimento riempie l’anima.

Scriveva Marco Lepre buon osservatore, nel lontano 2003: «Da qualche anno Tolmezzo, in forza di un decreto del Presidente della Repubblica, può fregiarsi del titolo di città. Da molto tempo è il riconosciuto “capoluogo” della Carnia», per la sua posizione geografica, e per la presenza dell’ospedale, degli uffici pubblici, del tribunale, delle scuole superiori. (Marco Lepre, Sempre più anonima, sempre più brutta: è davvero ancora un capoluogo?, in: “Tolmezzo, identità perduta” in: L’ Arco in Cielo, n. 1 maggio 2003). Fin qui Lepre allora. Ma ora che resta di questa cittadina, dopo che abbiamo imboccato la via per diventare la periferia della periferia di Udine? Resterà forse solo l’autostazione con le corriere che portano altrove?

Inoltre Marco Lepre analizza alcuni aspetti, ancora attualissimi punto per punto.
«Dal punto di vista dell’immagine urbana e di quello che offre, Tolmezzo è da tempo segnata negativamente. – scriveva allora Lepre. – Chi arriva in città e si dirige verso il centro è colpito dalla confusione edilizia e dalla mancanza di una gerarchia nella rete viaria. I principali uffici pubblici sono sparsi disordinatamente, manca un sistema di verde, il centro storico, per quanto interessante, ha perso molte delle sue attrattive: la piazza principale è stata colonizzata da banche e istituti finanziari e dopo l’orario di chiusura degli uffici finisce inevitabilmente per svuotarsi».  (Ivi).

Che dire oggi, quando neppure all’albergo Roma risuonano più quelle discussioni animate che caratterizzarono tante fasi della vita tolmezzina, il tribunale e la polizia stradale se ne sono andati via, e tutto appare ovattato? Vuoto è il centro, vuoto e svuotato, pieno di auto e privo di persone; e voci e richiami risuonano solo il lunedì al mercato, quando esso si anima un po’ grazie alle bancarelle, per poi ritornare nel suo aspetto addormentato.
Lepre imputa la “mancanza di vita ed attività» (Ivi) già allora presente in Tolmezzo, ma ora visibilmente peggiorata, anche all’aver portato il teatro in periferia, ma questo è solo un aspetto. E così continua: «L’impressione è che si soffra dei problemi di una città senza averne i vantaggi». (Ivi).

Quali i problemi? Per esempio quello dei parcheggi, di cui si è riempito il paese, (io non mi sento di definire Tolmezzo città), trasformato, per molti carnici, in una tappa per un viaggio verso Udine.

Ed ancora: «Per quanto riguarda la vita culturale, essa registra preoccupanti segni di regresso: è abbastanza deprimente la partecipazione del pubblico anche ad iniziative di un certo interesse, il che testimonia un certo provincialismo» – scriveva Marco Lepre. (Ivi).

A mio avviso, però, se il teatro  “tira” anche in mancanza di altro, ed andarci fa sentire molto “vip e top”, peraltro con un cartellone definito dall’Ente Teatrale Regionale, cioè imposto e codificato allora come ora, poco altro si vede in giro, tolti i sempiterni ‘Leggimontagna’ e qualche film, peraltro non sempre seguito da dibattito. Ma se anche esso fosse previsto, ormai qui si tace.
E chissà perché mi viene alla mente quanto diceva Ciro Nigris sul silenzio che caratterizzò il ventennio: «Si taceva. C’era la consapevolezza di vivere sotto un regime, senza però che ci fosse alcuna esplicitazione di ciò: semplicemente nessuno ne parlava». (Dove non si parla di libertà, la libertà muore”, Intervista a Ciro Nigris, in: “Voci della memoria”, a cura del Liceo Classico “San Bernardino” , Tolmezzo, 2004, p. 86).
Ora non viviamo sotto un regime, per carità, ma il silenzio partecipativo è realtà, quasi qui, di fatto, si fosse passati dalla democrazia partecipata a quella delegata, ma forse a Tolmezzo, per paura di una sinistra ora ben poco presente sullo scenario, la politica ha sempre scarsamente raccolto le istanze della gran parte degli abitanti, indipendentemente da chi fosse sindaco, di quale colore avesse la giunta municipale.
Ormai nessuno ascolta più i consigli comunali, ridotti al vuoto, e la maggioranza dei cittadini si è abituata a subire passivamente qualsiasi scelta giuntale e comunale e la cultura pare ingessata in 3 o 4 persone che formano la Pro Carnia 2020, e pochi altri. E se vi è una novità, magari un incontro importante al di là della logica degli anni 50, tutta alpini e montagna, è solo perché qualcuno fuori dal coro l’ha proposta.

Non è cambiato nulla a Tolmezzo da quando ero bambina, penso sconsolata, e ormai non si vedono neppure in lontananza espressioni di novità come “La settimana carnica di cultura”, che il gruppo Gli Ultimi propose ed attuò negli anni ’70, interessanti dibattiti e cineforum, il periodico autogestito, della montagna  ‘Nort’.
Inoltre non esistono più luoghi di incontro, ma si è ritornati al solitario davanti al bicchiere, od a due o tre che discutono davanti al tajùt, anche se da enoteca e non da fiasco. Le sale per proposte culturali esistono, ma sono enormi spazi vuoti perché richiedono tutte un pagamento orario, che ormai pochi si possono permettere. Non da ultimo mancano persino le panchine, tanto che, per ora, i bordi della vasca della nuova piazza, quando il clima è mite, (non troppo freddo, non troppo caldo), fungono da sedile.

«Tra le strutture che caratterizzano e qualificano Tolmezzo- scriveva allora Lepre – qualcuno ritiene che vada annoverato il poligono di tiro da trecento metri […], ma, alla luce dei miliardi spesi per la sua costruzione, dell’inquinamento acustico provocato e del poco visibile “ritorno “turistico”, ne è valsa veramente la pena?». (Marco Lepre, Sempre più anonima, sempre più brutta, op.cit.). Secondo me il poligono di tiro, mai insonorizzato, e “la palestra addestrativa” detta volgarmente “pista guida sicura” e “autodromo di Tolmezzo” sono stati forse fra le opere che nessun’altro voleva in Italia, essendo fra l’altro per pochi e foresti. Esse disturbano oltre misura noi cittadini di Tolmezzo, ma pare che le dovremo subire vita natural durante, in cambio di 16.000 euro annuali, un possibile danno alla salute, un mare di oneri.

Nel 2003, per quanto riguarda il poligono di tiro, che delizia anche chi va a mangiare in mensa, il liceo a ridosso, le domeniche tolmezzine al mezzodì, la casa di riposo, le passeggiate sino a Caneva, così scriveva Lepre: «Non ancora risolto il problema del rumoroso impatto di questa struttura, e forse, nella speranza di coprirlo in qualche modo, qualcuno nell’Amministrazione Comunale, ha pensato bene di affiancargli un kartodromo, (leggasi pista per go- kart), buono anche per esercitarsi nella “guida sicura” e quindi finanziato con denaro pubblico», (Ivi), poi trasformatosi nel cosiddetto “autodromo di Tolmezzo”, per l’uso del quale chi lo gestisce ha mille vantaggi e quasi “carta bianca”, mentre i cittadini invano da tempo segnalano il loro disagio. Ed anche per la ‘palestra addestrativa’, o ‘pista guida sicura’ o ‘autodromo della Carnia’, costruito però senza le regole per un autodromo, ecc. ecc., non si sono costruite barriere antirumore.  Fra l’altro, indipendentemente dal fatto che non so perché dovremmo pagarle noi cittadini, esse non sono di un solo tipo, e bisogna specificare la tipologia del manufatto. Ma le ‘palestre addestrative’ per auto di molti tipi non so neppure se esistano. Non da ultimo, forse con il permesso di un impiegato comunale delegato, detto spazio va riempiendosi di manufatti vari.

Ed ancora: i commercianti del Borgat hanno dovuto darsi da fare, in proprio, per far ridiscendere dalle vette di Pra Castello la festa della Madonna del Carmine e riportarla alla processione tradizionale, ai giochi per i bimbi, all’ incontro tra “i pors” ed “i sciors”, limitando concerti e bevute ai margini dei due sassi del castello riportati alla luce grazie all’impegno di Toni Martini, che sono però vuoti e freddi, come la cittadina di cui dovrebbero essere emblema.

E come non dar ragione a Marco Lepre, quando dice che: «Al di là di questi aspetti, la carenza principale è data dallo scadimento del dibattito e dell’elaborazione politica» (Ivi)? Ed ancora: «Sarà anche vero che dopo decenni in cui il territorio è stato sottorappresentato, ci siamo trovati per un certo periodo con dei tolmezzini a ricoprire le massime cariche regionali, ma è anche vero che il Consiglio Comunale, per anni “palestra” in cui si cimentavano personaggi di spicco, si esprime decisamente in tono minore. In molti campi Tolmezzo non è un riferimento, in termini di soluzioni e di capacità di iniziativa, per gli altri Comuni. I suoi rappresentanti più che esprimere autonomia ed indipendenza, spesso sembrano essere taciturni esecutori di ordini e decisioni prese altrove». (Ivi). Allora come ora, penso.  E intanto un’altra Amministrazione comunale e regionale stanno terminando.

Già allora, poi, Marco Lepre toccava il problema di Palazzo Linussio, non certo prerogativa di questa o della precedente amministrazione comunale. Finalmente la caserma se ne è andata, ma rispetto alle scelte di Francesco Brollo qualcuno palesava le sue perplessità.
Primo problema. Si è stati invitati ad un incontro per studiare come recuperare il Palazzo, per dire la propria, ma giunti ivi si è appreso che aveva già fatto tutto il Sindaco. Secondo problema: la manutenzione del Palazzo e la gestione della sua fruibilità per tutti. Proposte? Nessuna. Questo almeno sentivo dire.

Ma anche per quanto riguarda l’edificio per il teatro, si poteva comunque cercare di acquistare il ‘De Marchi’ dalla proprietaria, che fu costretta a metterlo in vendita per motivi familiari. Forse sarebbe costato meno di quell’orrido Luigi Candoni in zona mensa.

Inoltre Marco Lepre intitola un altro articolo del numero citato di “ L’ Arco in Cielo”, “pianificazione&partecipazione, una cattiva abitudine” che tratta del Piano Particolareggiato del Centro Storico tolmezzino, dopo aver precisato, nel suo “Sempre più anonima, op. cit.”, che le scelte di pianificazione del territorio dovrebbero esser compartecipate dai cittadini.
«La vicenda del Piano Particolareggiato del Centro Storico, adottato dal Consiglio Comunale nella seduta del 16 maggio 2002, – scrive Marco Lepre – […] si presta ad alcune amare considerazioni». (Marco Lepre, pianificazione&partecipazione, una cattiva abitudine, in: L’ Arco in Cielo, op. cit.).
La predisposizione e approvazione degli strumenti urbanistici rappresentano, per Lepre,  «uno dei momenti più importanti della vita amministrativa di un comune» dai quali dipendono «lo sviluppo ordinato dell’attività edilizia; la sicurezza dal rischio di alluvioni, frane, terremoti; l’organizzazione e la razionalizzazione della rete viaria; la disponibilità di spazio adeguato per servizi pubblici; l’insediamento delle attività produttive; le aree destinate a verde, etc. […]»(Ivi), e quindi richiederebbero partecipazione da parte dei cittadini.

Ma invece a Tolmezzo, dopo una fase di elaborazione del Piano Particolareggiato del Centro Storico, (steso dall’architetto Petris), esageratamente lunga, e durata circa cinque anni «durante la quale non c’è stato spazio, però per un coinvolgimento dei cittadini e dei vari enti ed associazioni nel dibattito e nell’esplicitazione degli obiettivi», si è passati ad una frettolosa presentazione pubblica dello stesso nella sala della Comunità Montana. Quindi il Piano è passato alla deliberazione del Consiglio Comunale «senza che ai Consiglieri fosse nemmeno dato il tempo per un esame dei documenti». (Ivi). Ed a chi si era lamentato per il poco tempo concesso e per la metodologia utilizzata, è stato risposto che si era già perso troppo tempo e che bisognava dare una risposta in tempi rapidi alle richieste dei cittadini, oppure che stavano per scadere i termini fissati dalla Regione, ma che comunque il piano era flessibile e ci sarebbe stato tempo e modo di apportare eventuali correzioni e modifiche. (Ivi). E così, tra l’appoggio indiscriminato della maggioranza alla giunta e l’incapacità della minoranza a giudicare analiticamente il piano per mancanza di elementi conoscitivi, esso è passato in consiglio comunale. (Ivi). Quindi le osservazioni dei cittadini, numerosissime, e la loro analisi in Commissione Consiliare, ed infine la sua approvazione definitiva in Consiglio Comunale, dopo una serie di lunghe sedute. (Ivi).

Ma un modo di procedere analogo era avvenuto per l’approvazione della variante generale del Piano Regolatore, nel 1999, che non so perché sia stato da noi cittadini pagato, per poi esser modificato a tale punto da non trovarne quasi traccia nel tessuto urbano. E nel 2013 avevo anch’io inviato una lettera al Messaggero Veneto sulle numerose varianti al piano regolatore tolmezzino approvate, in cui scrivevo che le stesse pareva fossero oltre un centinaio, senza contare quelle al piano particolareggiato, tanto da stravolgere, pare, variante dopo variante, il disegno originario del P.R.G.C. e privando la cittadina di spazi verdi. E palesavo il problema della cementificazione di Tolmezzo.

E scrivevo pure: «Mi pare proprio che, tra via Val di Gorto e la strada statale, fosse prevista la creazione di un “Parco Fluviale”, mentre, invece, ora, ci si trova davanti ad un poligono di tiro ed alla pista di guida sicura, quest’ultima realizzata senza neppure variazione nel P. R.G.C, che sono fonti di non poco rumore ed altri disagi, come le emissioni gassose dei veicoli. E, a Tolmezzo, ci si potrebbe porre, concretamente, ora, il problema della possibile perdita di valore degli immobili di proprietà a causa delle realizzazioni causate da variazioni del tessuto urbano». (Laura Matelda Puppini, Piani originari e cementificazione, in: Messaggero Veneto, 16 ottobre 2013). E sottolineavo come il comune di Tolmezzo proponesse una nuova variante al piano particolareggiato di via val di Gorto, la sesta, per venire incontro alle esigenze di un privato cittadino, almeno così pareva.

Ma questo modo di procedere, secondo Marco Lepre ed anche secondo me, non fa che accrescere la sfiducia dei tolmezzini, che credo abbia ormai toccato un minimo storico, e fa passare l’idea che la pianificazione urbanistica sia «qualcosa che “purtroppo” si deve fare perché è prevista dalla legge, ma che, comunque, non deve essere intesa in modo né chiaro, né preciso, né trasparente, bensì come qualcosa che, al momento opportuno, si può sempre “aggiustare”». (Marco Lepre, pianificazione&partecipazione, op. cit.).

Infine Marco Lepre termina la disamina su Tolmezzo facendo alcune ulteriori osservazioni relative al Piano Particolareggiato del Centro Storico, approvato il 16 maggio 2002. (Marco Lepre, Tre o quattro cose che non mi piacciono di lui, in: Arco in cielo, n.1 maggio 2003).

In primo luogo egli dice che alcuni edifici storici dovevano esser salvati con i loro arredi, e fa riferimento in particolare alla casa degli ebanisti Pillinini e del liutaio Valentino Pillinini, tutelata dal Piano Particolareggiato ma che ha subito forti rimaneggiamenti, alla palazzina liberty ove aveva il suo studio il dott. Bonanni, demolita senza se e ma, all’edificio dell’ex Consorzio Agrario, in via della Vittoria, opera dell’ing. Orlando, come credo l’arco dello stadio, per fortuna ancora salvo.

E io mi chiedo pure dove siano andati a finire i reperti geologici che Michele Gortani aveva disposto, ben classificati e posti con ordine, a piano terra nella sua casa, dove siano finiti gli arredi di casa Gortani, di cui  resta forse poco o quasi nulla, e dove sia finita la bellissima opera in bronzo “Gazzelle in sospettoso riposo” di Sirio Tofanari, che si trovava nella sala soggiorno di Michele e Maria Gentile Gortani, e chi abbia progettato il pessimo recupero dell’ex- palazzo comunale e del tribunale detto anche ex- Garzolini, trasformato in una specie di replica delle scuole elementari fasciste di via Cesare Battisti, e chi abbia progettato pure il recupero degli interni di casa Gortani, di cui ben poco riconosco, io che per anni l’ho frequentata, bambina e ragazza. «Sai se hanno messo all’asta i beni dei Gortani?» – mi chiedeva un giorno dei primi anni Novanta, Lisute Candoni, la figlia di Albino, abituale frequentatrice del professore e della Signora. «Non lo so, ma non mi pare proprio» – rispondevo, memore di un camion coperto da un telo che se ne andava via, nella primavera dell’ ’81, e che mi era stato detto contenesse la mobilia Gortani, tolta per la ristrutturazione dell’edificio. Ma poi? La scrivania e la libreria a giorno pare siano al Museo, nell’entrata, ma il resto?

In secondo luogo anche Marco Lepre tocca il tasto dolente della cementificazione di Tolmezzo. Così egli scrive nel merito del Piano Particolareggiato del Centro Storico: «A preoccupare è l’eccessiva possibilità edificatoria contenuta nel Piano e il numero delle sottozone di ristrutturazione urbanistica. Praticamente in quasi ogni spazio libero o fatiscente è consentito costruire. Le previsioni di cubatura sono le massime previste in ambito comunale: una possibilità che ci sembra vada ben al di là del necessario incentivo ai privati per intervenire su aree degradate o da riqualificare». (Ivi). E già allora Marco Lepre si soffermava sul futuro scempio ambientale dato dalla costruzione dell’orrido palazzo della Regione, che distrugge la vista e la prospettiva, massacrando la carissima (allora se non erro 280 milioni di lire) “roggia” progettata dall ‘architetto Claudio Puppini, e si soffermava pure sul verde che non c’è, neppure secondo gli allora parametri regionali.

E relativamente all’utilizzo per spazio verde dell’ex sedime ferroviario, a ridosso del quale ora si è creato uno spazio parcheggio, e del frutteto poi utilizzato dalla polizia con cubature di cemento, così scrive Marco Lepre: «Appare evidente […] come l’Amministrazione Comunale voglia rinunciare ad uno spazio di verde facilmente fruibile dai cittadini» (Ivi). E di fatto vi ha rinunciato, come pure alle panchine per riposarsi. Due sono poste in via Cesare Battisti ma vengono utilizzate pure per porre le spazzature da parte della scuola media ora Istituto Comprensivo, due si trovano in via John Lennon, ma sono buie la sera, per mancanza di lampadine nei lampioni, e comunque in tutto il numero di panchine a Tolmezzo si conta sulle dita.

E per ora mi fermo qui, perché lo scempio di Tolmezzo è a tutti visibile, in particolare a quelli che, come me e Marco Lepre, ci vivevano anche da bambini. Nessun ricordo, nella nuova pavimentazione di piazza XX settembre dal costo totale di 2 milioni di euro e forse più, di Leonardo ed Emilia De Giudici, che ivi abitavano, e che tanto fecero con i loro lasciti per Tolmezzo;  via panchine e spazi verdi dal centro, che va modificandosi. Abbiamo sempre sperato di avere un  giardino per noi, uno spazio dove incontrarci in un po’ d’ombra. Ma ahimè dopo aver letto che ciò ci sarebbe stato concesso, tutto poi è svanito, e ci siamo ritrovati solo con lo spazio davanti alla scuola di via Dante che di fatto è stato trasformato in una pietraia.

Che dire?

Così chiude Lepre il suo “Sempre più anonima, sempre più brutta: è davvero ancora un capoluogo?”. «Verso cosa ci stiamo muovendo? Tolmezzo diventerà un paesotto un po’ più grande tra tanti paesi anonimi, o un capoluogo capace di contribuire a risollevare le sorti della nostra montagna?». Beh, credo che la risposta sia sotto gli occhi di tutti.

Ho scritto questo testo non con l’intenzione di offendere qualcuno, lungi da me, ma per porre dei problemi sul tappeto, sperando suscitino un dibattito.

Laura Matelda Puppini.

L’immagine che correda l’articolo è di Vittorio Molinari e rappresenta la piazza di Tolmezzo nei primi Novecento. Allora Tolmezzo era piccola, non tanto ben tenuta, se si vedono altre fotografie, ma forse più vivibile. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 


Perchè no a Berlusconi a Porzûs con fazzoletto verde, labaro osovano e Volpetti, a far comizi il 25 aprile.

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Appena venuta a conoscenza della ‘visita’ organizzata pare proprio  con l ‘Apo (Associazione Partigiani Osovani), di Berlusconi alle malghe di Porzûs, con lancio di anatemi verso il M5S, e cioè ancor prima della lodevolissima presa di posizione di Paola Del Din nel merito, avevo scritto due righe sull’argomento, come lettera, al Messaggero Veneto, che però non ha ritenuto di pubblicarle e pertanto lo faccio tramite il mio sito, con qualche ulteriore precisazione, dato che non ho il limite delle 1500 battute.

Questo il testo della lettera, con aggiunta una fonte:

«Leggo con vero stupore della visita di Silvio Berlusconi alle malghe di Porzûs, ieri, a pochi giorni dal voto per le regionali in Fvg, e trasecolo. “Cosa si è inventato questo, ora, per avere visibilità partitica, dopo i suoi discutibilissimi governi?” – penso tra me e me, ricordandomi di quando venne, anni fa, a omaggiare in Fvg, tra potentati vari, la mostra di Illegio, e quello che seppe dire fu che mancava san Silvio. (“Mostra bellissima, manca solo San Silvio”, in: Messaggero Veneto 8 ottobre 2009). Ora però questa visita mi pare quasi inverosimile, fuori luogo, stomachevole. Paragonare poi, da lì, i grillini ai nazisti, sulla base dell’ipse dixit, cioè senza uno straccio di prova, è uno dei motivi per non votarlo assolutamente. Si è innervosito perché Di Battista, non candidato, ed altri 5 stelle gli hanno ricordato che è un pregiudicato? Ma è vero, da che si sa. Ora lo vedo comparire alle malghe di Porzus, luogo ove il grande Francesco De Gregori, uomo moralmente integerrimo, ricercato dai nazifascisti, con le armi in pugno trascorse il durissimo inverno 1944- 1945, per poi morire per mano del gappista Giacca e del suo gruppo assieme a Gastone Valente Enea, ed altri. Stupisce all’inverosimile, poi, vista fra l’altro la sua morale personale discutibilissima, quel fazzoletto verde al collo, indossato accanto a Roberto Volpetti, rappresentante ufficiale dell’Apo, e penso che l’associazione partigiana dovrebbe riflettere seriamente su cosa fa, se non altro per non screditarsi cadendo nel ridicolo. Laura Matelda Puppini».

Relativamente alla figura di Francesco De Gregori, io credo che nel corso dei processi per la strage detta di Porzûs e poi, molto si sia travisto su di lui, braccato dai nazifascisti per la sua scelta partigiana e contro cui era stato emanato un mandato di cattura, certamente anticomunista, non potendo essere altro, vista la sua formazione da ufficiale effettivo del R.E.I. e la posizione del padre, soprintendente di tutte le biblioteche di Roma, ma persona onesta. Ma per travisare si sta poco: basta leggere un documento firmato dal De Gregori senza vedere i precedenti ed i successivi, mentre se lo si avesse fatto si sarebbero visti il suo rigore morale e la sua disciplina.

Egli viene descritto come «uomo di mentalità rigida, gran lavoratore, ufficiale capace che si impegnava anche nella difesa dei suoi uomini», (Laura Matelda Puppini, scheda di Francesco De Gregori, in: Marchetti Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, p. 388), ma da che so, non scevro dal cercare il dialogo, all’interno di un contesto militare, con i vicini partigiani sloveni, quando serviva, e capace di correggere errori fatti per false informazioni, diramando nuova circolare. Insomma era un ufficiale e come tale si comportò sino in fondo, non un grafomane e puramente antisloveno.

Per esempio, quando un posto di corrispondenza osovano, locato a Taipana, formato da tre patrioti, viene disarmato e catturato, nel gennaio 1945, dal Btg. sloveno con sede a Platischis, perchè «parlavano male  delle formazioni slovene», (“Diario di Bolla”, ed. Apo, 2001, p. 88 e p. 91), ‘Bolla’ va a trattare l’argomento con il Comandante del distaccamento sloveno a Canebola, che «si mostra molto remissivo, biasima l’accaduto e spedisce subito un corriere al btg. perchè restituisca gli uomini», e gli propone un incontro con un graduato superiore, che ‘Bolla’ accetta, previa resituzione immediata di uomini, materiale ed armi. (Ivi, p. 89). Quindi il 20 gennaio giunge a ‘Bolla’ una lettera dal Btg. sloveno a Platischis, ma è scritta in sloveno, lingua che ‘Bolla’ ed i suoi non capiscono. A questo punto ‘Bolla’ si reca, con ‘Enea’, Gastone Valente, nuovamente dal comandante del distaccamento di Canebola, che gliela traduce, informandolo che i tre non possono esser resi da loro, perchè già inviati al “Comando superiore”. (Ivi, pp. 89-91). A questo punto ‘Bolla’ sollecita l’incontro già richiesto con il comandante di zona, senza porre condizione alcuna (Ivi, p. 91), ma risponde anche alle accuse degli sloveni precisando pure che a lui non constava, da inchiesta fatta eseguire, che i suoi tre uomini, avessero parlato con la popolazione molto male dell’Armata di Tito, ma che comunque era deciso a trovare con gli sloveni una soluzione amichevole della questione. (Lettera datata 25 gennaio 1945, firmata da ‘Bolla’ e ‘Paolo’, in: Archivio Ifsml – Fondo Processo Porzus documenti in copia da archivi di tribunali. – Busta 5 – documento n. 75). Poi, forse, la morte di ‘Bolla’ ci impedisce di conoscere il seguito.

Inoltre in un primo tempo ‘Enea’ aveva comunicato a ‘Bolla’ che anche il Comando della I^ Divisione Garibaldi era passato alle dipendenze del IX Korpus, non solo quello della Natisone, e questa informazione veniva così diramata, ma poi, informato in modo più corretto, Francesco De Gregori inviava una smentita e rettifica firmata di suo pugno e da Alfredo Berzanti ‘Paolo’. (Informativa inviata al Comando Militare Triveneto, Al Comando I^ Divisione Osoppo, Al Comando II^ Divisione Osoppo Loro Sedi, datata Z.O.  4/11/1944, firmata. Bolla e Paolo, in: Archivio Ifsml – Fondo Processo Porzus documenti in copia da archivi di tribunali. – Busta 5 – documento n. 68).

Vediamo invece chi è Silvio Berlusconi ed in particolare cosa disse su Mussolini ed il fascismo, da lui sempre sostenuti anche per convenienza elettorale. (Andrea Colombo nel suo: Azzurri in tinta nera. Accordo tra Berlusconi e il cartello fascista. Con in più l’ospitalità nelle liste di Forza Italia, in: il manifesto 18 febbraio 2006, Laura Matelda Puppini, Mode storiche resistenziali e non solo: via i fatti, largo alle opinioni, preferibilmente politicamente connotate, in: www.nonsolocarnia.info).

Così scrive, nel merito, Aldevis Tibaldi nel suo “Libera nos a malo (liberaci dal male)”, in: http://friulisera.it/libera-nos-malo-liberaci-dal-male/ 2 maggio 2018: «Abbiamo dovuto assistere a scene penose, a cominciare da quelle offerte in occasione del 25 aprile. A Udine nel suo discorso celebrativo il sindaco Giacomello, subentrato ad Honsell, oltre ad approfittare della ricorrenza per esaltare la figura del suo predecessore -che pure era in lizza alle regionali- e i meriti del partito Democratico, è andato ben oltre, contrabbandando l’idea che con il fascismo è pace fatta e che pertanto tutti i morti sono uguali. Mentre è vero il contrario perché il carnefice non va mai confuso con la sua vittima e perché la morte non è una lavatrice che smacchia ogni colpa.
Ma se a Udine uno sciocco non ha saputo essere all’altezza di una Città medaglia d’oro alla Resistenza, a Porzus il delinquente è andato ben oltre. Colui che in passato ha dato evidenti segni di simpatia per il fascismo tanto da affermare che “Mussolini non ha mai ammazzato nessuno. Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino” si è fatto paladino dei partigiani della Osoppo per inveire contro i comunisti e contro i cinque stelle. Vedere l’amico di Dell’Utri con il fazzoletto e il labaro della Osoppo a farsi paladino della democrazia davanti ai suoi seguaci che nulla hanno mai avuto in comune con la lotta di Liberazione è stato a dir poco ripugnante e tampoco gli è giovato».

Infatti nel 2003, Silvio Berlusconi così aveva dichiarato nella seconda parte dell’intervista allo Spectator: «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno». «Non ci sono paragoni con Saddam. Il regime fascista non era così feroce. Il Duce mandava la gente in vacanza al confino». (http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2003/09_Settembre/11/berlusconi.shtml).

Non solo: egli ha osato dire a “Che tempo fa”, nel febbraio 2018, che il fascismo è morto, è sepolto, è storicizzato, che quanto accaduto a Macerata è frutto di un singolo, «assolutamente fuori di testa» che per conto suo ha reagito a notizia che aveva avuto su quella povera ragazza uccisa, e quindi è qualche cosa che si riferisce ad una sola persona (non alla collettività ed ad un pensiero che rischia di diventare dominante). «Mentre invece c’è questo movimento dell’antifascismo, quello cha a Piacenza ci ha prodotto quella cosa ignobile di picchiare un esponente delle forze dell’ordine, che è pericoloso, perché viene dai centri sociali, perché è molto organizzato, perché ha un programma di manifestazioni […] per loro divertenti, ludiche, ma assolutamente non accettabili in una democrazia». (Estremismi, Berlusconi a Che tempo che fa: “Il fascismo è morto e sepolto. Mi preoccupano gli antifascisti”, in: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/02/19/estremismi-berlusconi-a-che-tempo-che-fa-il-fascismo-e-morto-e-sepolto-mi-preoccupano-gli-antifascisti/4169708/).

Questo personaggio, salito poi alle malghe, il 25 aprile 2018, a due passi dalle elezioni regionali del 29 aprile, dichiarava, i sintesi, che la sparatoria di Macerata era stata prodotta da un matto in un raptus, chiudendo gli occhi sulla violenza della nostra italica società, come sostenuto da Luca Traini stesso, che sparò all’ improvviso ed all ‘impazzata su di un gruppo di immigrati, e dal suo difensore, mentre, da politico qual è, teme l’antifascismo, che è proprio dell’Anpi in primo luogo.

Bene, questo signore, che non indicherei certo ai miei figli come modello di moralità pubblica e privata, l’uomo dei ‘ Bunga bunga’, della nipote di Mubarak e via dicendo, il considerato colpevole dalla legge per un reato, è salito con il labaro della ‘Osoppo’ ed il fazzoletto verde al collo, grazie all’ Apo, perché vicino a lui, se non erro, vi è proprio Roberto Volpetti, che è libero di votare chi vuole, ma non di usare le malghe di Porzus come una sala di ricevimento e di agone partitico. E rimando pure alla presa di posizione nel merito di Paola Del Din, partigiana, medaglia d’oro, sul Messaggero Veneto.

Roberto Volpetti (Vicepresidente Associazione Partigiani Osoppo / APO Friuli) alla sottoscrizione del Protocollo per la tutela e valorizzazione delle Malghe di Porzus – Udine 20/02/2017.

(Da: http://www.secoloditalia.it/2018/04/salvini-attacca-berlusconi-i-grillini-come-hitler-ha-detto-una-sciocchezza/).

Detta immagine è anche quella che ho utilizzato per presentare l’ articolo.

VIA LA POLITICA DALLA STORIA !!!!!!!!

RITORNIAMO A DARE ALLE MALGHE, CHE FURONO LA PRIMA TOMBA DI BOLLA ED ENEA E DI ALTRI, ED ALL’ APO LA LORO DIGNITÀ!!!!!

Laura Matelda Puppini

 

Appello dei missionari comboniani: Repubblica democratica del Congo abbandonata da tutti.

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«Il popolo congolese sta vivendo un’altra pagina insanguinata della sua tragica storia nel silenzio vergognoso dei media sia italiani che internazionali. La ragione di questo silenzio sta nel fatto che nella Repubblica democratica del Congo (Rd Congo) si concentrano troppi ed enormi interessi internazionali sia degli Stati Uniti come della Unione europea, della Russia come della Cina (la società China Molybdenum lo scorso anno ha comprato la miniera di Tenke che produce il 65% del cobalto del mondo).

L’Rd Congo infatti è uno dei paesi potenzialmente più ricchi d’Africa, soprattutto per i metalli utilizzati per le tecnologie più avanzate: coltan, tantalio, litio, cobalto. La maledizione di questo paese è proprio la sua immensa ricchezza. Per questo, oggi, il Congo è un paese destabilizzato in preda a massacri, uccisioni, violenze, soprusi, malnutrizione e fame.

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Particolarmente grave è la situazione nel Nord Kivu (vicino all’Uganda) che ha Goma come capoluogo. Lì operano i “ribelli” delle Forze democratiche alleate (Adf) che hanno contatti con Boko Haram (Nigeria), al-Shabaab (Somalia) e al-Qaida. Sono dei veri e propri tagliagole in stile jihadista (basta vedere le allucinanti riprese di tali atti su internet!) che terrorizzano la popolazione. A farne le spese sono migliaia di congolesi innocenti, tra cui laici cristiani, sacerdoti e missionari. Don Étienne Sengiyuma parroco di Kitchanga (diocesi di Goma), ucciso l’8 aprile scorso, è l’ultima vittima di una lunga serie.

Drammatico l’appello del vescovo di Goma, mons.Théophile Kaboy Ruboneka: «La situazione della diocesi è insostenibile. Qui nel Nord Kivu viviamo nel caos totale. Siamo abbandonati da tutti». Tutto questo avviene nonostante la massiccia presenza di truppe Onu e dell’esercito nazionale. Sempre nel Nord Kivu è altrettanto grave la situazione nella diocesi di Butembo-Beni dove i ribelli dell’Adf massacrano per costringere la gente ad abbandonare le proprie terre. Un rapporto della società civile di Beni afferma che sono più di un migliaio le persone uccise dal 2014 ad oggi e cinque i sacerdoti rapiti. Il 20 marzo del 2016 è stato ucciso il religioso Vincent Machozi, molto impegnato nella difesa dei diritti umani.

Grave è anche la situazione nel Sud Kivu dove gruppi armati controllano le miniere di coltan per non far entrare altri minatori e tenere il prezzo del minerale basso, sfruttando il lavoro dei bambini (secondo l’Unicef si tratta di 40.000 bambini!).

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Anche in altre aree del paese la situazione è al limite. Nell’estremo nord, nella zona Bunia-Ituri, sono in atto saccheggi e massacri. E in due regioni del Sud, nel Kasai, ricco di diamanti, e nel Katanga, ricco di cobalto, si parla di massacri con migliaia di morti. I dati dell’Alto commissariato per i rifugiati Onu dicono che questi conflitti hanno prodotto quattro milioni di rifugiati interni, 750mila bambini malnutriti, 400mila a rischio morte per fame.

Tutto questo disastro non sembra disturbare il presidente Joseph Kabila che anzi ne approfitta per continuare a posticipare le elezioni nonostante il suo mandato (il secondo) sia scaduto a fine 2016! Kabila, al potere da 17 anni, anche se la Costituzione lo vieta, dà l’impressione di volersi presentare nuovamente alle elezioni fissate (forse) per il 23 dicembre di quest’anno.

Tale comportamento politico ha portato a gravi disordini anche nella capitale Kinshasa. Il Comitato laico di coordinamento dei cattolici (Clc), sostenuto dal cardinale di Kinshasa, Laurent Monsengwo, ha promosso in tutto il paese il 31 gennaio 2017, il 21 gennaio e il 25 febbraio 2018 “processioni” di fedeli, accompagnate da sacerdoti, perché Kabila non si ricandidi ed esca di scena. La repressione è stata feroce: 134 chiese accerchiate dalle forze armate, chiese invase da poliziotti (compresa la cattedrale di Kinshasa), parecchi preti arrestati e alcune decine persone uccise.

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L’Rd Congo, oggi, sta vivendo il suo Venerdì Santo nel silenzio della stampa internazionale e nell’indifferenza del mondo.

Per questo ci appelliamo con forza ai giornalisti italiani perché rompano il silenzio sull’Rd Congo raccontando gli orrori che vi sono perpetrati, ma soprattutto spiegando la ragione di tale silenzio: gli enormi interessi internazionali in quel paese.

E ci appelliamo anche ai vescovi italiani ed europei perché sostengano i vescovi congolesi e le comunità cristiane con la preghiera, ma soprattutto con il sostegno concreto in questo loro impegno per la giustizia e i diritti umani. Perché non pensare a una delegazione di vescovi italiani ed europei che vada a visitare le comunità cristiane più provate? Non possiamo rimanere inermi di fronte a una così immane tragedia.

Direzione generale dei missionari comboniani
Missionarie comboniane – Provincia italiana
Commissione giustizie e pace – Missionari comboniani Italia
Padre Efrem Tresoldi – direttore di Nigrizia
Padre Alex Zanotelli – direttore di Mosaico di Pace
Padre Eliseo Tacchella – già provinciale dei missionari comboniani in Rd Congo».

24 aprile 2018.

(Da: http://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/appelli/indice_1524605459.htm).

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Ma non è il primo appello di Comboniani, in particolare di padre Alex Zanotelli, trentino, nativo della Val di Non, per il Congo e la situazione africana.

Egli infatti, nel luglio 2017, aveva lanciato un primo appello per l’Africa tutta, di cui riporto qui il testo da: https://www.mosaicodipace.it/mosaico/a/44590.html

Rompiamo il silenzio sull’Africa

«Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani. Trovo, infatti, la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media, purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.

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Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa (sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!).

– È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
– È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba ,il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
– È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
– È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
– È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
– È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
– È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
– È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa, soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
– È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi cinquant’anni secondo l’ONU.
– È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
– È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi Paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi (lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).

Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia dell’invasione, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact, contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti Ma i disperati della storia nessuno li fermerà. Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al Sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. E ora i nostri politici gridano: “Aiutamoli a casa loro”, dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.

E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa  come patria dei diritti.

Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio (i nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?). Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.

Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.

Alex Zanotelli        21 luglio 2017».

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L’immagiine che accompagna l’articolo, ritrae il padre Comboniano Alex Zanottelli mentre parla sull’ Africa, ed è tratta da: http://www.lastampa.it/2017/07/20/vaticaninsider/padre-zanotelli-rompiamo-il-silenzio-sullafrica-MGN4GchnGQi5WPSGqXiD8L/pagina.html. Laura Matelda Puppini

Storia di Cave del Predil – Raibl. Parte seconda.

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Le innovazioni, introdotte a Cave del Predil alla fine del XIX° secolo, avevano portato ad un aumento della produzione, che si attestava, allora, intorno ai 3.803 quintali di piombo e 52.307 quintali di zinco nelle miniere statali ed a 5.211 quintali di piombo e 37.567 nelle miniere private. (Paola Tessitori, Rabil-Raibl Cave del Predil. Una miniera, un paese, una sfida, Ud, Kappa Vu 1997, p. 27).

Dopo la fine della guerra le miniere, che nel 1919 avevano conosciuto un momento di crisi, entrarono a far parte del sistema economico italiano. Le due realtà: quella della miniera privata e quella della miniera pubblica, furono unificate nel 1923, e per gestirle fu creata la Società Anonima Cave del Predil (Raibl). Presidente della stessa venne nominato l’ing. Bernardino Nogara, fratello del futuro vescovo di Udine, noto esperto in mineralogia. (Ivi, p. 33). Successivamente Bernardino Nogara sarebbe stato nominato responsabile dell’amministrazione del fondo che il governo italiano avrebbe versato al Vaticano a seguito dei Patti Lateranensi, e deve la sua attuale fama in particolare per aver lanciato il Vaticano «in un gioco finanziario a tutto campo».  (Ivi, p. 34). Per quanto riguarda Cave del Predil, invece, egli si fece promotore di una serie di trasformazioni dentro la miniera e fuori, relative in particolare all’abitato di Raibl, e nel 1925, la attività produttiva giunse a fornire il 20% della produzione italiana di zinco, ed il 5,6% di quella di piombo, con 1025 occupati e un mercato in espansione.

Si ricercavano nuovi filoni nel sottosuolo, si cercava di migliorare le caratteristiche del prodotto estratto, si procedette ad una riorganizzazione del lavoro. Infine, nel 1926, entrava in funzione la terza centralina elettrica, sita in località Plezzut, collegata, come quella di Muda, ad una cabina di trasformazione posta a Cave, e dotata di una linea di tensione di 6000 volt. (Ivi, pp. 34-35).

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Ma poi il prezzo dello zinco sul mercato scese, e la crisi americana del 1929 trascinò nel suo vortice anche Cave del Predil. Il primo maggio del 1931 l’attività estrattiva della miniera di Raibl venne sospesa e 970 operai su 1020 vennero spediti ad ingrossare le file dei disoccupati.  (Ivi, p. 36, e Giordano Sivini, Il banchiere del Papa e la sua miniera, il Mulino, 2009, pp. 78-79). Un sussidio del governo sul minerale estratto permise però di riaprire la miniera nel 1933, grazie anche alla politica autartica di Mussolini, mentre il 14 dicembre 1932 veniva nominato direttore della società che gestiva la miniera Giovanni Nogara. (Giordano Sivini, op. cit., p. 81). Le potenzialità estrattive della miniera erano allora alte; veniva progettato il sistema di separazione ‘sink and float’; venne costruita una nuova teleferica e venivano introdotte innovazioni tecnologiche, grazie anche a prestiti di Banche. Nel paese di Raibl furono costruiti dormitori per non residenti, abitazioni, la mensa operaia, una sede per la Cooperativa minatori (Ivi, p.83) mentre sopravviveva, parallelamente, la cooperativa di consumo creata nel lontano 1813 dagli operai. (Paola Tessitori, op. cit., p. 27).

֎

Poi la seconda guerra mondiale, e l’occupazione tedesca, che considera la miniera «impresa bellica sotto la protezione del Reich». (Giordano Sivini, op. cit., p. 87). I nazisti giungono a Cave alla fine del settembre 1943; il presidio italiano si arrende e viene inviato a lavorare in miniera, e restano in loco solo carabinieri e guardia di finanza, di fatto agli ordini germanici, a cui si aggiunge, nel gennaio 1944, un gruppo di repubblichini comandato da Giuseppe Ocelli. (Ivi, pp. 86-87).  E con l’arrivo dei tedeschi, le azioni partigiane contro la miniera e le sue strutture si susseguono. (Ivi, pp. 87-89). Poi la fine della guerra, un periodo di stasi per la riparazione di cantieri e gallerie danneggiate dal conflitto e per i miglioramenti tecnico- produttivi, mentre i dirigenti temono che la miniera passi alla Jugoslavia a seguito della definizione del confine orientale d’Italia. Con il trattato di Parigi del 1947 che ne traccia la linea, esso passa perpendicolarmente alla vetta del monte Re: l’ingresso della miniera viene così a trovarsi in Italia mentre la galleria di Bretto, ove transita il trenino ormai a locomozione elettrica, viene divisa in due parti, ed al suo interno viene creato un posto di confine. Ed ogni giorno un finanziere toglie i piombi della porta d’accesso ai comandi di un argano, preme un pulsante che apre la pesante cancellata di sbarramento, e permette al treno che porta i lavoratori sloveni di entrare in territorio italiano, dove viene eseguito un breve controllo prima di permettere ai minatori di proseguire. (Ivi, pp. 90-91 e Paola Tessitori, op. cit., p. 40).

Dal canto suo, nel clima pesante del dopoguerra, la Raibl Società Mineraria del Predil si precipita a precisare che le maestranze dei lavoratori «si sono sempre dimostrate contrarie a tutte le agitazioni a carattere politico e si sono recisamente rifiutate di partecipare a scioperi ordinati per motivi politici». (Giordano Sivini, p. 93).  

 

Bernardino Nogara

Il 1947 vedeva Bernardino Nogara ricoprire la carica di Presidente della miniera, mentre Giovanni faceva parte, con altri, del consiglio di amministrazione, e le prospettive della società non potevano essere migliori. Così si sposava allora il sogno di fare di Cave del Predil «il nucleo centrale di uno sviluppo imprenditoriale capace di valorizzare il territorio circostante» (Ivi, p. 93), ed a questo fine venivano create la Società idroelettrica Alto Friuli, e la Sife, Società immobiliare friulana edilizia, dedicando a lavori idroelettrici e di costruzione ampi investimenti. (Ivi, pp. 94-95). 

Le case ottocentesche vennero abbattute ed al loro posto sorsero palazzine per i lavoratori, a cui si aggiunsero le case ‘ caserme’ per i pendolari, composte da camerate comuni, una sala da utilizzare insieme, ed una cucina. «L’abitato di Raibl veniva così, piano piano, allargandosi, popolandosi, modernizzandosi, e fu dotato, pure, di nuovi servizi quali l’ambulatorio medico, le scuole media e professionale, un ricreatorio maschile, un cinema teatro, un asilo Onairc. Ben presto iniziarono ad operare, nel paese, diverse associazioni ricreative e sportive, e si tenevano frequenti feste a carattere multietnico, visto che a Raibl convivevano tranquillamente austriaci, sloveni e italiani, anche se non mancavano contrasti nell’ambiente di lavoro, soprattutto sulla base della collocazione nella gerarchia lavorativa. (Ivi, p. 43- 44 e Giordano Sivini, op. cit., p. 103).

E, secondo Paola Tessitori, alcuni vantaggi come la casa, la corrente elettrica, la legna gratis, non erano lussi ma frutto di consuetudini consolidatasi nel tempo per compensare i disagi del lavoro, e venivano elargiti sulla base del ruolo svolto per la miniera, marcando le differenze sociali all’interno del villaggio fra minatori e ‘colletti bianchi’, come del resto il divieto, per i figli degli operai, di giocare con quelli degli impiegati. (Paola Tessitori, op. cit., pp. 45-46). E comunque «il lavoro in miniera comportava livelli di fatiche enormi e di pericoli assai elevati, rispetto ai quali qualsiasi concetto di benessere ne usciva fortemente ridimensionato». (, p. 47). Ma con il passare degli anni, il fervore edilizio iniziò a scemare, a causa del calo demografico e del crescente disimpegno della Società nel settore immobiliare. (Paola Tessitori, op. cit., p. 43).

Inoltre gli ultimi utili rilevanti della società della miniera e delle associate si riferivano al 1952. (Giordano Sivini, op. cit., p. 96). Ma, nel corso di quell’anno, terminava la guerra in Corea che assorbiva una parte del prodotto, il mercato polacco si fermava, e il demanio chiedeva alla società gestore della miniera di corrispondere 3 miliardi di lire per il mancato pagamento, fin dagli anni Quaranta, della parte di canone che avrebbe dovuto versare in base alle vendite effettuate. (Ivi, p. 97). E nel 1955, gli impiegati, in una lettera, palesavano di iniziare a risentire della crisi, lamentando una sensibile diminuzione nei salari, nell’ultimo triennio, nonostante i successi produttivi. (Paola Tessitori, op. cit., p. 47).

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Poi il tracollo, dovuto a fattori internazionali, che avevano portato alla caduta della domanda, a speculazioni errate (Ivi, p. 50), all’indebitamento con le banche per oltre un miliardo di lire dietro pegno del venduto che però non si vendeva del tutto, la posizione del gruppo inglese Southern European Metal Corporation, da sempre presente alle spalle dei Nogara, che non sosteneva più, e quindi il rosso del bilancio che si diceva ammontasse, nel 1954, a 4 miliardi di lire, (Ivi, p. 50),  portando al pagamento ritardato dei salari, mentre già nel 1953 la Raibl Società Mineraria del Predil aveva dovuto ricorrere a 100 licenziamenti. (Giordano Sivini, op. cit., p. 98). Ebbe inizio così una serie di vertenze condotte dai sindacati CISL (alla sua nascita, nel 1948, fino al 30 aprile 1950, chiamato ‘LCgil’ ove L sta per Libera, di matrice cattolica) e Cgil, che mai si scontrarono però a Cave, e lavorarono d’intesa nonostante il clima da ‘guerra fredda’ dell’epoca. (Ibid.).

Nel 1954 la situazione della Società appariva talmente grave da essere espressamente discussa all’assemblea degli azionisti, ove il consiglio di amministrazione proponeva, per correre ai ripari, di contenere i costi di produzione anche mediante licenziamenti di mano d’opera; di limitare la ricerca e di sottoporre all’approvazione dei soci eventuali «provvidenze» per cercare di superare la situazione di disagio. (Ivi, pp. 97-98).
Ma ormai si era alla fine e nel corso dell’assemblea dei soci della Raibl Società Mineraria del Predil, tenutasi a Roma il 25 aprile 1956, veniva deciso il passaggio della maggioranza del pacchetto azionario alla ‘Pertusola’. L’operazione fu pilotata da Bernardino Nogara, che, nel consiglio di amministrazione della ‘Pertusola’, rappresentava il capitale vaticano». (Ivi, p. 103).

Per la miniera, i minatori di Cave del Predil, il paese di Raibl si chiudeva così un’epoca e ne iniziava un’altra, ricca di problemi e tensioni, che sarà oggetto del terzo ed ultimo capitolo di questa storia, e che avrà come uno dei principali attori Guerrino Gabino, minatore prima, sindacalista Cgil poi.

Laura Matelda Puppini

Invito chi non lo avesse fatto a leggere il precedente articolo sull’argomento: 

Storia di Cave del Predil – Raibl. Prima parte in attesa di presentare l’archivio Gabino.

VI INVITO INOLTRE A VISITARE IL PARCO GEOMINARARIO DI CAVE DEL PREDIL.

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta minatori di Cave del Predil, è stata scattata da Ulderica? Da Pozzo, ed è stata tratta, solo per questo uso, da: http://www.polomusealecave.coop/miniera-lab/?lang=it, mentre la fotografia di Bernardino Nogara è tratta da: https://it.wikipedia.org/wiki/Bernardino_Nogara. Laura M. Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il “Testo Unico in materia di foreste e filiere forestali” cioè il D.L. 3 aprile 2018: una legge che delega tutto senza decidere nulla.

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Incredibilmente, dopo che avevamo già votato per le politiche, veniva approvato il Decreto legislativo 3 aprile 2018 n. 34, che non è altro che il ‘Testo Unico in materia di foreste e filiere forestali’ e che porta le firme del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del Presidente del Consiglio dei Ministri Paolo Gentiloni, e dei Ministri del precedente Governo: Gian Luca Galletti, Marianna Madia e Dario Franceschini, che è, a mio avviso e dopo averlo letto, decreto non solo inutile ma forse anche dannoso, che delega tutto alle regioni, e per cui sarebbero bastate due righe, privo di una visione ambientale plurifattoriale e di reale tutela e salvaguardia del bosco, delle foreste e delle selve, perché evita di prendere in considerazione, in modo normativo,  i problemi più grossi in materia.
E secondo me detto decreto rappresenta l’ultimo regalo del fu governo Renzi. Inoltre non si sa perché i Governi continuino ad utilizzare, anche per materie così complesse, lo strumento del Decreto legge, evitando la via della legislazione ordinaria, ed in sintesi la discussione ed il confronto.  

Ma passiamo ad analizzare il testo, che così inizia:

«La Repubblica riconosce il patrimonio forestale nazionale come parte del capitale naturale nazionale e come bene di rilevante interesse pubblico da tutelare e valorizzare per la stabilità e il benessere delle generazioni presenti e future».
E fin qui credo che siamo tutti d’accordo. E continua:
«il presente decreto reca le norme fondamentali volte a garantire l’indirizzo unitario e il coordinamento nazionale in materia di foreste e di filiere forestali, nel rispetto degli impegni assunti a livello internazionale ed europeo». Ma dopo aver letto il testo qualche dubbio mi è sorto nel merito dell’indirizzo unitario, data la quasi totale delega alle Regioni, che sono 20, condotte da partiti diversi, ove sempre più spesso chi decide è un singolo assessore.

«Lo Stato, le regioni e gli enti da queste delegati, promuovono in modo coordinato la tutela, la gestione e la valorizzazione attiva del patrimonio forestale anche al fine di garantire lo sviluppo equilibrato delle sue filiere, nel rispetto degli impegni assunti a livello internazionale ed europeo». Ma anche in questo punto la legge poi si contraddice, perché di fatto delega quasi tutto alle Regioni, e quasi nulla avoca a sé.

L’art. 2 presenta tanti buoni propositi anche di difficile realizzazione, come: «proteggere la foresta promuovendo azioni di prevenzione da rischi naturali e antropici, di difesa idrogeologica, di difesa dagli incendi e dalle avversità biotiche ed abiotiche, di adattamento al cambiamento climatico, di recupero delle aree degradate o danneggiate, di sequestro del carbonio e di erogazione di altri servizi ecosistemici generati dalla gestione forestale sostenibile», non si sa come realizzabili senza che tali problemi siano affrontati in un’ottica sistemica che tenga conto dei vari fattori che incidono sul clima e sull’ambiente naturale e con quale copertura finanziaria.
Inoltre prevede, lodevolmente, «il recupero produttivo delle proprietà fondiarie frammentate e dei terreni abbandonati, sostenendo lo sviluppo di forme di gestione associata delle proprietà forestali pubbliche e private», ma Dio solo sa come.

Infatti dopo una serie di finalità scritte con il solito linguaggio aulico-teorico e di intenti generici, che sono propri ormai di testi di legge nazionali, interpretabili, l’art. 2 si chiude con una glaciale nota economica: «All’attuazione delle finalità di cui al presente articolo si fa fronte nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». Ma, con la politica dei pochi spiccioli, io credo che le finalità esposte all’art. 2 della legge, per la loro attuazione, non verranno mai prese in seria considerazione.

Poi il decreto legge passa alle definizioni, che pare siano state il problema maggiore da affrontare, ma con esisti assai discutibili, visto che ‘si fa di tutte le erbe un fascio’, come si suol dire.

«I termini bosco, foresta e selva sono equiparati» anche a fini di sfruttamento, dimenticando che le antiche foreste e le peccete piantate sono di diverso valore, e contravvenendo a quanto scritto prima sulla tutela del bosco. Ma poi si fa la solita pastetta all’italiana, permettendo però tutto al privato e si scrive: «Per le materie di competenza esclusiva dello Stato, sono definite bosco le superfici coperte da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento». (Art. 3). Per le proprietà private non è dato sapere. Inoltre dopo esser stati pagati per creare delle norme comuni, coloro che hanno steso il testo danno ampia facoltà alle Regioni di fare quel che vogliono scrivendo: «Le regioni, per quanto di loro competenza e in relazione alle proprie esigenze e caratteristiche territoriali, ecologiche e socio-economiche, possono adottare una definizione integrativa di bosco rispetto a quella dettata al comma 3, nonché definizioni integrative di aree assimilate a bosco e di aree escluse dalla definizione di bosco», in sintesi come diceva l’on. Giorgio Zanin al convegno di Paluzza il 15 settembre 2018, ormai la legge non è normativa, ma dico io, di applicazione facoltativa, cioè di ‘indirizzo’. Ma senza norma uno Stato diventa preda del più forte e delle varie mafie.

Quindi si passa nuovamente ai soliti intenti generici, che sono propri ormai di leggi nazionali interpretabili, e senza copertura economica.

Al comma 7 poi, non si dettano di fatto indicazioni precise e precisi divieti per la costruzione di piste forestali ad uso e consumo di un singolo privato, tanto che nella viabilità forestale e silvo -pastorale compaiono: «strade, piste, vie di esbosco, piazzole e opere forestali aventi carattere permanente o transitorio, comunque vietate al transito ordinario, con fondo prevalentemente non asfaltato e a carreggiata unica, che interessano o attraversano le aree boscate e pascolive». (art. 3).

L’ art. 4 si dilunga sulle aree assimilate al bosco, che però rimandano pure a norme regionali, e fra cui troviamo «fondi gravati dall’obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa idrogeologica del territorio, di miglioramento della qualità dell’aria, di salvaguardia del patrimonio idrico, di conservazione della biodiversità, di protezione del paesaggio e dell’ambiente in generale». Non da ultimo sono assimilate al bosco, e quindi pare si possano alterare sottoponendole a tagli, le formazioni di specie arboree, associate o meno a quelle arbustive, originate da processi naturali o artificiali e insediate su superfici di qualsiasi natura e destinazione anche a seguito di abbandono colturale o di preesistenti attività agro-silvo-pastorali, riconosciute meritevoli di tutela e ripristino dal piano paesaggistico regionale. Insomma tutto si può tagliare, senza tener conto del valore del bosco come polmone naturale e via dicendo.

E come non dare ragione all’autore dell’articolo intitolato: “La nuova legge forestale: un’aggressione ai boschi italiani. Il trionfo della motosega”, in: http://www.vasonlus.it/?p=59601,che, riferendosi a questo decreto legge, così scrive: «Il capolavoro è stato concepito dal Governo, dalla filiera del legno, da comunità locali e regioni e l’obiettivo unico che si pone è lo sfruttamento economico delle risorse forestali, con turni di taglio costanti e possibilità di realizzare strade di servizio e piste “temporanee” per facilitare l’azione albericida generalizzata»?

Infine l’art.5 indica le aree escluse dalla definizione di bosco «per le materie di competenza esclusiva dello Stato», come i privati non agissero in contesto statale italiano e nazionale, fatto salvo quanto previsto dai piani paesaggistici regionali, ed altre eccezioni.

Quindi la legge enuclea gli aspetti relativi alla “Programmazione e pianificazione forestale” definiti pure «con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, adottato di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo e il Ministro dello sviluppo economico e d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano».

Pare però che detta pianificazione spetti alle Regioni, anche se esse devono individuare i propri obiettivi e definire le relative linee d’azione in coerenza con la Strategia forestale nazionale adottata, che non si sa quale sia. In particolare i Programmi forestali regionali devono tener conto delle specifiche esigenze socio-economiche, ambientali e paesaggistiche, nonché della necessità di prevenzione del rischio idrogeologico, e della mitigazione ed adattamento al cambiamento climatico.
E qui mi perdo io, perché mi pare che si dovesse prevenire e non adattarsi al rischio climatico. Inoltre sinora non ho letto linee statali ma solo finalità generiche, e di fatto una delega totale alle Regioni in un settore così delicato. Ma purtroppo l’ambiente naturale non ha confini regionali, e danni provocati da una norma regionale, potrebbero riversarsi su altri contesti in altre regioni che applicano regole diverse. È vero che i piani ‘possono’ venir redatti da più regioni insieme, ma non ‘devono’.

Inoltre «le regioni possono predisporre, nell’ambito di comprensori territoriali omogenei per caratteristiche ambientali, paesaggistiche, economico-produttive o amministrative, piani forestali di indirizzo territoriale, finalizzati all’individuazione, al mantenimento e alla valorizzazione delle risorse silvo-pastorali e al coordinamento delle attività necessarie alla loro tutela e gestione attiva, nonché al coordinamento degli strumenti di pianificazione forestale». (Art. 6 comma 3).
Ma anche qui il problema è dato da quel ‘possono’ non ‘devono’, il che pone una aleatorietà negli interventi non di poco conto. Inoltre qui la logica a me viene nuovamente meno quando si viene a sapere che «i piani forestali di indirizzo territoriale concorrono alla redazione dei piani paesaggistici», (art. 6 comma 3), mentre, invece, i piani paesaggistici dovrebbero condizionare i piani forestali, che, se ho ben compreso, hanno finalità economiche.

Inoltre non si sa perché le Province Autonome di Trento e Bolzano abbiano, in questo testo che doveva essere normativo, tanto potere a livello nazionale, quando esiste la Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol, dando a questo territorio una valenza enorme nelle scelte dei criteri minimi nazionali inerenti agli scopi, alle tipologie e alle caratteristiche tecnico-costruttive della viabilità forestale e silvo-pastorale, ed alle opere connesse alla gestione dei boschi ed alla sistemazione idraulico-forestale.
Infatti, per quanto riguarda  la viabilità forestale e le opere idrauliche, di cui si parla all’art.9, al di là delle solite generiche finalità, si rimanda a quanto verrà previsto con apposito decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, adottato di concerto con il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.

L’art. 7 della legge disciplina le attività forestali, ma vedremo come. Il primo comma definisce quali sono le attività di gestione forestale, con riferimento alle norme regionali, e che comprendono:   interventi colturali di difesa fitosanitaria, interventi di prevenzione degli incendi boschivi, rimboschimenti ed imboschimenti, interventi di realizzazione, adeguamento e manutenzione della viabilità forestale al servizio delle attività agro-silvo-pastorali, opere di sistemazione idraulico-forestale, fino alla prima commercializzazione dei prodotti legnosi quali tronchi, ramaglie e cimali, se svolta congiuntamente ad almeno una delle pratiche o degli interventi predetti. Infine si precisa che «tutte le pratiche finalizzate alla salvaguardia, al mantenimento, all’incremento e alla valorizzazione delle produzioni non legnose, rientrano nelle attività di gestione forestale». (Art. 7 comma 2).
In sintesi per tutta una serie di attività genericamente esposte, che vanno dalla commercializzazione del legno, ai rimboschimenti, alla erboristeria si possono chiedere contributi statali ma in particolare regionali, se ho ben compreso, da parte anche di ditte straniere.

Quindi si indicano i compiti delle regioni, che non potevano esser scritti in modo più vago. «Le Regioni definiscono e attuano le pratiche selvicolturali più idonee al trattamento del bosco, alle necessità di tutela dell’ambiente, del paesaggio e del suolo, alle esigenze socio-economiche locali, alle produzioni legnose e non legnose, alle esigenze di fruizione e uso pubblico del patrimonio forestale anche in continuità con le pratiche silvo-pastorali tradizionali o ordinarie». Inoltre «Le regioni disciplinano, anche in deroga alle disposizioni del presente articolo, le attività di gestione forestale coerentemente con le specifiche misure in materia di conservazione di habitat e specie di interesse europeo e nazionale». (art. 7 comma 3-4).
Infine si concede alle Regioni di normare, anche in deroga alle disposizioni di legge, le attività di gestione forestale coerentemente con le specifiche misure in materia di conservazione di habitat e specie di interesse europeo e Nazionale. (art. 7 comma 4). Ma se le Regioni possono disciplinare anche in deroga al testo nazionale, allora lo stesso è inutile.

Ma scusate quanto abbiamo pagato questi signori, anche dirigenti della forestale, per produrre una delega quasi totale alle Regioni in materia? Bastava un: ‘Le Regioni facciano come pare loro’, magari stando attente a non difendere troppo l’interesse pubblico, e non sarebbero serviti anni per stendere questo decreto che, per me è una schifezza …

Inoltre la delega regionale, con i soliti ‘però’, continua anche per quanto previsto dal comma 5 lettera c): «è sempre vietata la conversione dei boschi governati o avviati a fustaia in boschi governati a ceduo, fatti salvi gli interventi autorizzati dalle regioni e volti al mantenimento del governo a ceduo in presenza di adeguata capacità di rigenerazione vegetativa, anche a fini ambientali, paesaggistici e di difesa fitosanitaria, nonché per garantire una migliore stabilità idrogeologica dei versanti».

Quindi si viene a sapere che l’approvazione dei piani forestali è di competenza regionale, e «Le regioni, nel rispetto dell’interesse comune, garantiscono e curano l’applicazione dei piani forestali di indirizzo territoriale, anche attraverso le forme di sostituzione diretta o di affidamento della gestione prevista dall’art. 12». Ed attraverso lo strumento dei piani territoriali, le regioni definiscono: le destinazioni d’uso delle superfici silvo-pastorali ricadenti all’interno del territorio sottoposto a pianificazione, i relativi obiettivi e gli indirizzi di gestione necessari alla loro tutela, gestione e valorizzazione; le priorità d’intervento necessarie alla tutela, alla gestione e alla valorizzazione ambientale, economica e socio-culturale dei boschi e dei pascoli ricadenti all’interno del territorio sottoposto a pianificazione; il coordinamento tra i diversi ambiti e livelli di programmazione e di pianificazione territoriale e forestali vigenti, in conformità con i piani paesaggistici regionali e con gli indirizzi di gestione delle aree naturali protette nonchè le infrastrutture. Inoltre sempre alle Regioni è demandato il compito di promuovere, per le proprietà pubbliche e private, la redazione di piani di gestione forestale o di strumenti equivalenti, riferiti ad un ambito aziendale o sovraziendale di livello locale, ma la cui stesura, pare, può esser demandata a privati.

Insomma il pensiero che le Regioni possano fare e disfare a piacimento continua ad esser rafforzato, come il fatto che lo Stato con questa legge demandi alle stesse ogni singolo aspetto, elencandolo minuziosamente, ma con incertezze nella comprensione di un testo che non norma nulla, a meno che normare non significhi demandare ad altri. Ma un altro problema si profila all’orizzonte. ‘Con che personale le Regioni esplicheranno tutti questi compiti a loro assegnati?

Continuando poi a leggere questo decreto appena nato ma scritto in un’ottica economicistica e di sfruttamento dell’ambiente, (Cfr. nel merito il mio: “Bosco tra “asset strategico” e tutela di territorio e paesaggio. Alcune considerazioni ai margini di un convegno”, in www.nonsolocarnia.info.) si rileva come sempre alle Regioni, in modo generico, senza limite alcuno, spetti la promozione, per le proprietà pubbliche e private, della redazione di piani di gestione forestale o di strumenti equivalenti, riferiti ad un ambito aziendale o sovraziendale di livello locale, quali strumenti indispensabili a garantire la tutela, la valorizzazione e la gestione attiva delle risorse forestali» (art. 6 comma 6), ove non si capisce cosa sottintenda il termine “promozione”, e se il parere richiesto per i piani di gestione ma solo sulla creazione di nuove piste forestali o l’adeguamento di quelle già presenti sia vincolante o meno. (Ibid.).

Al punto 7 dell’articolo 6 finalmente si viene a sapere che saranno definiti, con decreto del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, «criteri minimi nazionali di elaborazione dei piani forestali di indirizzo territoriale», che però io non ho ancora letto, e che se forse sono tanto minimi potrebbero solo evitare un disastro epocale dato da questa legge, che noi ci chiediamo come abbia potuto esser firmata con un testo di questo tipo, e se i firmatari l’abbiano mai letta.

Quindi agli articoli 7 e seguenti continua la sequela di deleghe alle regioni in materia, senza che si veda indicazione statale alcuna, con persistenti: “Le Regioni definiscono, le Regioni disciplinano …, le Regioni individuano … quasi che non si fosse scritto prima che i boschi sono un patrimonio della Nazione; e finalmente solo al comma 6 dell’art. 7 si trova un divieto al taglio raso, fatte salve alcune eccezioni di interesse pubblico …

Ma poi alla lettera b) del comma 6 dell ‘art.7 si legge già il solito però: «è sempre vietata la pratica selvicolturale del taglio a raso nei boschi di alto fusto e nei boschi cedui non matricinati, fatti salvi gli interventi autorizzati dalle regioni o previsti dai piani di gestione forestale o dagli strumenti equivalenti, […] purché siano trascorsi almeno cinque anni dall’ultimo intervento, sia garantita un’adeguata distribuzione nello spazio delle tagliate al fine di evitare contiguità tra le stesse, e a condizione che sia assicurata la rinnovazione naturale o artificiale del bosco; ed alla lettera c) viene posto un nuovo divieto, discrezionale. Infatti si legge che è sempre vietata la conversione dei boschi governati o avviati a fustaia in boschi governati a ceduo, fatti salvi gli interventi autorizzati dalle regioni …. Il che mi fa venire tristi pensieri su quanto abbiamo speso noi cittadini, se è vero quello che narrava la dott. Stefani, per viaggi, convegni, incontri, ecc. durati anni per produrre questo testo, sperando che tra gli accordi previsti da questo obbrobrio tra le Regioni e i competenti organi territoriali del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, e quelli solo tra Regioni, non vada a finire che dobbiamo mantenere altri funzionari in giro ed in viaggio per la penisola, in piena crisi economica, quando viene persino tagliata l’acqua a poveracci, bene dato da Dio non a Cafc ma a tutti per la vita, e con la scusa dei tubi a noi sottratta.

E per fortuna, penso tra me e me, che l’Europa, prima la C.E., poi la U.E., hanno posto qualche paletto, a cui il governo italiano deve attenersi forse ‘obtorto collo’. (Cfr. per esempio, art. 8 comma 2).

Inoltre non mancano, nel testo, alcuni casi di trasformazioni del bosco, pare a completa cura e spese del destinatario dell’autorizzazione alla trasformazione (art. 8 commi 3 e 4), ma anche in questo caso leggendo non si capisce bene; quindi, per fortuna ci si ricorda che alcuni boschi proteggono gli abitati, di cui ci si ricorda solo al comma 7 dell’ articolo 8, «I boschi aventi funzione di protezione diretta di abitati, di beni e infrastrutture strategiche, individuati e riconosciuti dalle regioni, non possono essere trasformati e non può essere mutata la destinazione d’uso del suolo, fatti salvi i casi legati a motivi imperativi di rilevante interesse pubblico nonché le disposizioni della direttiva 2004/35/ CE e della relativa normativa interna di recepimento».

Per quanto riguarda, poi, la ‘Promozione ed esercizio delle attività selvicolturali di gestione’ si rimanda ancora alle Regioni, con i soliti intenti generali, mai specifici. Inoltre non ho chiaro come le Regioni possano promuovere «la crescita delle imprese che operano nel settore forestale e ambientale, della selvicoltura e delle utilizzazioni forestali, nella gestione, difesa, tutela del territorio e nel settore delle sistemazioni idraulico-forestali, nonché nel settore della prima trasformazione e commercializzazione dei prodotti legnosi quali tronchi, ramaglie e cimali», e dietro queste parole mi pare di scorgere un’ottica di imprese centralizzate con molti compiti, in una visione che uccide il piccolo e promuove il grande, e per la quale nulla viene chiesto alle stesse, ma solo che le si sostenga forse con soldi e norme a favore, o che ne so.

Inoltre al comma 6 art. 10, si potrebbe intuire la legalizzazione del sub- appalto, perché si legge che: «Le cooperative forestali e i loro consorzi che forniscono in via prevalente, anche nell’interesse di terzi, servizi in ambito forestale e lavori nel settore della selvicoltura, ivi comprese le sistemazioni idraulico-forestali, sono equiparati agli imprenditori agricoli».

Infine le regioni possono dare in appalto, per la gestione attiva, terreni pubblici a privati, assicurandosi che resti inalterata la superficie, e fin qui si comprende anche come, ma pure la stabilità ecosistemica, la destinazione economica e la multifunzionalità dei boschi, che non si sa, con la forestale passata ai carabinieri da chi e come verranno salvaguardate, al di là della genericità dei fattori da valutare.
Per esempio vorrei che qualcuno mi spiegasse come si può valutare la stabilità ecosistemica dei boschi, mentre non si legge in alcuna parte del testo qualcosa di specifico sulla manutenzione dell’ambiente naturale ed antropico, sul bosco polmone naturale del territorio, nulla di nulla sulla salvaguardia delle vecchie foreste, e via dicendo.

Inoltre non si capisce perché «costituisca titolo preferenziale ai fini della concessione in gestione delle superfici forestali pubbliche, la partecipazione di imprese iscritte negli elenchi o negli albi di cui al comma 2 ed aventi centro aziendale entro un raggio di 70 chilometri dalla superficie forestale oggetto di concessione». Così basta che una ditta, magari non si sa quanto ‘ pulita’ ed ‘ affidabile’ ponga la sede legale in uno sgabuzzino a meno di 70 km dalle superfici forestali pubbliche per averne in mano la gestione.

Questo testo pare scritto da quelli della Leopolda uniti a quelli di Confindustria, penso tra me e me, mentre incomincio a pensare che non avesse torto Gian Luigi Gasca che intitolava un suo pezzo: “Nuova legge forestale: un assalto ai boschi italiani?” (https://www.montagna.tv/cms/119090/nuova-legge-forestale-un-assalto-ai-boschi-italiani/).

Inoltre al comma 5 art. 10, si legge che «le regioni promuovono l’associazionismo fondiario tra i proprietari dei terreni pubblici o privati, nonché la costituzione e la partecipazione ai consorzi forestali, a cooperative che operano prevalentemente in campo forestale o ad altre forme associative tra i proprietari e i titolari della gestione dei beni terrieri, valorizzando la gestione associata delle piccole proprietà, i demani, le proprietà collettive e gli usi civici delle popolazioni». Ora mi pare importante la valorizzazione degli usi civici, ma sembra che per esempio la Regione Fvg non si sia poi spesa poi molto per questo problema la legge poteva spendersi un po’ di più.

Ed ancora: «Le regioni promuovono la certificazione volontaria della gestione forestale sostenibile e la tracciabilità dei prodotti forestali, l’utilizzo di prodotti forestali certificati nelle politiche di acquisto pubblico» (art. 10 comma 10), ma non si sa, se non in rari casi, con che personale, perché la guardia di finanza non è regionale, come non lo sono i carabinieri. Insomma questa legge pare fuori dal mondo reale.

L’art. 11 demanda pure alle Regioni una serie di compiti relativi alla valorizzazione commerciale dei prodotti forestali, mentre, per fortuna, precisa che: «I diritti di uso civico di raccolta dei prodotti forestali spontanei non legnosi sono equiparati alla raccolta occasionale non commerciale, qualora non diversamente previsto dal singolo uso civico».

Infine non di poco conto è quanto scritto nell’ art. 12 ai commi 1 e 2 che così recitano: «Per la valorizzazione funzionale del territorio agrosilvo-pastorale, la salvaguardia dell’assetto idrogeologico, la prevenzione e il contenimento del rischio incendi e del degrado ambientale, le regioni provvedono al ripristino delle condizioni di sicurezza in caso di rischi per l’incolumità pubblica e di instabilità ecologica dei boschi, e promuovono il recupero produttivo delle proprietà fondiarie frammentate e dei terreni abbandonati o silenti, anche nel caso vi siano edificazioni anch’esse in stato di abbandono».

«I proprietari e gli aventi titolo di possesso dei terreni di cui al comma 1 provvedono coordinatamente e in accordo con gli enti competenti alla realizzazione degli interventi di gestione necessari per il ripristino o la valorizzazione agro-silvo-pastorale dei propri terreni».
Se poi chi possiede un pezzetto di bosco è un poveraccio, niente paura: il pezzetto di bosco può essergli sottratto ed i lavori possono venir compiuti favorendo l’imprenditoria privata giovanile, il che è una specie di furto di proprietà al più povero. Almeno io capisco così.
In genere quindi, si finanza l’imprenditoria privata magari multinazionale e si nega aiuto a chi ha un fazzolettino di terra, il che non è certo il top per uno stato democratico.

Ora a me pare che con questa legge il governo riconosca il bosco in generale come bene di valore nazionale, ma poi non voglia spendere un penny per la sua valorizzazione, per il suo mantenimento, per attività di carattere idro-geologico e via dicendo, demandando tranquillamente la materia alle Regioni, che sono 20, e potrebbero anche legiferare in modo non univoco, pure su aspetti non di loro competenza.

Inoltre pare fuori luogo che le regioni, possano non debbano, utilizzare somme non richieste per risarcimenti in attività di prevenzione dissesti ed incendi ecc. (Art. 12 comma 5); e non si capisce che azioni si debbano coordinare a livello ministeriale se è tutto affidato alle regioni, il che creerà il caos, e comunque in assenza di fatto di norme unificanti nazionali, cioè con la possibilità che uno faccia una scarpa ed uno uno zoccolo. A questo punto mi chiedo se esista davvero una Strategia forestale Nazionale o se siano solo parole, parole, parole ….

Infine, in chiusura, il testo di legge ci avvisa, all’ art. 17, che «fatte salve le competenze delle regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano […] Nelle more dell’adozione dei decreti ministeriali e delle disposizioni di indirizzo elaborate ai sensi del presente decreto restano valide le eventuali normative di dettaglio nazionali e regionali vigenti», tranne quanto previsto dal decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 227, abrogato. E il legislatore si premura di avvisare che: «Le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti previsti dal presente decreto con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente». (Art. 19 comma 1), facendo finta di non sapere che molte regioni hanno bilanci in rosso.

INSOMMA QUESTA PARE UNA LEGGE CHE SBOLOGNA IL PATRIMONIO NAZIONALE ALLE REGIONI ED AI PRIVATI, CHE NON VUOLE INVESTIRE IN UN PATROMONIO NATURALE COSÌ AMPIO, CHE NON SCEGLIE SUI PROBLEMI PIÙ IMPORTANTI SUL TAPPETO, CHE NON CI SERVIVA, E CHE È SERVITA SOLO PER INCONTRI E VIAGGI DI COMMISSIONI, A NOSTRE SPESE. E SE ERRO O NON HO COMPRESO BENE QUESTO TESTO, PER CORTESIA CORREGGETEMI.

In chiusura, in attesa che qualcuno magari più esperto di me scirva le positività del testo normativo, rimando nuovamente al mio: Bosco tra “asset strategico” e tutela di territorio e paesaggio. Alcune considerazioni ai margini di un convegno.

In esso si leggono, pure, le richieste poste da chi con il bosco lavora ai rappresentanti del Ministero:

  • Affrontare il discorso di una risorsa come il legno, nella maniera più prospettica possibile nel tempo, in modo che si possa sfruttare il bosco seguendo una linea oculata, strategica, sostenibile.
  • Normare, attraverso documenti e meccanismi di sostegno, della capacità dei territori di organizzarsi in filiere o in circuiti economici che consentano, in primo luogo di costruire processi di difesa dell’economia locale, e, successivamente, di confrontarsi con il mercato.
  • Individuare in modo preciso quali siano le competenze centrali e quali siano quelle regionali, ai fini di una corretta definizione degli ambiti di competenza e quindi di indirizzo e di gestione, superando, mi pare di capire, documenti come quello interregionale delle Regioni del Nord, siglato a Verona nel febbraio 2016, che già detta linee e tempi ma solo per una parte del territorio italico, pur prendendolo come riferimento e fonte.
  • La tutela delle piccole ditte, e valorizzazione del prodotto anche dal punto di vista della commercializzazione, tema trattato, nella proposta di legge, solo in riferimento ai materiali forestali di moltiplicazione.
  • Dare importanza di una mappatura statistica del bosco italiano.
  • L’utilizzazione di prodotti secondari del bosco.
  • Il miglioramento colturale del bosco per avere un prodotto di maggior qualità, anche se il tipo di legno ha valore di mercato diverso, dico io. Una cosa è il noce, altro il peccio.
  • Imporre la vendita del legname non a corpo ma all’imposto, come anche sostenuto dalla Regione Fvg, che favorisce detta pratica attraverso incentivi (cfr. legge regionale 23 aprile 2007).
  • Affrontare il problema dei controlli sulle attività boschive, a tutela dei proprietari venditori, dell’impresa boschiva, della sicurezza dei lavoratori, ed a contrasto della diffusa illegalità ancora esistente nel settore.
  • La certificazione del legname.
  • L’inquinamento da emissioni di CO2 con l’uso di legno e pellet per riscaldamento.
  • Piste forestali, loro normativa, e analisi dell’impatto ambientale.

Ditemi un po’ voi lettori, se essi siano stati adeguatamente trattati in questo Decreto Legge.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo stata da me scattata.  Laura Matelda Puppini

 

Pieri Stefanutti. Il punto sull’eccidio di Avasinis, tra memorie e ricerche storiche.

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Bene ha fatto Laura Matelda Puppini su “Non solo Carnia” http://www.nonsolocarnia.info/laura-matelda-puppini-avasinis-2-maggio-1945-e-fu-una-strage-di-vecchi-donne-bambini/  a cercare di riportare l’attenzione sul tragico eccidio di Avasinis, occorso a guerra praticamente finita, 73 anni fa, il 2 maggio 1945.

Essendomi occupato a lungo della vicenda ed avendo cercato di portare un contributo alla ricostruzione dei fatti, mi permetto di aggiungere alcune considerazioni.
Si tratta di una pagina dolorosa dai contorni non del tutto chiariti.
A più di settant’anni di distanza,  se conosciamo abbastanza bene le dinamiche dell’eccidio, non sappiamo ancora  con precisione quali siano state le forze in campo né soprattutto quali siano state le motivazioni scatenanti. E’ forse semplicistico parlare di “attacco alle truppe nazi – fasciste in ritirata e da cui originò la rappresaglia” poiché  non si sa ancora se tale atto ci sia stato, né quando, né dove; non si sa se l’azione su Avasinis sia stata una rappresaglia, una reazione istintiva o preventivamente deliberata: vi sono indizi ed elementi che sembrano ora spingere in una direzione ora in un’altra.

Per comprendere le diverse fasi legate alla ricostruzione dell’episodio e le varie ipotesi in campo, è forse opportuna una premessa cronologica per ricordare quali siano state le principali tappe delle ricerche sul 2 maggio di Avasinis.

La notizia dell’avvenuta strage di Avasinis è comparsa per la prima volta sulla stampa in un articolo sul quotidiano “Libertà” del 12 maggio 1945 e poi nell’inchiesta giornalistica, di  Chino Ermacora,  che ne ha dato poi relazione nel suo “La Patria era sui monti”. Una prima ricostruzione articolata dei fatti è stata pubblicata nel 1965 sul Bollettino Parrocchiale di Avasinis, contestualmente alle commemorazioni per il ventesimo anniversario dell’eccidio; nello stesso anno G.A. Colonnello nel suo “Guerra di Liberazione in Friuli” ha dedicato un capitolo ai fatti di Avasinis.. Nel 1968 è uscito il primo volume dell’Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza che ha fatto conoscere, a diffusione nazionale, i tratti essenziali della vicenda, riportando anche l’elenco dei nomi delle vittime. Ricerche a più riprese sulla dinamica della strage sono state compiute da Pier Arrigo Carnier, che ne ha dato conto nel volume Lo sterminio mancato del 1982 ed in diversi contributi successivi. In ambito locale, la vicenda di Avasinis è stata illustrata, oltre che sul citato numero speciale del Bollettino Parrocchiale del 1965,  attraverso la pubblicazione del diario di don Zossi quando don Terenzio Di Gianantonio, che lo aveva ricevuto in consegna, ne ha autorizzato la pubblicazione: è uscito un volume edito nel 1996 (con una successiva riedizione aggiornata nel 2015) dal Comune di Trasaghis di cui ho curato la documentazione integrativa e in cui, soprattutto, il diario è stato proposto integralmente, addirittura con riproduzione fotografica dell’originale manoscritto, per evitare l’insorgere di ricostruzioni fantasiose.

Accanto alla pubblicazione del Diario, va ricordata la realizzazione del video “Avasinis luogo della memoria” di Dino Ariis (distribuito dal Comune a tutte le famiglie) con lo spazio dato alle testimonianze dirette di quei dolorosi momenti. Per inciso, va sottolineato come il video “Avasinis luogo della memoria” e, soprattutto, il materiale pubblicato a corredo del Diario di don Zossi facciano ampio uso delle testimonianze orali, su cui si è discusso più volte anche su “Non solo Carnia (v. p. es. http://www.nonsolocarnia.info/l-m-puppini-lu-ha-dit-lui-lu-ha-dit-iei-luso-delle-fonti-orali-nella-ricerca-storica-la-storia-di-pochi-la-storia-di-tanti/ ). Nei due casi citati le testimonianze non sono prese e accettate acriticamente bensì suddivise per argomenti e momenti, confrontate e raffrontate, proprio per offrire una forma di “filtro” capace di tentare di arrivare alla sostanza e all’effettiva modalità di svolgimento dei fatti.

Tornando ai più recenti contributi bibliografici, si può ricordare che l’episodio è stato ampiamente citato nella corposa ricerca di Stefano Di Giusto “Operationszone Adriatisches Kustenland” (Ifsml 2005), nella Enciclopedia Tematica del Friuli V.G. (2006), nel libro di Giorgio Liuzzi “Violenza e repressione nazista nel Litorale Adiatico” (Irsml 2014) e, infine, nell’ampio progetto dell’Insml dell’Atlante delle stragi nazifasciste, per citare le edizioni maggiormente rilevanti.

C’è dunque una bibliografia abbastanza ricca, eppure… i dubbi non sono stati ancora del tutto risolti, nonostante siano stati oggetto di diverse ricerche storiografiche.

Alla base di tutto, c’è un intervento in zona di reparti tedeschi (concordemente indicati come SS) che, nel mattino del 2 maggio 1945, penetrano in paese e compiono una strage.
La prima domanda che ci si pone è dunque “perché”.

Un primo filone di ricerca porta a definire la strage come una reazione, forse istintiva, forse obbligata (c’è chi parla di “legittima rappresaglia”) a un attacco partigiano. C’è infatti chi dice che gli autori dell’eccidio siano arrivati ad Avasinis dopo un attacco partigiano sulla strada statale, chi sostiene che siano stati attaccati mentre si erano fermati a Trasaghis, chi afferma che siano stati attaccati sulla strada, mentre si ritiravano in direzione di Tolmezzo.
Va comunque senz’altra smentita l’ipotesi avanzata su “Non solo Carnia”: “gli uomini erano andati in montagna; vi erano sui colli partigiani e qualcuno di loro forse sparò sui tedeschi in ritirata sulla strada Nazionale, facendoli volgere ad Avasinis, tanto da far dire a don Zossi, prete del paese, che si doveva rispettare il detto «Al nemico in fuga, ponti d’oro»”.
È impossibile, dai colli sopra Avasinis, colpire qualcuno sulla Nazionale: lo impediscono la balistica e l’orografia.

Altre versioni, più recenti, ribaltano il problema ritenendo che la strage di Avasinis sia stata preordinata, individuandola come un’azione punitiva verso il complesso delle attività partigiane nella zona, oppure per contrastare alcune azioni partigiane avvenute nei giorni immediatamente precedenti.
Tante versioni, tante ipotesi, dunque, di fronte alle quali risulta difficile individuare quella maggiormente valida.

Da dove sono partiti? E’ probabile vi sia una relazione con le colonne in ritirata sulla Statale Pontebbana, in particolare con le SS transitate per Gemona e Ospedaletto (nell’ipotesi di un ordine partito da lì). A proposito delle cause scatenanti, il ricercatore P.A. Carnier sostiene che l’azione su Avasinis fu una reazione ad un attacco partigiano sulla Statale:  “fu a quell’altezza [Ospedaletto] che, sulla nazionale, dei partigiani che poi furono visti ritirarsi in direzione di Avasinis con degli attacchi sporadici causarono diversi morti nelle colonne in ritirata. Di conseguenza, nel pomeriggio del primo maggio 1945, una parte delle forze di protezione venne spostata, come misura di sicurezza e per dare una lezione punitiva, motivata dalle vittime, verso Avasinis e si appostò nei dintorni” (Il Gazzettino, 14 novembre 2005).

Ora, di un attacco a colonne tedesche sulla Statale accenna solo, nel suo diario, il parroco di Avasinis dell’epoca, don Zossi: non esistono riscontri documentari che confermino tale episodio. Se vi fosse stata effettivamente un’azione partigiana di tale portata, di essa sarebbe rimasta memoria nella memorialistica resistenziale. Senza contare che, da Ospedaletto, è impossibile dire che qualcuno fu visto “ritirarsi in direzione di Avasinis”: dalla statale si poteva, nella stessa direzione, raggiungere indifferentemente Bordano, Trasaghis, Peonis, Osoppo… numerose località, quindi. Perché proprio Avasinis?
Il comportamento delle SS, una volta valicato il Tagliamento, contrasta con l’immagine di un inseguimento istintivo e rabbioso.

Le SS che giunsero nel Comune di Trasaghis nel pomeriggio del 1° maggio (e che compirono poi il giorno successivo la strage di Avasinis)  tutto erano infatti fuorché un reparto lanciato all’inseguimento di un gruppo partigiano: transitarono infatti ordinatamente sul Tagliamento all’altezza del ponte di Braulins (senza dimostrare eccessiva preoccupazione per alcuni spari partigiani tirati dalle alture sovrastanti), giunsero nel paese di Trasaghis dove si organizzarono per trascorrere la notte, non prima di avere piazzato dei mortai sulla collina del Montisel, sopra il paese, e di avere spinto un plotone, con armati e salmerie, a compiere una vasta azione di accerchiamento sulle montagne al lato opposto della valle, lungo il Col del Sole.

Non è mai stato chiarito esaurientemente se le truppe stazionanti a Trasaghis e sulle alture del Montisel siano state attaccate dai partigiani: esistono al proposito versioni assai contrastanti.

Nella prima mattinata del giorno successivo, 2 maggio, l’azione delle SS scattò comunque implacabile: il paese venne fatto segno di colpi di mortaio e circondato; alcune postazioni partigiane sulle alture sovrastanti vennero accerchiate ed i pochi uomini della Resistenza presenti costretti ad una fuga precipitosa; di lì a poco i soldati penetrarono in paese da direzioni diverse e compirono la strage di cui si è detto.

Relativamente alle prime azioni precedenti la strage, la stessa “fonte primaria”, don Zossi, non è univoca: tanto per fare un esempio, il sacerdote nel Libro storico dice “al mattino del giorno 2 maggio i nostri partigiani cominciano a tirare dal ciglione sopra il cimitero“, mentre nel Diario dice   che “i tedeschi raggiungono il paese dopo una piccola resistenza opposta dai partigiani“; nella versione raccolta da Francesco Cargnelutti nel libro “Preti Patrioti” si dice che “i tedeschi puntano decisamente sul paese“, azione cui fa seguito “una sparatoria precisa“.

Le vittime della  strage furono 51, tra le quali 18 uomini e 26 donne, alcuni in età piuttosto avanzata (75, 76, 80, 81, 83 anni), nonché 7 tra ragazzi e bambini, da 2 a 11 anni: un’azione, dunque,  che sconfinò nel crimine  venendo a configurarsi come una vera e propria  “strage di innocenti”. Le esecuzioni avvennero infatti a casaccio, per le strade, all’esterno ed all’interno delle case, indifferentemente.

Il comportamento delle truppe nelle fasi successive desta ancora qualche perplessità: se la strage fosse stata il frutto di un’azione istintiva per rappresaglia contro azioni perpetrate su una colonna in ritirata, come si dice di solito, sarebbe stato normale che la colonna stessa avesse poi ripreso rapidamente la marcia; invece le truppe che avevano effettuato la strage provvidero a sgombrare le strade dai cadaveri, trasportandoli in alcune rogge fuori dal paese e, dopo aver piazzato delle sentinelle in posti strategici sulle alture sovrastanti e rinchiuso in alcune stanze i superstiti, si accinsero tranquillamente a passare il pomeriggio e la notte in paese (due ragazze, chiamate a preparar loro da mangiare, vennero poi seviziate e uccise anch’esse). Nella prima mattinata del 3 maggio, la partenza, verso il nord (vi sono testimonianze sul passaggio della colonna per Cavazzo, Tolmezzo, Paularo e quindi verso l’Austria).  Probabilmente non tutti seguirono però la colonna: che la formazione che aveva eseguito la strage era estremamente composita, essendo composta, oltre che da tedeschi, – per testimonianza concorde dei superstiti dell’eccidio – da altoatesini, istriani ed anche friulani (una composizione multietnica tipica, per esempio, delle Waffen SS Karstjäger, fortemente indiziate quali autrici del massacro).

Ora – è un’ipotesi che ho avanzato ancora nel 1996 e che spiegherebbe molte cose – non è improbabile supporre che, essendosi il 2 maggio stata comunicata la notizia della capitolazione delle armate naziste in Italia, i responsabili della formazione abbiano, proprio ad Avasinis, nelle ore successive alla strage, sciolto dall’obbligo di giuramento i militari non di nazionalità tedesca e che gli stessi siano stati lasciati liberi di proseguire con la colonna oppure di cercarsi  autonomamente una via di salvezza.
Ecco quindi la razzia di abiti civili effettuata nelle case, il successivo rinvenimento di divise abbandonate lungo i corsi d’acqua, la cattura, frammisti a colonne di ex prigionieri che cercavano faticosamente di rientrare ai propri paesi di residenza, di persone in abito borghese che indossavano ancora gli scarponi da soldato …
Diversi di questi fuggiaschi, o sbandati, vennero catturati dai partigiani e riportati ad Avasinis. Qui  un primo gruppo venne linciato dalla popolazione sulla piazza del paese. Nei giorni successivi altri catturati vennero passati per le armi fuori dall’abitato, nei pressi di corsi d’acqua (Leale e Tagliamento) della zona. Riguardo alla nazionalità dei catturati, dalle testimonianze dei presenti, non si parla infatti di tedeschi ma di istriani, goriziani, altoatesini.

Comunque, per anni non si è parlato  concretamente di indagini per accertare le responsabilità della strage. Si può forse ipotizzare che facesse più “comodo”  il diffondersi della “vulgata” che attribuiva ai partigiani la totale responsabilità  o che, anche, non si volesse riprendere la discussione sulla strage per non fare emergere discussioni  sulle uccisioni degli sbandati nazisti e dei prigionieri cosacchi avvenute dopo.

La strage di Avasinis, avvenuta il 2 maggio 1945 è parsa per un periodo riemergere dall’ombra, in quanto sia la Magistratura tedesca sia la Procura Militare di Padova hanno aperto istruttorie sul caso. Tali decisioni sono state prese dopo che il Comune di Trasaghis aveva segnalato nell’agosto 1995 al Documentationzenter di Vienna (il noto centro, diretto da Simon Wiesenthal, impegnato da anni nella individuazione e nella ricerca dei criminali di guerra nazisti) la presenza del caso, insoluto, di Avasinis, inviando contemporaneamente del materiale documentario sul fatto.  Tale materiale è stato inviato dal centro viennese alla magistratura tedesca che, esaminatolo, ha deciso di aprire un’inchiesta assegnandola, nel 1997 alla Procura di Wurzburg, che stava già compiendo indagini su eccidi nazisti commessi in Slovenia. Nelle indagini tedesche, nell’agosto del 2002 è venuto ad Avasinis un ispettore della Bundeskriminalact per effettuare indagini specifiche. Va ricordato anche che il “caso Avasinis” non pare essere presente tra i fascicoli contenuti nel famoso “armadio della vergogna” e che la Procura militare di Padova che effettua indagini sulle stragi naziste nel nord Italia, dopo aver ricevuto specifica richiesta da parte del Comune di Trasaghis nell’agosto 1996,  ha aperto una indagine, archiviandola però poi nel 2000, non avendo trovato riscontri probanti in merito alle responsabilità.

Anche la Procura tedesca, dopo aver effettuato altre indagini tra le quali l’interrogatorio di parecchi reduci della Divisione Karstjager, sospettata di avere responsabilità dirette nell’eccidio, ha archiviato il procedimento nel 2007.

All’azione della magistrature tedesca si è accompagnato parallelamente un interesse da parte dei mezzi di informazione in Germania, con articoli di Peter Engelbrecht e di Jim Tobias e con la realizzazione del documentario “Tatort Avasinis” trasmesso da una televisione bavarese.
Se è chiuso l’aspetto giudiziario, non si è certo conclusa la ricerca storiografica. Opportunamente, Laura M. Puppini segnala la recentissima uscita sull’ultimo numero di Storia Contemporanea in Friuli, rivista dell’Ifsml,  di un interessante articolo di Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi sull’incendio di Forni di sotto, la strage di Lipa e quella di Avasinis, alla ricerca di colpevoli e motivi unificanti  (Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, Forni di sotto, – Lipa- Avasinis: nuovi elementi su tre rappresaglie fasciste, in Storia contemporanea in Friuli, n.47, pp. 93-136).

La citazione non è però precisa quando riferisce di una  “possibile attribuzione della strage ad un gruppo comandato da Pjesz (nome non reperito) di cui facevano parte pure 34 italiani”. (Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, op. cit., nota 72, p. 133). Di Giusto e Chiussi, riprendendo quanto esposto nel libro “Globocnick’s men”, uscito negli Stati Uniti l’anno scorso, ipotizzano che “potrebbe essere plausibile che elementi dell’Abteilung R e delle SS-Wachmannschaften fossero aggregati ai reparti della Karstjager-Division dislocati nella zona di Trasaghis per proteggere ‘accesso alla Valle del Lago, o che siano stati inviati come rinforzi quando divenne chiara la presenza di elementi partigiani attestati presso Avasinis” e che quindi questi reparti “potrebbero aver effettuato la strage per ‘punire’ la popolazione civile per l’appoggio dato ai partigiani”. I due autori sottolineano, comunque, con onestà, che “tutte le ipotesi sui reparti che parteciparono alla strage sono basate solo su elementi indiziali, senza che vi sia alcuna prova concreta per identificare univocamente i responsabili o le loro unità”. (Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, op. cit., p. 136),

 

Dunque, nessuna prova concreta, a 73 anni di distanza. Il fatto è che, in fondo, di fronte ai fatti di Avasinis, si è assistito e si assiste ancora al permanere di posizioni preconcette, nel confronto – spesso caratterizzato dall’incomunicabilità – tra chi ritiene si debba dare solo e sempre addosso ai “todescs sassìns” o, d’altro canto,  ai “partigjans laris” e questo non ha certo aiutato né la serenità dei confronti né lo svolgersi delle ricerche.

Il lavoro è comunque complesso: è per esempio attivo da anni anche un Blog sull’argomento (http://blog.libero.it/2diMaj/) che presenta testimonianze, indicazioni bibliografiche, materiali di approfondimento (obiettivamente diradati, negli ultimi periodi, proprio per lo “stallo” in cui sta versando la ricerca).
Ormai, però, più che nelle aule giudiziarie, la vicenda va analizzata, nelle sue diverse, complesse  componenti, sul piano storico, per conoscere quello che è successo , per cercare di capirne  il perché.

La finalità ultima è comunque quella di evitare che possa essere considerata veritiera, col passare del tempo  e la perdita dei testimoni diretti, la frase di Longanesi: “Quando potremo conoscere la verità, essa non interesserà più a nessuno“.

Pieri Stefanutti

Le immagini inserite nell’ articolo mi sono giunte da Pieri Stefanutti che ringrazio, e rappresentano la copertina della pubblicazione del diario di don Zossi, il monumento alle vittime ad Avasinis, don Francesco Zossi. Laura Matelda Puppini 

 

Anna Squecco Plozzer, cavazzina, maestra tra Cleulis e Sauris.

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Anna Umberta Squecco Plozzer era mia nonna, una nonna molto buona con cui sono cresciuta, di cui mi ricordo che pensava a tutti, che da piccolissima mi permetteva di scaldarmi le manine ghiacciate tra i suoi seni, che aveva sempre qualche mentina colorata per me e per Marco, il mio gemello, che indossava, all’uso antico, sempre in casa un grembiule dalle ampie tasche. Fino al 1917 e subito dopo la fine della prima guerra mondiale, Anna era vissuta a Cavazzo Carnico, ove era nata in casa, come avveniva allora, il 5 novembre 1900. Anna abitava, da bambina, in Borgo Poscolle, in una casa che la nonna, anch’essa di nome Anna, aveva lasciato a Laura sua madre, rovinatasi con i terremoti del 1976, e sostituita da una casetta prefabbricata. 

Questa intervista è stata fatta da me e da Alido Candido, mio marito, il 24 aprile 1978, quarant’anni fa. Erano presenti pure i miei genitori: la dott. Maria Adriana Plozzer, laureatasi presso l’Università di Padova ed insegnante di lettere, ed il dott. Geremia Puppini, laureatosi a Firenze ed ispettore scolastico. Essa verrà pubblicata, per la sua lunghezza, in due parti.

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Vediamo ora insieme cosa mi ha raccontato.

Anna bambina e ragazza, fino al conseguimento del diploma di maestra.

Laura chiede a ‘nonna Anna’ informazioni sulla sua famiglia, sui bisnonni Laura Zanini e Giobatta Squecco.

Anna: «Cosa vuoi che ti racconti di particolare? Vivevamo anche noi come tutti nei paesi. Mio padre, quando ero bambina e ragazzina, partiva l’indomani di San Giuseppe per andare in Baviera a lavorare, come andavano gli operai del paese, lasciando a casa le donne, che li accompagnavano fin sullo stradone al di là del Tagliamento, portando loro la valigia con il gerlo. Raggiunto lo stradone, la scaricavano e gli uomini la prendevano e salivano sulla carrozza che li portava sino a Stazione per la Carnia dove c’era il treno che li avrebbe condotti lontano.
Poi le donne ritornavano a casa dove dovevano accudire ai figli ed alla stalla, lavorare la campagna, e rimanere sole fino al rientro del loro uomo, in autunno, verso i Santi. Non tutti però andavano a lavorare in Germania: vi era chi si recava in Austria, chi in Serbia od in Croazia, chi in Romania o in Bulgaria, ma sempre all’estero. Ed all’ estero andavano, con i padri, anche i figli adolescenti, ad imparare il mestiere.

Prima di emigrare, però, da bambini andavano a scuola, e mio padre mi ha raccontato che, inizialmente, c’era a Cavazzo un prete che faceva scuola, fino alla terza elementare. Poi, in genere, i ragazzi di Cavazzo raggiungevano Cividale, dove si trovano delle fabbriche tessili, e dove venivano impiegati per caricare le spolette che poi dovevano essere poste sui telai. In cambio ricevevano un po’ di polenta, mentre dovevano portarsi da casa il formaggio. Insomma la vita di questi ragazzini era fatta da lavorare, lavorare  tante ore al giorno, dormire poco, mangiare male e patire, finchè raggiungevano l’età, mi pare i quattordici anni, per unirsi ai muratori ed andare ad imparare il mestiere all’estero.

Questo però accadeva prima del Novecento, e l’ho sentito narrare, perché poi è stata istituita la scuola elementare, che era obbligatoria, mentre in precedenza non so se tutti andassero a scuola ed imparassero a leggere e scrivere.

I fratelli Squecco, di ‘chei di Squeta’, di cui faceva parte Tita, padre di Anna Squecco.  Da sinistra guardando la foto: Tita, Pieri, Mabil, Vigi, Colo’ Jacum, fotografati a Sonthofen di Immenstadt im Allgäu  – Baviera  – Germania. L’immagine è stata scattata nel Photographische Ateliers von F. (forse Fritz ndr) Heimhuber, a Sonthofen di Immenstadt. Detto studio fotografico funzionò nella cittadina tedesca probabilmente dal 1877 al 1963.

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Dopo l’istituzione della scuola statale, tutti dovevano frequentare sino alla terza elementare, sia i bambini che le bambine, e io credo che a Cavazzo quest’obbligo sia stato rispettato. Se poi uno non riusciva ad imparare a leggere e scrivere, voleva dire che era un povero diavolo, che non aveva la testa neppure per questo …

Vi erano, a Cavazzo, un maestro elementare per i maschi ed una maestra per le femmine, e le classi erano allora molto numerose, tanto che un maestro poteva avere anche una settantina di scolari. La maestra era mia zia Maria Zanini, ed aveva circa una settantina di alunne, che formavano una pluriclasse con prima, seconda e terza. Ed io non so come facesse a svolgere il programma per tutte, eppure lo faceva, e so che insegnava a tutte le bambine a cucire, e così anche a me. Infatti, due giorni alla settimana, venivano messe due panche, in fondo all’aula, ed a quelle che frequentavano la seconda e la terza mia zia insegnava il cucito ed il ricamo. La prima cosa che si apprendeva era il punto in croce, ed a fare l’alfabeto a punto in croce, poi si passava ad apprendere il punto erba, poi si iniziava a fare una federa, ed infine, le più grandicelle imparavano a fare una camicia. Allora non è come ora, e tutte le ragazze e le donne indossavano una camicia, e la facevano a mano.  Non così invece per i vestiti, che venivano confezionati dalle due o tre sarte che c’erano in paese, a cui si portava la stoffa comperata in negozio. Poteva però succedere anche a Cavazzo che da un vestito grande della madre si ricavasse uno piccolo per la figlia, o che da un vestito vecchio si ricavasse uno nuovo, questo si sa … A noi li faceva una mia zia.

 

La maestra Maria Zanini

Comunque erano ben pochi quelli che continuavano a studiare: e abbiamo proseguito gli studi, a Cavazzo Carnico, in tre: io, un’altra ragazza, ed un ragazzo. Non era usuale, allora, far studiare, le donne. Inoltre si faceva studiare una ragazza solo se dimostrava di essere intelligente e di avere capacità, altrimenti dicevano che erano soldi sprecati. Infatti dopo la terza elementare, per fare la quarta e la quinta bisognava spostarsi giornalmente a Tolmezzo o andare in collegio od in pensione, e non era spesa da poco.  Ma si poteva anche, successivamente però, fare solo la quarta elementare, e poi fare direttamente l’esame di ammissione per passare alla scuola media. Ma io ho frequentato l’istituto tecnico inferiore, che dipendeva dall’Istituto commerciale Zanon di Udine.

So, però, che c’erano operai che leggevano libri e cercavano di aumentare la loro cultura. Per esempio io ho trovato valige di libri, per lo più romanzi, di mio padre … Ma la mia famiglia era un caso particolare, ed a casa di mia nonna Anna, quando ero bambina, arrivava ogni giorno il ‘Corriere della Sera’, e settimanalmente la ‘ Domenica del Corriere’. Ed anch’io, ragazzina, di nascosto, cercavo libri da leggere, finché, un giorno, uno dei miei zii mi ha trovato che stavo leggendo un libro che non era adatto a me. Ma non mi ha dato uno scappellotto, perché ha capito che non lo avevo preso apposta, solo in famiglia si sono tutti arrabbiati con me.

Io avevo più zii materni che vivevano a Cavazzo Carnico. Mio zio Antonio Zanini era maresciallo dei carabinieri ed ha prestato servizio, fino al congedo, in Calabria, e quindi è rientrato in paese. Zio Girolamo Zanini era contabile a Gemona presso la fabbrica tessile Stroili, zio Giacomo Zanini lavorava la campagna e, successivamente, è diventato segretario della latteria sociale di Cavazzo. Lo zio Francesco, invece, ha lavorato all’estero molti anni, ed è rientrato solo quando è scoppiata la prima guerra mondiale.

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Ma, per ritornare a me, dopo aver frequentato a Tolmezzo l’Istituto Tecnico Inferiore, ho sostenuto gli esami integrativi ad Udine, e quindi ho iniziato a frequentare, più o meno quando è scoppiata la guerra del ’15-‘18, a San Pietro al Natisone le scuole normali, cioè le magistrali che allora si chiamavano così. Ma poi, nel 1917, ho dovuto scappare ed andare profuga in Liguria, ad Oneglia, ove ho finito le scuole normali e mi sono diplomata maestra».

Anna Umberta Squecco ritratta nel suo studio da Umberto Antonelli- Enemonzo.

Quindi Anna rientrò in Carnia, e cercò di occuparsi come maestra, anche se non era facile.

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Maestra a Cleulis.

«Appena diplomata maestra, fui mandata, con Elsa, a Cleulis. Era appena finita la guerra e lassù non si trovava una stanza per alloggiare e non si trovava niente da mangiare. Mi ricordo che è venuto ad accompagnarci il Direttore Didattico di Paluzza. Ed egli ha cercato per noi un alloggio. E cerca qui, cerca là, finalmente ha trovato una stanza di proprietà di una famiglia. Ma era un locale che si trovava un metro e mezzo sotto terra.
Comunque ci siamo adattate, rassegnate, perché non vi erano alternative, e la padrona ha messo lì un letto per noi. Ma il letto era così alto che per salire si doveva prendere una sedia, e quando si era nel letto si toccava, con la testa, quasi il soffitto.
Quindi hanno portato nella stanza uno di quei fornelletti da campo che usavano i soldati durante la guerra, ma il problema era che non avevamo nulla da cucinare né da mangiare.

Allora, la prima sera, la padrona, che abitava nei paraggi, ci ha proposto di acquistare da lei due patate ed un po’ di latte. E così abbiamo fatto.
Quindi il Direttore Didattico ci ha detto che l’indomani una di noi due si sarebbe recata alla scuola per le iscrizioni degli alunni, mentre l’altra si sarebbe recata a Paluzza a prendere qualcosa per mangiare, perché, ha aggiunto «non potete vivere senza mangiare».
Così io ho lasciato che la mia compagna andasse a fare la spesa, perchè pensavo fosse più abituata di me, ed io sono andata a fare le iscrizioni. Poi è iniziata l’attività scolastica. Ed io insegnavo in un’aula posta in canonica, e lei in un’aula posta in una casa.
Ed a Cleulis siamo state tre mesi.

Passati i tre mesi, ci hanno detto che dovevamo cambiare destinazione: che io ero stata destinata a Sauris, e la mia povera collega a Val di Lauco. Io non ero mai stata a Sauris, Lei non aveva mai visto Val di Lauco, e non era abituata a dormire da sola. Così, arrivata in Val di Lauco accompagnata dalla madre, è subito ritornata indietro rinunciando al lavoro, perché non se l’è sentita di stare lassù.

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Verso Sauris di Sopra, luogo del nuovo incarico come maestra.

Io, invece, ho raggiunto Ampezzo con mia madre, e giunte ivi, ci è stato detto che, per raggiungere Sauris, bisognava spingersi sino alla cima del monte Pura, e quindi scendere alla località La Maina, per poi risalire ancora ed infine ridiscendere a Sauris di Sotto e da qui portarsi a Sauris di Sopra, dove c’era la scuola. E c’era la neve.
Allora mia madre Laura mi ha detto: «Se si deve andare tanto su e poi scender giù e poi salire ancora e poi ancora scendere, è meglio che tu torni a casa, che non moriremo di fame se perdi questo lavoro».
Ma io ero testarda, e volevo andare a Sauris a tutti i costi.
Vista la mia determinazione, un signore ci consigliò, se avevamo coraggio, di salire sino al passo Pura con la teleferica con cui trasportavano la legna.  Mia madre non era convinta di utilizzare quel mezzo, ma io l’ho guardata e ho detto: «Sì, sì, andiamo con la teleferica!».
Così siamo andate fin sotto il monte Pura, e lì c’era una specie di barchetta legata sotto due grossi tronchi d’albero. E così siamo entrate in questa specie di barchetta, e siamo salite su, su, su, finchè siamo arrivate in cima al Pura.
Lassù c’era anche allora un’osteria e siamo entrate a chiedere informazioni. Lì ci hanno mostrato dove dovevamo ancora salire e poi scendere, e poi nuovamente salire.
E io pensato: «Orcocan, c’è ancora un bel po’ di strada da fare!». Ma poi mi sono fatta coraggio.

All’osteria c’era un ragazzo che avrà avuto quattordici anni, che ci ha chiesto dove dovevamo andare. «A Sauris di Sopra» – dico io.
E quello, stupito: «È mica la nuova maestra, Lei?». E io: «Sì, sono la maestra».
«Ma a è une frute, iei, no una maestra!».  E io, durissima: «Eppure io sono la maestra. E frute o non frute, come si fa ad andare sino a Sauris di Sopra?». Ed allora il ragazzo mi dice: «Io ho una slitta, e, percorrendo un sentiero, posso portarvi sino a La Maina, e poi vedrà come fare per proseguire».
Così io e mia madre siamo salite sulla slitta, e giù, sino a La Maina, con la neve che ci passava sopra la testa!

E a La Maina abbiamo infine trovato un albergo dove abbiamo passato la notte. Ma faceva tanto freddo in quella camera, tanto freddo, ed io non ero abituata ad un freddo così intenso.
Comunque l’indomani ci siamo alzate ed abbiamo raggiunto Sauris di Sotto, dove dovevo presentarmi dal Sindaco, che poi mi ha fatto accompagnare a Sauris di Sopra, dove si trovava la scuola.

Anna Umberta Squecco a Sauris.

 La vita a Sauris.

 A Sauris facevano le scorte di alimentari per tutto l’inverno prima che venissero freddo e neve. E scendevano ad Ampezzo, in autunno, a vendere burro e formaggio, e per acquistare farina da polenta, riso, pasta, grano, e tutto quello che accorreva, in modo che, se il paese fosse rimasto isolato per qualche giorno, nessuno sarebbe morto di fame.
E quindi i commercianti di Ampezzo vendevano, a loro volta, il burro ed il formaggio, in particolare quello salato, acquistati dai saurani ad altri, e si diceva che questi prodotti raggiungessero anche i mercati veneziani.
Ed i saurani acquistavano e vendevano in prevalenza ad Ampezzo, mentre invece non commerciavano con Sappada. Non devi guardare cosa faceva tuo nonno Emidio (conosciuto a Sauris da Anna proprio mentre faceva la maestra a Sauris di Sopra, e quindi diventato suo marito ndr), perché lui si recava a Sappada a trovare un suo zio materno, don Emidio Troiero, che era lì sacerdote.

Comunque i saurani facevano una vita grama, perché lavorare era pesante, e l’inverno lungo. Ma quando sono andata io a Sauris (forse nel 1920 o 1921 ndr) le strade restavano chiuse e il paese isolato solo per due o tre giorni. Forse prima della guerra sarà stato peggio, ma dopo la guerra era già diverso.
In comune di Sauris gli uomini in genere non emigravano, ma erano contadini. C’era sì qualcuno che cercava lavoro all’estero, ma i più vivevano con l’allevamento del bestiame. E anche le donne facevano le contadine, a fianco degli uomini. A Sauris erano molto attaccati alla terra, e le donne non dovevano, come negli altri paesi, sobbarcarsi tutti i lavori anche pesanti, di qualsiasi tipo, dopo la partenza dei mariti, ma avevano l’aiuto degli uomini di famiglia.

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E a Sauris coltivavano il lino, che poi filavano e tessevano, e con cui facevano la biancheria, le lenzuola ed anche il corredo per le ragazze, ed ogni casa aveva il suo campetto di lino. A Cavazzo coltivavano invece canapa, ma non lino. Ed a Sauris coltivavano, per uso alimentare, orzo e patate.

Io abitavo, allora, presso una famiglia, a pensione, e la mattina a me davano caffè e latte, mentre loro, la mattina, facevano, per sé, una bella terrina di gjuf, con la farina ma senza zucca, insomma una specie di polentina, e sopra ci mettevano o un po’ di burro o un po’ di ‘roba’ di maiale fritta nel grasso, o lo mangiavano con il latte. Inoltre qualche volta facevano, sempre per mangiarla al mattino, anche quella che noi chiamavamo ‘zuppa spartana’, con la farina rosolata nel burro fuso (detta anche, in friulano, ‘brut brusat’ ndr).
A mezzogiorno i saurani facevano la polenta che consumavano con formaggio o frico, o con un po’di carne della loro. Infatti le famiglie allevavano molti animali, e quando uccidevano delle bestie non le vendevano tutte, ma ne tenevano una per sé.  E c’erano famiglie che avevano mucche, vitelli, pecore, e tutte avevano il maiale. E poi andavano, d’estate, a far fieno in montagna anche per l’inverno, come dovunque in Carnia.
E mi ricordo pure che, nella famiglia che mi ospitava, si mangiava carne e si beveva vino, insomma si facevano pasti speciali a Carnevale, mentre d’inverno si mangiavano minestra e patate. Ma a Sauris si consumavano pasti speciali anche il giorno del Santo del paese. A Sauris di Sotto si venerava San Osvaldo ma si festeggiava anche l’Assunta, a Sauris di Sopra San Lorenzo, che io mi ricordi. Nei giorni dei Santi Patroni e della Madonna d’agosto in alcune famiglie facevano i crostoli, mentre in casa di Floreano Plozzer e Maria Elisabetta, genitori di tuo nonno, si apriva il prosciutto crudo affumicato fatto con la carne del loro maiale, e ti garantisco che era proprio buono!
Ed anche a Sauris i giovani usavano talvolta andare a ballare, come a Cavazzo, ove però ogni occasione era buona per organizzare un ballo.

Per quanto riguarda la famiglia di tuo nonno Emidio detta di Sbaltn, essa era imparentata con l’unico ceppo di Plozzer trasferitosi da Sauris di Sotto a Sauris di Sopra, quello di Tobia e Lorenzo, ed aveva in famiglia dei sacerdoti, come la famiglia di Maria Elisabetta Troiero, (detta Trougars) tua bisnonna. Questa poi, essendo morti suo cognato Giuseppe e la moglie, aveva preso con sé anche i figli di questi: Giovanni Battista, poi diventato prete, Osvaldo, Anastasia, Arcangela e Tommaso, e certe volte li trattava, secondo quanto narrava tuo nonno, meglio dei figli, in quei tempi miseria, quando Floreano e Maria Elisabetta vivevano di agricoltura ed allevamento».

 

La famiglia di Floreano Plozzer (Sbaltn) e Maria Elisabetta Troiero (Trougars – della fontana) ritratti nel 1907 circa. Seduti i genitori con in mezzo la piccola Agnese. Dietro, da sinistra a destra guardando, i loro figli: Emidio (Midio), mio nonno, Giuseppe (Heppe), caduto nella prima guerra mondiale e sepolto al tempio Ossario di Timau, Anna Maria (Miele), Giovanna. Forse Agnese morì di spagnola nel 1918.  Manca Augusta che poi sposerà Agostino Domini.

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 Laura chiede se anche a Sauris i soldi della famiglia venivano gestiti dal vecchio di casa, che li distribuiva ai figli, alle nuore.

Anna: «Non lo so, perché ognuno aveva la sua famiglia. Comunque poteva anche amministrare il vecchio, ma non dava certamente molto ai figli, alle figlie, alle nuore, perché io mi ricordo che c’erano quelle povere donne, la moglie e tre figlie, che facevano parte della famiglia dove abitavo, che se volevano comperarsi un grembiule dovevano allevare galline e vendere le uova. E facevano fatica anche ad avere i soldi per comperare un vestito.

Invece ti posso dire che a Sauris e a Mediis, come credo nel resto della Carnia, le famiglie ci tenevano a che i bambini frequentassero la scuola, e nessun genitore, quando insegnavo a Sauris di Sopra, dopo la fine della prima guerra mondiale, è mai venuto a prendere un figlio per portarlo a casa ad aiutare nel lavoro. E guai se i bambini non ubbidivano alla maestra e non facevano bene a scuola! Ci tenevano moltissimo al fatto che imparassero a leggere e scrivere».

Laura chiede come faceva ad insegnare la lingua italiana se i bambini parlavano un dialetto tedesco.

«Come vuoi che facessi? Mi arrangiavo! Quei piccoli della prima non sapevano una parola di italiano, e allora all’inizio dovevo portare un oggetto a scuola, chiedere a loro come si chiamava nella loro lingua, e poi dire come si chiamava in italiano.  E quindi chiedevo ai bimbi di ripetere il nome italiano. E così con tutti gli oggetti, finchè imparavano. Ma si doveva avere molto materiale didattico e pazienza per insegnare in questo modo, ma devo dire che gli scolari saurani erano bambini svegli, che imparavano subito. E quando dicevano qualcosa che non capivo chiedevo ai più grandicelli, a quelli della terza, di tradurmelo, di fare da interpreti, per poi spiegare ai più piccoli. Ma anche a Sauris, allora, morivano molti bambini, come del resto un po’ dappertutto, in particolare quando scoppiavano epidemie di una qualche malattia infantile.

Casa Plozzer a Sauris di sotto, ove abitava la famiglia di Floreano.

 

Fin qui la prima parte del racconto di Anna, che sposerà, nel 1923, Emidio Plozzer, spostandosi poi con il marito a Mediis e quindi a Tolmezzo, e che continuerà con la narrazione di ulteriori aspetti di vita familiare e Cavazzina, alla prossima puntata.

Laura Matelda Puppini

Le fotografie presenti nel testo fanno parte dell’Archivio Plozzer e sono di proprietà di mia madre, la dott. Maria Adriana Plozzer, sono state scannerizzate con uno scanner Epson ed elaborate da me, da stampe in b/n tranne la prima. L’ immagine che correda l’articolo è quella che ritrae Anna Umberta Squecco a Sauris. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

Lago di Cavazzo: ultima puntata. Rinaturalizzazione o lago finito?

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Ho letto con interesse le due facciate dedicate dal Messaggero Veneto, il 18 maggio 2018, alla salvezza del lago di Cavazzo. Esse, assieme ad altri articoli ed al Comunicato del 16 maggio 2018 a cura di: Comitato per la tutela delle acque del bacino montano del Tagliamento, Tolmezzo/ Comitato per la difesa e la valorizzazione del lago, Alesso di Trasaghis / Legambiente del Friuli Venezia Giulia / Legambiente della Carnia, Canal del Ferro, Valcanale / Legambiente Circolo di Gemona / Comitato Interregionale PAS Dolomiti, Sezione Carnia, Val Tagliamento / Comitato Spontaneo NO centralina Ponte Rop, Resia / Comitato Acqua Libera, Alto But, Paluzza / Comitato Val Degano, Ovaro / Movimento Tutela Arzino, Val d’Arzino / Ce.V.I. Centro di Volontariato Internazionale, Udine / Carnia in Movimento, Val But, saranno le fonti per questo testo.

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Molti laghi, fonte di acqua dolce ed indispensabili per gli ecosistemi, sono scomparsi nel mondo o si sono drasticamente ridotti, portando dissesti e desertificazione, basti pensare al lago Aral, uno dei più grandi del globo, in Usbekistan, il cui bacino orientale si è totalmente prosciugato, al lago Poopò, che era secondo lago della Bolivia, al lago Bedwater, a carattere stagionale, nella Death Valley in Colorado, al lago Chad (anche Ciad) in Africa, al lago Owens, in California, ridotto ad un decimo della sua estensione, al lago Powell, sempre negli Usa, al lago Mead, tra Arizona e Nevada, al Goose Lake, al confine con l’Oregon. (http://www.repubblica.it/ambiente/2016/01/27/foto/la_crisi_idrica_nel_pianeta_i_laghi_e_i_fiumi_che_stanno_sparendo-132136164/1/#1).

Scriveva nel merito Matteo Marini, nel 2016: «Siccità e desertificazione, dovute anche ai cambiamenti climatici e al riscaldamento globale, sfruttamento eccessivo delle risorse per l’irrigazione o per le attività estrattive e industriali: sono diversi i laghi e i fiumi (il caso più eclatante è quello del Colorado) che stanno sparendo in tutto il mondo. Corsi e soprattutto specchi d’acqua ancora presenti sulle cartine geografiche ma le cui rive disegnano profili sempre più stretti, lasciando a secco le imbarcazioni dei pescatori e delle attività turistiche. Una crisi idrica dagli effetti devastanti che non risparmia nessun continente, dall’Asia all’Africa alle Americhe e che mette a serio rischio l’economia delle zone in cui si trovano, in particolare nei Paesi più poveri. Ma sono molti quelli che si trovano sul suolo americano, soprattutto nel sudovest degli Usa, la parte più arida del Paese». (Ivi). Per la desertificazione dei laghi sue cause e conseguenze, tra cui le migrazioni, cfr. anche: http://www.nationalgeographic.it/wallpaper/2017/05/15/foto/lago_ciad_desertificazione-3528636/1/; https://www.focus.it/ambiente/ecologia/il-lago-aral-sparisce; http://www.meteoweb.eu/2016/06/desertificazione-wwf-a-rischio-almeno-il-40-delle-terre-emerse/704700/ ed altri. E invito caldamente a leggere, pure, Luca Mattiucci, Desertificazione e siccità, le nuove catastrofi naturali. A rischio 1,1 miliardi di persone, in: http://sociale.corriere.it/desertificazione-e-siccita-le-nuove-catastrofi-naturali-a-rischio-11-miliardi-di-persone/.  

Vediamo di non aumentare il numero dei laghi moribondi, penso fra me e me, avendo in mente il lago di Cavazzo. Perdere acqua dolce è una tragedia, perché l’acqu dolce non si può produrre artificialmente, e chi ha fatto il giochetto, in Italia, fra politici ignavi, di prendersi l’acqua dono di Dio alla popolazione mondiale per poter sopravvivere, con la scusa dei tubi, sapeva di avere la vita del prossimo in mano.
E non si può continuare a nascondere la testa sotto la sabbia, come fanno gli struzzi, per non vedere e non sentire. La tutela dell’ambiente e del creato non sono di destra o di sinistra, sono problemi di tutti.  E gli antichi testi religiosi hanno sempre parlato del valore dell ‘acqua per la vita e la purificazione, ma ora paiono dimenticati.

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Inizio queste mie righe sullo stato attuale del Lago di Cavazzo, riportando il parere di Luca Gasparini, dell’Ismar Cnr di Bologna, tratto da: Giacomina Pellizzari, “Ecco come la centrale sta devastando il lago”, in Messaggero Veneto, 17 maggio 2018, precisando che pare che i sindaci della Val del Lago, o forse ora solo quello di Cavazzo Carnico, pare siano contrari ad aprire la gara per la costruzione del bypass per evitare che le acque gelide della centrale vadano a finire nel lago.
«”La centrale di Somplago modifica l’equilibrio naturale del lago di Cavazzo. Se qualcuno aveva ancora qualche dubbio, deve ricredersi, perché i rilievi effettuati con veicoli autonomi dotati di sensori per investigare il fondo, non lasciano ombre di dubbio: «L’apporto di fango e di acqua fredda cambia l’equilibrio del fondale e, conseguentemente, crea un ambiente non più naturale”.

Ieri, nel centro nautico ‘Nautilago’ di Alesso, Luca Gasperini, il Ricercatore dell’Istituto di scienze marine del cnr di Bologna, nell’ illustrare il rilievo geofisico realizzato in collaborazione con il Comune di Trasaghis, il Comitato per la difesa e la valorizzazione del lago e il Comitato per la tutela delle acque bacino montano del Tagliamento, è stato chiarissimo: “Il lago dei Tre Comuni è fortemente impattato dalla centrale idroelettrica”.

L’analisi delle carote e le ecografie effettuate nei sedimenti, attesta che “la riduzione della temperatura, unita all’apporto periodico di sedimenti estranei al bacino lacustre, apporto che avviene sotto forma di colate durante le piene del Tagliamento, quando la centrale tùrbina acqua limacciose, provoca una specie di sterilizzazione del fondo. Abbassa i livelli di ossigeno normale e crea livelli privi di ossigeno e quindi senza la possibilità per la vita di proliferare sul fondo del lago”, ha aggiunto Gasperini, specificando che questo fenomeno favorisce una serie di eventi a catena che, nel tempo, ha modificato il normale livello di vita nel lago.
Detta in altri termini significa che là dove insistono gli scarichi dei fanghi, viene meno la flora e la fauna acquatica. Il fenomeno è più evidente a nord ed al centro del lago, mentre a sud, dove gli scarichi non arrivano, l’ambiente lacustre è ancora vivo e vegeto. (…). Proprio perché il lago è un libro aperto e le carote dei sedimenti rivelano la storia millenaria dell’ambiente, i ricercatori datano il cambiamento del fondale a partire dagli anni Cinquanta. Gli anni in cui è stata realizzata ed è entrata in funzione la centrale». (Ivi).  I ricercatori hanno contattato i Comitati ed il sindaco di Trasaghis, creando una rete positiva di collaborazione anche con la popolazione, ed hanno ora messo a disposizione gratuitamente i dati delle loro rilevazioni, che sono dati definitivi. Inoltre nel corso dell’incontro presso il Centro Nautico, Gasperini ha mostrato le mappe che fotografano il fondale del lago a 40 metri di profondità, evidenziando pure la linea rossa che «indica dove il fondale ha cambiato completamente aspetto: questo è il limite oltre il quale non c’è più vita». (Ivi).
Ma lo studioso del Cnr di Bologna ha detto anche che la stratificazione si vede meglio a sud, mentre a nord ed al centro, ove si riversano maggiormente le acque fredde della centrale, «il fondo è totalmente impenetrabile». (Ivi), mentre la presenza di gas non sfruttabile economicamente, che si forma in ambienti privi di ossigeno, e le righe nere sulle carote, indicano sul fondale già mancanza di vita. (Ivi).

La proposta di Gasperini ai politici è quella di rinaturalizzare il lago di Cavazzo, trasformandolo in un “centro di ricerca e di studio per le scuole europee sull’ambiente naturale” (Ivi), seguendo, in altra situazione, l’esempio di Baita Torino sul Pura. 

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Per la verità il problema del versamento delle acque fredde della centrale nel lago di Cavazzo è stato affrontato anni fa dall’ing. Franzil, con la proposta dettagliata anche a livello tecnico, della realizzazione di un canale di by-pass che convogli direttamente le acque della centrale di Somplago all’emissario del lago di Cavazzo con lo scopo di recuperare la naturalità del lago stesso.
Inoltre la realizzazione del bypass dovrebbe avvenire prima di qualsiasi prelievo dal lago di acqua per il Friuli, come perorato dal Consorzio di Bonifica Pianura Friulana. (Cfr. nel merito il mio: Chiare, dolci, fresche acque di un tempo che fu. Siccità, lago dei tre comuni o di Cavazzo, fra intenti e politiche, in: www.nonsolocarnia.info).

Finalmente con la legge Regionale 6 febbraio 2018 n.3 art. 11, e pure in applicazione dell’art. 12 della l.r. 11/2015, la  Regione Friuli Venezia-Giulia dava disposizioni perché venisse indetto un concorso di idee relativamente al Lago di Cavazzo o dei Tre Comuni che dir si voglia, per la predisposizione di un documento che contenesse una valutazione di fattibilità di possibili azioni di mitigazione, e rinaturalizzazione e valorizzazione ambientale e turistica, dello stesso, con valutazione dei costi/benefici delle possibili alternative agli usi specifici esistenti”. (https://www.studionord.news/lago-di-cavazzo-nuovo-scontro-sul-by-pass/ 21 aprile 2018). Per dare attuazione a detto concorso di idee, la cui elaborazione e gestione era stata affidata dai Comuni all’UTI Gemonese, il 5 aprile 2018 si teneva, presso la sede udinese della Regione una riunione su invito dell’assessore all’ambiente ed energia Sara Vito esteso ai sindaci di Bordano, Cavazzo Carnico, Trasaghis, al presidente dell’UTI, al consigliere regionale Roberto Revelant e a Franceschino Barazzutti. (Ivi).

Ma, nel corso di detto incontro, l’Amministrazione del Comune di Cavazzo Carnico, rappresentata dal sindaco Gianni Borghi e dal vicesindaco Dario Iuri, si esprimeva contro il progetto del canale di “by-pass” ipotizzato all’interno del Piano regionale di Tutela delle Acque come soluzione “per mitigare l’impatto dello scarico della centrale di Somplago sul lago con lo scopo di recuperare le condizioni di naturalità del lago stesso e di garantirne la fruibilità”. (Ivi).
Motivo? Per l’amministrazione comunale cavazzina «l’equilibrio del lago c’è già, il progetto del by-pass lo turberebbe mentre è la centrale che consente di poter utilizzare le sponde. Si tratterebbe di un progetto faraonico che nessuno finanzierebbe», mentre servono subito finanziamenti per incrementare il turismo. (Ivi). Ma a me pare che, per quanto possibile, le sponde siano state già attrezzate, con gabinetti, tavoli per pic nic e via dicendo.  

Favorevoli invece i Comitati. E così giungiamo al 18 maggio 2018, alle due facciate dedicate al lago di Cavazzo dal Messaggero Veneto, ai rilievi tecnici del ricercatore Gasperini del cnr di Bologna. E chiede Franceschino Barazzutti il bypass del lago, sostenendo, giustamente, che il turismo può solo esser favorito dalla rinaturalizzazione del lago, e che riportare la vita sul fondo dello stesso non significa evitare alla centrale di lavorare. Inoltre per il concorso di idee sono stati già stanziati- sostiene Barazzutti – già 50.00 euro che non si vorrebbe finissero nel nulla, come nel caso di Intereg. (Giacomina Pellizzari, serve il bypass, la regione faccia il bando, in Messaggero Veneto 18 maggio 2018).

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Infine i Comitati nel loro comunicato stampa del 16 aprile 2018 intitolato: ‘Lago di Cavazzo o dei Tre Comuni: Qualcuno vuole mantenerlo gelido, torbido e fangoso. Perchè?’ fanno presente agli amministratori di Cavazzo Carnico, che  il lago è esistito prima della centrale, che oltre all’immissario è alimentato da polle sul fondale, riattivabili se indebolite, che i dati pluviometrici superano notevolmente quelli dell’evaporazione. Inoltre nella costruzione di qualsiasi by-pass viene sempre previsto un dispositivo di rilascio in caso di necessità o emergenza per volumi limitati ben diversi degli attuali 66 mc/sec scaricati nel lago. Infine lanciano, nuovamente, sull’esempio delle Regioni Autonome Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, la proposta che anche la nostra Regione Autonoma vada a costituire una propria società energetica, come previsto nella Proposta di Legge n.193 a firma di consiglieri di tutti i gruppi consiliari, che acquisisca le concessioni e le centrali idroelettriche. “Ciò faciliterebbe la risoluzione delle criticità del lago e – più in generale – permetterebbe un utilizzo corretto delle nostre acque a vantaggio del territorio e dei suoi abitanti: acque nostre, centrali nostre, kilowatt nostri, ricavi nostri. E lago restituito alla sua naturalità e fruibilità con tutto ciò di positivo che ne consegue sul piano ambientale, turistico e della pesca! Ben altro dalla carità di qualche sponsorizzazione rincorsa dagli amministratori comunali di Cavazzo Carnico o dal pur apprezzabile, passeggero evento ricreativo annuale presso la centrale.”- scrivono i Comitati.

Fin qui quello che è dato sapere. Augurandomi che il concorso di idee venga posto in essere, e la rinaturalizzazione del lago possa avvenire per il bene di noi tutti, (dopo che lo specchio d’acqua è stato sfregiato anche dall’autostrada), e ritendo validssima la proposta del ricercatore Gasperini di trasformare il lago in un “centro di ricerca e di studio per le scuole europee sull’ambiente naturale” mi fermo qui, in attesa di nuovi risvolti.

Laura Matelda Puppini 

Ricordo i miei articoli precedenti sull’argomento:

Chiare, dolci, fresche acque di un tempo che fu. Siccità, lago dei tre comuni o di Cavazzo, fra intenti e politiche.

SALVIAMO IL LAGO DI CAVAZZO! CONTRO I PRELIEVI DIRETTI PER IRRIGARE LA FURLANÌA

Il Lago di Cavazzo, tra sogno, natura e sfruttamento.

L’immagine del lago di Cavazzo che correda l’articolo è stata da me scattata nel 1991. Laura Matelda Puppini


Aldevis Tibaldi. Paesaggio e mostri. Introduzione di Laura M. Puppini

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Vado ogni tanto a Trieste da Tolmezzo, dove risiedo, e ogni volta vengo colpita da quei mostri che sono i tralicci enormi del nuovo elettrodotto, che spesso si uniscono a quelli più bassi e vetusti che nessuno ha tolto, ed a quelli di altri elettrodotti, in una rete immane che passa sopra la propria testa. E ogni volta che viaggio di notte, vedo quelle luci rosse o intermittenti, che disturbano chi percorre l’autostrada, svettanti verso il cielo a creare la cappa luminosa del nuovo colonialismo, che nasconde cielo e stelle. Ed ogni volta penso al creato ed a quel Carso al confine orientale, che fu oggetto di tanti problemi, forgiati anche ad arte contro la sinistra italiana perché non migliorasse la nostra società, e che ci donò ancora fascismo più o meno mascherato, e un proliferare di ‘gladiatori’, ora diventato terra di conquista per chi vuole trasportare energia, non certo per noi.  Pongo qui queste amare sensazioni, per introdurre il testo di Aldevis Tibaldi, un testo amaro come le stesse, che parla di consumo di suolo, e che apre il suo articolo con uno stralcio di poesia di Pier Paolo Pasolini, cresciuto nella campagna di Casarsa, dedicata ad uno skinhead, ad un giovane fascista.
L’attenzione di Aldevis al problema del paesaggio è dato dall’oggetto scelto dall’Associazione  Festival Costituzione di San Daniele per i suoi incontri di maggio. Aldevis come il solito è polemico ma a ragion veduta, e offre interessanti spunti di riflessione. Per questo motivo riporto qui queste sue righe. Laura Matelda Puppini

«Aldevis Tibaldi. I MOSTRI

«Difìnt i palès di moràr o aunàr, /in nomp dai Dius, grecs o sinèis./ Moùr di amòur par li vignis./E i fics tai ors. I socs, i stecs./
Il ciaf dai to cunpàins, tosàt./ Difìnt i ciamps tra il paìs/e la campagna, cu li so panolis,/ li vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat/
tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja./ I ciasàj a somèjn a Glìsiis:/ giolt di chista idea, tènla tal còur./
La confidensa cu’l soreli e cu’ la ploja,/ ti lu sas, a è sapiensa santa./ Difìnt, conserva prea. La Repùblica/
a è drenti, tal cuàrp da la mari./»
«… da “Saluto e augurio” poesia/testamento di Pier Paolo Pasolini.

«Difendi i paletti di gelso, di ontano,/ in nome degli Dei, greci o cinesi./ Muori d’amore per le vigne./ Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi./ Il capo tosato dei tuoi compagni./ Difendi i campi tra il paese/ e la campagna con le sue pannocchie/ le vacche dal letame. Difendi il prato/ tra l’ultima casa del paese e la roggia/ I casali sembrano chiese/godi di questa impressione, tienila nel tuo cuore./ La confidenza con il sole e con la pioggia,/tu lo sai, è sapienza sacra./ Difendi, conserva, prega./La Repubblica è dentro il cuore della madre».

Il ricordo del Vajont non ostacola l’uso scellerato del territorio, né l’ignavia del politico di turno, né la disonestà del burocrate, né le menzogne del giornalista, né gli abusi delle lobby: in compenso lascia ferite indelebili nella dignità delle nostre genti. Quella del Vajont fu a tutti gli effetti una strage di Stato rimasta sostanzialmente impunita. Come se non bastasse, il fiume di denaro che fu riversato per mitigare il dolore dei sopravvissuti e la cattiva coscienza di uno Stato complice dei padroni dell’energia, ha finito per alimentare la corruzione e il bieco affarismo degli sciacalli.
Una macchia indelebile, che anziché suscitare sdegno, viene considerata una svista non la criminale conseguenza di un pericolo conclamato e di un uso infame del territorio. I dati dell’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (ISPRA) relativi al 2016 ci mettono ai vertici nel consumo di suolo.

Cosicché, mentre gli ambientalisti di regime continuano a vendere magliette e a farsi blandire dai monopolisti, dobbiamo ammettere che, nonostante la crisi dell’edilizia, la nostra è la Regione d’Italia con il consumo di suolo più elevato. Se la media italiana è pari al 7,6 %, quella regionale tocca l’8,9%: valore ben superiore alla media europea che si attesta al 4,3%.
Peggio di noi sarebbero solo la Germania, il Belgio e l’Olanda, ma solo in apparenza, perché se detraiamo le zone montuose -per loro natura inospitali- il consumo di suolo nella nostra Regione balza al 14,6%, quando la media italiana è ferma al 12,7%. Numeri da capogiro, che pongono in tutta evidenza la assoluta inidoneità della nostra classe politica e della burocrazia che ne è la fedele emanazione.

La facilità con la quale si autorizzano le edificazioni di zone industriali, di nuovi centri commerciali e residenziali è oltretutto fonte di una crescita abnorme delle relative infrastrutture, nonché dei relativi oneri, sempre a carico della collettività. Ai costi sempre più insostenibili si aggiunge la plateale sottrazione di terre fertili, altrimenti destinate ad una produzione agricola di qualità, nonché ad una funzione ecologica a tutela degli ecosistemi e a beneficio della qualità dell’aria, delle risorse idriche e quindi della salute. Senza contare che le urbanizzazioni e i nuovi centri commerciali desertificano i centri abitati, il piccolo commercio e quindi incidono sulla coesione sociale, sulle afflizioni psichiche e sui processi di spaesamento dei residenti. Sono processi a catena dalle conseguenze talvolta inimmaginabili. Basti pensare agli effetti che la cementificazione del territorio produce a seguito delle precipitazioni, ovvero delle alluvioni favorite dalla minore capacità di ritenzione del terreno, ovvero dai ridotti tempi di corrivazione delle acque di pioggia.

Non si tratta di sviste o di semplici leggerezze, bensì di veri e propri crimini, commessi nella più evidente complicità di chi avrebbe dovuto vigilare e di una scorta mediatica sempre pronta a prostituirsi pur di favorire i padroni di turno. Un esempio? Una terza corsia fatta su misura per garantire alcuni appalti a costo di immani disagi o il “Polo intermodale di Ronchi dei Legionari”, costruito per un mero calcolo elettoralistico. Ne avevamo decretato la assoluta inutilità ed oggi possiamo dimostrarla con dati inoppugnabili, visto che dai 60 treni giornalieri costretti a fermarsi alla nuova stazione ferroviaria scendono non più di 20 passeggeri diretti all’imbarco!

Siamo alla follia e siamo pur sempre nelle mani di un numero spropositato di dirigenti regionali strapagati, nonché di istituti universitari sempre pronti ad avvallare le decisioni del vertice regionale. Insomma, c’è modo e modo, e se in Emilia piantano ai bordi dell’autostrada una barriera di ventiduemila nuovi alberi, da noi si è sprecata una foresta intera per infiggere cinquantamila mila tronchi sui bordi del porto canale dell’Aussa Corno, destinati a moltiplicare l’importo dei lavori, per poi marcire.

La Repubblica tutela il paesaggio? A guardare i risultati si direbbe proprio di no. E sebbene il convegno indetto a San Daniele dalla Associazione per la Costituzione debba essere lodato, ci duole constatare che arriva a babbo morto, insieme ai soliti venditori di libri ed alle solite considerazioni trite e ritrite che poco hanno a che vedere con la realtà dei fatti. Altrimenti avremmo potuto parlare di una lotta che dura in piena solitudine da 12 anni e avremmo capito che l’esecutivo regionale si è venduto agli interessi delle lobby rinunciando alla Autonomia sancita dalla Costituzione. Avremmo scoperto che uno dei partecipanti al convegno ha favorito il famigerato elettrodotto aereo che deturpa il paesaggio dell’intera pianura friulana. Ci saremmo interrogati sulla persecuzione di una Soprintendente che si è prodigata nella difesa del nostro patrimonio. Avremmo visto che la partecipazione sancita dalla Costituzione e dalla convenzione di Aarhus è stata calpestata insieme al Difensore Civico.

Avremmo scoperto che le nostre denunce per disastro ambientale spariscono dal tavolo del Procuratore della Repubblica di Roma per finire nelle mani dei colpevoli. Avremmo visto le collusioni della Presidenza del Consiglio con un Ministero dell’Ambiente che abusa dell’ambiente per favorire interessi particolari. Avremmo scoperto come il Piano Paesaggistico Regionale sia stato gestito ad arte e poi approvato nella bolgia del periodo elettorale per non essere impugnato!

Tibaldi Aldevis – Comitato per la Vita del Friuli Rurale – www.facebook.com/comitato.friulirurale»

Rimando pure a:

Aldevis Tibaldi. Lettera aperta al Vicario della Arcidiocesi di Udine, su La Vita Cattolica e sul nuovo elettrodotto friulano.

Aldevis Tibaldi. Il paradiso dei veleni.

L’ immagine che correda l’articolo è di ‘aquilasolitaria’ cioè Franco Marizza, è stata scattata il 4 settembre 2017 a Villesse, ed è tratta da: http://www.youreporter.it/gallerie/Lavori_in_corso_per_la_realizzazione_del_nuovo_elettrodotto/#1. Preciso che non ho trovato immagine alcuna che renda lo scempio paesaggistico del goriziano dato dall’elettrodotto Terna. Ma può essere limite mio. Laura Matelda Puppini

 

Marco Lepre. Quando la Carnia era protagonista. Il “terremoto” elettorale di Cinquant’anni fa.

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«Qualche tempo fa il sindaco di Tolmezzo, che all’epoca forse non era ancora diventato anche Presidente dell’U.T.I., lasciò di stucco un numeroso uditorio, riunito in occasione di un evento culturale, affermando che “la Carnia è morta”. Si possono certo immaginare alcuni dei motivi che hanno portato ad una simile amara considerazione, anche se sarebbe giusto indicare prove, cause e responsabilità di questo “decesso”. Mi auguro almeno, e credo di non essere il solo, che, come in una canzone di Francesco Guccini, questa sentenza non sia definitiva e ci sia sempre la possibilità di risorgere, in tempi possibilmente brevi.

Quello che comunque è certo è che cinquant’anni fa la Carnia, pur attraversando un periodo particolarmente difficile sotto il profilo economico e demografico, era viva e vitale, al punto da diventare protagonista di significativi cambiamenti.

Non a caso ho parlato di cinquant’anni fa, perché nella primavera del 1968, esattamente come è accaduto negli scorsi mesi, gli elettori del Friuli Venezia Giulia furono chiamati alle urne per due volte: il 19 maggio si votò per la Camera ed il Senato ed una settimana più tardi, il 26, per il rinnovo del Consiglio Regionale. Allora, come è capitato in questa occasione, i risultati usciti dalle urne nel nostro territorio montano produssero un vero e proprio “terremoto”. In un periodo in cui il cosiddetto “voto di appartenenza” era predominante e gli spostamenti tra i partiti erano estremamente contenuti, in Carnia il principale partito di governo scese per la prima volta sotto il 40%, registrando una perdita di dieci punti percentuali in un decennio. Per contro il Partito Socialista, allora “unificato”, che nel complesso della provincia di Udine aveva la metà dei voti della DC, raggiunse il 35% e il Movimento Friuli, al suo esordio, superò il 10%. Come conseguenza di questo risultato due personaggi di spicco del socialismo carnico – Bruno Lepre ed Enzo Moro – diventarono uno deputato a Roma e l’altro Vice-presidente della Giunta Regionale.

Quale fu la causa di questo rivolgimento? Non si può negare che il risultato elettorale fu lo sbocco e la principale conseguenza del movimento di protesta che nei mesi precedenti aveva portato alla proclamazione di due scioperi generali della Carnia (il 29 novembre 1967 e il 20 gennaio del 1968) con una manifestazione che vide scendere in piazza quasi 5000 persone. Come abbiamo ricordato in un convegno organizzato proprio in coincidenza con l’anniversario del primo sciopero generale, si era creata una fortissima tensione nei confronti del governo nazionale e regionale, che vide uniti le amministrazioni locali, i partiti democratici, i sindacati, le organizzazioni di categoria, gli studenti e le associazioni culturali nel rivendicare una soluzione per tutta una serie di fondamentali questioni: dalla creazione di insediamenti industriali all’ammodernamento della rete infrastrutturale, dal risarcimento dei danni subiti in occasione delle alluvioni al finanziamento di opere di difesa idrogeologica, dall’eliminazione delle servitù militari all’applicazione della legge sui sovracanoni idroelettrici, dal mantenimento di alcuni servizi fondamentali come il Tribunale e l’Ospedale di Tolmezzo al rimborso ai Comuni del mancato introito di alcune tasse. Quello che si chiedeva in sostanza – e che fu ingiustamente accusato dalla stampa locale di populismo – era una maggiore attenzione da parte della Regione e dello Stato e l’avvio di una politica di sviluppo industriale che ponesse fine al drammatico esodo dovuto all’emigrazione.

Tra il 1951 ed il 1961 è stato calcolato che dalla sola Carnia se ne andarono definitivamente 16.500 persone, mentre oltre 10.000 erano gli emigranti stagionali, per lo più diretti all’estero. Sono dati impressionanti e fa una strana sensazione vedere come allora l’esito delle elezioni fosse determinato dall’esigenza di dare una risposta al problema posto da quei 27.000 emigranti, mentre oggi è stata probabilmente una vergognosa protesta inscenata da uno sparuto gruppo di persone contro l’arrivo di una decina di poveri profughi a Tarvisio a dare visibilità e notorietà al più votato consigliere regionale eletto nel Collegio. Dovrebbe far riflettere anche che se fosse passata la sciagurata proposta di eliminare la Circoscrizione di Tolmezzo – ipotesi sostenuta da un’altra rappresentante della Lega Nord rieletta in Regione – probabilmente la rappresentanza della montagna a Trieste sarebbe ridotta ad un solo consigliere su 49.

 Grazie ai rappresentanti eletti nel 1968 e all’impegno di una generazione di amministratori che provenivano dalle fila della Resistenza, come Tiziano Dalla Marta, Libero Martinis, Angelo Ermano e Vinicio Talotti, scaturirono importanti novità per il territorio montano: la nascita della zona industriale, una legge regionale che portò, tra l’altro, all’insediamento della SEIMA e di molte altre piccole imprese, la creazione dei poli turistici dello Zoncolan e del Varmost, il miglioramento igienico sanitario delle abitazioni attraverso gli incentivi agli affittacamere. Sul piano nazionale, poi, con il contributo di Bruno Lepre e di un altro parlamentare della regione, il comunista Mario Lizzero, che fu relatore del provvedimento, si arrivò all’approvazione della prima vera legge sulla Montagna, la 1102 del 1971, che di lì ad un paio d’anni permise l’istituzione delle Comunità Montane, strumento di autogoverno e pianificazione del territorio, che avevano immaginato i nostri partigiani sui monti.

Questo per quanto riguarda il passato. Non ci resta che aspettare di vedere di cosa saranno capaci gli eletti in Regione e al Parlamento del 2018.

 

Tolmezzo, 26 maggio 2018      

 Marco Lepre – Tolmezzo»

L’immagine che correda l’articolo, con fotografo, luogo, data, altri presenti a me ignoti, raffigura Enzo Moro visibile all’ estrema destra, e Vittorio Pezzetta, comunista, partigiano, visibile all’ estrema sinistra guardando. L’originale della fotografia era di proprietà di Anna De Prato Pezzetta, moglie di Vittorio, ora deceduta, che mi ha concesso la scannerizzazione e l’uso di più stampe di sua proprietà. Scannerizzazione Epson, elaborazione mia da stampa rovinata. Chi conoscesse gli altri partecipanti all’ incontro, il motivo dello stesso, il luogo,la data, è pregato di comunicarlo attraverso un commento.

Per la figura di Enzo Moro, la nascita della Seima e la Carnia nel secondo dopoguerra rimando a Romano Marchetti, Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel ‘900 italiano, Ifsml, Kappa vu ed, 2013. Ricordo pure che più persone cercarono di fare politica in Carnia e per la Carnia, non solo eletti nei partiti.

Laura Matelda Puppini

 

 

Fermenti culturali in Carnia. Da ‘Alpe Carnica’ a ‘Carnia Domani’ nato dal grande sciopero del 29 novembre1967.

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Marco Lepre ha accennato giustamente, nel suo articolo, a volti istituzionali carnici della politica, che seppero, in altri tempi, portare avanti istanze anche della popolazione, pur presentando qualche limite, sottolineato per esempio da Tiziano Miccoli. (Cfr. Carnia, problemi di oggi problemi di ieri. L’intervento di Tiziano Miccoli al I° convegno sul tema: “La cooperazione nella nuova Comunità Montana”. Tolmezzo il 26 febbraio 1972, in: www.nonsolocarnia.info).

Relativamente ad Angelo Ermano, citato da Lepre, su cui mi riservo di intervenire più diffusamente in altro articolo, ricordo, per inciso, la sua partecipazione come consigliere comunale di minoranza a Tolmezzo, dopo la fine dell’amministrazione Pesce, con Romano Marchetti, Maria Bonuzzi e Daniele Tamburlini, in tempi davvero difficili, ed il suo impegno, come presidente dell’Ente Tutela Pesca, per la salvezza del Tagliamento, inquinato pure dalla Cartiera. Ma questa ‘lotta’ era stata iniziata dal comunista Ottavio Mecchia, che girava con la sua ‘ape’ tappezzata da cartelli che invitavano a prendersi cura del fiume, tanto da diventare una specie di simbolo. E io credo che il loro impegno, da ambientalisti d’antàn meriti davvero qualche riga, come lo meriterebbe la storia dell’inquinamento della cartiera da scarichi industriali.

 

Nel 1967 finiva la pubblicazione di Alpe Carnica, periodico della Comunità Carnica, uscito dal 1952 al 1967, con una interruzione dal 1957 al 1961, diretto, tra alterne vicende, da: Vittorio Grillo, Enzo Moro, Luciano Bonanni, Emilio Di Lena, Carlo Dal Cer. (Marina Di Ronco, “Alpe Carnica”, in: “Alpe Carnica – Carnia Domani” ristampa anastatica a cura di Ermes Dorigo, Comunità Montana della Carnia, 1995). L’ultimo numero di ‘Alpe Carnica’ usciva nell’aprile 1967. Ma se una voce si era spenta, «al silenzio hanno fatto ben presto riscontro le manifestazioni del novembre 1967 e del gennaio 1968: esplosioni popolari che hanno avuto soprattutto un pregio, quello di riportare alla ribalta problemi di ieri e di oggi, e, ciò che più conta, di riaffermare la volontà di unione delle forze, onde creare i presupposti della rinascita». (f.f. forse Franco Frontali, La Carnia senza voce, in Carnia Domani, n.1.  aprile 1968).

Ed il Comitato di redazione del nuovo periodico ‘Carnia Domani’, sul quale mi soffermerò tra un po’, firmava un articolo dal titolo: “Bisogna ritrovare la concordia di novembre”, comparso sempre sul n.1 dell’aprile 1968, in cui si può leggere: «Novembre 1967: la Carnia si muove. Per la prima volta si verifica in Carnia una massiccia, spontanea sollevazione degli animi. (…). D’un tratto i carnici si rendono conto dell’aspetto generale della situazione, nella quale assumono rilievo anche particolari che erano passati inosservati ai più.  Insomma si acuisce la sensazione che non solo le annose promesse di un intervento per risollevare i destini della Carnia restino ancora lettera morta, ma che anzi si faccia il possibile per accelerare l’innegabile processo di decadenza della nostra economia. Questa volta però la Carnia reagisce all’ isolamento ed all’abbandono. Benché improvvisato, un comitato di agitazione che riunisce i rappresentanti di operai e di datori di lavoro, di studenti e di insegnanti, di professionisti di ogni categoria, ed uomini politici di tutti i partiti, riesce ad organizzare in poche ore uno sciopero generale ed una manifestazione di protesta a Tolmezzo. La partecipazione dei carnici è compatta: in ogni valle fabbriche, negozi, locali pubblici restano chiusi; nella sede della Comunità Carnica si riuniscono tutti i nostri Sindaci, che trovano poi ad attenderli, davanti al Municipio, una folla strabocchevole». (Sull’argomento cfr. pure Laura Matelda Puppini, La Carnia tace. Ma non fu sempre così. Il grande sciopero del 29 novembre 1967, in www.nonsolocarnia.info).  Quindi si formava un lungo corteo spontaneo, che percorreva le vie del centro, e nel pomeriggio «un nutrito gruppo di persone, riunitesi a tempo di record, scende ad Udine per ribadire al Palazzo della Provincia l’esigenza di un pronto intervento». (Comitato di redazione di Carnia Domani, Bisogna ritrovare la concordia, op. cit.).  Ma parallelamente il Messaggero Veneto aveva screditato questa manifestazione compostissima senza il lancio di un sasso, senza la rottura di un vetro, parlando di separatismo e qualunquismo, definendo hippes e capelloni i giovani presenti, finchè alcuni, esasperati, avevano bruciato numeri su numeri del quotidiano, regolarmente pagato, in piazza XX settembre. (Ivi e Laura Matelda Puppini, La Carnia tace. Ma no fu sempre così, op. cit.).

 

Finiva quindi in quel 1967 ‘Alpe Carnica’ ma la gente scendeva in piazza, con i politici locali, ed infine si iniziava a sentire l’esigenza di un nuovo periodico, che la sostituisse.
Tre anni prima, nel 1965, era sorto, grazie ad alcuni universitari fra cui Adriana Pittoni e suo marito Giulio Boiti, il Circolo Universitario Culturale Carnico, che era locato allora in via Raimondo della Torre, con funzione di segreteria universitaria, di biblioteca popolare, di luogo di incontro e di cultura.
E proprio il C.U.C.C. si propose come il continuatore dell’esperienza di informazione e trasmissione che era stata della Comunità Carnica con ‘Alpe Carnica’, che aveva preso nome dalla mostra del 1950 o 1951 a Tolmezzo, creando ‘ Carnia Domani’. «Una collettività senza un giornale è una collettività senza anima», si legge sul primo numero. (f.f. forse Franco Frontali, La Carnia senza voce, op. cit., riquadro accanto al titolo).

Ed alla direzione di ‘Carnia Domani’ si succedettero Giulio Boiti e Claudio Toldo. Il comitato di redazione vide presenti: Enzo Gonano, Luciano Bonanni, Sergio D’ Orlando, Gigi D’Andrea. (Marina Di Ronco, Carnia Domani, in ‘Alpe Carnica. Carnia Domani’, op. cit.).

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Nell’ articolo di presentazione del nuovo periodico del Cucc, si può leggere il ruolo che la testata si proponeva di avere, e cioè quello di portavoce delle istanze della base verso il centro, senza preclusioni e di permettere alla Carnia di «mantenere il contatto quotidiano con i suoi rappresentanti, ma nella verità non nell’ inganno» (Ivi), avendo come fine unicamente «il progresso economico e sociale di una intera collettività». (f.f. forse Franco Frontali, La Carnia senza voce, op. cit.). 

Il periodico sarebbe durato sino al febbraio 1972. Ma già nel numero di dicembre 1969 si potevano leggere, a firma di Giunio Pedrazzoli, le difficoltà che il Cucc, e di riflesso il suo periodico, incontravano (Giunio Pedrazzoli, Vediamo anzitutto cos’ è il C.U.C.C., in. Carnia Domani dicembre 1969), che si potevano riassumere in uno scontro interno tutto politico anche se non partitico, legato alla proposta di una nuova dirigenza del Circolo ma anche alla ricerca di imprimere una svolta nuova al giornale, per cercare un più ampio contatto con la comunità di base. Altro problema ben evidenziato da Pedrazzoli allora, senza peli sulla lingua, ed ancora presente nell’Italia tutta, era quello dell’impegno personale. «Manca la volontà- scriveva Giunio – scarseggia la disponibilità verso ogni forma di iniziativa che non implichi qualche vantaggio personale diretto ed immediato». (Ivi).

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Spirava anche in Carnia il vento del sessantotto, con la svolta epocale data da Giovanni XXIII con Concilio Vaticano secondo, l’apertura alle altre religioni, la ‘pacem in terris’, firmata dal Papa quasi morente, ed in Usa i Kennedy: John, ucciso nel 1963, ed ancor più Bob, ucciso nel 1968 a Los Angeles. pure con le loro contraddizioni, ma che pagarono con la vita.

Come non condividere le parole dell’ Enciclica sopraccitata: «Ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; ed ha quindi il diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà»? Stiamo seguendo forse queste parole ora? – mi chiedo.

Qualche timido accenno a nuove idee stava quindi raggiungendo anche la sonnacchiosa Carnia, chiusa, da che mi ricordo, in una cappa di piombo, tutto scandita dalla presenza dell’esercito, dalla Democrazia Cristiana, da un clima di guerra fredda, da un Partito Socialista timido e da un Partito Social democratico ben più forte, da un Partito Comunista all’opposizione dal 1948 in poi, da una chiesa trionfante ed al comando.

E la prima idea innovativa, qui, fu una di quelle che non lo era poi molto: ‘ il campo fraternità’ di Tolmezzo del 1968 o 1969, nato dal mondo scautistico, grazie all’unione dei giovani intorno ad una raccolta differenziata di carta, stracci, materiale metallico, che ebbe del sovraumano come impegno e momento di incontro, e che dette luogo, pure, a molte docce e bagni domestici. Mi ricordo ancora la Topolino di Gianni Cella, mi ricordo Giunio Pedrazzoli, Anna Corva, Tarcisio e Tiziano Not, mille altri volti: una vecchia cassaforte che veniva calata; un mucchio notevole di giornali pornografici o quasi, provenienti dalla Tolmezzo all’apparenza tutta cattolica, bigotta e timorata di Dio; abiti e scarpe che uscivano dalle cantine; una montagna indescrivibile di stracci nel sottosuolo  della Casa della gioventù; un anziano insonne che si propose come guardia al nostro materiale metallico, che riempiva piazza Centa; i 6 milioni di ricavato dalla vendita, che andò ad una missione. Altro aspetto importante, che caratterizzò questa esperienza, come lo sciopero del 1967, fu che essa unì genitori e figli in una progettualità comune.

Ma ritorniamo al Cucc. L’articolo, intitolato “Vediamo anzitutto cos’è il CUCC” di Pedrazzoli riporta alla scissione interna al Circolo Universitario Culturale Carnico che vedeva contrapporsi due visioni diverse della società e della cultura, benchè il fine di esprimere le esigenze della comunità e cercare di dare loro risposte soddisfacenti fosse comune: una più direi tradizionale, portata avanti dal Direttivo del Cucc, ed una che cercava  sull’onda del sessanotto, nuovi temi e nuovi approcci e guardava insistentemente all’esperienza del gruppo Cooperativo delle Carniche prima del fascismo, a Basaglia, ai nuovi fermenti in atto anche nella società italiana.

Era giunto a Tolmezzo, per abitarvi, Remo Cacitti, studente di storia del cristianesimo all’Università Cattolica di Milano, che portò un’ulteriore ventata di novità. Ormai molti di noi studenti della Carnia all’ultimo anno del liceo o all’Università, sentivamo il fascino delle idee nuove, del nuovo modo di intendere la cultura, e guardavamo ai vecchi sonnacchiosi partiti come a qualcosa da innovare e superare.

Pertanto quando giunse il momento di rinnovare il direttivo del Circolo Universitario Culturale Carnico, che pure liceali agli ultimi anni frequentavano, come me, perchè luogo di incontro e dibattito e a causa dell’ampia biblioteca, e che stava pubblicando ‘Carnia Domani’ espressione ad avviso di alcuni di idee socialdemocratiche, un gruppo di giovani, fra cui io, decise di proporre la candidatura di Remo Cacitti alla presidenza, in assenza, fra l’altro, di nomi trainanti da parte avversa, e con un programma totalmente innovativo.  Ma all’ultimo momento il direttivo ancora in carica fece uscire dal cappello del prestigiatore il nome di Sergio Cuzzi, non solo non universitario ma, se ben ricordo che, a causa dell’età, non poteva essere nominato presidente. Ma riuscì ad essere eletto comunque, dopo una furiosa raccolta deleghe da ambo le parti, dall’Assemblea credo del dicembre 1969, grazie ad una modifica allo statuto e ponendo le basi per la nascita, dall’area perdente, del gruppo Gli Ultimi, prima ampio poi ridottosi a poche persone.

Pedrazzoli scrive che si cercò di superare il problema di dar voce al gruppo minoritario, quello che voleva Remo Cacitti presidente, creando, sempre con l’approvazione dell’Assemblea soci del dicembre 1969, un Comitato consultivo con compiti di formulare pareri e proposte al direttivo, ed operando per un miglioramento qualitativo dell’offerta culturale del Cucc, (Giunio Pedrazzoli, op. cit.) ma non sempre ogni escamotage per accontentare tutti riesce, penso tra me e me. Un ulteriore problema era poi dato dal fatto che se la linea politica e culturale del direttivo uscente aveva vinto all’ interno del Cucc, non vi era però stata una «maggioranza qualificata» a favore del nuovo direttivo e di Sergio Cuzzi, tale da non dover risentire, in futuro, di critiche e innovazioni.

Di fatto, con la presidenza Cuzzi, il ruolo primario di agenzia culturale territoriale del Cucc veniva lentamente a scemare, proponendosi il Circolo prevalentemente per l’adesione alla stagione di prosa carnica, con programma regionale, e la lodevole biblioteca, mentre all’orizzonte altre forze anche culturali apparivano in Carnia, sull’onda della storia nazionale ed internazionale. Ma di ciò parlerò nel prossimo articolo.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è una fotografia da me scattata, della prima pagina del primo numero di Carnia Domani. Laura Matelda Puppini

 

Marco Lepre. Gara di Enduro 2018. Proteste, perplessità e considerazioni al margine. (Aggiornato 2/06/2018 h.23.24)

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 Ieri il Messaggero Veneto ha dedicato ampio spazio al problema della presenza di moto da enduro e da trial sui percorsi di montagna. Qualche giorno fa un allarme era giunto, attraverso lo stesso quotidiano, pure dal Cividalese, in particolare dalle Valli del Natisone e dal comune di Premariacco, dove venivano segnalate scorribande da parte di motociclisti austriaci. (Cfr. Lucia Aviani, “La calata dei motociclisti-vandali” – Scoppia il caso di “fuoristradisti” austriaci che a ondate colpiscono dalle Valli a Premariacco, in: Messaggero Veneto, 27 maggio 2018). Così scrive la Aviani: «Un panorama da calata degli Unni. Scoppia, a Cividale e dintorni, il caso degli “enduristi” austriaci, truppe di appassionati del motociclismo fuori strada che da un paio di settimane (a blocchi di una ventina di unità) arrivano in loco per dilettarsi sulle alture e nelle campagne che circondano la cittadina ducale. Risultato? Un massacro, segnalano numerosi residenti e gli stessi praticanti “autoctoni” della disciplina […]. . (…). E la vicenda sta preoccupando, dal momento che non di scorribande una tantum si tratta, bensì di qualcosa di strutturato, destinato a quanto pare a protrarsi nel tempo: a veicolare nel Cividalese i motocilisti sarebbe infatti un tour operator d’oltre confine, ideatore dello specifico pacchetto. (…). E il quadro è ovunque lo stesso: «Disastri. Terreni massacrati, perfino su sentieri Cai, e immondizia», sintetizza chi ha posto il problema, già comunicato alla Polizia locale dell’Uti del Natisone e alla Guardia forestale. E trova così soluzione anche il “giallo” della presenza di una pila di pneumatici abbandonata nell’area di sosta attigua alla sede centrale della Banca di Cividale, dove giorni fa era stato allestito un gazebo che ora si rivela essere stato al servizio proprio degli enduristi austriaci: qualcuna è stata recuperata, non si sa bene da chi e con quali criteri, mentre alcuni residui tuttora stazionano sul posto assieme a rifiuti vari». (Ivi).

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Anche in zona Rivoli bianchi – Illegio  forse un anno fa erano stati segnalati motociclisti pure austriaci che scorazzavano. All’origine invece dell’intervento di Marco Lepre, responsabile regionale di Legambiente per la Montagna, che qui riporto, c’è quanto accaduto recentemente ad Ampezzo e Socchieve, in occasione del Trofeo KTM Enduro, organizzato dal Moto Club Carnico di Tolmezzo. Laura Matelda Puppini

«Là dove c’era l’erba … Proteste e perplessità per l’ennesima gara di enduro in Carnia.

 Uno dei più bravi alpinisti della nostra regione lì ha definiti da tempo “i nuovi barbari” e, a giudicare dalle immagini che riproduciamo in queste pagine, il giudizio pare perfettamente calzante. Quello che era un pascolo ricco di flora e di colori come solo i prati della Carnia sanno essere in questa stagione, appariva domenica 6 maggio, dopo l’effettuazione della “prova speciale” di enduro svoltasi ad Ampezzo, nelle condizioni che potete vedere: nemmeno una tromba d’aria o un velivolo precipitato dal cielo avrebbero potuto far di peggio.

 

                    

 

Foto di Marco Lepre.

Questo è stato possibile perché la competizione è stata autorizzata, in deroga ai divieti previsti dalla Legge Regionale 15 del 1991 e alle sue successive integrazioni e modificazioni, dalle autorità locali: il Comune di Ampezzo e, per la parte relativa al territorio di Socchieve, l’U.T.I. della Carnia. Una delle motivazioni che ammette questo tipo di manifestazioni, in determinati casi e a condizione che poi si ripristino i luoghi riportandoli allo stato precedente, è un positivo ritorno di immagine per la regione e un beneficio sul piano turistico per il territorio coinvolto, capace di bilanciare l’inevitabile danno ambientale prodotto.

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Foto di Marco Lepre

L’ipotetico ritorno economico per le strutture ricettive, che gli organizzatori delle prove motoristiche non mancano di sottolineare annunciando il “tutto esaurito” per un paio di giorni negli alberghi e nei “bed & breakfast”, è però tutto da dimostrare. Anche in questa occasione, come già era avvenuto negli scorsi anni a Tolmezzo, i circa 200 partecipanti alla gara di enduro hanno raggiunto la Carnia per lo più in camper e hanno consumato i pasti direttamente sotto le tende e i gazebo allestiti presso il centro sportivo. Poco lavoro anche per gli esercizi pubblici del paese, dal momento che pare che il Moto Club Carnico abbia preferito gestire in proprio un chiosco per il consumo di bibite sempre nei pressi del campo sportivo. E il pubblico? Chi ha percorso gli oltre 3 chilometri dell’intero tracciato della “prova speciale” organizzata a Cima Corso, una delle occasioni in cui si poteva assistere ai passaggi più “spettacolari”, dice di non aver
incontrato più di una quindicina di spettatori, meno degli addetti all’organizzazione presenti sul percorso! E domenica 6 maggio era una bella giornata di sole. Se avesse piovuto?
E allora? Che senso ha mettere a disposizione il proprio territorio, prati, boschi e sentieri di montagna, per un gruppo di “appassionati” motociclisti che appestano l’aria con i loro gas di scarico? Alcuni amministratori sostengono che così si “rivitalizzano” i paesi. Hanno chiesto cosa ne pensano a coloro che scappano dalle città e vengono in montagna alla ricerca di pace, aria pulita, natura, con la speranza di incontrare magari qualche animale selvatico?

 

Abusivismo e aggressioni. Per Legambiente l’assenza di controlli e la tolleranza verso le infrazioni hanno raggiunto ormai un livello inaccettabile.

La Regione Friuli Venezia Giulia si è dotata fin dal 1991 di una legge che regolamenta il transito dei veicoli a motore sui percorsi di montagna sottoposti a vincolo idrogeologico e ambientale. Se lo ha fatto è fondamentalmente per perseguire due obiettivi sacrosanti: uno di tutela della natura e dell’ambiente, l’altro di sicurezza e di non intralcio nei confronti delle attività forestali, agricole e di allevamento che utilizzano la viabilità minore per esigenze di lavoro. Dovrebbe essere quindi preciso impegno e interesse della gente di montagna e degli amministratori locali fare in modo che la legge venga rispettata.
A distanza di ventisette anni la situazione che si è venuta a creare è invece secondo  secondo me, che sono il responsabile regionale di Legambiente per la Montagna, particolarmente preoccupante, perché ci troviamo davanti ad un diffuso abusivismo, che coinvolge singoli individui e piccoli gruppi di motociclisti provenienti anche dall’Austria. Qualche tempo fa lo stesso Parroco di Tolmezzo ha dovuto segnalare la presenza di moto da enduro lungo l’itinerario storico che conduce alla Pieve di San Floriano, sopra Illegio. Il problema è che non ci si limita a danneggiare i sentieri e le mulattiere frequentati dagli escursionisti, ma che si sono create delle vere e proprie piste abusive fin all’interno di aree boschive.

Questo risultato è il duplice effetto di una insufficiente e spesso assente opera di controllo e repressione del fenomeno da un lato e della tolleranza, se non addirittura l’aperto sostegno, anche finanziario, nei confronti di manifestazioni sportive, come il Trofeo di Enduro svoltosi ad Ampezzo domenica 6 maggio e non competitive, come ad esempio la “Motocavalcata delle Alpi Carniche”, annunciata per il prossimo mese di giugno. Si è creato un circolo vizioso: il fatto che periodicamente vengano autorizzate in deroga alla legge manifestazioni che coinvolgono qualche centinaio di partecipanti stimola poi i singoli a frequentare durante tutto l’anno itinerari che hanno le stesse caratteristiche tecniche.

                              

 

Foto di Marco Lepre.

Fino a qualche anno fa se ti imbattevi in un motociclista lungo un sentiero questi se la dava a gambe o cercava di scusarsi e di giustificare in qualche modo una presenza in un luogo a lui interdetto. Oggi se fai notare a qualcuno che non si può circolare senza targa e che la legge gli vieta la presenza su certi percorsi rischi come minimo di venire insultato. Roberto De Prato, un socio del CAI con problemi di disabilità motoria, è stato aggredito lo scorso agosto a 1800 metri di altitudine, dopo aver fotografato due motociclisti che percorrevano abusivamente un sentiero in una zona di tutela ambientale.  Della vicenda si è occupata recentemente anche “Montagne 360” la rivista nazionale del Club Alpino Italiano che ha sottolineato le vergognose minacce e gli insulti che De Prato ha dovuto subire in seguito anche sul web.

A breve due “appassionati motociclisti” saranno chiamati a rispondere davanti ad un Giudice di quanto è avvenuto. Uno di essi figurava tra gli organizzatori della “Motocavalcata delle Alpi Carniche” e apparteneva al Moto Club che si faceva garante del rispetto della legge. Legambiente si augura che di fronte a fatti di tale gravità le autorità compiano adesso una seria riflessione.

 

Tolmezzo, 31 maggio 2018                          Marco Lepre, responsabile regionale di Legambiente per la Montagna.

 

 

2 giugno 2018. Contro l’ipotesi di Repubblica presidenziale.

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Oggi 2 giugno 2018, felice di avere un governo nato da una intesa fra le forze politiche elette dal popolo e grazie al consenso del Presidente della Repubblica, vorrei parlare del mio no in Italia ad una Repubblica presidenziale.

Mi giunge via email una richiesta di firmare una petizione a favore di una repubblica presidenziale, sostenuta dalle destre, alla francese o non alla francese, e mi chiedo a chi sia venuta la bella idea, anche se forse allora il governo non era ancora insediato, di chiedere quanto, cambiando la Costituzione. «La proposta è arrivata da Matteo Salvini, in diretta video su Facebook: “La Lega raccoglierà le firme su una proposta di legge per un Presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini, in modo che possa rispondere direttamente ai cittadini del suo operato”, ha dichiarato il leader del Carroccio. Della stessa linea è Giorgia Meloni, che ha annunciato banchetti di Fratelli d’Italia in tutto il Paese per far firmare una petizione (anche online) per il presidenzialismo. “La più grande riforma che possiamo fare è l’elezione diretta del capo dello Stato. Perché se il capo dello Stato vuole scegliere i ministri lo devono votare gli italiani”, ha spiegato Meloni».  (Cfr. Governo, Salvini: “Raccolta firme per l’elezione diretta del capo dello Stato”. Meloni: “Facciamo il presidenzialismo” in: Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2018. Per la raccolta firme ed adesioni, cfr. https://firmiamo.it/italia-presidenziale–elezione-diretta; lanciata da Giampaolo Corrias, https://www.change.org/p/parlamento-italiano-elezione-diretta-del-capo-dello-stato, petizione lanciata da Rosario Vitale, pare di Gorizia; http://italiapresidenziale.blogspot.com/2017/). Per fortuna le firme sono pochissime, mentre più adesioni ha il testo di italiapresidenziale.blogspot.com/2017, il che fa pensare che, magari, in ipotesi, sotto Gentiloni anche alcuni sostenitori del Pd potessero averlo sottoscritto, in presenza di qualche confusione fra pensiero di destra e pensiero di sinistra, che non sono affatto identici o desueti, mentre una scelta del genere comporterebbe rischi grandissimi per la nostra democrazia già ammalata.

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«Questi che vogliono una repubblica presidenziale sono come Berlusconi e Renzi» – penso tra me e me- cui forse ‘sogni personali’ fecero inseguire tenacemente l’idea di poter esercitare un potere quasi assoluto. E mi scuso subito per aver pensato quanto, ma si sa che detto desiderio fu di molti e ci fece pure finire sotto un regime, che raggiunse il suo scopo  ‘con il ferro ed il fuoco’ con i picchiatori, l’olio di ricino, le uccisioni, Italo Balbo e consimili.

Per quanto riguarda poi il presunto testo attribuito a Calamandrei (perché non vi è la fonte e io non l’ho trovato) e senza contesto: «A chi dice che la Repubblica presidenziale presenta il pericolo delle dittature, ricordo che in Italia come si è veduta sorgere una dittatura non da un regime a tipo presidenziale, ma da un regime a tipo parlamentare, anzi parlamentaristico, in cui si era verificato proprio il fenomeno della pluralità dei partiti e della impossibilità di avere un governo appoggiato ad una maggioranza solida che gli permettesse di governare.” Piero Calamandrei 5 Settembre 1946», citato da https://firmiamo.it/italia-presidenziale–elezione-diretta, e da http://italiapresidenziale.blogspot.com/2017/, se è vero che il regime seguì ad un governo eletto dai voti maschili e dovette uccidere Matteotti e creare l’errore dell’Aventino per prendere il potere assoluto, con la compicità della monarchia, è anche innegabile che il fascismo, e di questo mi occuperò pure in seguito, non fu come molti pensano statalista, ma al soldo di potentati agrari ed industriali che lo vollero e finanziarono per interessi personali, per timore che i troppi poveri prendessero il potere e guadagnassero il pane a spese dei loro privilegi, per concentrare capitali e sfruttamento territoriale in poche mani private, succhiando ad altri soldi e risorse. Emblematici restano il caso dell’Ente per l’economia montana in Friuli, quello del cooperativismo del nord Italia e dell’Istituto Nazionale di Credito per la Cooperazione, rapinato dal fascismo dei soldi raccolti, e trasformato dallo stesso, nel 1929, in Banca Nazionale del Lavoro, con mutamento dei fini per cui il denaro era stato versato. (http://www.raccontolimpresa.it/wp-content/uploads/2014/04/BNL-Dal-1913-al-1940.pdf).

E se, sotto il P.N.F., le ferrovie funzionarono, nel lombardo – vneto ed in Friuli, era credo più per il retaggio di una mentalità austriaca che andava scemando che per altro. «Co’ ierimo sotto Cecco Beppe – penso tra me e me –  una pure pedante organizzazione faceva funzionare tutto» – non l’inseguire i sogni di un impero del piccolo Mussolini, che fece di migliaia di italiani carne da macello.
Se poi qualcuno, a Latina e dintorni, ringrazia il fascio per una casa ricevuta, è comprensibile, ma il potenziamento dell’edilizia pubblica popolare era anche nei piani pregressi di liberali e socialisti. Quindi a me pare che Benito Mussolini non abbia espresso nulla di nuovo, e parlando terra a terra, abbia fatto spendere alla Nazione un mare di lire per i suoi sogni di grandeur al fianco di Hitler, appoggiati magari da qualche industriale, agrario, o speculatore, pronto poi a voltar gabbana alla fine del secondo conflitto mondiale.

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Inoltre quando si parla della Francia e di ‘sistema alla francese’ non ci si ricorda che qui non siamo in Francia, che non abbiamo la storia della Francia, che non dobbiamo scimiottare nessuno, e che dobbiamo fare i conti con la nostra storia ed il nostro passato, che è ben poco europeo, non europeista, e che in Italia, come dappertutto, alcuni hanno il desiderio di comando, fregandosene della pluralità di pensiero. E tristemente penso, per esempio, a Berlusconi, che fu a due passi dal trasformare l’Italia in una repubblica presidenziale, ed al sogno, per fortuna fermato dalle urne, di un governo plenipotenziario di Matteo Renzi, più simile, nella sua concezione, a mio avviso, al Gran Consiglio del fascismo che ad altro. E se erro correggetemi. E se si può in poco tempo rottamare tutto, incoscientemente, dando un discutibile giudizio negativo globale sul pregresso, si sa però che poi non è possibile senza analisi, ricerca e conoscenza, ricostruire dalle ceneri in cui potrebbe esser finito anche ciò andava bene, come puntualmente abbiamo visto, senza creare il caos.

Ed io credo che chi ha voluto dittature e repubbliche presidenziali siano sempre stati potentati economici od oligarchie, siano stati inizialmente membri dell’aristocrazia o persone che tendevano a raggiungere tale status, della chiesa e dell’esercito, come spesso la storia insegna, dalla Spagna al Cile, e persone legate ad interessi personali in economia e nell’accaparrarsi il territorio e le risorse altrui, di cui parlava anche il vescovo di Baghdad nel 2003. (Cfr. Laura Matelda Puppini, Dialogo a più voci. Il vecchio mondo sta morendo. Coglieremo il lucignolo fioco che ci indicherà la strada alternativa?, in: www.nonsolocarnia.info).

Interessante appare poi, anche la seconda parte del testo della raccolta firme e consensi in: http://italiapresidenziale.blogspot.com/2017/,  intitolato : «Italia Presidenziale, Repubblica del Popolo Sovrano», (quando anche un cretino capirebbe, come lo capirono i padri costituenti, che il popolo è sovrano in una democrazia rappresentativa, e non delegata o presidenziale), che sottolinea come la richiesta di una Repubblica presidenziale prenda «come spunto la proposta Presidenziale PDL del 2013( per la parte espressamente riguardante il Presidente della Repubblica)». Quindi questa richiesta dell’elezione diretta del presidente della Repubblica che lo trasformerebbe in “Capo di Stato”, è vecchio sogno di Berlusconi e c., che speriamo di non vedere mai avverato.

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Infine guardiamo ad alcuni aspetti della storia francese e della sua politica, che ci ha regalato pure migliaia di migranti libici. La Francia fu uno dei primi stati nazionali, fu uno stato con suoi illustri rappresentanti antisemiti, soprattutto dalla seconda metà del 1800, fu la nazione del caso Dreyfus, fu potenza coloniale che utilizzò verso le popolazioni sottomesse i metodi del colonialismo. E se è vero che fu lo Stato in cui avvenne la rivoluzione francese, è innegabile che alla stessa seguì l’assolutismo di Napoleone Bonaparte imperatore, anche se organizzatore di una nuova struttura politico- amministrativa, per passare poi al secondo impero, fino a raggiungere la terza Repubblica, che portò ad un minimo di struttura parlamentare decisionale. Quindi, «dopo il mancato sostegno del governo di Fronte popolare alla Spagna repubblicana impegnata nella guerra civile, la sostanziale subalternità alla Gran Bretagna in politica estera condusse il governo del conservatore Daladier ad appoggiare la politica dell’’appeasement nei confronti della Germania nazista, ed ad essere tra i promotori di quel Patto di Monaco (1938) che di fatto sancì l’incapacità delle democrazie europee di trovare subito la forza di opporsi frontalmente all’aggressività hitleriana». (‘Francia’in:  http://www.treccani.it/enciclopedia/ francia_(Dizionario-di-Storia)/).

Nel secondo dopoguerra vi fu un governo provvisorio capeggiato a Charles De Gaulle, che si dimise nel gennaio 1946, in polemica con il sistema dei partiti, e che dette vita al movimento di destra Rassemblement du peuple français, mettendo in crisi le alleanze di governo basate sulla collaborazione dei partiti della Resistenza (socialisti, comunisti e Mouvement républicain populaire). «I governi successivi si orientarono verso un liberalismo conservatore», mentre all’orizzonte si profilavano i problemi dell’Indocina e del Maghreb. (Ivi).

Ma per ritornare a Charles De Gaulle, il movimento”Rassemblement du peuple français”, da lui fondato, riportò un grande risultato alle elezioni amministrative, ma non alle politiche del 1951. Quindi il Generale iniziò un periodo di volontario esilio politico nel suo ritiro di Colombey-les-Deux-Eglise, da cui fu richiamato il 1° giugno 1958 ed eletto Presidente del Consiglio dall’Assemblea nazionale, con pieni poteri e la possibilità di elaborare una nuova Costituzione, il cui testo venne approvato il 28 settembre dello stesso anno.

Il 21 dicembre del 1958 fu eletto Presidente della Repubblica, dando origine alla Quinta repubblica, con un sistema elettorale e politico fortemente presidenzialista. Ai tempi dei fatti di Algeria, sostenne l’autodeterminazione per la colonia del nord- Africa, nel 1962 introdusse in Francia l’elezione diretta del Presidente della Repubblica,  alle elezioni del 1965 vinse contro il socialista François Mitterand, e potenziò ulteriormente lo Stato, rifiutando l’adesione alla Nato.  Nel 1968 si trovò a dover gestire il maggio francese, caratterizzato da scioperi e cortei, e così prese contatto con le forze militari e sciolse l’Assemblea Nazionale creando una situazione simile ad un golpe. Dopo il fallito referendum per dare maggior potere alle regioni ed al Senato, con la Francia in mano alle destre contrarie ad ogni innovazione, il 28 aprile 1969 si dimise da Presidente della Francia, ritirandosi a vita privata a Colombey, dove morì il 9 novembre 1970. (Charles De Gaulle biografieonline.it/).

Pompidou vinse le successive presidenziali del 1969, ma la sua morte diede il via a un duello elettorale a destra tra Chaban-Delmas e Giscard d’Estaing, rappresentante del liberalismo. L’appoggio dei gollisti favorì Giscard, che raggiunse il 51% al secondo turno delle presidenziali, contro il 49% per Mitterrand, leader del Partito socialista. Motivi di tensione sociale, aggiunti alle rivalità a destra e al crollo del PCF al 15%, che rassicurò alcuni settori elettorali, facilitarono l’elezione di Mitterrand alla presidenza, con il 51% dei voti nel 1981. Il governo P. Mauroy (1981-84), cui partecipò il PCF, realizzò numerose riforme (abolizione della pena di morte, nazionalizzazioni, imposta sul capitale, settimana di 39 ore, pensionamento a 60 anni, abbozzi di cogestione nelle imprese ecc.), ma la crisi economica portò a scegliere il rigore e il blocco dei salari (1983). Con il governo di L. Fabius (1984-86), senza i comunisti, l’inflazione cadde al 5%, diminuì il carico fiscale, ma non la disoccupazione, e parve abbandonata ogni idea di riforma. Nel 1988, fu rieletto Mitterrand contro Chirac. Le elezioni politiche del marzo 1993 vedevano la forte affermazione dell’alleanza di centrodestra (giscardiani e gollisti) e il tracollo socialista. Poi la storia recente.  (‘Francia’ op. cit.).

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Non mi pare quindi, anche leggendo Le monde diplomatique, che la Francia sia, per i veri democratici,  un esempio da seguire del tutto anche nella sua attuale struttura di governo, anche se dette lavoro a molti emigranti carnici e friulani, mentre credo che, sull’onda di quanto espresso dalla nostra Costituzione del 1948, redatta da chi aveva conosciuto il fascismo da vicino, la divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario assieme alla pluralità dei partiti e delle idee, espresse in modo realmente informato e non in mano alle mire della propaganda, di cui fu maestro Joseph Goebbels, nazista, la rappresentatività popolare e il ricambio dei rappresentanti dei partiti democratici nonché il confronto di ipotesi di soluzioni diverse, votandone poi una, possano essere il vero baluardo di una repubblica democratica che non dia spazio ad alcuna ipotesi presidenzialista, né a destra né a manca.

Quello che auspico, invece, è che in Italia vengano ridotti il potere mafioso e la corruzione, facendo presente che se pochi sono al potere, teoricamente sono più facilmente ricattabili e ‘corruttibili’. E non possiamo, se non mettendo la testa sotto la sabbia e facendo la politica dello struzzo e delle tre scimmiette, non riconoscere che quando qualcuno dice che la corruzione deve diminuire in questo suolo per me patrio ha ragione, come deve impensierire che «il 79,1% del campione di giovani considera come strumento più efficace per trovare lavoro ‘chiedere l’aiuto di una persona potente’ e questo senza differenze di genere, area geografica, titolo di studio, tipologia contrattuale e condizione lavorativa. Al secondo posto, il 66,7% del campione indica come canale efficace ‘chiedere l’aiuto di parenti, amici e conoscenti». (I Giovani italiani e la visione disincantata del Lavoro. Divergenze e convergenze con genitori e imprese, in: http://www.odmconsulting.com/mediaObject/odm/store/giovani-e-lavoro/executive_summary/original/executive_summary.pdf). Non da ultimo appare sconcertante come i servizi pubblici ed i loro operatori siano intoccabili, come il cittadino non facoltoso o potente non si riesca spesso o quasi sempre, neppure in presenza di torto subito, a chiedere giustizia e togliersi il ruolo di vittima, il che riporta a ben tristi pregressi. Ma questa è altra storia, per altro articolo, ed è un problema di tramonto dell’etica comune e comunitaria, nata anche dalla Resistenza, rispettosa del prossimo ed incentrata su diritti e doveri. Forse davvero bisognerebbe reintrodurre l’educazione civica a scuola. Questi sono i veri problemi da affrontare in Italia. 

Quindi No ad una forma di governo ancora più staccata dalla gente, No ad una repubblica presidenziale.

W LA FESTA DELLA REPUBBLICA, W LA REPUBBLICA ITALIANA. 

Laura Matelda Puppini

Ho scritto questo articolo senza voler offendere alcuno, ma solo per riportare mie impressioni personali e se erro correggetemi. Vi rimando pure al mio precedente per il 2 giugno 2017 sempre su www.nonsolocarnia.info.

Sul 2 giugno e la Repubblica

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: http://www.meteoweb.eu/2018/06/buon-2-giugno-2018-buona-festa-della-repubblica-video-auguri/1100362/ Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

Marco Puppini. Cantieri Navali di Monfalcone, la morte sul lavoro.

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Si sta svolgendo in questi giorni al tribunale di Gorizia il processo per la morte nei Cantieri Navali di Monfalcone il 21 febbraio 2011 dell’operaio bengalese di 22 anni Mia Ismail. Il processo sta facendo luce sui particolari della vicenda. Ismail lavorava per una delle tante ditte esterne cui la direzione dei cantieri, seguendo da anni una precisa strategia organizzativa, appalta diverse parti della costruzione di una nave. La ditta aveva terminato il suo lavoro, ma stando all’accusa qualcuno si era accorto che mancava ancora un tubo dell’acqua tecnica ed aveva così mandato una squadretta mista, quattro operai, due bengalesi e due italiani, a provvedere al montaggio in un’area ormai chiusa. I quattro si erano mossi in uno spazio ristretto, completamente al buio tanto da dover usare un cellulare per vedere qualcosa, senza alcuna misura di sicurezza. Giunti sul posto, sempre al buio, Ismail aveva iniziato a lavorare col trapano ma la punta era caduta. Cercando di recuperarla, era caduto in un condotto di aerazione, un volo dentro un tubo lungo 32 metri. Probabilmente era morto sul colpo, in realtà non sappiamo se abbia sofferto e quanto, in fondo a un tubo, al buio, una tomba orrenda, prima di spirare, Certamente, il tribunale avrà modo di accertare tutti i fatti (Il Piccolo 31 maggio 2018).  

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La morte di Ismail non è stato né il primo né l’ultimo incidente mortale in Cantiere negli ultimi dieci anni. L’ultimo in ordine di tempo è accaduto pochi giorni fa, il 9 maggio scorso. Matteo Smoilis, un bel ragazzo di origine triestina e residente in Friuli, biondo, di 19 anni, sempre dipendente di una ditta esterna in questo caso di famiglia, è morto schiacciato da un enorme carico di 700 chili che gli è piombato addosso sotto gli occhi inorriditi del padre e del fratello che lavoravano assieme a lui, un dolore che non avrà fine. Meno di un anno prima, il 2 marzo 2017, il bosniaco Sinisa Brankovic, 40 anni, operaio esperto, anche lui dipendente di un’impresa esterna, mente si spostava sul sottotetto di un capannone in costruzione per la verniciatura delle navi, è morto mettendo un piede in fallo e precipitando da una ventina di metri. Va ricordato anche che il mese di gennaio dello stesso anno un ragazzo, triestino, Francesco Vallon, era rimasto gravemente ferito schiacciato da un carrello durante una manovra. Era stato ricoverato d’urgenza in unità spinale all’ospedale di Udine. Il 21 febbraio 2011 era morto Ismail Mia. Il 16 ottobre 2008, tre anni prima, l’italiano Mauro Sorgo, 43 anni, era morto stritolato da una porta stagna della sala motori che si era chiusa al suo passaggio a bordo della Ruby Princess uno dei gioielli della Fincantieri. Questa morte aveva provocato da parte della società l’annullamento della cerimonia di consegna della nave, alla quale sarebbe intervenuto il presidente del Senato, Renato Schifani. Infine, il 23 aprile 2008, sei mesi prima, l’operaio croato Jerco Yuko, 40 anni, dipendente di un consorzio di imprese, era morto schiacciato da un carrello sotto gli occhi del fratello Marko, che aveva dovuto essere ricoverato in stato di choc. In occasione di queste morti, i sindacati avevano proclamato scioperi di protesta, e molti lavoratori avevano donato una o due ore del loro stipendio alle famiglie delle vittime.

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Da oltre vent’anni la Fincantieri ha attuato una profonda revisione dell’organizzazione del lavoro all’interno degli stabilimenti di Monfalcone, chiamando un numero sempre maggiore di ditte ed imprese esterne a realizzare le diverse parti delle navi in costruzione. Ditte esterne nelle quali, è la cronaca dei quotidiani a ricordarcelo, si sono avuti anche fenomeni di infiltrazione della camorra, di illegalità, di sfruttamento nei confronti di una manodopera immigrata debole, ricattabile, disposta a tutto. Questa riorganizzazione ha consentito al gruppo di avviare un nuovo ciclo espansivo dopo anni di crisi, con la costruzione nel 1990 delle prime navi da crociera, meglio conosciute come le “Principesse di Monfalcone”. Nel 2009, quando questa nuova organizzazione del lavoro era ormai completata, i dipendenti diretti Fincantieri nello stabilimento erano 1.700, quelli di ditte esterne che lavoravano in appalto circa 3.000, ed oggi la situazione non è certo cambiata. Molti lavoratori a Monfalcone sono convinti che questa nuova organizzazione, che ha anche comportato crescenti carichi di lavoro,  abbia portato ad un clima di trascuranza se non di sufficienza verso le misure di sicurezza ed accresciuto affaticamento e stress, oltre ad indebolire l’influenza dei sindacati, tutti elementi che hanno favorito il moltiplicarsi di infortuni anche mortali.

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Con la ditte in appalto l’azienda infatti ha ottenenuto una grande elasticità nell’utilizzo della forza lavoro. Una volta terminato uno scafo, non correva il rischio di tenere inattivi operai in attesa di nuove commesse; le ditte terminavano il lavoro che avevano in appalto e se ne andavano. Gli operai delle ditte hanno contratti propri, non sono inquadrati con il contratto vigente in Cantiere, alcune hanno sede all’estero. Ogni ditta ha alle dipendenze molti operai generici, che possono essere mandati a casa e sostituiti senza problemi. Esistono paghe diverse, parte pagate in nero. Ed anche una diversa cultura rispetto ad esempio alla sicurezza. L’azienda ha tagliato progressivamente i tempi, ed ha messo sotto pressione tutti, le ditte in particolare. Così il clima di solidarietà ed anche sindacale è andato peggiorando. Questo ha spezzettato e diviso la classe operaia in Cantiere.

Certo, ci sarà sempre un sapientone che dirà che se vogliamo il lavoro e lo sviluppo dobbiamo anche pagarne i costi. Se l’impianto elettrico della sua casa desse pericolose scariche ai suoi familiari, questo sapientone direbbe che se vogliono la corrente elettrica devono essere pronti a sopportare le scosse, o si metterebbe al lavoro, cacciavite in mano, per riparare il guasto? Ed a Monfalcone, ma è ovvio che è solo uno dei tanti casi in Italia, i guasti da riparare ci sono. Del “duro confronto” con la Fincantieri promesso dalla nuova sindaca leghista di Monfalcone resta solo il ricordo di alcuni teatrini. Restano anche i “dispetti” nei confronti della comunità bengalese e dei lavoratori immigrati in generale, nel tentativo di presentarli come rozzi barbari da isolare ed emarginare dal tessuto sociale della città. La morte però non mi pare abbia fatto queste distinzioni.

Marco Puppini – autore anche di: Costruire un mondo nuovo. Un secolo di lotte operaie nel Cantiere di Monfalcone, edito a cura del Comune di Monfalcone, Anpi Monfalcone, Centro L. Gasparini, Gorizia 2008.

Sul cantiere cfr. su: www.nonsolocarnia.info, anche: I Cosulich e gli operai del cantiere di Monfalcone, fra Austria, Italia, lotte operaie ed un museo.

L’immagine che correda l’articolo è tratta solo per questo uso da: https://www.si24.it/2015/07/01/ancora-chiuso-il-cantiere-navale-di-monfalcone-probabile-cassa-integrazione-per-i-dipendenti/97161/, e mostra il cantiere di Monfalcone. Laura Matelda Puppini

INDICE ARTICOLI PUBBLICATI NEL 2017.


Anna Squecco Plozzer. Fruts a Cjavaç. (Bambini a Cavazzo Carnico).

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Questa intervista ad Anna Squecco Plozzer è stata fatta, presumibilmente, perché purtroppo, in mille faccende affaccendata, non ho segnato allora la data esatta, nel 1981 o 1982. Era presente anche mia madre, la dott. Maria Adriana Plozzer, e pure lei è intervenuta. Avevo chiesto a mia nonna di raccontarmi come si viveva da bambini a Cavazzo Carnico, ed ella così mi ha narrato.

Come vestivano i bambini un tempo.

«Un tempo fasciavano i neonati. Mettevano il pannolino di tela, e poi prendevano una fascia e li avvolgevano dalla cinta ingiù, e sopra mettevano loro una camicina. Quando erano più grandicelli, vestivano con un grembiule fatto di cotone. Poi mi rammento di aver visto i maschietti con i pantaloncini corti, e con un pezzo di camicia lasciata fuori dietro, dove i pantaloncini erano aperti perché potessero fare i bisogni. Le femminucce, invece, avevano la sottana, ma stavano senza le mutande. E non mettevano magliette di lana sotto, sulla pelle, e mi ricordo che a me ne hanno messe un paio in valigia solo quando sono andata in collegio. Noi si aveva un vestito e un grembiule, i maschi una camicia e i pantaloni … E ai piedi avevamo tutti le ‘dalbide’ (specie di scarpe fatte con il legno) o gli zoccoli, che avevano la suola di legno e la parte superiore in cuoio. Ma si stava caldi, sai, con gli zoccoli!!!

Portavamo anche delle calze fatte in casa, d’inverno di lana e in primavera di cotone, e d’estate si andava anche scalzi o con gli scarpetti (1) ai piedi. E d’inverno tutti i bambini avevano la sciarpa ed il berretto, mentre le bimbe portavano il fazzoletto.  Le donne, per ripararsi dal freddo, usavano gli scialli, mentre ai bimbi venivano messi maglie e maglioni, ed ai maschi più grandicelli forse una giacchetta. E credo che tua bisnonna Laura non abbia mai indossato un cappotto, se non quando è morta! Noi bambine invece, avevamo la camicia, una sottoveste, il vestito ed il grembiule di cotone, ma teneva più il cotone della lana, il fazzoletto ed una sciarpa più o meno larga. 

Tutti i bimbi andavano a scuola, ma facevano anche dei lavoretti.

Tutti i bimbi andavano a scuola, ed anche quelli che facevano fatica ad imparare, frequentavano finchè potevano. Ma aiutavano anche la famiglia. Per esempio non c’era allora l’acqua in casa, ed i bambini più grandicelli prendevano i secchi ed andavano a prenderla alla fontana, e poi la portavano sia in casa sia per abbeverare le mucche. Inoltre i bambini andavano a fare la spesa, scopavano le stanze e lavavano i piatti, a cominciare dai 5- 6 anni. I genitori volevano che si imparasse a fare tutti i lavori domestici. Però quando i bambini imparavano a fare qualcosa, succedeva che poi gli adulti dovessero rifare tutto, ma, piano piano, apprendevano.

Inoltre non avevamo acqua calda corrente, allora, e, per lavare i piatti, compito affidato anche ai bambini, si metteva quella scaldata sullo ‘spolert’ in un catino, ma non poteva essere però troppo calda, perché ci si poteva scottare. E ci davano uno scopettino, e con quello passavamo i piatti, e poi li mettevamo in mucchio sopra l’acquaio, e quindi li passavamo sempre con la stessa acqua ed infine li mettevamo a sgocciolare.

Ed i bambini, quando era tempo di scuola andavano a scuola, ed altrimenti andavano in campagna, ad aiutare a tirar vicino il fieno e andavano ad agosto nel campo a togliere l’erba nel granoturco e nelle patate. Insomma facevano dei lavoretti adatti a loro. E quando era la stagione dei lamponi, andavano a raccoglierli in compagnia degli adulti, ma talvolta erano più di danno che di utile, mentre potevano prendere bacche o fiori per gioco.
Inoltre noi a Cavazzo avevamo la montagna lontana, e così, già grandicelle, andavamo con i nostri genitori sotto il Piciàt (del Faeit ndr), ed in Forchia, appena tagliato il bosco, a raccogliere mirtilli e lamponi. Invece da San Rocco in poi andavamo a raccogliere nocciole, non noci, perché i noci si trovavano negli orti.
Ed in primavera tutti i bambini, il giovedì che era giornata di libertà dalla scuola, andavano a fare vimini, e poi li spellavano e, dopo tolta la corteccia, li segavano. E questa raccolta era affidata quasi esclusivamente a loro. Ed a San Rocco venivano su artigiani da Osoppo, che li utilizzavano per fare cesti, e i bimbi li vendevano, per comprarsi, con il ricavato, ciambelle o qualcosa di utile. Invece far legna nei grandi boschi era compito degli adulti, e se portavano un bambino con loro non era certo per farlo lavorare, ma per dargli qualche legnetto. Era compito dei bimbi, poi, andare a portare il latte in latteria, od a prenderlo se la famiglia non aveva mucche,

L’ impegno nell’ allevamento dei bachi da seta anche nelle scuole, e l’uccellagione.

In alcune case e nelle scuole, poi, allevavano i bachi da seta. I grandi andavano a tagliare in campagna i rami del gelso e li portavano a casa, e poi i bambini dovevano togliere tutte le more, che ovviamente non erano ancora mature, perché dicevano che non si poteva assolutamente mettere ai bachi un ramo con le more. Inoltre quando i bachi erano piccoli, ed il ramo grande, i bambini rompevano un pezzetto del ramo stesso.

I più grandicelli andavano, poi, anche ad uccellare con gli archetti. Questi erano formati da un ramo di noce, che veniva piegato un poco alla volta, e quindi legavano uno spago facendo un laccio. E facevano in modo che l’uccellino ci andasse sopra, e quindi restasse impigliato con le zampette. Se andassero a caccia di ghiri o costruissero trappole per allodole non lo so, perché eravamo due bambine e non eravamo in contatto con i maschi.

Vita di bimbi.

Questo anche mi ricordo di Cavazzo. Quando il norcino, che andava ad uccidere il maiale, incontrava per strada un bambino, gli diceva per spaventarlo: “Scjampe di corse a cjase, se no i tiri fur il curtiŝ, e i fas svisc… svisc… “E noi via, come fulmini!  Prendevamo una paura! Ma non faceva mica niente a nessuno!

E quando bambini stavano via più del solito, ed i genitori non sapevano dov’erano, li apostrofavano dicendo:«Là che tu seis stat in zingaròn?» E se i bambini cercavano di ascoltare i discorsi dei grandi, dicevano: “Va fur! Ce astu di sta a ascoltâ?”

I bambini rispettavano molto gli adulti, ed era proprio raro che facessero scherzi ad un adulto. Io mi ricordo una volta, che era il primo aprile, ed io e mia sorella abbiamo pensato di andare da Catina dal Muini, e di “ ‘fale lâ in avrîl’ (modo di dire che sta per farle uno scherzo per il primo aprile ndr) “dato che iei a dis che nissun a rive a fale lâ in avrîl. (dato che dice che nessuno riesce a farle uno scherzo per il primo aprile). Ma nou i la fasìn lâ. Ma cemut fasino? (Ma noi le faremo uno scherzo. Ma come?)” E allora mia sorella è andata da Catina e le ha detto: “Catina! Ha dit me mari che vignis vie un moment, ca à bisugne di cjacaravi un pouc! (Catina, mi ha detto mia madre che veniate da noi un attimo, perché ha bisogno di parlarvi”. E Catina: “Orpo, ce ca à? Migo alc di mâl? (Cos’ha? Mica sta male o è successo qualcosa?)” E così Catina è andata da Laura, nostra madre, e le ha chiesto cosa fosse successo. Ma nostra madre le ha risposto che non l’aveva mandata a chiamare. Allora Catina ha capito e ha detto: “Mostras di frutas! A mi la àn fata lôr”.  Naturalmente mia madre, ben si intende, ci ha sgridate perché non si scherza con i vecchi».

In cimitero a pregare e curare le tombe, a scuola ad imparare a cucire.

Anna: «Noi bambini si andava in cimitero, non solo ai Santi, ma anche ogni volta che ci si trovava nei paraggi».
Maria Adriana: «Tutto l’anno si andava in cimitero.  Anche quando ero bambina, si andava, io e Silvia, a riordinare la tomba di nonno Tita, che si trovava nel cimitero vecchio, vicino alla chiesa. Allora i cimiteri si trovavano vicino alle chiese, e, prima o dopo la Messa, si andava a riordinare le tombe».
Anna: «Noi bambini andavamo a Messa da soli, perché prima della Messa c’era la dottrina. E qualcuno poteva arrivare in ritardo, ma in genere erano i maschi: noi femmine avevamo più paura.

Noi bambine imparavamo da piccole a cucire. Intanto quando si andava a scuola c’era, una volta alla settimana, l’ora del cucito. Quando eravamo piccole, in prima elementare, la maestra ci insegnava a fare il legaccio, quando eravamo in seconda, invece, si portava a scuola un pezzo di tela, di lenzuolo grosso, di quelli tessuti a mano, e ci insegnava a fare delle greche e gli alfabeti in diversi modi, ed alla fine si scriveva in fondo, sempre con le lettere a punto in croce: “lavoro eseguito da …”».
Maria Adriana: «Anche quando frequentavo le elementari io c’era l’ora di cucito, e mi ricordo che in terza elementare ho fatto l’esame di cucito, che ho superato a stento, perché non ero brava in disegno e cucito. E la realizzazione della camicia a punto macchina, diritto, ma fatto a mano, in quinta elementare, l’ha terminata tua nonna Anna, perché io non riuscivo a finirla». E aggiunge che era lodevole in italiano, aritmetica, storia, geografia, ma solo sufficiente in cucito.
Anna: «E quando eri piccola tu, Maria, le camicie si facevano con i bottoni sulle spalle, mentre quando andavo a scuola io, si faceva lo sprone, ed in alcune parti si dovevano fare i punti molto piccoli, e se i punti erano troppo lunghi, la maestra ce li faceva disfare, e giù lacrimoni! E poi facevamo camicie lunghe e con le maniche, e non era semplice. E l’orlo in fondo doveva essere perfetto, e se non lo era: disfa e rifai!»

Fra filastrocche, bambole, e “Cumò a rive la muart”.

Poi, alla domanda di Laura, se ci fossero filastrocche particolari che si raccontavano nelle sere d’inverno, Anna dice che c’era solo ‘La conta’, che era una filastrocca senza senso, e la recita: «Santa stricca di piticca, di pitocca, carabulla, asinella, buona vita porachella».  «Era una conta, con cui si giocava, mettendo i piedi in un certo modo, e così si usava fare anche con: “An dan dè, si se male pè, si se male pu, an dan du” (2). Alla fine della conta si riportava i piedi alla posizione iniziale, di corsa. Ma c’erano sicuramente altre filastrocche, solo che non le ricordo. Per quanto riguarda i giochi, giocavamo a “Girotondo”, a “È cotto il pane, sì anche bruciato …”, e si giocava con i sassetti.

Le bambine, poi, giocavano con le bambole, che venivano fatte con la stoffa non nuova, in genere bianca. Si prendeva la stessa e la si arrotolava. Poi si piegava in due, e con un pezzo di filo si costruiva il viso. Quindi si prendeva un pezzo di tela più sottile, si arrotolava anche quello e si faceva il petto, e con un altro pezzo, divaricandolo, le gambe e poi si facevano le braccia, che venivano cucite al tronco. E poi si segnavano con il filo due puntini neri sul viso per fare gli occhi, e si disegnavano le ciglia, e con un pezzetto di filo rosso si faceva la bocca, e basta. Ma nonna Laura faceva la testa in modo diverso. La faceva sempre con la tela bianca e faceva con il filo gli occhi, ma poi stringeva un po’ la stoffa per fare il naso, e poi faceva belle labbra rosse. E quindi creava anche il collo, e dal collo faceva salire alla testa un pezzo di calza vecchia e vi attaccava dei pezzi di lana disfatta, che restava un po’ arricciata, e così faceva i capelli, che intrecciava formando due treccine che chiudeva in fondo con dei nastrini.

I maschi, invece, avevano giochi diversi, e quando le zucche erano mature, le svuotavano e facevano ‘ le morti’, con un bastone ed una candela, per far paura alle bambine, e ci facevano scappare. E dicevano: “Cumò a rive la muart!”

Allora molti bambini morivano, e tutti mangiavano quello che c’era e si lavavano come potevano.

Quando ero piccola e giovane, morivano nei paesi molti bambini, in genere di patologie intestinali, di indigestioni, insomma a causa di qualcosa che non avevano digerito. E se una mamma non aveva latte, dava al bambino latte di mucca allungato con acqua, e poi incominciava presto con le pappe, come il ‘brut brusat’, fatto con la farina doppio zero. Si faceva rosolare la farina nel burro e la si allungava con il latte, e veniva come una morbida crema.

I bambini mangiavano quello che mangiavano gli adulti, cioè quello che c’era. Noi alla mattina mangiavamo pane e latte, e la domenica caffè e latte, e qualche volta ci davano polenta arrostita sulla brace con il latte freddo, e so che mi piaceva davvero.  Oppure qualche volta facevano il gjûf con il latte. Anche a Sauris mangiavano ‘gjûf’ la mattina, ma non lo facevano come noi. Loro lo facevano con l’acqua, e poi prendevano un po’di ‘roba’ di maiale, la friggevano in un pentolino, facevano un buco in mezzo a quella morbidissima polentina, e buttavano lì quel condimento. Invece a casa mia, nelle altre non lo so, facevano il ‘gjûf’ mettendo a bollire latte e acqua e poi buttando la farina. Una volta cotta la farina nell’acqua e latte, si consumava il ‘gjûf’ con il latte freddo».

Maria Adriana: «Nella famiglia di zio Lino (3) facevano il pane in casa, e mi ricordo che stavano molto attenti a non consumare. E quando mettevano in tavola la salsiccia, il vecchio la divideva in pezzetti più o meno lunghi a seconda dell’età di chi la doveva mangiare, cosicché il più piccolo ne aveva un tocchetto da ‘arriva e non arriva’».
Anna: «E poi mettevano in mezzo alla tavola la terrina del radicchio, e tutti lo prendevano con la forchetta, tanto che mia sorella, che non era abituata così a casa nostra, fece all’inizio fatica ad abituarsi. Noi non avevamo miseria, e quindi non so cosa facessero i più poveri. Cosa vuoi, dalla parte di mia madre non mancava niente, e se a noi fosse mancato qualcosa vi avrebbe provveduto subito mia nonna Anna (4). E Per lavarci usavamo il secchio».
Maria Adriana: «Zia ci dava un secchio di acqua ciascuno, e ci mandava in quella stanza dove teneva i formaggi. I bambini fino ai sei sette anni, invece, li lavavano in cucina, e se non volevano che entrasse qualcuno, chiudevano la porta, perché i bambini non prendessero freddo. Ed era una cosa che si faceva la sera, o prima di andare a Messa, o quando si tornava dai campi o da qualche gita. E si lavavano in particolare le gambe e le cosce (5)».

Quando non pioveva da tempo noi bambini … E sul cimitero delle bambole.

Anna: «Quando non pioveva mai, quando era ‘secco’, ci si riuniva tutti noi bambini, si prendeva un Cristo, un crocefisso, quello che poi era in casa di zi’ Utta, (6) e si partiva, un po’ parlando, un po’ scherzando, un po’ pregando, e si andava sino al tiglio di Napoleone, lì “del Bianco”, e lì si pregava ancora, finchè non veniva sera. E alla prima giornata seguiva la seconda, e poi la terza. Ed una volta che c’ero anch’ io, non essendo successo niente, dopo la terza sera, siamo andati su, sempre e solo noi bambini con il Cristo, fino lì del ponte di Daudaç. Appena più insù, c’era un Cristo che era stato posto perché lì uno era morto. E un ragazzo ha detto: “Scolte mo’ Signor, prove ce ca vul dî vei cialt, e ce ben ca si sta inta l’aghe! (Ascolta ora Signore, cosa vuol dire aver caldo, e che bene si sta nell’acqua)!”. E ha preso il Crocefisso, e lo ha messo nell’ acqua! Non so però se queste erano iniziative nostre, di bimbi, o se qualcuno ci invitava a fare queste processioni, ma era un’usanza di allora. E mi rammento anche che una volta si andava a Sant’Ilario a Tolmezzo a pregare per la pioggia.

E mi ricordo pure che, bambine, andavamo a seppellire le bambole in cuel di Tesa, e dopo dieci giorni andavamo a vedere se erano ‘vive’. Avevamo il cimitero noi, in cuel di Tesa. E lì c’era una specie di roccia, di piccola grotta, e lì andavamo pure a far da mangiare … Tutti giochi come i grandi, poi.

E per ora basta, perché abbiamo parlato per un pomeriggio intero. Ci sarebbe molto ancora da raccontare, ma chi si ricorda più …».

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Intervista di Laura Matelda Puppini alla maestra Anna Squecco Plozzer, con interventi pure della dott. Maria Adriana Plozzer Puppini, sua madre, 1981 o 1982. Trascrizione da Cd di Laura Matelda Puppini. Trasporto da cassetta registrata a CD: AVF Nimis.

Laura Matelda Puppini.

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(1) Scarpe fatte di stracci e cucite con spago. Per gli stessi cfr. http://www.turismo.it/tradizioni/articolo/art/scarpet-4-cose-da-sapere-sulle-calzature-friulane-di-recupero-id-12362/.

(2) Per questa conta cfr altre versioni in: http://www.filastrocche.it/nostalgici/cont/andande.htm.

(3) Lino Pillinini, detto Lino di Bidìn, marito di Maria Squecco sorella di Anna.

(4) Anna Paronitti, di Tolmezzo, della famiglia detta ‘Giate’, era la madre di Laura e la nonna di Anna e Maria Squecco. Di famiglia benestante, aveva sposato giovanissima Giacomo Zanini, veneto, forse originario di Oderzo, esattore del Regno d’Italia, benestante e poi possidente, da cui aveva avuto molti figli. Alla sua morte, avvenuta improvvisamente, Anna si era trovata in difficoltà a causa di persone che non avevano pagato i debiti contratti con lui, e, dopo aver venduto i beni tolmezzini, si era ritirata nella casa di campagna a Cavazzo Carnico, continuando a curare i possedimenti che aveva ivi.

(5) Non si capisce bene se con il termine ‘cosce’ qui si intenda anche i genitali esterni femminili.

(6) Zi ‘Utta’ era il modo con cui in famiglia si chiamava Maria, la sorella di Anna Squecco. Esso deriva dal diminutivo Mariutta, da cui Utta, per abbreviare. 

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L’immagine che accompagna l’articolo ritrae Laura Zanini e Giobatta Squecco con le figlie Anna e Maria – Archivio casa Plozzer. Proprietà Maria Adriana Plozzer.   Laura Matelda Puppini 

Marco Lepre. Lettera al Presidente dell’Uti ed ai Sindaci della Carnia sulla Motocavalcata delle Alpi Carniche 2018.

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Al Presidente dell’U.T.I. della Carnia
Ai Sindaci dei Comuni interessati

Oggetto: Osservazioni in merito alla “Motocavalcata delle Alpi Carniche 2018”

Il sottoscritto MARCO LEPRE, nato a Tolmezzo il 16.4.1953, in qualità di presidente pro-tempore del circolo Legambiente della Carnia, associazione iscritta al Registro Regionale del Volontariato ed emanazione di Legambiente ONLUS, organizzazione riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente, in merito alla richiesta di autorizzazione della manifestazione “Motocavalcata delle Alpi Carniche” avanzata dall’Associazione Sportiva Dilettantistica “Mo.C.Tu.S.” di Ovaro,

presenta le seguenti osservazioni:

1 –  FACCIAMO UN BILANCIO. 

È ormai da vari anni che la nostra associazione, così come altre che si occupano della tutela dell’ambiente montano, presenta le proprie “osservazioni” riguardo alla richiesta di autorizzazione in deroga ai divieti previsti dalla L.R. 15/1991 e succ. mod. ed int., avanzata per tutta una serie di manifestazioni motoristiche, sia di carattere competitivo che non.

Credo che chiunque si prenda la briga di rileggersi quegli interventi scoprirà quanto essi fossero lungimiranti e paventassero il verificarsi di conseguenze che poi, purtroppo, si sono puntualmente avverate. Non che i nostri sforzi e il nostro impegno siano stati del tutto inutili o non siano stati presi in considerazione, solo che, spesso, un risultato è stato ottenuto solo davanti all’evidenza dei fatti. Ad esempio, è stato necessario documentare le pessime condizioni in cui nel giugno 2012 era stato ridotto il sentiero segnavia CAI n. 205, tra Casera Tamarut e Casera Rioda, dai partecipanti a quella edizione della “Motocavalcata”, per stabilire il principio che tutti i sentieri curati dal C.A.I. dovessero essere automaticamente esclusi dai percorsi. Dopo la segnalazione di palesi violazioni rispetto a quanto stabilito nelle “autorizzazioni”, è stata poi recepita un’altra nostra proposta, della quale è stata riconosciuta la ragionevolezza da parte dei funzionari della Comunità Montana, vale a dire l’introduzione di un automatico diniego, nel caso in cui si verificassero queste violazioni, per le future edizioni che dovessero essere riproposte dalle medesime associazioni.

Nell’affrontare nuovamente questo argomento, riteniamo pertanto che tutti i soggetti interessati, ed in primo luogo le istituzioni a cui spetta valutare e decidere sulle nuove richieste di autorizzazione o esprimere un parere, debbano fare una seria riflessione e un bilancio complessivo di quanto sta accadendo. Non era, infatti, certo tra gli obiettivi dei legislatori che hanno introdotto la possibilità di deroghe ai divieti, quello di incentivare le pratiche abusive che si stanno registrando in questi ultimi anni.

A noi sembra evidente che l’accondiscendenza spesso dimostrata nell’accogliere le tesi sostenute dagli organizzatori delle varie manifestazioni (basti pensare alla prevalenza assegnata alle esigenze del calendario gare stabilito dalla Federazione Motociclistica, rispetto alla necessità di minimizzare l’impatto sull’avifauna, particolarmente delicato nei periodi di nidificazione), unita all’insufficienza e spesso alla completa assenza di controlli e di repressione degli illeciti da parte del corpo forestale e delle altre forze preposte alla vigilanza, hanno finito per creare un pericoloso “circolo vizioso”. Come era facile immaginare, l’effettuazione di gare o “motocavalcate” non competitive in aree di solito interdette ai veicoli a motore, ha generato una spinta all’emulazione e la convinzione, tra i proprietari di moto da enduro e da trial residenti in Friuli, che quello che viene “eccezionalmente” consentito a molti, in una determinata giornata, possa essere lecito, o comunque tollerato, per i singoli o per piccoli gruppi, durante tutto il resto dell’anno.

Il risultato è che oggi, rispetto a quindici anni fa, ci troviamo davanti ad una crescita dell’abusivismo praticato in tutti i mesi dell’anno, alla presenza di gruppi di motociclisti d’oltralpe che, come hanno riferito anche recentemente i giornali, effettuano delle vere e proprie scorribande anche all’interno di aree naturali protette, alla realizzazione di piste abusive di allenamento in ambiti boschivi e fluviali che interferiscono, oltretutto, con iniziative di turismo basato sul silenzio e la tranquillità (come il “Cammino delle Pievi”), alla diffusa circolazione, anche sulla viabilità ordinaria, di mezzi privi di targa, etc. etc.. Per non parlare dell’aumento della maleducazione e dell’arroganza che si riscontra nei motociclisti colti in flagrante a transitare su percorsi a loro interdetti, come chiunque si sia trovato in questa situazione può testimoniare.

Come si saprà, questi atteggiamenti, di per sé preoccupanti, hanno ampiamente superato il limite di guardia con quanto avvenuto lo scorso mese di agosto, a 1800 metri di altitudine, sul versante meridionale del Gruppo del Monte Crostis, quando si è verificata una grave aggressione nei confronti di un socio del CAI, colpito per di più da disabilità motoria, che aveva fotografato un gruppo di motociclisti mentre percorrevano abusivamente un sentiero.

Il fatto che il principale imputato di questo reato, chiamato a risponderne davanti al Tribunale di Udine, sia il sig. G.C.S., residente a Comeglians, persona che figurava già nell’edizione 2014 della “Motocavalcata delle Alpi Carniche” come uno dei referenti dell’A.S.D. Mo.C.Tu.S. di Ovaro, nella domanda da questa presentata alla Comunità Montana, chiude il cerchio. Bisognerà naturalmente attendere una sentenza definitiva, ma fin da adesso possiamo sottolineare che né da parte dell’associazione motoristica di Ovaro, né da parte di altre associazioni del medesimo ambiente, sia stata espressa solidarietà nei confronti di chi è stato aggredito, né che sia stato condannato o si siano prese le distanze da questo gravissimo episodio. Al contrario – come ricordato in un articolo apparso sul numero di maggio 2018 di “Montagne 360”, la rivista nazionale del CAI – sappiamo che la vittima ha dovuto subire attraverso i social network accuse e ingiurie provenienti dal mondo degli “appassionati” dei motori.

Se a rappresentare l’associazione che dichiara e si impegna a rispettare le norme stabilite dalla legislazione regionale è anche chi per primo si fa cogliere, in più di un’occasione, a percorrere in sella alla sua moto percorsi vietati e si macchia poi di un reato particolarmente odioso perché perpetrato per futili motivi e nei confronti di un disabile, non sappiamo quale credito possa d’ora in poi essere a questa concesso. Il nesso tra pratica abusiva degli sport motoristici e organizzazione di manifestazioni in deroga alla L.R. 15/1991, che già avevamo ipotizzato in passato, facendo notare la presenza di immagini che ritraevano moto da trial e da enduro sulla vetta del Monte Lovinzola esibite anche dal sito web che pubblicizzava l’edizione 2012 della ”Motocavalcata”, parrebbe ora inequivocabilmente dimostrato e dovrebbe spingere tutti a trarre le inevitabili conclusioni.

2 – L’IMMAGINE DELLA REGIONE.

Ribadita l’importanza e l’assoluta priorità degli aspetti sopra riportati, veniamo dunque più direttamente alla richiesta avanzata nell’aprile scorso dal Mo.C.Tu.S. di Ovaro e ai motivi che suscitano comunque la nostra forte contrarietà verso questa iniziativa.

Come è noto il Regolamento di attuazione dell’art. 5 della L.R. 15/1991 prevede all’art. 3, punto 3, la possibilità del rilascio di autorizzazioni in deroga ai divieti previsti per le manifestazioni che dimostrino “una prevalenza dell’interesse pubblico, costituito dalla rilevanza e positiva eco dell’avvenimento sull’opinione pubblica e dall’immagine che di conseguenza verrà a trarne la Regione Friuli Venezia Giulia, rispetto all’entità dell’impatto ambientale presunto e ferma restando la reversibilità dello stato del territorio ad avvenimento concluso”. Non bastassero le “bandiere nere” assegnate da “Carovana delle Alpi” (la campagna nazionale di Legambiente dedicata alla montagna), le mail di protesta inviate da turisti provenienti anche da fuori regione (cfr. la raccolta presentata in occasione delle “osservazioni” alla “Motocavalcata” del 2012) e gli articoli apparsi sulla stampa locale, ora si aggiunge anche la vicenda del procedimento penale che riguarda uno dei referenti passati (non sappiamo se tuttora iscritto all’associazione) del Mo.C.Tu.S. di Ovaro. Un accostamento di questo genere non depone certo a favore dell’immagine della nostra Regione, il cui logo figura, assieme a quello di Turismo FVG, sulla domanda inoltrata dall’associazione motoristica carnica lo scorso 12 aprile.

Sappiamo che è intenzione di alcuni Consiglieri Regionali, di differenti formazioni politiche, presentare proprio in questi giorni delle interrogazioni al Presidente Fedriga e alla Giunta per chiedere conto di questa presenza e non è escluso che, venuti a conoscenza del fatto, questi enti ed istituzioni neghino di essere stati contattati o ritirino il loro patrocinio. Consigliamo quindi un accertamento sul significato della presenza del marchio della Regione, anche perché appare abbastanza anomalo che questa istituzione abbia concesso un patrocinio ad una manifestazione che non era ancora stata autorizzata e che prevede dei percorsi (alcuni dei quali coincidenti con sentieri CAI) che non erano ancora stati esaminati ed approvati dall’ente allo scopo preposto.

Ci sembrerebbe oltretutto una evidente contraddizione dover constatare che la Regione, mentre con una mano finanzia il CAI per curare la nostra rete di sentieri montani, con l’altra sostiene e appoggia chi quegli stessi sentieri danneggia e rischia di rendere impercorribili. La stabilità e le caratteristiche del fondo dei sentieri vengono, infatti, seriamente compromesse anche nel caso si prevedano interventi di ripristino con riempimento delle buche e delle tracce create. Queste azioni rischiano di diventare dei rabberciamenti provvisori e di venire facilmente vanificate a seguito dei ruscellamenti provocati dagli eventi atmosferici, tipici del nostro territorio, innescando ulteriori fenomeni di erosione.

Ci permettiamo, quindi, di dubitare fortemente che dall’autorizzazione di questa manifestazione possa derivare un inequivocabile positivo ritorno di immagine per la Regione Friuli Venezia Giulia.

3 – E QUELLA DEL TERRITORIO.

Gli organizzatori della “Motocavalcata delle Alpi Carniche”, per giustificare la richiesta di autorizzazione in deroga alle leggi che regolamentano il transito di veicoli a motore sui percorsi di montagna, sostengono che la loro manifestazione, di carattere non competitivo, ha lo scopo di promuovere il territorio montano e di portare un beneficio alle nostre attività turistiche.

A sostegno della loro tesi portano una serie di elementi: articoli su siti specializzati e riviste di settore che parlano in termini positivi dell’avvenimento e del nostro territorio; elevato numero di presenze di partecipanti alla “Motocavalcata” e di loro parenti, provenienti anche dall’estero;  possibilità di acquisto di prodotti tipici caseari presso le malghe e gli agriturismi toccati dall’itinerario.

Sul primo aspetto (promozione del territorio) sembrerebbe sufficiente sottolineare che per apprezzare le bellezze della Carnia è più semplice stare seduti a casa propria e viaggiare su internet alla ricerca di immagini e informazioni, piuttosto che farlo in sella ad una moto, percorrendo in poche ore, a velocità sostenuta rispetto alle difficoltà del terreno, quasi duecento chilometri di strade e sentieri, senza poter gettare uno sguardo alla meravigliosa flora che ricopre i nostri prati in questa stagione, né avere la possibilità di gustare la pace e il silenzio, così ricercati dai turisti che vengono dalla città, che consente anche di avvistare con una certa facilità caprioli e altri esemplari della fauna selvatica. Che la rivista “Motociclismo Fuoristrada” abbia giudicato la “Motocavalcata delle Alpi Carniche” una delle più belle d’Italia, poco ci interessa, specie se questa è la premessa per far giungere altri “appassionati” di enduro con l’intenzione di scorrazzare liberamente tra i nostri monti. La visione, in alcuni casi davvero “raccapricciante”, dei video rintracciabili sul web, realizzati nelle precedenti edizioni della “Motocavalcata” dagli stessi partecipanti, è la peggior pubblicità che si possa immaginare se rivolta nei confronti di tutti quei turisti che vogliono recarsi in montagna per sfuggire al rumore e all’inquinamento delle città e incontrare qualcosa di originale e culturalmente coinvolgente.

Nel 2002, proclamato “Anno Internazionale delle Montagne”, il nostro circolo condusse, in occasione di un trekking della durata di un paio di settimane, effettuato tra le Alpi Giulie e le Alpi Carniche, un’indagine tra gli escursionisti incontrati sui sentieri e nei rifugi, da cui emerse che il 92% degli intervistati giudicavano “del tutto negativamente” la liberalizzazione dell’accesso con veicoli a motore lungo le strade che conducono alle malghe e ai rifugi. Se sulle strade forestali e addirittura sulle mulattiere ed i sentieri si fanno transitare le moto, dove se ne andranno questi turisti “responsabili”, che, fortunatamente, sono la tipologia prevalente e, a detta degli esperti, in continua crescita? E soprattutto, se si fanno giungere in un colpo solo centinaia di moto in mezzo alle mucche, sui pascoli di alta montagna e se si consente loro di attraversare zone ben conosciute per la raccolta del “radic di mont” (Cicerbita Alpina), come il versante del Cret di Laveras, sopra Ovasta di Ovaro, inserito nell’itinerario della “Motocavalcata”, che ricaduta pensiamo di ricevere per i nostri prodotti agro-alimentari e gastronomici?

4 – UN TURISMO “MORDI, FUGGI E DISTRUGGI”.

Sulla reale portata dell’indotto delle manifestazioni motoristiche, altro tema portato a favore del rilascio dell’autorizzazione, sarebbe poi interessante ragionare su dei dati ufficiali riguardanti le presenze ed i pernottamenti e non su affermazioni e ipotesi del tutto vaghe e generiche. Dopo tante edizioni della “Motocavalcata” pretendiamo che vengano portate delle statistiche che documentano gli incrementi delle presenze turistiche registrate nelle strutture ricettive, confrontandole con quelle rilevate in analoghi periodi dell’anno. Diversamente non ci resta che immaginare che, anche in questa occasione, accada quello che abbiano constatato per manifestazioni simili. Il 5 e 6 maggio scorsi, ad esempio, nel territorio dei Comuni di Ampezzo e Socchieve, si è svolta una gara ufficiale di enduro, rientrante nel circuito “Trofeo KTM”. I circa 200 partecipanti hanno raggiunto la Carnia per lo più in camper e hanno consumato i pasti direttamente sotto le tende e i gazebo allestiti presso il centro sportivo. Poco lavoro anche per gli esercizi pubblici del paese, dal momento che il Moto Club Carnico ha preferito gestire in proprio un chiosco per il consumo di bibite sempre nei pressi del campo sportivo. E il pubblico? Chi ha percorso gli oltre 4 chilometri dell’intero tracciato della “prova speciale” organizzata a Cima Corso, una delle occasioni in cui si poteva assistere ai passaggi più “spettacolari”, dice di non aver incontrato più di una quindicina di spettatori, meno degli addetti all’organizzazione presenti sul percorso! E domenica 6 maggio era una bella giornata di sole. Se avesse piovuto?

Dunque, il prossimo 16 e 17 giugno, stando agli organizzatori della “Motocavalcata”,  mentre gli accompagnatori riempiranno i “siti archeologici” e le “botteghe artigiane” dei nostri paesi, i partecipanti in moto faranno acquisti di prodotti presso le malghe che incontreranno lungo il loro itinerario. Ma quali prodotti pensano che possano essere venduti in un periodo in cui le malghe non saranno nemmeno tutte caricate ed i formaggi eventualmente preparati non hanno la possibilità di essere ancora messi in commercio? Che logica avrebbe, poi, portare delle forme dal fondovalle per  metterle in vendita nelle malghe (magari facendole passare per prodotti di qualità) e da lì farle riportare nuovamente a valle dai motociclisti?

Ecco, siamo stanchi di leggere simili cose e soprattutto di vedere accreditate come serie certe affermazioni che non stanno né in cielo né in terra. Ogni amministratore locale chiamato a dare un parere sull’opportunità di iniziative di questo genere dovrebbe fare una seria riflessione e trarre un bilancio tra supposti benefici e reali svantaggi. Non si può mettere a disposizione il nostro ambiente naturale in cambio di qualche decina di pernottamenti in più negli alberghi e un incremento del consumo di birre.

Qualcuno ha coniato uno slogan efficace per definire questo tipo di turismo: “mordi, fuggi e distruggi”. Non è quello di cui abbiamo bisogno.

5 – IMPATTI AMBIENTALI.

La relazione, che secondo il Regolamento di attuazione della L.R. 15/1991 dovrebbe mettere obbligatoriamente in evidenza tutti gli elementi di interferenza con l’ambiente, è stata ridotta nel caso in oggetto ad una paginetta scarsa, nemmeno sottoscritta da un tecnico, un esperto forestale od un’altra persona qualificata. Già questo aspetto dovrebbe suscitare perplessità e costituire motivo di richiesta di integrazione o di rigetto dell’istanza. Se a questo si aggiunge il fatto che, prevedendo il transito nelle vicinanze della ZSC (Zona Speciale di Conservazione) del Col Gentile, di un ambito, cioè, che rientra nella rete protetta di “Natura 2000”, lo svolgimento di attività od interventi anche  temporanei necessita di una “valutazione di incidenza”, appare evidente anche la mancanza di questo documento fondamentale.

Tornando alla scarna relazione presentata dal Mo.C.Tu.S., dopo aver falsamente sostenuto che l’itinerario si svolge su “mulattiere per lo più già adibite al transito di mezzi motorizzati” (transito “abusivo”, si sarebbe eventualmente dovuto precisare) e sottolineato che si attraversino solo zone dove non sono “segnalate specie rare e protette” (basterebbe pensare alla flora presente nel tratto di sentiero segnavia CAI n. 158 tra Malga Claupa e Malga Agareit che si sviluppa tutto al di sopra dei 1600 metri di altitudine, sul versante meridionale del Monte Arvenis), viene riprodotta, con un evidente “copia e incolla”, una serie di affermazioni estremamente generiche, cui ci siamo abituati, in cui si rassicura dell’assenza di conseguenze negative per l’ambiente. Ad esse segue una tabella sui periodi di nidificazione di alcune specie di uccelli (della quale non è nemmeno indicata la fonte!), tabella quanto mai limitata nel numero preso in esame, che presenta evidenti errori, non considera che alcune specie si riproducono più volte l’anno e non tiene neanche conto che la “Motocavalcata” si svolgerà ad altitudini variabili tra i 500 metri di Sutrio ed i 1900 metri di Forcella Ielma. Oltre ai periodi di cova si sarebbero dovuti indicare poi quelli di allevamento dei piccoli al di fuori del nido. Sostenere che il periodo in cui dovrebbe avvenire la “Motocavalcata” (metà giugno) è stato scelto perché “garantisce di non interferire con accoppiamenti e nidificazioni” non ha alcun senso, oltretutto perché la metà di giugno si trova proprio nel pieno della stagione riproduttiva dell’avifauna nelle zone interessate dalla manifestazione.

Nessun cenno al fatto che molti animali, a partire dalle femmine di capriolo, proprio in questo periodo partoriscono o hanno appena avuto i loro piccoli, né un riferimento ad altre specie  tutelate, come certi anfibi che si riproducono nelle zone umide o nelle pozzanghere che si trovano lungo le piste forestali, dove abbiamo visto, nei filmati da loro stessi realizzati e messi in rete, i partecipanti alla Motocavalcata divertirsi puerilmente a passare più volte. Esiste, in realtà, sia un pericolo di schiacciamento per la fauna minore, come anfibi e rettili, sia di disturbo a causa dell’inquinamento acustico prodotto. A questo proposito è bene ricordare che un conto è il rumore di una singola moto, un altro quello provocato da dieci o venti moto, dato che i partecipanti alla “Motocavalcata” girano di solito in gruppi. Anche per il rischio, sempre presente, data la difficoltà dei percorsi, spesso sconnessi, di perdite di olio e carburante in seguito a piccoli incidenti, non si fa alcun cenno, né si prevedono precauzioni di sorta.

Ci auguriamo che gli uffici dell’U.T.I., o lo stesso corpo forestale, abbiano provveduto a contattare i servizi regionali che si occupano della tutela della fauna per un parere preventivo e per evitare quanto accaduto in occasione del Campionato di Enduro organizzato il 30 e 31 maggio  2015 a Tolmezzo, quando una “prova speciale” organizzata in località Curiedi, attorno al biotopo delle Torbiere, venne a coincidere con la cova di alcune coppie di re di quaglie.

6 – CONTROLLI.

Uno dei punti dolenti che abbiamo dovuto riscontrare nelle precedenti edizioni della “Motocavalcata”, così come in occasione di altre manifestazioni motoristiche autorizzate in Carnia nel corso degli ultimi anni, riguarda l’assenza o la insufficienza dei controlli da parte del corpo forestale. In una delle prime edizioni, solo attraverso i filmati diffusi in rete si scoprì che un gruppo di partecipanti, sbagliando percorso, era transitato all’interno di un’area protetta che era stata esclusa dal percorso ufficiale: troppo tardi per poterli sanzionare.

A noi è capitato di assistere e anche di documentare fotograficamente: deviazioni dagli itinerari previsti; segni della presenza di “abusivi” che approfittavano della manifestazione per frequentare sentieri in prossimità della zona di svolgimento della stessa; transito di mezzi a quattro ruote (quad) dell’organizzazione, non autorizzati. Non sappiamo, in effetti, quali e quante infrazioni il corpo forestale abbia inflitto in queste occasioni. Certamente l’estensione dei percorsi per oltre un centinaio di chilometri comporta una estrema difficoltà di controllo e di impiego di personale, spesso impegnato in altre attività. Quello che ci sentiamo di sostenere è che sarebbe necessario assicurare in questi casi una maggiore presenza di guardie forestali. Se ciò non fosse possibile, è chiaro che la garanzia fondamentale per il corretto svolgimento della manifestazione e per il rispetto delle prescrizioni potrebbe essere dato solo dalla serietà e affidabilità degli organizzatori. Ci dispiace, a questo proposito, ricordare nuovamente il comportamento tenuto dal sig. G.C.S. del Mo.C.Tu.S.: possiamo ancora fidarci serenamente?

Dal momento che nella domanda di autorizzazione si mena vanto della presenza di numerosi motociclisti stranieri, in particolare austriaci e tedeschi, riteniamo inoltre opportuno, qualora la manifestazione venisse confermata, che l’elenco degli iscritti venga preventivamente sottoposto ad una verifica da parte del corpo forestale. Tra i partecipanti alla “Motocavalcata” potrebbero infatti esserci alcuni dei motociclisti stranieri che già percorrono abusivamente i sentieri dei nostri monti, dei quali sono già state prese le generalità e che spesso non pagano le multe, la cui riscossione, attraverso procedure internazionali, risulta troppo onerosa e complicata a detta del nostro corpo forestale.

 7 – SICUREZZA.

Il Regolamento di attuazione della L.R. 15/1991 prevede all’articolo 4, punto 4, lettera “d” che gli organizzatori indichino le “modalità con cui si intende eseguire la vigilanza per la durata della manifestazione … e con cui si intende delimitare in modo inequivoco l’area autorizzata con transenne, nastri di plastica colorata o altro”. Considerato che in ciascuna delle due giornate dovrebbero essere percorsi circa 130/140 chilometri di strade (alcune delle quali sono anche aperte al traffico), di viabilità forestale e – anche se ci auguriamo che questi siano esclusi – di mulattiere e sentieri, immaginiamo risulti complicato procedere a questa delimitazione. Dobbiamo quindi immaginare che, contemporaneamente allo svolgimento della manifestazione, non sia impedito l’accesso sul percorso né ai mezzi che ne hanno diritto, né a mountain bike, cavallerizzi e semplici escursionisti che si muovono a piedi. Ci chiediamo, allora, quali garanzie di sicurezza si possano assicurare a tutti questi soggetti, estranei alla “Motocavalcata”, che dovessero eventualmente trovarsi a passare lungo il suo itinerario. Andrebbe chiarito anche, in particolari situazioni, a chi spetti la precedenza. Questo aspetto non è marginale, dal momento che, proprio in occasione di precedenti edizioni, abbiamo notato la presenza tra i partecipanti di motociclisti desiderosi di esibirsi in evoluzioni pericolose per loro stessi e per i passanti.

Temiamo così che possano verificarsi delle discussioni anche animate con chi non ammette certi comportamenti e che queste possano in qualche modo degenerare.

 8 – PRESCRIZIONI E ALTERNATIVE.

Ferma restando la nostra opposizione all’iniziativa promossa dal Mo.C.Tu.S. e ribadita la nostra assoluta contrarietà al coinvolgimento nel percorso di sentieri e mulattiere, qualora la “Motocavalcata” dovesse venire limitata alla viabilità ordinaria e ad alcune strade forestali chiediamo che nelle prescrizioni fissate dall’U.T.I. venga stabilito, a manifestazione conclusa e come condizione per lo svincolo del deposito cauzionale, l’obbligo della completa pulizia delle canalette di scarico delle acqua meteoriche esistenti lungo l’itinerario eventualmente autorizzato.

Come era già avvenuto in occasione delle “osservazioni” che avevamo presentato nei confronti del Campionato Triveneto di Enduro, organizzato a Tolmezzo nel maggio 2015, come possibile soluzione di ripiego, a fronte dell’esclusione di tutta una serie di itinerari proposti (sia sentieri, che strade forestali in zone sensibili o per le quali non sia stato espresso un nulla osta dalle amministrazioni comunali interessate), ci permettiamo di presentare una soluzione alternativa per i cosiddetti “percorsi hard”. Ci riferiamo alla presenza sul fondovalle di alcune aree in cui sono state ricavate abusivamente delle piste per la pratica dell’enduro e che quindi dovrebbero essere considerate “idonee” dagli organizzatori. Una di queste è situata in Comune di Cavazzo Carnico e interessa parzialmente i prati e la pineta che costeggia il tratto finale del corso del torrente Faeit, prima della sua confluenza nel Tagliamento. Un’altra area, meno estesa, si trova a Tolmezzo tra il Tagliamento e la cosiddetta “pista di guida sicura”, ma potrebbe coinvolgere anche quest’ultima ed il piazzale prospiciente il Poligono di Tiro. Nel territorio del Comune di Villa Santina ci sono poi due altre aree: la prima, ad Ovest della confluenza del torrente Vinadia nel Tagliamento, si sviluppa tra l’argine e la discarica dismessa di proprietà della Comunità Montana della Carnia; la seconda, particolarmente inopportuna, interessa invece i “saletti”, posti sulla riva destra del Tagliamento, di fronte al Colle Santino.

La nostra proposta è quella di utilizzare due di questi siti in occasione della manifestazione, con l’impegno, in particolare per quello situato in Comune di Cavazzo Carnico e quello dei “saletti” di Invillino, a bonificarli una volta terminata la manifestazione e a non riutilizzarli. I vantaggi di questa soluzione sarebbero sostanzialmente due: da un lato si eviterebbe di creare danni in alta montagna e, dall’altro, si realizzerebbe l’opportunità di ripristinare delle aree che sono attualmente degradate proprio a causa della pratica abusiva di sport motoristici.

9 – CONCLUSIONI.

Ci auguriamo, per tutte le considerazioni svolte in queste “osservazioni”, che l’edizione 2018 della “Motocavalcata delle Alpi Carniche” venga bocciata o, almeno, se ciò non fosse possibile, ridimensionata nel suo svolgimento secondo quanto da noi in subordine ipotizzato.

La gravità dei fatti richiamati al primo punto sono tali, infatti, da rendere necessaria, a nostro avviso, una vera e propria moratoria da parte della Regione nei confronti del rilascio di nuove autorizzazioni in deroga. Questo dovrebbe consentire di rimettere ordine nella materia, deliberando un inasprimento delle sanzioni per i trasgressori, l’introduzione della possibilità del sequestro dei mezzi in determinati casi, l’avvio di un piano di bonifica delle piste abusive e la promozione di una cultura della legalità e del rispetto dell’ambiente, in particolare tra i giovani, ma permetta anche l’individuazione concertata di aree ben delimitate, in cui gli appassionati degli sport motoristici possano eventualmente esercitarsi recando il minor danno e disturbo possibili.

Ricordiamo, infine, a chi dovesse ritenere non corretto impedire o limitare l’effettuazione della “Motocavalcata”, che una manifestazione viene autorizzata perché rientra nei parametri fissati dalle leggi e dai regolamenti e non perché è stata annunciata sul web o sulle riviste; chi pubblicizza una manifestazione prima che la stessa sia autorizzata lo fa a suo rischio e pericolo e non può pretendere eventuali risarcimenti o favoritismi.

Tolmezzo, 8 giugno 2018

Marco Lepre – presidente del Circolo Legambiente della Carnia.

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L’ impostazione grafica del testo ed il grassetto sono miei, e la scelta è stata fatta per favorire la lettura. Ho tolto l’intestazione “Circolo LEGAMBIENTE della Carnia – Val Canale – Canal del Ferro. Sede: Piazzale Caduti 4/3 – 33020 Cavazzo Carnico. Recapito postale: Via Spalto 9 – 33028 Tolmezzo” presente nell’ originale per motivi di editing.

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da http://motocavalcata.blogspot.com/2014/05/, ed è stata scattata in occasione di una motocavalcata della Carnia. Su motocavalcate ed enduro cfr gli altri articoli:

Marco Lepre. Gara di Enduro 2018. Proteste, perplessità e considerazioni al margine. (Aggiornato 2/06/2018 h.23.24) 1 giugno 2018

Tolmezzo. Trial motoristico: per chi e per cosa?  12 maggio 2017

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Laura Matelda Puppini.

 

Considerazioni su guerra, resistenza, dopoguerra con riferimento all’incontro tolmezzino con Paola Del Din.

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Il 12 giugno 2018 … a Tolmezzo parla Paola Del Din.

Il 12 giugno, in via del tutto eccezionale, sono andata ad ascoltare un incontro del maggio letterario a Tolmezzo, perché parlava Paola Del Din ed ero curiosa di sentire il suo racconto, cosa voleva dirci anche rispetto al libretto di Andrea Romoli: “Il diritto di parlare”, ed. Gaspari, che riporta una intervista da lei concessa e non si sa perchè così intitolato, dato che non consta che qualcuno abbia mai chiuso la bocca a Paola Del Din. Ho acquistato alla fine dell’incontro il volumetto, che ho letto velocemente. Esso è diviso in due parti: la prima che racconta l’esperienza partigiana della Del Din, la seconda, che è pure narrazione di un modo di vedere le cose, senza però fonti che si possano dire tali, e su quest’ ultima mi riservo di scrivere in forma più  argomentata e documentata, segnalando subito però quanto riportato su: Giacomo Pacini, Le altre Gladio, Einaudi ed., che parla anche del ruolo svolto nel dopoguerra da Prospero Del Din, fondatore del Movimento Tricolore,  cofondatore dell’Organizzazione Fratelli d’Italia e della ‘nuova Osoppo’, (Cfr. in Giacomo Pacini, op. cit., La seconda resistenza degli osovani, pp. 104-135) creata nel febbraio del 1946 dopo il placet statunitense già in un clima di guerra fredda (Giacomo Pacini, op. cit., p. 114) denominata poi 3 Cvl  e trasformatasi in Organizzazione ‘O’, sciolta il 4 ottobre 1956, (Giacomo Pacini, op. cit., p. 115) e dalle cui ceneri nacque ‘Gladio’, (Ivi, pp. 61-63, 72, 85, 99 nota 14, 114, 115, 116, 120, 121, 125, 130,131, 134 nota 38), e su: Ferdinando Imposimato, La repubblica delle stragi impunite, Newton Compton ed., relativamente al ruolo svolto in Italia nel secondo dopoguerra dalla organizzazione Stay Behind ‘Gladio’, nella cosiddetta strategia della tensione, tra servizi segreti nostrani, europei ed americani, (Ferdinando Imposimato, op. cit.) tanto che nel 1977 i servizi segreti italiani vennero riformati e si formarono il Sisde ed il Sismi. (Giacomo Pacini, op. cit., p. 257).

Il terzo Corpo Volontari della Libertà (3 Cvl), che inizialmente contava circa 4.000 aderenti, venne creato, oltre che da Prospero Del Din, dal colonnello Luigi Olivieri, con la collaborazione del colonnello Aldo Specogna (Ivi, p. 117), ed avrebbe dovuto essere inserito nell’esercito regolare, secondo gli intendimenti dei fondatori, per arginare possibili avanzate da est. Esso pare diffondesse pure notizie false e tendenziose, come quella di un ammassarsi di truppe partigiane jugoslave ai confini nell’aprile 1948, a due passi dalle elezioni politiche. (Ivi, p. 114).

Inoltre la ‘nuova Osoppo’ si diede da fare per schedare centinaia di cittadini friulani sospettati di simpatie ‘titine’, come ammesso pure da don Aldo Moretti, svolgendo anche compiti di supplenza dei servizi segreti, e persino sacerdoti di paesi slavofoni vennero accusati di avere simpatie slovene, e ne si consigliava il trasferimento (Ivi, p. 119). Tra questi era finito anche un don Cracina, «che in un’informativa dell’agosto 1946, era definito “sacerdote che dimentica di essere ministro di Dio e fa propaganda slovena parlando pure in sloveno”». (Ibid.). Leggendo queste parole pare che nel dopoguerra si volesse ritornare al passato.

Infine dopo qualche variazione nel nome, il 3 Cvl divenne l’Organizzazione ‘O’, ove già nel 1957 si ipotizzava fossero inseriti elementi neofascisti e della X Mas. (Ivi, pp. 126-127, p. 131). L’obiettivo dichiarato era la difesa del confine e l’opporsi ad una possibile prevalenza comunista in Italia, nel clima internazionale di guerra fredda e di contrapposizione fra Nato da una parte e Urss, poi dal 1955, anche stati del patto di Varsavia, dall’altra.

E credo che pure il Vaticano abbia giocato un ruolo fondamentale nel muovere pedine, ma per la chiesa cattolica vigeva il merito di andare alla Santa Messa più di altri. Il chierico Paolo Roscio di Pont Canavese, dopo aver visto di cosa era capace la Xa Mas, commenta però: «Prima i militari della Decima venivano a messa in San Costanzo, poi dopo assistettero alla celebrazione fatta in piazza Craveri o alla stazione dai loro cappellani: esigevano un grande apparato, sovente suonava la fanfara, ma, in questo apprezzamento per la loro fede, sono degni di lode». (Ricciotti Lazzero, La Decima Mas. Compagnia di Ventura del Principe Nero, Rizzoli, Milano, 1984, p. 109). Per questo marò della Decima e repubblichini dovevano essere ‘salvati’ anche nella memoria, secondo la chiesa, anche se poi ne fecero di ogni colore, torturarono, uccisero anche preti e cattolici inermi, bruciarono paesi, seminarono il terrore, perché erano praticanti, a differenza di socialisti e comunisti, atei e condannati agli inferi. Ma la chiave di lettura del passato data dal Vaticano e dalle gerarchie ecclesiastiche, come il desiderio di omologare tutti in una grande ‘ pacificazione’ non possono appartenere allo storico. Infine vi era anche chi, cacciati i tedeschi, voleva un ripristino del fascismo attraverso l’R.S.I. o un governo che garantisse antichi privilegi. E durante l’incontro Paola Del Din ha sottolineato come anche in Italia ci fossero state persone che non desideravano grossi cambiamenti rispetto al fascismo, basti pensare a Giorgio Almirante ed al suo M.S.I.!  

È importante però precisare subito che Imposimato afferma di essere convinto «dell’assoluta buona fede e del coraggio, oltre che della lealtà istituzionale di molti cosiddetti gladiatori […] usati a loro insaputa per operazioni illecite» (Ferdinando Imposimato, op. cit., p. 17). Non da ultimo, si sente parlare, dai pochi che ne parlano, della Formazione Osoppo in armi nel secondo dopoguerra per combattere una ventilata invasione da parte slava, ipotizzata nel contesto di allora, alle dipendenze di servizi americani e italiani, ma non tutti gli osovani aderirono ad organizzazioni segrete post-belliche, anzi io credo che moltissimi non lo fecero e forse non sapevano neppure della loro esistenza. E certamente alla luce di quanto riportato nei due volumi sopraccitati di Imposimato e Pacini, e nella documentazione prodotta a supporto, oggi possiamo dire che ‘Gladio’ fu «un soggetto occulto […] evocato spesso a sproposito, e ancor più frequentemente ignorato nei dibattiti degli storici» che ha inciso sulla democrazia italiana al fine, pure, di «introdurre una Repubblica presidenziale, con il rischio […] di aprire le porte a regimi tirannici» (Ivi, pp. 330 – 331), senza più alternanza nei governi, e che ‘Gladio’ non possa essere elogiato, come invece fece Paola Del Din il 25 aprile 2005, pubblicamente, prendendosi i fischi di Rifondazione Comunista. (Giacomo Pacini, op. cit., p. 100 nota 19). E non si sa su che base, subito dopo, la Del Din possa aver dichiarato alla stampa che ‘Gladio’ era «struttura legittima del governo italiano», precisando che ne era socia onoraria per affinità. (Paola Del Din: quello che ho fatto era per la libertà della mia Patria, in Messaggero Veneto, 1 maggio 2005). Inoltre a me non pare molto corretto dichiarare sui suoi contestatori: «evidentemente i ‘nostri” non sono ancora riusciti a istruirsi a causa delle loro menti impregnate di una ideologia di sopraffazione e di violenza», quando non credo che l’’altra Osoppo’ praticasse il pacifismo, o la non politica. E mi pare che in questo caso avrebbe potuto portare documenti se credeva in ciò che diceva, invece che denigrare il prossimo. D’altro canto non credo serva molto fischiare, ben di più discutere dei fatti, documentazione alla mano per quanto possibile, anche se per qualcuno è più facile avere strumenti per esprimere le proprie idee per altri meno.

Se poi Paola fosse stata influenzata, in alcune sue posizioni e scelte dal padre, non è dato sapere, ma da quanto narrato a Tolmezzo sembra di sì. Una figlia ascolta il padre, mi pare abbia detto. Ma non si può dimenticare pure che Paola Del Din, da quanto si legge, nel secondo dopoguerra, dopo alcuni anni di insegnamento, vinse una borsa di studio ed emigrò negli Stati Uniti, all’Università di Pennsylvania, forse in periodo di maccartismo, ritornando poi in Italia. E non si può dimenticare che la Del Din fu la prima donna paracadutista italiana, ed è della ‘Folgore’. Anche questi ambienti potrebbero avere formato il suo pensiero e la sua azione.

Appare poi interessante quanto si narrava in Carnia se incrociato con quanto scritto relativamente a Prospero Del Din come organizzatore di gruppi armati nel dopoguerra (Giacomo Pancini, op. cit., pagine già citate). Infatti sia G. M., che voci circolanti negli anni ’70, davano Prospero Del Din come colui che soprintendeva alla consegna delle armi da parte dei partigiani, in sintesi al loro disarmo, subito dopo la Liberazione, e pretendeva che tale compito venisse eseguito rigorosamente. Ma poi quelle armi dove finirono?  Non lo so, e me lo chiedo.

Ieri Paola/Renata ha spiegato la sua vita da partigiana e di collaboratrice con il SOE, in modo divertente e colloquiale, non entrando nel merito dell’ultima parte dell’intervista, quella relativa al secondo dopoguerra, da lei vissuto come il tempo di una seconda lotta, dove, a mio avviso, si definì un nemico, una azione ipotetica, già a fine guerra quando non esisteva ancora il patto di Varsavia, senza prove reali di tutto ciò, che rovinò la vita di molte persone che sognavano in Italia un mondo nuovo e più giusto, e che per poco non ci fece cadere in un nuovo fascismo ed in una nuova dittatura, anche se sono sicura che Paola non volesse questo.

Il legame tra democrazia e cultura.

Introducendo l’argomento la Del Din ha parlato del legame tra democrazia e cultura, dell’importanza dello studio, dell’imparare, dell’apprendere per poter ‘andare a testa alta’ fra gli altri, del dovere di formare il carattere dei giovani, non dando loro tutto. «Parole importanti – penso fra me e me – tutte condivisibili, su cui si dovrebbe riflettere mentre sotto i nostri occhi si presentano giovani che si dissolvano nella droga, (Cfr. MillenniuM, n. 10, “Siamo tutti drogati”, rivista mensile di: Il Fatto Quotidiano), navigano nel nichilismo ed in un mondo virtuale tra musica sparata anche da auricolari e cellulare in mano (Cfr. Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo ed i giovani, Feltrinelli, ed.) tanto da dar spunto ad una canzone che pare divertente e ballabile, ma dal testo che fa riflettere: ‘L’esercito del selfie’ che parla di quelli che «se ti porto nel bosco/mi dici portami in centro/perché lì non c’è campo/», di quelli che formano «[…] l’esercito del selfie/di chi si abbronza con l’iPhone/» di quelli che non hanno più contatti «soltanto like a un altro post», sempre più lontani dalle persone “in carne ed ossa” viste come oggetti che sono presenti solo perché mancano «nella lista delle cose che non ho», e per questo esistono, come possesso.

Grazie Paola per queste parole, ed anche grazie per aver sottolineato come ai giovani, votati spesso ad essere i nuovi schiavi del mondo del lavoro, senza certezza alcuna in una società che si dice liquida ma è evanescente e senza pilastri ideali e normativi, debba venir insegnato il concetto di disciplina anche come autodisciplina. 

Partigiani e patrioti

Quando Paola Del Din dice che ‘partizan’ era termine usato dai soldati dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, può darsi che sia vero come no, ma ogni paese dava ai suoi resistenti al nazifascismo un nome diverso. I partigiani della resistenza francese si chiamavano ‘maquisards’, i resistenti greci ‘Andartes’, quelli dell’Albania ‘Schipetari’, (Cfr. Federico Vincenti, Partigiani friulani e giuliani all’ estero, Anpi provinciale Udine, 2005) e nessuno si sognava di dire o pensare, nel dopoguerra, che i partigiani francesi, greci od albanesi non si potessero definire patrioti indipendentemente dal loro credo politico, in quanto avevano lottato per la liberazione della loro terra, della loro Patria occupata. E lo stesso si potrebbe dire dei patrioti- partigiani belgi e di tutti coloro che combatterono contro i nazisti invasori. Pertanto non so perché diverso trattamento dovrebbe venir applicato ai soldati dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, ‘partizans’, che lottarono contro l’occupante nazifascista.  E non so come si possa pensare che i fascisti italiani, che collaboravano tra l’altro con i nazisti, potessero esser visti dagli sloveni e slavi come legittimi governanti e non come occupanti, dato che andammo là per conquistare, per sottomettere, con l’aggressione al legittimo governo di re Pietro II dei Karadjordjević il 6 aprile 1941, e per farlo usammo le armi dei ‘conquistadores’. E patrioti furono gli slavi o gli sloveni o i croati che ce l’avevano con noi non perché italiani, tanto che molti italiani si unirono, dopo l’8 settembre 1943, non riuscendo fra l’altro a rientrare, alla resistenza jugoslava, affiancata dagli Alleati, o per un confine, che gli americani stessi, almeno con Wilson, tendevano a definire sulla base dell’appartenenza etnica delle popolazioni locali, ma per ben altro, per l’occupazione della loro terra al fianco dei nazisti, ed il trattamento subito (nel merito cfr. almeno Teodoro Sala, Il fascismo italiano e gli Slavi del sud, ed. Irsml) ed erano al tempo stesso comunisti e nazionalisti. Infatti il nazionalismo dà importanza ai problemi di confine, non il comunismo che era internazionalista.

Non da ultimo, l’acronimo G.A.P. significa ‘Gruppi di azione patriottica’. Se pertanto qualcuno, leggendo la storia a modo proprio, o secondo una vulgata errata, pensa che il termine ‘patriota’ possa essere attribuito solo agli osovani si sbaglia di grosso o si è lasciato turlupinare, perché la Presidenza del Consiglio dei Ministri, quando riconobbe sia i partigiani garibaldini che quelli osovani, uomini e donne, come combattenti dell’Esercito Italiano dando loro pure un grado corrispettivo, non fece distinzione di sorta. (Cfr. 472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne che scrissero la storia della democrazia, operativi in Carnia o carnici, in: www.nonsolocarnia.info).

Infine al termine della guerra, il Decreto Legislativo Luogotenenziale n° 158 del 05.04.1945, aveva come oggetto l’”Assistenza ai patrioti dell’Italia liberata” (GU Serie Generale n° 53 del 02.05.1945), non ai partigiani, indicando come allora essi venissero così definiti a livello istituzionale.

R.S.I. e arruolamento.

Dopo l’8 settembre la posizione dei tedeschi verso i soldati italiani fu inequivocabile. «Ultimato! a tutti gli Ufficiali, Sottoufficiali e soldati italiani. Per l’ultima volta Vi invitiamo di (sic) arrendervi alle forze armate tedesche. Dopo il giorno 12 ottobre 1943 tutti i Comandanti e Ufficiali i quali non hanno eseguito l’ordine da dare alla truppa di arrendersi e consegnare le armi saranno fucilati appena fatti prigionieri. Il soldato che si arrende verrà trasportato altrove. Tutti gli altri verranno attaccati dalle forze armate tedesche e distrutti». (Uno degli inviti lanciati da aerei tedeschi ai soldati italiani, in: Federico Vincenti, op. cit., p. 23). 

Dopo l’8 settembre ci furono pure dei tentativi di arruolamento da parte di Legioni della MVSN, come quelli fatti ad Udine e Gemona da parte della 63., “Tagliamento”, e da parte della 55. comandata dal seniore Emilio Del Giudice. Il 18 settembre 1943 Vinicio Fachini, della ‘Tagliamento’, definendosi «ufficiale superiore di collegamento con il Comando delle truppe tedesche» fece pubblicare su ‘Il Popolo del Friuli’ un appello che invitava i militari a presentarsi presso la 63. Legione di Udine. Pochi giorni dopo, Ermacora Zuliani, comandante del Reggimento della Milizia Tagliamento, insediatosi nella Caserma dell’ 8° alpini ad Udine, che aveva già cercato di formare un servizio d’ordine con volontari,  pubblicò il primo appello ai militari italiani ad arruolarsi.  «Pochi giorni dopo, il 25 settembre, fece pubblicare sullo stesso giornale un comunicato con il quale, “conformemente alle disposizioni impartite dal Comando Generale della Milizia” intimava agli appartenenti alle classi 1922- 1925 di presentarsi alla caserma dell’8. Reg. Alpini entro il 28 settembre (per i residenti nel mandamento di Udine) o il 2 ottobre (per i residenti nel resto della provincia) per esser inquadrati negli speciali reparti della Milizia» (Stefano Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland. Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana durante l’occupazione tedesca 1943-1945, ed. Ifsml, 2005, p.p. 205-206). Il bando però non ebbe molto successo e così, il 5 ottobre 1943, Zuliani precisò che trattavasi di ‘arruolamento volontario’. (Ivi, p. 206).

Nel novembre 1943, formatasi nel settembre 1943 l’R.S.I., Rodolfo Graziani emise un bando di arruolamento per le classi 1924-25, cercando persino l’adesione dei militari finiti in campo di concentramento dopo l’8 settembre, ma senza successo. Molti furono i renitenti alla leva e, successivamente, anche i disertori. (Flavio Fabbroni, Il 33 Comando Militare Provinciale di Udine. Novembre 1943- aprile 1945, in: Storia Contemporanea in Friuli, n.43, p. 202).  E sempre seguendo l’obiettivo di organizzare un Esercito Repubblicano, nel novembre 1944 Gastone Gambara, ignorando lo status delle Zone di Operazione decretate da Hitler, cioè cercando di eludere il fatto che le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana formassero la Zona d’operazioni del Litorale adriatico o OZAK, pose al vertice del 204° Comando Militare Regionale della Venezia Giulia il generale Giovanni Esposito, che non solo ordinò la costituzione dei comandi provinciali a Trieste, Udine, Gorizia, Zara, Pola, Fiume e di distretti militari, ma come previsto dal Ministero della guerra Repubblicano, diffuse nel Litorale il bando di arruolamento di Graziani per le classi 1924- 1925. (Ivi, pp. 202-203).

Ma il Gauleiter Rainer non intendeva che ci fossero, in Ozak, segni di sovranità dell’RS.I., e così, l’11 novembre 1943, emise un’ordinanza secondo la quale l’arruolamento nell’R.S.I. doveva essere volontario. A questo punto il generale Esposito emanò, il 16 novembre, un bando ‘ volontario’, sospeso però il 22 novembre da un’ordinanza tedesca. (Ivi, p. 203).

Quindi Friedrich Rainer, il 31 dicembre 1943, comunicò a Mussolini che la leva in Ozak sarebbe stata solo nazista. Il 73% dei richiamati sarebbe stato utilizzato in unità militari e militarizzate dai tedeschi; il 22% nella difesa territoriale; e solo il 5% nell’ R.S.I., ma coloro che non avessero optato per il Reggimento volontari friulani ‘Tagliamento’ avrebbero dovuto raggiungere i centri di addestramento dell’esercito repubblicano in Alta Italia e veniva loro vietato di fermarsi in Ozak. Da quel momento in Ozak non furono più fatti tentativi di arruolamento diretto da parte dell’R.S.I.(Ibid.).

Il 22 febbraio 1944, il Gauleiter emanava il bando di leva (servizio di guerra) obbligatorio in Ozak per le classi 1923-1924-1925. A tal fine l’8 marzo entrarono in funzione apposite Commissioni di arruolamento, sotto la guida del ‘Deutsche Berater’, che ad Udine era il dottor Josef Hinteregger. Le opzioni possibili erano: Wehrmacht, Organizzazione Todt, SS, Guardia Nazionale Repubblicana, (poi Milizia per la Difesa Territoriale, scissa dall ‘R.S.I. per volontà tedesca) Landschutz, RSI senza però possibilità di costruire reparti in Ozak, ma di confluire ad Ivrea.  (Ivi, p. 209). Il Comando Militare Provinciale si diede da fare aprendo gli archivi dei distretti militari, mentre si veniva formando il movimento partigiano che ebbe come finalità anche quello di dare alle fiamme gli elenchi comunali dei chiamati alla leva. (Ivi). E più il tempo passava, più i tedeschi cercavano di controllare globalmente l’Ozak, per farne il loro ‘cuscinetto difensivo’ alle porte del Terzo Reich.

L’ R.S.I. comunque era una Repubblica fantoccio, voluta da Hitler e sottomessa ai nazisti, ma forse non tutti i soldati lo sapevano, ma sapevano che era creazione fascista e che andavano a combattere a fianco dei tedeschi contro i partigiani italiani e l’Esercito di Liberazione Jugoslavo. Inoltre come non ricordare, ora, la storia, per esempio, dell’ammiraglio Inigo Campioni, il difensore di Rodi dopo l’armistizio italiano, medaglia d’oro al Valor Militare, deportato in un lager della Germania dai tedeschi, dove, nonostante gli allettamenti ed i ricatti, rifiutò di aderire all’R.S.I., e per questo fu consegnato dai tedeschi ai fascisti repubblichini e quindi processato a Parma e fucilato il 24 maggio 1944, con l’accusa di tradimento? (Per Inigo Campioni, cfr. Federico Vincenti, op. cit., pp. 25-26 e https://it.wikipedia.org/wiki/Inigo_Campioni). Federico Vincenti, nel suo volume, tratta diffusamente degli ufficiali e soldati che resistettero ai tedeschi fuori Italia dopo l’8 settembre 1943 e l’ho trovato di grande interesse.

E si aveva la tessera annonaria … E da mangiare non c’era poco per tutti.

Riferendosi all’ordine dato per lanciarsi con il paracadute, Paola dice che non era abituata a saltare le code, essendo stata tante volte in coda per acquistare generi alimentari, e nessuno, in quel frangente, si sognava di perdere il proprio posto in fila, e guardava con occhio attento chi era prima e dopo.   

Questa affermazione che riporta alla vita di quei tempi, rimanda anche alla fame che tutti allora partirono, e di cui ha parlato in modo diffuso Paola durante l’incontro. Io credo che questi aspetti, così noti a chi li ha vissuti, debbano essere ribaditi per contestualizzare gli eventi e ciò che può accadere durante le guerre, che mai portano prosperità. (Cfr. il mio: Sulla guerra e contro la guerra, per la pace, ai margini di un convegno al centro Balducci, in: www.nonsolocarnia.info).

Infatti durante la seconda guerra mondiale, l’acquisto di generi alimentari era limitato a quantità definite rigorosamente sulla base di parametri che tenevano conto della composizione dei nuclei familiari, ed era possibile solo con la tessera annonaria, detta anche ‘tessera del pane’. Ma poteva accadere che, se ti facevi superare da altri o se giungevi al negozio troppo tardi, ti trovassi di fronte al fatto che gli alimentari per quel giorno fossero finiti, esauriti.

«Si mangiava poco durante la seconda guerra mondiale, l’alimentazione degli italiani venne regolata dalle tessere annonarie, da tutti chiamate le tessere della fame. Colori diversi per le differenti fasce d’età, verdi per i bambini fino a otto anni, azzurre dai nove ai diciott’anni, per gli adulti grigie. Segnarono la vita di grandi e piccini per un lungo periodo, tutti gli anni della tragedia bellica ed anche dopo, per altri quattro anni, fino al 1949. Il cibo quotidiano veniva distribuito da quei rettangoli di carta che gli uffici municipali dell’annona provvedevano a fornire ogni due mesi, uno per ogni membro della famiglia. Perciò le nostre mamme, numi tutelari dell’appetito familiare, ne divennero gelose vestali, e nelle loro mani si affidava il destino del desinare giornaliero, una sola volta al giorno. Guai a smarrire quelle carte, pena il digiuno.  (…). Alle mamme, il compito di custodire quelle carte: che esse, sentinelle attente, andavano a depositare sotto il materasso, posto ritenuto più protetto di una cassaforte. E poi, lì depositate, si sperava di conservarle ben stese e stirate, pronte all’uso prima di andare in bottega per il prelievo quotidiano. (…). Prima operazione, “u p’ttaiare” (forse il negoziante n.d.r.) stendeva la carta annonaria sul bancone di vendita, la stirava, e con lunghe forbici tagliava le strisce in cima alle quali imprimeva il timbro dell’esercente, destinate alla consegna periodica presso gli uffici annonari municipali. Magri quantitativi per più magre razioni di cibo: duecento grammi di pane al giorno, pane nero fatto di poco grano e di legumi sfarinati, o pane giallo di granturco sfarinato, pane che si induriva, immangiabile, ma che pur bisognava mangiare. Fu allora che la gente cominciò a cantare sottovoce il ritornello “duce duce come na fatt r’dusce, la d’ senza pane e la nott senza lusce”, il primo sintomo di rivolta popolare contro il regime fascista.». (Domenico Notarangelo, Le tessere della fame, in: www.la-piazza.it, riportato in www.collezioni-f.it/).

E come non ricordare la canzone popolare scritta allora, “Passano i commestibili” cantata sulla musica di “Passano i sommergibili” il cui testo ho riportato nel mio: “Passano i commestibili”, una canzone popolare dei tempi della guerra, che denunciava il mercato nero, in: nonsolocarnia.info?  Mia madre dice di averla imparata da Andreina D’ Orlando che l’aveva sentita da un parente venuto da Milano…

Allora mancavano informazioni, ed era difficile averle e trasmetterle.

Parla di una radio Paola, come elemento importante nella guerra. E penso alla difficoltà di comunicare che c’era allora, e di come gli occupanti tedeschi ed i collaborazionisti cercassero di intervenire proprio su questo aspetto, alterando le informazioni e creandone di false e tendenziose, tanto che poteva capitare che esse si diversificassero. Di questo aspetto parla anche Rinaldo Cioni nelle sue lettere, quando scrive, il 22 febbraio 1945, a Ciro Nigris nome di battaglia ‘Marco’, che: «Circa una quindicina di giorni fa furono gettati per le strade manifestini che si possono nomare “Adverso”, il giorno dopo contro “Adverso”… tutto un giuoco Tedesco, tanto per tua norma per creare confusione fra Osoppo Garibaldi». (Rinaldo Cioni – Ciro Nigris: Caro amico ti scrivo… Il carteggio fra il direttore della miniera di Cludinico, personaggio di spicco della Divisione Osoppo/Carnia ed il Capo di Stato Maggiore della Divisione Garibaldi/Carnia, 1944-1945 (a cura di Laura Matelda Puppini), Storia Contemporanea in Friuli, n.44, pp. 237-238). E sempre dal carteggio Cioni – Nigris, sappiamo pure della difficoltà a far recapitare anche un solo biglietto, e quanto rischiassero pure donne e ragazzette/i che facevano da staffetta. Quando ‘A’ viene catturato con documenti ed informazioni, Nigris si preoccupa per l’amico Cioni, ma poi gli scrive che per fortuna ‘A’ è riuscito a fuggire, lasciando però le carte in mano al nemico.  (Ivi, p. 242). Ma sia nel carteggio che nella testimonianza della Del Din si parla pure di spie, tante spie …  

 

Ed anche quando scrivo della strage di Porzûs, mi chiedo cosa sapessero ‘Giacca’ ed i suoi, quali informazioni fossero loro giunte, e da chi. Romano Marchetti mi ricordava che i partigiani non avevano orologi, e si muovevano con il sole e l’alternanza giorno/notte, che avrebbero potuto facilmente, poi, errare data di un evento od una azione, che sapevano, se le sapevano, le poche cose riferite relative alla loro zona operativa, tanto che, per vedere che i cosacchi stavano giungendo nel pianoro di Lauco, utilizzarono un cannocchiale. E Patrick Martin Smith scrive che, quando raggiunse il comando osovano di Pielungo, la prima cosa che chiesero i partigiani furono informazioni. «I partigiani volevano sapere della guerra: avevano accolto con giubilo la notizia della liberazione di Roma, sei settimane addietro; avevano creduto che gli Alleati avrebbero in un baleno raggiunto Bologna e da lì, da un momento all’altro, sarebbero dilagati nella Pianura Padana. E allora la guerra sarebbe finita … Invece c’era la dura lotta sull’Appennino. Fummo costretti a raccontare loro della dura battaglia lungo la dorsale d’Italia, delle montagne e dell’inverno e dei fiumi, ognuno dei quali era stato testardamente difeso dai Tedeschi; ed ancor più crudelmente, che Il grosso delle forze alleate era ora in Francia, dove si stava svolgendo la battaglia più feroce che si fosse mai combattuta in tutta la guerra nel territorio dell’Europa occidentale […]». (Patrick Martin Smith, Friuli ’44. Un ufficiale britannico fra i partigiani, Del Bianco ed., 1990, pp. 3-4).

Avere una radio ricetrasmittente era importantissimo, e si capisce come perderla rappresentasse un vero disastro.  E la gente ascoltava, di nascosto perché era vietato, radio Londra, nelle cantine, in stanze lontane da occhi indiscreti, speranzosa di sentire dell’imminente fine della guerra. E attraverso radio Londra giungevano anche messaggi. ‘Radio Londra’ era l’insieme dei programmi radiofonici trasmessi, a partire dal 27 settembre 1938, dalla radio inglese BBC e indirizzati alle popolazioni europee continentali. Le trasmissioni in lingua italiana della BBC iniziarono con la crisi di Monaco. Con lo scoppio delle ostilità, nel 1939, Radio Londra aumentò le trasmissioni in italiano fino ad arrivare a 4,15 ore nel 1943. Inoltre il ruolo in guerra di Radio Londra diventò cruciale nello spedire messaggi speciali, redatti dagli Alti comandi alleati e destinati alle unità della resistenza italiana. (it.wikipedia.org/wiki/Radio_Londra).

«E si ascoltava radio Londra…. Si stava curvi, ad ascoltare. Di notte, magari con una coperta sopra, a occultare apparecchio e orecchio. Perché ascoltare era proibito. Ogni tanto, fra fruscii e scoppi elettromagnetici, la manopola trovava la sintonia e spuntava una voce. Amica o nemica? In che lingua parlava? E le notizie? Buone o cattive? Si abbassava il volume, si avvicinava l’orecchio. Con coraggio pari alla paura, si ascoltava una storia diversa. Radio Londra soprattutto, ma anche Radio Algeri, Radio Barcellona, Radio Tunisi, e tutte le emittenti che con i loro nomi tracciavano la geografia della libertà perduta. La parola, trasportata flebile dall’etere, si amplificava nella voce dell’ascoltatore al suo vicino, in un fenomeno di ascolto collettivo comune a tutto il continente.

La radio aveva cambiato le abitudini degli italiani. Il fascismo l’aveva imposta come megafono del pensiero unico e unificante, ma non aveva fatto i conti con la natura anarchica del mezzo, capace di superare i confini e abbattere barriere di qualunque natura. (…).

Proibito ascoltare, ma quasi tutti lo facevano: studenti, professionisti, casalinghe, contadini. Si ascoltava per necessità. Perché la gente voleva sapere cosa realmente stesse succedendo. (…). Dopo il tramonto, quando la notte liberava l’etere dalle frequenze e l’ascolto era più chiaro, l’orecchio si avvicinava all’altoparlante e la mano girava la manopola. “Tu-Tu-tu-tuum. Tu-Tutu-tuum”. Sembrava la Quinta di Beethoven, e forse lo era. Ma era soprattutto un cupo segnale morse: tre punti e una linea. Una V. Quella di Victory, Vittoria. L’indice e il medio di Winston Churchill si materializzavano così e Radio Londra arrivava nelle case degli italiani. (…). Con il progredire della guerra si diradano i programmi leggeri e si moltiplicano i messaggi speciali destinati alle forze della Resistenza. Sono frasi volutamente enigmatiche, scandite dallo speaker e il cui significato drammatico (spostamenti di truppe, invio di armi) spesso contrasta con il senso ironico che giocoforza le avvolge: “Felice non è felice”, “È cessata la pioggia”, “La mia barba è bionda”, “La gallina ha fatto l’uovo”, “La vacca non dà latte”».  (“Le radio proibite dal fascismo: radio Londra”, in: anpi-lissone.over-blog.com/).   

Il dolore di madri e padri.

Paola Del Din /Renata, ci ha narrato, pure, dell’apprensione sua e della madre, che non avevano più notizie di Renato, che sapevano essersi unito alla resistenza per restare fedele al suo giuramento di soldato del R.E.I.. E venne in giugno il suo compleanno, e nessuno le veniva a cercare per dir loro dove fosse o cosa gli fosse accaduto, o per recapitare un biglietto. E per fortuna che non aveva documenti e che non lo riconobbero subito, altrimenti – dice Paola – tutta la famiglia poteva andarci di mezzo.

La madre, Ines Battilana Del Din, spesso pensava a quel suo figlio maschio, e si preoccupava per lui, come tante altre madri, italiane, francesi jugoslave, russe e via dicendo. Mangiava Renato? Poteva dormire? Dov’era? Ed ad un certo punto fu colta dal presentimento che non lo avrebbe visto più. Ma la speranza è l’ultima a morire. Ad un certo punto Paola decise di chiedere informazioni su suo fratello alla ‘Osoppo’ tramite il tenente Giorgio Chieffo, ma questi non ebbe il coraggio di ritornare da loro. Poi fu consigliato a lei ed alla madre di lasciare Udine, perché erano ricercate, ma non sapevano perché, e si chiesero se Renato fosse stato catturato. Infine Candido Grassi, ‘Verdi’, le dette la terribile notizia della morte del fratello, che fu taciuta per un ulteriore periodo alla madre, triste e deperita. (Andrea Romoli, Il diritto di parlare, Gaspari ed. 2017, p. 39).

Quindi la scelta di Paola di recarsi in missione al Sud per la Osoppo, come modo «per resistere al dolore e continuare a far vivere mio fratello». (Ivi, p. 40). Poi il rientro del padre dalla prigionia indiana, da lei richiesto, ed il dolore disperato dello stesso per la morte del figlio. E se fu grande ed inconsolabile il dolore dei Del Din, non possiamo neppure immaginare quale fu quello dei genitori dei fratelli Cervi, e molte famiglie vissero situazioni simili. Alcune seppero solo a guerra finita della morte di un figlio, di un fratello, di un parente, e spesso, per pietà, furono taciute da chi sapeva, in particolare da sacerdoti, le torture e le umiliazioni, gli stenti che avevano subito. Ma ci fu anche un dopoguerra che cercò di alterare, secondo me, quello che i garibaldini avevano fatto da patrioti, con la scusa che erano comunisti, rischiando di rovinare il ricordo anche di quelle centinaia di osovani che combatterono contro il nazifascismo, ritornando poi a vita normale e magari non interessandosi di politica mentre le organizzazioni militari quali la ‘nuova Osoppo’, sorte nel secondo dopoguerra, ebbero un intento politico, che lo si voglia o meno ed anche questo non va taciuto.

Il racconto di Paola continua pure sottolineando la difficoltà a viaggiare, fra posti di blocco, ponti saltati, bombardamenti, già descritte pure da Iacum l’infêrmir (Cfr. Giacomo Solero. Esperienze vissute per l’ospedale tolmezzino, in: www.nonsolocarnia.info) e da mille altri, l’aiuto ricevuto, la constatazione che non tutti i tedeschi erano uguali, se pensavano che una non fosse ebrea o non fosse una partigiana. Ed in effetti vi furono persone, come Heinrich Böll, premio Nobel per la letteratura, cattolico pacifista, che aveva rifiutato l’iscrizione alla gioventù nazista, che dovette combattere su più fronti nelle file dell’esercito tedesco solo perché cittadino del Terzo Reich, finendo pure in un campo di concentramento americano a fine guerra. (https://it.wikipedia.org/wiki/Heinrich_Böll). Insomma non si può leggere la storia di tanti solo in bianco e nero. E per ora mi fermo qui, invitando Paola a parlare ancora ai giovani di cosa generino guerra e violenza, della fame, della mancanza di informazioni, della difficoltà a viaggiare, della disperazione nel sapere della morte di un giovane familiare, per dire no a tutte le guerre. Queste sono mie riflessioni, e non intendo offendere alcuno, ma solo cercare chiarezza prendendo spunto da un incontro e da un libro, e mi piacerebbe avere commenti documentati anche in opposizione a quanto ho scritto. 

Laura Matelda Puppini.

L’immagine che correda l’articolo rappresenta il manifestino di invito all’ incontro tolmezzino, ed è tratto da: http://www.altofriulioggi.it/tolmezzo/paola-del-din-racconta-vita-militare-partigiana-8-giugno-2018/. Laura Matelda Puppini. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Considerazioni sul bilancio consuntivo dell’Aas3 per il 2017.

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Dopo aver letto l’articolo del Messaggero Veneto sui bilanci della sanità del Fvg di Elena Del Giudice, “Sanità, bilanci in rosso: non incassano i premi due manager su otto”, in Messaggero Veneto, 26 marzo 2018 (riferibile alla situazione 2016) in cui si cita anche l’Ass3 , e Diego D’ Amelio, “Rosso” da 20 milioni nella sanità del Fvg, in: Il Piccolo, 26 maggio 2018, sono stata presa dalla curiosità di dare una occhiata, da inesperta, al bilancio consuntivo del 2017 dell’ Aas3, per capire di più sia sulla situazione attuale sia sulla politica dell’azienda.

Essendo una profana nel leggere bilanci, ho chiesto un aiuto a chi se ne intende, e spero di aver compreso bene ciò che mi ha detto, e con questi importanti suggerimenti mi perito di scrivere qualche considerazione sull’Aas3 ed il suo bilancio consuntivo 2017.

Fvg. Aas3. un bilancio che si chiude, per il 2017, in attivo, ma di ben poco.

4 dati devono esser presi in considerazione per capire se una azienda stia abbastanza bene: il totale dell’attivo circolante, riportato nella parte relativa allo stato patrimoniale, che nel bilancio aas3 è pari a € 120.574.373, 00 (120 milioni e mezzo), la voce relativa al patrimonio netto, – finanziamenti-  in relazione con i debiti: che, in questo caso, vedono € 114.252.982 di finanziamenti, contro € 94.425.419 di debiti. 

 Ma che il bilancio consuntivo 2017 dell’AAS3 si chiuda in attivo, lo si può leggere anche alla fine del bilancio, ove il risultato della gestione complessiva 2017, riportato, è un utile pari € 1.821,00 che si propone di destinare ad investimenti in attrezzature sanitarie, contro un passivo precedente di 8.723.816 euro, ma in presenza di maggiori entrate. Altri dati che fanno propendere per una situazione buona per l’Aas3 sono rappresentati dalle disponibilità liquide, più alte che in precedenza, e dalla cassa, che è pari a quasi 66 milioni di euro. Infine la differenza tra il valore ed i costi di produzione risulta pari a € 5.859.954.

Quindi analizzando il bilancio, si notano, rispetto all’ esercizio 2016, una lieve minor spesa nelle immobilizzazioni immateriali che sono costituite da costi che non esauriscono la loro utilità in un solo periodo, ma manifestano i benefici economici lungo un arco temporale di più esercizi, e una lieve diminuzione del valore delle immobilizzazioni materiali, cioè di terreni, fabbricati e macchinari, che passa da 101.950.603 euro a 97.699.297 euro, pare per deprezzamento di mobili, arredi e automezzi.

Non si può infine non vedere che esiste un credito verso lo stato di 54.095.550 euro, contro i 48.080.782 dell’esercizio precedente, con un aumento nelle entrate pari al 12,51%, forse erogato a causa del costo della rivaccinazione di bambini implicati nella nota vicenda dell’assistente sanitaria P.E., in servizio a Codroipo, che viene accusata di aver gettato via le dosi invece di iniettarle.

Ma in ogni caso, si sa che un dato oggettivo relativo al sistema sanitario nazionale, che trova conferma non solo nei lavori dei principali Istituti di Ricerca ma nelle valutazioni della stessa Ragioneria Generale dello Stato, è che il sistema sanitario italiano è sotto-finanziato. «La realtà sotto gli occhi di tutti è che il Fondo Sanitario Nazionale ha una dotazione insufficiente a fronteggiare il fabbisogno di salute degli italiani in continua espansione per effetto delle nuove terapie salvavita, dei farmaci innovativi, delle nuove tecnologie e dell’invecchiamento generale della popolazione. Campanilismi, sprechi e malaffare creano inoltre gravi sacche di inefficienza e ampi buchi nella rete che riducono ulteriormente le risorse a disposizione. (http://www.intermediachannel.it/voci-dalla-rete-quale-futuro-per-il-sistema-sanitario-del-nostro-paese/).

Ma se i finanziamenti sono pochi e il territorio vasto e composito, come nel caso dell’Aas3, siamo sicuri che non ne vada della qualità del servizio? Infatti, da che mondo è mondo, i cerchi non si quadrano. Il 19 giugno 2018, il Messaggero Veneto riportava una affermazione del dott. Benetollo relativamente alla chiusura in attivo del bilancio consuntivo 2017, reso possibile anche da una maggior finanziamento regionale intorno ai 4 milioni di euro: «Siamo l’azienda che spende meno in farmaci, e abbiamo il minor tasso di ospedalizzazione». (Piero Cargnelutti, Assemblea dei sindaci dell’Aas3. Borghi riconfermato al vertice, in Messaggero Veneto, 19 giugno 2018).
Ma siamo sicuri che questo sia stato un bene per l’utenza? Per esempio a una grande anziana è stata diagnosticata una polmonite nel febbraio 2018 dal pronto soccorso, ma poi è stata dimessa e rimandata alla Casa di riposo dove attualmente vive, avvertendo i parenti che avrebbe potuto anche morire. Il medico di base ha provveduto a curarla come poteva, avendo molti pazienti e non essendo una casa di riposo struttura ospedaliera, tra una recidiva e l’altra, con ulteriori accessi al pronto soccorso per un motivo o l’altro, sino alla negazione di una infezione, poi nuovamente riconosciuta. Finalmente nel giugno 2018, è stata finalmente ricoverata in medicina, ed in pochi giorni la polmonite pare si sia risolta. Non valeva la pena di ricoverarla subito? – mi chiedo. Ma pare che non ci fossero mai posti a medicina interna, che fornisce i posti letto per le più svariate patologie, da quelle oncologiche a quelle infettive, a quelle virali, a quelle cardiache, e via dicendo. Ma esiste una medicina interna anche a San Daniele. Ed allora perché non chiedere almeno se avessero posti letto disponibili? Ed è possibile continuare ad andare avanti così?

Inoltre pare che il buco nei conti delle Aziende di Trieste e Udine sia dovuto al nuovo metodo di finanziamento basato sui costi standard, introdotto dallo Stato. (Diego D’ Amelio, Rosso” da 20 milioni nella sanità del Fvg, in Il Piccolo, 26 maggio 2018). Inciderà anche sulla nostra Aas3, in futuro?

Analisi di alcune voci del conto economico consolidato.

Per quanto riguarda il conto economico consolidato, si nota come vi siano stati: un aumento nei contributi da parte della Regione, che passano da 283.917.218 a 287.025.023 euro, con un aumento dello 0,9 %per cento rispetto all’anno precedente; un netto aumento di entrate da ‘altri soggetti pubblici’, probabilmente da comuni, aggregazioni di comuni ed Uti, cifra che passa da 3 milioni di euro (3.007.151) a quasi 18 milioni, (17.965.666) con un aumento del 497, 43%. Per quanto riguarda i costi, come prevedibile le voci importanti risultano l’acquisto di servizi sanitari e il costo per il personale (Tot. 161.499.329 + 101.458.775 = 262.958.104 euro), che sommate risultano pari a 263 milioni di euro arrotondando. M a mio avviso il costo del personale non è alto, e fa ipotizzare una scarsità di operatori.

Si viene a sapere poi, che l’Aas3 ha speso anche 33 milioni in acquisto beni non sanitari, con un aumento di 2 milioni di euro circa rispetto all’anno precedente, e mi piacerebbe sapere in cosa siano stati spesi. Ma temo che i trasporti, bene non sanitari, giochino un ruolo.

Bilancio sanità.

Attivo.

 Per quanto riguarda la sanità, nello specifico, il conto economico della sanità si chiude con un attivo pari a 335.153.296 euro, con un – 0,16%  rispetto all’anno precedente, e con un passivo pari a 329.660.610 euro, anch’esso in diminuzione dell’ 1,62%, il che potrebbe significare una politica di ricerca di pareggio, come probabilmente è stato, senza introdurre novità o miglioramento alcuno, e cercando di mantenere uno status quo ed appianare il debito dell’anno precedente, operazione riuscita.  La differenza tra valore e costi di produzione risulta in netta ascesa, e passa da € 608.056 a 5.492.686, con un aumento dell’803, 42%. Ma un dato del genere, che potrebbe far felice un ragioniere, sarebbe da mettere in discussione da parte dell’utenza, perché potrebbe rappresentare un risparmio sui servizi erogati.

Vi è una minore entrata, di circa il 5% alla voce: ‘ricavi per prestazioni sanitarie, sociosanitarie, a rilevanza sanitaria’, il che significa che l’aas3 è poco attrattiva forse anche per chi l’ha come riferimento; vi è una diminuzione nelle spese di acquisto di servizi sanitari del 7,81%; vi è un aumento di spesa per i servizi non sanitari, pari a 16 milioni di euro, con una cifra irrisoria per la formazione ma pur sempre più alta che in precedenza; ed un incremento pure per la spesa per il personale, che si attesta su 96.965.130 euro, contro i  95.536.170 precedenti. Ma cala quella per i medici dell’1,58%, attestandosi sui 30.616.39 3 euro. 41 milioni vengono spesi per personale del comparto ruolo sanitario, in sintesi per gli infermieri, le ostetriche, i tecnici di riabilitazione e di laboratorio, mentre ben 20 milioni e mezzo di euro, circa, vanno a pagare ‘personale comparto altri ruoli’ il che parrebbe un dato importante per sottolineare come ormai gli amministrativi ed i burocrati pesino molto sui bilanci, e detta spesa risulta in aumento. 6 milioni di euro sono stati spesi per la manutenzione, più di 9 milioni di euro per ‘acquisto prestazioni Socio-Sanitarie a rilevanza sanitaria’ voce che non so cosa significhi, ma la cifra non è da poco e sta crescendo. Infine il conto economico della sanità si chiude con un attivo pari a € 5.492.686, poi ridotto da tassazioni e oneri vari a € 1821. E se aumentassero le tasse, anche solo l’Iva, che accadrebbe? 

La ricerca sia corrente che finalizzata pare che, se ho ben compreso, non abbiano ricevuto un ‘penny’ da alcuno, quando senza ricerca almeno sociologica collegata alla possibilità di attivazione territoriale di servizi ma anche sulla adeguatezza del servizio rispetto all’utenza, credo siamo lontani dal poter guardare al futuro, ma si è ancora nella logica, nazionale e regionale del “Fin che la barca va …

 Debiti dallo stato patrimoniale consolidato e dal conto economico.

Diminuiscono i debiti verso la regione e così anche verso i comuni, in questo ultimo caso con un 71, 65% in meno rispetto all’anno precedente, a fronte di un aumento dei contributi dai comuni per attività socio-assistenziale delegata del 160,33%.

 Questi dati, oltre l’aumento di finanziamenti da ‘soggetti pubblici’ farebbero pensare che il settore socio – assistenziale stia fuggendo totalmente di mano ai comuni accentrandosi nell’azienda socio-sanitaria, il che non credo francamente sia un bene. Infatti se un ruolo positivo avevano i comuni per la cittadinanza, esso era quello per esempio di conoscere le situazioni di povertà ove i servizi potevano essere dati gratuitamente, e di conoscere possibili fonti di disagio socio – economico su cui intervenire nel contesto e substrato sociale, senza tanta burocrazia, senza sanitarizzazione dei problemi sociali, con un concetto di comunità paesana ben presente. Insomma un tempo si poteva agire sull’ambiente di vita per migliorarne le condizioni, ora è tutto lontano, freddo, maggiormente legato alla farmacologia, spersonalizzante. Infatti l’approccio ai problemi sociali in ambito sanitario ritengo sia diverso da quello di un servizio sociale comunale. Mancano inoltre psicologi, che potrebbero aiutare, e l’idea di accorpare i Sert di Tolmezzo e Gemona mi sembra invero balzana, perché proprio i Sert sono nati come servizi su e per il territorio e perché mancano mezzi pubblici che colleghino bene le due cittadine, limitandosi a un paio di corriere per studenti, che vengono soppresse nel periodo estivo, e un quattro, si fa per dire, nell’arco della giornata che permangono tutto l’anno, collocate al mattino ed alla sera. E se si centralizza non ci si può non occupare dei trasporti, e di come attuare la sanità ‘on the road’, tanto che la diretta Tolmezzo – Udine via autostrada era stata pensata, a livello regionale, pure per favorire l’accesso all’ospedale di Udine, sempre visto come ‘caput mundi’.  Per quanto riguarda le spese sanitarie, invero alte risultano le uscite verso aziende sanitarie pubbliche pari a: 34.214.085 euro, cifra inferiore a quella di a 38.865.847 dell’anno precedente, ma non di poco conto. Dobbiamo ben 34 milioni di euro a terzi! Piacerebbe sapere a chi e perché. Ma guardando il bilancio della sanità si nota come ben € 32.513.903 son stati investiti per questo settore, contro i 35.018.948 dell’anno precedente.

Relativamente alla sanità, aumentano le spese per acquisto di servizi e beni non sanitari, mentre non cresce la spesa per i farmaci, che scende lievemente, ma vi è sicuramente un brevetto scaduto che potrebbe averla contenuta, aumenta la spesa per i servizi sanitari ospedalieri, aumentano le spese per l’acquisto prestazioni Socio-Sanitarie a rilevanza sanitaria.

Altro aspetto interessante che si evince dallo stato patrimoniale aziendale, è relativo alla spesa verso istituti previdenziali e per la sicurezza sociale, che ammonta a 5.691.125euro, contro i 708.169 euro pregressi, con un aumento pari al 703,64% ed al dato riguardante i debiti tributari, che salgono a ben 4.972.268 contro 881.104 del 2016, con un aumento di 4.091.164 di euro pari al 464, 32%. Ma forse si è pagata qualche cifra rimanente dall’anno precedente.

Vi è infine, una voce generica: “debiti verso altri”, pari a 25. 331. 444 con una lievissima diminuzione 0,04% rispetto al 2016, e vorremmo sapere chi siano questi ‘ altri’.

Ancora una volta non si può non rilevare che vi è una frattura fra quanto prevede la legge e la realtà finanziaria a copertura, cioè chi legifera lo fa, anche a livello regionale, senza tener conto della copertura economica. E mi sono già soffermata su questo piccolo particolare nel mio ‘Fvg. ospedali marginali, fra “polvere di stelle” e macete per quanto riguarda il dgr 2365/2015, di teleschiana memoria, che non so se si possa più cancellare.

Bisogna poi notare, dal conto economico della sanità, come le prestazioni mediche private svolte all’interno dell’AAS3 indichino ancora un attivo, ma minori entrate all’azienda, e bisognerà vedere se questo attivo verrà contenuto ulteriormente il prossimo anno, con l’andata in quiescenza di alcuni professionisti trainanti. Aumenta quindi il ricavo da prestazioni ospedaliere intramoenia (Prestazioni sanitarie erogate in regime di intramoenia, p. 48 dello schema dettagliato), mentre il maggior creditore dell’Aas3 risulta sempre Udine. Paiono a me profana, pure alti i costi per mobilità sanitaria infraregionale, in sintesi quello che l’Aas3 paga per visite svolte presso ambulatori di altre aziende, ed in particolare per ricoveri presso altre aziende; (Acquisti di servizi, in: Acquisti di servizi p. 50 dello schema dettagliato), in particolare verso l’ Azienda universitaria sanitaria integrata di Udine). In sintesi pare che dipendiamo da Udine, ma pagandolo.    

Per quanto riguarda il personale impiegato nel settore sanitario, (dati ricavabili dallo schema: ‘Dati sull’occupazione al 31 dicembre 2017’ – dati però al dicembre 2016, non essendo state fornite dal Ministero le tabelle 2017), mi pare eccessivo il numero di dirigenti in veterinaria, ben 295 contro i 34 dell’area sanitaria, ma probabilmente tutti i veterinari sono pagati come dirigenti; vi sono 42 Ds, cioè collaboratori professionali esperti, 159 amministrativi a tempo pieno, sommando tutte le categorie, e 28 a tempo parziale, pur essendo esternalizzati alcuni servizi come il cup, il che fa supporre che si stia investendo troppo in farraginosa burocrazia ed affini, e, mentre la riforma puntava tutto sulla medicina di base, i numeri dei MMG diminuiscono passando da 132 a 127. 

Il costo di trasporto con privati aumenta rispetto lo scorso anno, il che potrebbe significare un maggiore uso della C.R.I. per trasporti o altro. (Nota integrativa. Bilancio sanitario, p. 52). Inoltre è chiaro che paghiamo le prestazioni di laboratorio se, a p. 52, si legge che Vi è stata una «riduzione dell’addebito prestazioni Laboratorio Unico Interaziendale per mobilità e richiesta nota di accredito per prestazioni ambulatoriali fatturate da Asui Ud» (Ivi, p. 53), il che significa che, al di là di ciò che uno poteva dire o pensare, paghiamo tutto, e ci conveniva mantenere il laboratorio analisi per tutti e con personale nostro.

Infine si nota un deciso taglio a consulenze esterne da privati e per il sociale, tanto che le somme vincolate al sociale si dimezzano passando da 329.000,00 euro a 155.000,000 arrotondando, ed aumentano invece i contributi dai comuni per attività socio-assistenziale delegata, il che porta alle amare considerazioni pregresse sul distacco dei servizi socio – assistenziali dal territorio.

Bilancio delle attività socio-assistenziali in delega.

Il bilancio riporta poi, scisso, il bilancio per i servizi socio- assistenziali, che ha avuto entrate pari a € 32.615. 466, di cui 4 milioni e mezzo di euro sono serviti per pagare il personale, 6 milioni e mezzo circa per acquisto servizi sanitari, 16 milioni e mezzo per acquisto servizi non sanitari, ed il bilancio chiude ancora in attivo, ma con un –  54% circa rispetto all ‘anno precedente, il che significa che stiamo spendendo sempre di più. (Conto economico – Attività in delega).

Dalla relazione finale del Bilancio socio assistenziale, si evidenziano alcune voci, come il consolidamento dei servizi innovativi, quali SIRIO, Stazione Arcobaleno, Appartamenti per domiciliarità, che però farebbe pure parte di un discorso non propriamente da Azienda sanitaria, secondo me, il sostegno a strutture diurne e residenziali a gestione diretta e/o indiretta (appalto a Cooperativa e convenzionamento con privato Sociale), presidi per l’assistenza e lavori nella comunità di Esemon, e quindi attivazione di protocolli per una partecipazione attiva, che dovrebbe pesare però anche sullo Stato, spostamento di una sede, il tutto con connotazione di “nuove offerte” collocandosi nella rete dei servizi a favore delle persone con disabilità.

Il proseguire poi sulla strada della delega, ha portato alla stesura di un nuovo protocollo tra comuni e Aas 3, sulla base di nuovi parametri economici. Ma qui mi perdo io perché non so che spazi vada a coprire l’Aas3, che temo andrà a prendersi competenze anche di fondazioni private, come la casa di riposo di Tolmezzo, per fare solo un esempio, che non si sa come sia ambito suo, con un accentramento pauroso di competenze e spazi, che toglie pluralità di idee gestionali e massifica utenza e servizio. Inoltre le case di riposo, non so se quella citata però, spesso vivacchiano, e non credo sia ‘cosa buona’ prendersele in carico.

Così, con una grande utizzazione nelle aziende socio – sanitarie dei servizi socio-assistenziali, il timore mio è che le persone in difficoltà diventino, fra l’altro, sempre più numeri e vengono assistiti in un modo che estranea più che inserire nei contesti di comunità, e che allontana, più che avvicinare.

 Pur in presenza di vecchiaia nella popolazione, disagio in aumento, problematiche assistenziali non di poco conto in territorio vastissimo, il servizio minori e handicap di pertinenza, si nota come il personale distaccato per questi servizi non sia poi molto se al 31 dicembre 2017 vi erano: 16 educatori più un animatore, a 53 esecutori B, cioè, se ho ben compreso, oss,  42 assistenti sociali per coprire l’ intero servizio pure comunale, 14 amministrativi, in un settore ove la burocrazia dilaga. (Bilancio di esercizio 2017- Nota  Integrativa – attività socio-assistenziali in delega, Dati relativi al personale, p. 5). Inoltre il settore è ben poco finanziato, e qui si hanno crediti verso altre ass, sperando che ciò non significhi che, con scarso personale, stiamo facendo pure lavoro per conto terzi. (Tabella 17, p. 15). Non si sa poi perché abbiamo debiti verso Associazioni di volontariato, che a questo punto sono a pagamento (Tabella 42 – p. 32 – Nota integrativa cit.), o verso assistiti, ma l’incomprensione può essere solo mia (tabella 44, p. 34, – Nota integrativa, cit.).

Ma per tornare al bilancio socio -assistenziale, ben 5 milioni di euro circa vengono dati per ‘Altri servizi, non sanitari da privato’ e oltre 8 milioni per servizi socio- assistenziali da privato (Tabella 62, p. 44 – Nota su bilancio socio- assistenziale), mentre per l’acquisto globale di servizi spendiamo ben 15 milioni e mezzo di euro, di cui 14 per servizi non sanitari, che sono tanti per un bilancio così ristretto, e comprendono voci come mensa, pulizia, lavanderia, riscaldamento.  Ma io sono abituata ai miei bilanci domestici. Inoltre dalla tab. 51 – Informativa contributi in conto esercizio, p. 38, – Nota su bilancio socio – assistenziale, si nota come ben poco vengano finanziati i progetti di riabilitazione per la tossicodipendenza, dopo tanti paroloni sul sociale e sui buoni stili di vita, mentre 504.000 euro vengono dati per l’inclusione al reddito, e cinque milioni e mezzo per i soggetti della 104, la più finanziata. Ed anche in questo settore, per la ricerca non va più un ‘penny’. Non si sa poi perché l’AAS3, quest’anno, abbia dato 10.000 euro alle Associazioni di volontariato contro i 400 euro dell’anno precedente (Tabella 60- Acquisto beni sanitari – p. 43), si nota un deciso taglio a servizi da privati (Ivi, e tabella p. 62 – Dettaglio acquisti servizi non sanitari – p. 44 – Nota integrativa, cit.).

La relazione finale del Bilancio socio assistenziale, si evidenziano alcune voci, come il consolidamento di servizi innovativi, quali SIRIO, Stazione Arcobaleno, Appartamenti per domiciliarità, che però farebbe pure parte di un discorso non propriamente da delega ad Azienda sanitaria, secondo me, il sostegno a strutture diurne e residenziali a gestione diretta e/o indiretta (appalto a Cooperativa e convenzionamento con privato Sociale), presidi per l’assistenza e lavori nella comunità di Esemon, e quindi attivazione di protocolli per una partecipazione attiva, che dovrebbe pesare però anche sullo Stato.

Al bilancio sono pure allegate tre relazioni sul servizio socio-assistenziale erogato, seguendo la divisione in distretti della grande Aas3: una per il Servizio sociale dei Comuni dell’Unione Territoriale Intercomunale ‘Gemonese’ e dell’Unione Territoriale Intercomunale ‘Canal del Ferro, Val Canale’; una per la Carnia; una per il sandanielese; mentre mi pare proprio manchi quella per il codroipese,  seguendo la divisione in distretti della grande Aas3.

Servizio socio – assistenziale ed educativo nel Gemonese, Canal del ferro – Val canale.

Il servizio sociale è stato demandato dalle Uti e dal Scc all’ Aas3. La popolazione cala, ma non si discosta di molto il numero di coloro che necessitano di aiuto da parte dei comuni.
Le problematiche prevalenti negli adulti nell’anno 2017sono state relative al contesto familiare, (conflittualità di coppia, difficoltà nella gestione dei compiti di accudimento ed assistenza dei figli, inadeguatezza dei genitori, problematiche conseguenti a separazione e divorzio, ecc.) e
all’indisponibilità di un reddito adeguato).
«Minore invece è il numero di persone che si sono rivolte al SSC persone con problemi di salute, legati principalmente a disabilità e sofferenza mentale, o in condizioni di parziale o totale non autosufficienza. Le problematiche abitative sono state numericamente contenute, ma quando sommate alle difficoltà connesse al reddito ed al lavoro, in grado di determinare situazioni di grave emergenza assistenziale».

 Il 45% di coloro che ricorrono ai servizi sociali presenta problemi di reddito, il 18% familiari, il 12% di salute, il 10% di lavoro, il 2% di dipendenza, il 7% non è autosufficiente.  Ma tra gli anziani il dato della non autosufficienza si fa drammatico e colpisce il 53% mentre una autosufficienza parziale colpisce il 31% degli stessi, ma non è di poco conto neppure che l’8% degli anziani abbia problemi di reddito.

Per quanto riguarda i minori, invece, il 61% di coloro che ricorrono ai servizi sociali ha problemi familiari, il 12% ha problemi scolastici, il 10% di salute, il 5% di socialità e relazione con gli altri. Gli utenti del servizio di assistenza domiciliare e dei centri diurni permane sopra le 500 persone, quasi 450 utenti usufruiscono del servizio assistenziale domiciliare, 52 frequentano il centro diurno, 13 i centri diurni ed il SAD.

L’utenza del servizio di assistenza domiciliare è stata, nella quasi totalità dei casi, anziana, con una prevalenza di persone con età superiore ai 75 anni, mentre 200 persone usufruiscono del Fondo per l’Autonomia possibile e l’assistenza a lungo termine, e sono in netto aumento. Nell’anno 2017 il sistema dell’offerta dei servizi domiciliari, resi presso le abitazioni degli anziani, presso i centri diurni e altri luoghi sedi di attività socio-ricreative, ha registrato un aumento degli utenti, realizzato tramite il potenziamento di alcune attività ricreative (il “pomeriggio insieme” a Tarvisio e “La Rosade” a Moggio Udinese) e dal mese di ottobre vi è stata l’inclusione del Centro di Aggregazione di Resia nel sistema di gestione associata del Servizio sociale dei Comuni (il Centro era/è frequentato da 12 anziani).

A favore delle persone fragili favore della tutela delle persone fragili è stato potenziato lo Sportello per l’Amministrazione di sostegno, con risvolti positivi, mentre si è cercato, per i minori, di informare e procedere sulla via dell’affidamento familiare piuttosto che dell’inserimento in comunità.
Nel 2017 sono stati supportati i Comuni sono stati supportati nella gestione dei minori stranieri non accompagnati, che risultavano 14. Vi è stato poi un proliferare di partecipazioni e promozioni di incontri, previsti da bandi regionali, e la partecipazione al tavolo sugli adolescenti psico-patologici che però dovrebbe interessare anche la scuola e diventare da generico a propositivo.
E propositivi saranno stati certamente gli interventi educativi e formativi per bambini, ragazzi, giovani, ma non tutto si risolve all’ interno di un progetto, dove i rapporti sono maggiormente diretti e formali, mentre poi i ragazzi, spesso con il telefonino in mano, si perdono nel loro soggettivismo, senza riuscire a creare rapporti reali con il prossimo in carne ed ossa, e tendono a fuggire in atteggiamenti nichilistici da una realtà che non sanno affrontare.

Per quanto riguarda gli anziani il problema è ancora più complesso, e prevederebbe una analisi completa della gestione reale non amministrativa delle case di riposo presenti sul territorio, siano esse private o meno.

 Infine 178 sono state le persone che hanno usufruito, nel 2017, del fondo di solidarietà regionale, mentre 245 hanno usufruito della misura di inclusione attiva e sostegno al reddito.

La relazione riporta anche il personale coinvolto in questa mole di lavoro, che appare, francamente scarso. Inoltre la gestione totale di sanità e servizi socio assistenziali nonchè educativi in mano a poche persone con una formazione e mentalità sanitaria è riduttivo per approcci diversi, come il dipendere poi l’azione dai fondi regionali e comunali, che rischia di far terminare alcune attività anche di sostegno a popolazione in difficoltà economiche, ma non con problemi sanitari, e pone perplessità rispetto alla pluralità degli interventi e del dibattito, conformandosi come una forma accentratrice, autoritaria, legata alla politica in un abbraccio che potrebbe essere letale per le comunità. Non da ultimo, nulla si sa sull’ospedale gemonese, mentre servirebbe subito almeno riaprire il reparto di medicina interna.

Servizio socio- assistenziale ed educativo in Carnia.

L’inizio della relazione fa pensare che in Carnia domini l’Uti, il linguaggio burocratico, l’ossessione per l’uso del termine ‘ governance’, che nessuno ormai più capisce cosa significhi nei vari contesti, ma dà più una idea di controllo totale che altro. L’Uti si serve di Itaca/Codess ‘come previsto dal capitolato’.  Il linguaggio discorsivo e burocratico al tempo stesso, insomma quello che fa ora tanto ‘trendy‘ fra ‘berlusconiani’ e ‘renziani’ e tanto azienda, quando il sociale non è aziendale ma così piano piano lo si trasforma, trasforma la società ed il mondo in una grande azienda, e ci indica comunque i servizi al dettaglio ma in un modo più freddo, più lontano dalla vita di ogni giorno, e forse se si fosse usato qualche schema il tutto sarebbe stato più chiaro nell’immediato.

Per quanto riguarda il servizio di assistenza domiciliare data la presenza di situazioni di persone sole, coppie anziane, rete familiare e sociale scarsa, di isolamento, di aggravamento delle condizioni di salute, esso risulta avere addirittura non riuscire a coprire la domanda, tanto che esiste una lista d’attesa di 13 persone. Quelle seguite dal servizio sono 259 persone, di cui 27 fruiscono pure dei pasti a domicilio.

Si sta inoltre progettando, anche con il comune di Tolmezzo, un centro diurno per l’Alzheimer presso la casa di riposo di Villa Santina, e due centri per persone con demenza medio lieve, uno sempre a Villa Santina, uno a Tolmezzo. Relativamente ai servizi semi residenziali, si è provveduto, come da legge regionale 2015, a stipulare le convenzioni per la gestione di quello per anziani non autosufficienti rispettivamente con il Comune di Tolmezzo e la casa di riposo della cittadina capoluogo della Carnia ed il comune di Forni di Sotto.

Speriamo che resti uno spazio anche per gli autosufficienti, mi dico fra me e me. Ed anche così possibili deficit di bilancio di strutture private potrebbero esser coperti dall’Aas3, che però, non potendo coprire tutte le spese, e seguendo un’ottica aziendalistica, potrebbe massificare i servizi e creare case di riposo che, se non si pongono attenzioni particolari, poterebbero trasformarsi in ghetti Non da ultimo, si potrebbero configurare come semi- ospedali senza esserlo in modo alcuno e senza garanzia alcuna, in mano a cooperative che si sono aggiudicate il servizio globale sulla base del ribasso, senza clausola alcuna sulla qualità del servizio, e con spersonalizzazione data pure da abiti ‘comunitari’ non personali, come un tempo, e oos e infermieri per nulla affezionati, non certo per colpa loro, al lavoro.

Inoltre si viene a sapere che funzionano solo un centro diurno a Tolmezzo ed uno a Forni di Sotto, che sono stati frequentati rispettivamente da 31 persone il primo, da 17 il secondo, e bisognerebbe vedere come. Il Fondo per l’autonomia possibile ha interessato 203 persone, mentre il Fondo gravi gravissimi è stato utilizzato per 15 soggetti. Inoltre esistono in Carnia 17 centri di aggregazione per anziani, che hanno coinvolto, nel 2017, 250 anziani, infine si sono attivati 3 gruppi di anziani in cammino. Francamente però sarebbe pure utile che gli anziani potessero stare con giovani e bambini. È continuata anche l’offerta dello sportello gestito dall’ANFFAS Alto Friuli in partenariato con ANTEAS FVG, che ha coinvolto 125 persone e sono stati attivati corsi per formare amministratori di sostegno.

Si è attivata con Uti ed altri soggetti la formazione su:  “Rete del paziente anziano cronico”, mentre non ho capito perché la Responsabile del SSC dell’UTI della Carnia, abbia partecipato alla formazione “Il nucleo per l’etica della pratica clinica”. Vi è forse confusione fra Uti e Aas3? –  mi chiedo, fra politico, amministrativo e clinico? 

Al di là degli intendimenti, poi, in Carnia è aumentato il numero dei minori inseriti in comunità, pari a 15, con 3 madri, mentre 45 sono i soggetti presi in carico per fragilità genitoriale (aumento dei nuclei monoparentali, assenza della figura paterna), separazioni conflittuali, precoce adultizzazione dei minori.

Interessante invece è la considerazione che sono in aumento le situazioni di adolescenti con problematiche a forte rischio di emarginazione e devianza, per i quali molto spesso l’equipe multidisciplinare valuta la necessità di una comunità a valenza terapeutica.

In Carnia sono in atto poi vari progetti di sostegno alle famiglie ma, secondo me, esso dovrebbe avvenire attraverso una azione non medica e territoriale, creando comunità in cammino e solidali, non con la sanitarizzazione del sociale. Inoltre i progetti lasciano il tempo che trovano, pur avendo valenza anche positiva.
Invece la spesa nell’area dell’h, in particolare per i minori a scuola, è legato al numero di certificazioni, che ci si augura non contemplino sostegno al disagio, ma l’applicazione rigorosa della 104, mentre a mio avviso resta un problema la vita dei giovani diversamente abili, dopo il 18 esimo anno di età, in un mondo come quello attuale. E credo sarebbe propositivo riprendere, o sostenere, se si stanno già facendo, una serie di attività all’ interno degli spazi Anfaas, simili a quelle presenti negli anni ’90, e trasformare quelle stanze in luogo di incontro per tutti e di dibattito.

Importantissimo, poi, mi pare il dato che vede, negli ultimi anni, un progressivo aumento delle problematiche relative all’area degli adulti legate alla povertà economica, abitativa, relazionale, con conseguente esclusione sociale. Ma purtroppo in questa nostra società la povertà economica implica esclusione sociale e perdita di alloggio, e si spera il governo decida per qualche forma di reddito di cittadinanza. Invece quando si parla del reddito di inclusione bisogna ricordare che includere implica che vi sia stata un’esclusione e ‘includere’ non implica solo avere un reddito minimo, almeno per pagare l’acqua che Dio ha dato a tutti per vivere, ma che altri hanno a noi sottratto in un clima sempre più torrido, ma anche la presenza di una comunità e di un contesto sociale. Ma questo aspetto è difficile da proporre e gestire solo da parte di una azienda sanitaria, che può sostenere un progetto educativo per un singolo, ma non agire sul contesto globale. Per quanto riguarda gli alloggi, poi, sarebbe interessante sapere che fanno gli Ater. Esistevano risposte alla povertà, un tempo, perché ora si sono perdute o sono sottovalutate?

Comunque, anche per l’anno 2017, gli operatori del settore socio- assistenziale si sono adoperati nello svolgimento delle attività legate all’inclusione attiva MIA regionale e SIA statale. Interessante appare il contenuto del progetto ‘Abitare sociale’ anche qui gestito da una onlus, mentre questi servizi dovrebbero ridiventare comunali e sicuri, limitando la scelta di esternalizzare al privato che già esiste. E vorremmo sapere che compiti restano ai comuni, che mi pare abbiano delegato un po’ troppo, con una visione meramente amministrativa dei problemi.

Sulla via del superamento del disagio non ritengo che le lezioni con ragazzi servano molto, ma invece può servire una presa in carico diretta dei problemi da parte degli insegnanti, dei genitori, della presidenza, come comunità educante, e si educa nel contesto e continuativamente, tendendo alla modifica dei comportamenti in loco. In sintesi non credo all’esperto sul bullismo, che comunque dovrebbe essere da altri proposto, ricordando pure che a scuola si va per studiare, imparare, apprendere. E ritengo che le reti di comunità non siano compito dell’Aas3, ma delle comunità stesse, ma l’Uti è solo un organo burocratico e inutile per la popolazione in cammino sul suo territorio, che non riesce mai a confrontarsi con i vertici, chiusi nel palazzo.

Inoltre i gruppi informali possono anche produrre cultura, non solo ‘fare delle cose insieme’, basta vedere cosa fece il preside Di Grazia a Paularo, esperienza da non perdere, e possono parlare dei problemi del territorio e chiedere di essere ascoltati.

Attività socio-assistenziale del distretto di San Daniele.

Per quanto riguarda il distretto di San Daniele, anche qui il sostegno al reddito ha inciso notevolmente sull’ attività, oltre che l’impegno nei seguenti settori: prosecuzione delle progettualità connesse al Piano annuale immigrazione, in particolar modo le attività di sportello per gli immigrati gestito in collaborazione con L’Associazione MOVI e l’Associazione Mediatori Culturali; realizzazione del Progetto Invecchiamento Attivo, in collaborazione con l’Associazione Movi e i SSC delle UTI della Carnia, del Gemonese e della Val Canale/canal del Ferro; apertura di un tavolo permanente di co-progettazione con le associazioni familiari del territorio finalizzato alla condivisione delle progettualità connesse al Bando a sostegno degli interventi regionali a favore della famiglia e della genitorialità, nonché alla promozione dell’istituto dell’affidamento familiare;  sottoscrizione, nel marzo 2017, del protocollo operativo con i servizi sanitari, gli istituti Comprensivi di Basiliano e Sedegliano, Buja, Fagagna, Majano e Forgaria nel Friuli, Pagnacco e San Daniele del Friuli per la definizione delle procedure per la collaborazione tra scuola, servizi sanitari e socio assistenziali nelle modalità di segnalazione e presa in carico dei minori.

Quello che mi spaventa, in generale,  è come un servizio socio assistenziale in mano a poche persone, tenti di inserirsi in ogni aspetto sociale, condizionandolo, e sostituendosi ad altri soggetti istituzionali. Per esempio la mediazione culturale e l’inserimento di immigrati non dovrebbe essere a carico dell’Aas3, ma del Ministero dell’interno, dell’Istruzione ed altri soggetti statali. E quando pochi cercano di intervenire, con la loro logica, su tutto, va a finire che potrebbero anche non riuscire a terminare nulla in modo adeguato. Insomma per me l’Aas3 dovrebbe limitare i campi di intervento.

 Molti inoltre afferiscono ai servizi sociali alla luce dell’attuale situazione socio economica nazionale e locale che vede presenti: la perdita o la riduzione del lavoro, l’insufficienza del reddito, la maggiore fragilità delle relazioni sociali e la vulnerabilità della coppia, il tasso di invecchiamento della popolazione, l’aumento delle patologie invalidanti. Ma l’Aas3 non può prendersi carico, assieme a qualche onlus non gratuita e con personale non si sa dove e come formato, mentre magari laureati nel settore sono a spasso, di ogni aspetto sociale, semplicemente perché non è il suo compito, e trasforma l’azienda sanitaria in un ente che ha gestione e supervisione su tutto, sottoposto alle fluttuazioni della stessa anche dal punto di vista economico, ed ad un approccio ai problemi sociali magari sanitario. Per esempio quando si legge che: «Si può ipotizzare che l’incremento delle misure a contrasto della povertà e della platea dei possibili beneficiari abbiano fatto emergere un nuovo target di utenza che in precedenza non era nota ai servizi», l’AAS3 come altre, pur meritevoli di lode per il loro impegno, dovrebbero fare la voce grossa perché la politica statale e regionale diano risposte alla povertà, non pensare che le aziende socio sanitarie possano rispondere ad ogni richiesta assistenziale, e chiarendo che a loro questo tipo di assistenza, se non per persone seguite dai csm o per altri motivi sanitari, non compete. E i numeri alla tabella dei ‘giunti ai servizi sociali’ del distretto sandanielese non è di poco conto.

Aumentano anche qui i minori seguiti, 309 contro i 295 del 2016 ed i 81 del 2015, e due aspetti sono da sottolineare: l’aumento di minori coinvolti in percorsi di devianza e l’Incremento della dispersione scolastica, dell’isolamento isolamento sociale e di ritiro, la difficoltà di gestione dei minori da parte delle figure genitoriali, in particolare nell’area preadolescenti e adolescenti. Ma l’educazione genitoriale non dovrebbe essere aspetto che compete alla sanità, se non per quanti afferiscono ai dimenticati consultori familiari, osteggiati a causa della legge per l’interruzione di gravidanza, e ben poco finanziati, che giustamente dovrebbero sostenere singole famiglie in un percorso comune verso l’autosufficienza.

 Alti risultano nel sandanielese gli affidi, ma i numeri per detta voce dipendono, qui come là, da aspetti non misurabili, particolare attenzione è stata data a minori autistici.

Altre voci del bilancio ricalcano quelle dei distretti precedenti e si prestano alle stesse considerazioni sulla pertinenza o meno di alcuni compiti come da svolgersi dall’Aas3, che non si presenta come un ente per risolvere tutti i problemi di carità cristiana, come dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, dare un tetto a chi non ce l’ha, perché rischia di andare in crisi e non avere tra l’altro, soldi e mezzi per far bene ogni cosa. Poco e bene nel rispetto dei compiti mi pare buon suggerimento. Il contrasto alla povertà non è fra i compiti di una Azienda Socio- Sanitaria, e secondo me neppure la gestione di S.IA. e M.I.A.. Lo facciano i comuni con le Uti, a cui deve esser demandato il settore assistenziale oltre che la lotta alla povertà. In sintesi si devono definire in modo preciso i campi di intervento.

L’area dello svantaggio è un’altra fra quelle non di pertinenza di una ass, secondo me, e se esso è scolastico se ne occupi la scuola, se è sociale si trovino soluzioni istituzionali diverse dall’assommare tutto, tranne che per i casi seguiti da Csm o portatori di handicap.

 L’invecchiamento attivo non è compito dell’Aas3, come non è suo compito gestire Rsa, che se sono residenze del post operatorio afferiscono all’ area sanitaria, se sono case di riposo ai comuni o alle fondazioni che le hanno in gestione. Scivolare verso la gestione di case di riposo spesso in perdita, è pericolosissimo, mentre si dovrebbe limitare l’azione del servizio dell’ Azienda ad una supervisione sulle condizioni igienico -sanitarie e di vita degli anziani ospiti, che possono presentare pluripatologie, e spesso senza attività all’aperto o possibilità di uscita, sul piano qui sì, volto ad un invecchiamento attivo al loro interno, sul cibo dato, creando delle tabelle per tutte le case di riposo da seguire scrupolosamente, insomma per quanto afferisce alla sanità e salute, dettando le condizioni e controllando che siano rispettate.

 Relazione del Direttore Generale sulla Gestione – Bilancio d’esercizio 2017

 Rispetto a questo documento finale, ho poco da dire, perché fotografa l’esistente. Ma non so proprio come si possa assommare in sé tutta una mole di competenze e di gestione sanitaria, scrivendo, poi che uno degli obiettivi fondamentali è fare tutto spendendo il meno possibile e con il minor personale possibile.

Infatti così si legge riprendendo dal documento di programmazione aziendale 2016-2018, come obiettivo:

«Realizzare tutte le attività minimizzando il dispendio di risorse (lavoro del personale; tempo dei pazienti; risorse dell’ssr, risorse delle famiglie → semplificare i processi ed eliminare tutto ciò che non produce valore».  Pazienti ed utenti producono valore? mi chiedo polemicamente.

 Ed alla Dirigenza dell ‘Aas3 pongo questa domanda: “Come mai moltissimi utenti di competenza, hanno l’impressione che ormai in Aas3 non funzioni più nulla, che stia andando tutto in sfacelo, il che non è vero, ma in sintesi percepiscono un profondo disagio rispetto al pregresso? Forse perché si vogliono fare troppe cose con poche risorse umane e finanziarie? E con questi dati da sopravvivenza, come ci possiamo immaginare il futuro? 

Con questa frase termino questa mia, scusandomi subito con i dirigenti dell’Aas3 se si sentissero offesi da questo mio lunghissimo articolo, scritto non certo per criticare senza fondamento, chiarendo subito che i problemi dell ‘Aas3 sono comuni alle altre realtà italiane, che io sono profana in bilanci, e chiedendo venia ai lettori di miei possibili errori, e chiedendo semmai di correggermi e di commentare. Parliamo insieme di questa nostra sanità. 

Laura Matelda Puppini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bepo di Marc – Giuseppe Di Sopra, socialista e fotografo di Stalis di Rigolato.

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Il gruppo Gli Ultimi, sorto nel 1971, svolse anche il compito di sottrarre alle discariche ed alla distruzione immagini fotografiche segnate dal tempo, e/o di valorizzarle. E mi riferisco all’archivio Umberto Antonelli, a quello di Vittorio Molinari, alle lastre di Giuseppe di Sopra, alle immagini su pellicola di Umberto Candoni. Ma poi problemi politici e non solo, che ruotavano intorno alla creazione della ‘fototeca della Carnia’ da parte del Coordinamento dei Circoli Culturali della Carnia, e successivamente la nascita di due poli interessati alle immagini: ‘Cjargne culture’ sorta dalle ceneri del Coordinamento e il Circolo Fotografico Carnico, che sappia io privato, portarono alla difficoltà di capire, da parte del Gruppo Gli Ultimi, dove fossero andate a finire molte immagini e schede. Chi fece da mediatore, entrando nel gruppo Gli Ultimi, fu Giorgio Ferigo, allora pure Presidente di ‘Cjargne Culture’, che si dette da fare per capire e recuperare, permettendo l’uscita del volume su Vittorio Molinari, alla fine del 2007. Il volume usciva, Giorgio ci lasciava, portando un vuoto difficilmente colmabile, ed io abbandonavo, nel dicembre 2007, il gruppo ‘Gli Ultimi’, che forse ancora esiste.

‘Bepo di Marc’ con la moglie e la figlia.

Chi era ‘Bepo di Marc’.

Uno dei fotografi le cui immagini giunsero al gruppo ‘Gli Ultimi’, fu Giuseppe Di Sopra, detto ‘Bepo di Marc’, perché figlio di Marco di Sopra, muratore ed operaio di Stalis di Rigolato, classe 1850.
Pietro Giuseppe Di Sopra, di Marco ed Agata Pascutti, era nato a Stalis di Rigolato il 26 ottobre 1882, e si era sposato, nel 1909, con Angela D’Agaro di Giacomo. Da lei aveva avuto due figli: Amelia ed un maschio morto adolescente. Socialista dell’ala più dura assieme a Daniele Gortana, e pure capo operaio, egli risulta, con il cognome riportato senza interruzioni (Disopra Giuseppe Pietro), schedato per le sue idee politiche (Archivio Centrale dello Stato – Casellario politico centrale- busta 1820 – periodo 1909 – 1942). Sulla scheda a lui relativa compare come esercitante la professione di commerciante, nonché, nel 1942, residente in Argentina.
In effetti ‘Bepo di Marc’ emigrò, assieme al padre di Raniero Di Qual, a Villa Ojo de Agua, paese posto nella provincia di ‘Santiago del Estero’ in Argentina nel 1924 o 1926, cioè con l’avvento del regime fascista e per motivi economici, mentre Chiara Brocchetto colloca la sua emigrazione definitiva, non si sa da che fonte, nel 1932. (Chiara Brocchetto, fotografi della Carnia fra ‘800 e ‘900, Associazione Culturale Elio cav. Cortolezzis, 2006, p. 44).

Sua figlia Amelia sposò, il 14 dicembre 1929, Arcangelo Durigon, della frazione di Gracco di Rigolato, che poi la raggiunse in Argentina. ‘Bepo di Marc’ morì nel 1963 probabilmente di paresi. Prima di morire vendette tutto quello che aveva in Carnia, perché non aveva fatto fortuna neppure all’estero. La sua casa, negli anni Novanta, risultava acquistata da un veneziano. Amelia ed Arcangelo non ebbero figli naturali, e così adottarono una piccola bimba di colore, Rosita. Nel 1973 giunse a Giustina Di Qual l’ultima lettera dall’Argentina, scritta da Amelia, che era restata sola con Rosita, allora ragazzetta. Rimasto legato al suo paese, finita la seconda guerra mondiale e caduto il fascismo, ‘Bepo di Marc’, nel 1946, mandò una sua fotografia a Vuezzis. Prima di emigrare partecipò alla costruzione della strada per Givigliana lavorando con la cooperativa rossa locale quale capo operaio.  Viene ricordato pure per avere scritto una lettera sulle campane di Givigliana. (Fonti. Anagrafe del comune di Rigolato e più fonti orali, di cui una molto informata, una donna, ma che all’epoca non volle essere citata).

Davide D’ Agaro, il nonno, con i nipoti: Arduino, Bruno e Luigia D’ Agaro.

Ho chiesto alcune informazioni su Giuseppe di Sopra pure al maestro Guido Durigon di Vuezzis, che mi ha concesso un’intervista il 9 aprile 1991. E così mi ha raccontato.
«Giuseppe Di Sopra, detto ‘Bepo di Marc’, abitava a Stalis di Rigolato e faceva, di mestiere, sia il fotografo sia l’assistente ai lavori sulle strade. Il particolare aveva svolto questa seconda professione durante la prima guerra mondiale, quando erano state costruite le strade di accesso al Monte Crostis, e questo me lo ricordo bene. Non so invece se avesse lavorato anche nella realizzazione della strada che porta a Givigliana.
Infatti non era stato arruolato come militare nel corso del conflitto, perché aveva un braccio un po’ anchilosato. E non mi pare avesse fatto parte di alcuna cooperativa.
Egli era intelligente, sveglio, molto attivo, e sapeva il fatto suo. Ad un certo punto aveva anche comperato un camion, per fare trasporti, ma al primo viaggio a Villa Santina, non pratico nella guida di quel mezzo, era andato a finire in un negozio di piatti e scodelle, rompendoli, facendo un frico di terracotte e ceramiche!
Non so dove avesse imparato a fotografare né che macchina fotografica adoperasse, ma penso che ne avesse una sola. Mi pare che per un breve periodo fosse stato in Germania, non però come muratore a causa della sua menomazione, e può darsi che abbia imparato lì a fotografare ed a porre, in modo accorto, oggetti per creare e completare l’immagine da ritrarre. So però che studiava bene la posizione dei suoi clienti prima dello scatto, ma credo fosse, pure, un autodidatta. Infatti allora, in zona, non c’erano fotografi presso cui fare l’apprendistato, ma per la verità veniva spesso in zona Giuseppe Di Piazza, originario di Tualis, che aveva un bello studio a Gemona del Friuli. Non si sa neppure per Di Piazza ove avesse imparato a fotografare, e quando decideva di ritornare a Tualis preavvisava, per fare in modo che chi voleva farsi ritrarre da lui ne venisse a conoscenza.

Caterina Zanier, detta Catin di Catineto.

‘Bepo di Marc, detto Bepo il fotografo, aveva pure una stanza predisposta a studio ed una per la camera oscura. E da lui giungevano molte persone a farsi fotografare, in particolare la domenica. Non credo avesse molti rapporti con altri fotografi, per il semplice motivo che, allora, muoversi non era facile e da Stalis ci si doveva spostare, per un tratto, a piedi. Ma avrebbe potuto incontrare altri fotografi alle fiere di San Martino di Ovaro o dei Santi. E bisogna tener conto del fatto che, se due facevano lo stesso mestiere, erano gelosi dei loro segreti e non si scambiavano di certo informazioni, e semmai uno o stava zitto o cercava di carpire segreti e tecniche all’altro: non insegnava certo le proprie!
So invece che Bepo faceva anche cartoline. E mi ricordo un suo panorama di Vuezzis, e di averne ricevuta una con scritto sotto ‘Saluti da Rigolato con la neve’, che riportava la sua firma». (Intervista di Laura Matelda Puppini a Guido Durigon, Tolmezzo 9 aprile 1991).  Da che si sa, egli fotografò nel periodo antecedente la prima guerra mondiale e successivamente, non durante la stessa, forse per qualche veto militare imposto, essendo la zona di Rigolato zona di guerra.

Stalis ripresa dalla strada che porta a Givigliana.

Il fondo Giuseppe Di Sopra.

Le lastre di ‘Bepo di Marc’ rimasero all’ interno della sua casa per anni ed anni, finchè un nuovo proprietario pensò ad una ristrutturazione della stessa. Purtroppo chi intervenne non si rese conto del patrimonio contenutovi, e molte lastre vennero buttate via. Chi pare abbia salvato un centinaio delle stesse, prima della catastrofe culturale che sarebbe stata data dalla totale perdita del fondo fotografico, fu Dimitri Pochero, residente a Rigolato, fornitore di materiali edili, che poi dette le lastre che aveva potuto recuperare a Mario e Jole Gussetti. Questi, a loro volta, vollero donare le lastre del fondo al senatore Bruno Lepre, la cui famiglia era originaria di Rigolato, ed attraverso il padre giunsero al figlio Marco, che attualmente ha sia le lastre sia le copie a contatto fatte per la fototeca della Carnia mai partorita.  Per la creazione della fototeca, io schedai 58 immagini, e forse un paio in più, e quindi consegnai le schede, come convenuto, all’allora Presidente del Coordinamento, nel contesto del progetto ‘fototeca della Carnia’, ma ora non so dove queste schede, corredate da immagini di buona qualità, siano andate a finire, e prego chi lo sappia di dirmelo. Inoltre all’epoca, con fondi della Comunità Montana, vennero fatte stampare dal Coordinamento dei Circoli Culturali della Carnia, sempre per la erigenda fototeca mai nata, copie a contatto anche di tutte le immagini di Giuseppe Di Sopra. Per un periodo non seppi nulla delle stesse ma, dopo una burrascosa assemblea del gruppo Gli Ultimi, avvenuta nel febbraio 2005, Dino Zanier membro a sua volta del gruppo, mi dette sia le stampe a contatto Molinari sia quelle Di Sopra. Ma quando ebbi in mano l’album che conteneva le seconde, notai che ne mancavano alcune, e che un paio di paesaggi parevano sostituiti con copie scure. Mancavano, tra le copie a contatto, da che ho segnato, una immagine con i bambini dell’asilo, quella con la famiglia del fotografo qui riportata, e vi erano foto Di Sopra poste nel contenitore Vittorio Molinari, quasi che qualcuno avesse utilizzato immagini senza poi saperle riporre nel giusto raccoglitore. Non da ultimo risultavano 111 lastre di Giuseppe Di Sopra, ma pare fossero nella realtà meno, cioè 105. Infine, come convenuto, detti il contenitore, con le copie a contatto del fotografo di Stalis, a Marco Lepre, del gruppo Gli Ultimi e possessore del fondo. Per verificare se quanto appuntai allora è corretto, bisogna che Marco cerchi le lastre e le copie a contatto.

Maria Lepre in Gussetti con i figli Mario, Velia ed Urbana.

E per finire, a me francamente dispiacque molto che la fototeca della Carnia, ai primi anni ’90, rimanesse una ipotesi codificata che miseramente fallì, quando poteva decollare alla grande, per beghe di bassissima lega, voglia di emergere di alcuni, poco interesse, per non dire nullo, da parte della Comunità Montana, a proseguire il progetto. Ma questo è ieri. Oggi potremmo riprendere l’ipotesi, magari collocandola nei locali dell’ex-scuola elementare di via Battisti?

Infine vorrei sapere chi ha fornito stampe a contatto di Giuseppe Di Sopra a Chiara Brocchetto, op. cit., pubblicate alle pp. 136-137-138-139, che attribuisce il possesso del fondo erroneamente al gruppo ‘Gli Ultimi’, a cui Marco Lepre mai lo donò.

Giacomo D’ Andrea, detto Jacomin Corneli.

 

Giuseppe Di Sopra: un fotografo socialista ove anche la povertà ha la sua dignità.

Le immagini del Di Sopra risultano di formati diversi, che vanno da quello grande 13 x 18, al 10 x 15, al piccolo 9 x 12, utilizzato solo per pochissime immagini fra quelle pervenute, il che fa ipotizzare che avesse avuto, nel tempo, non solo una macchina fotografica. Inoltre la gran parte delle immagini da me schedate risalgono al primo dopoguerra ed alla prima metà degli anni ’20, rappresentano persone, e ben poche paesaggi. Si nota un numero notevole di donne ritratte, con compostezza, dignità, cura dei particolari: giovanette, madri con figli, anziane. Anche chi era povero aveva un suo posto d’onore nelle immagini del Di Sopra, a differenza di quelle di Antonelli, dove pare che solo la bellezza femminea giovanile ed il vestito d’epoca avessero valore. I fondali di Di Sopra ricalcano quelli introdotti dall’ambulante prussiano Ferdinand Brosy, e cioè un lenzuolo od un tappeto, e spesso ‘Bepo di Marc’ come del resto altri, fotografava all’aperto o utilizzando, all’interno, la luce naturale data dalle finestre o quella di una lampadina anche sapientemente schermata per dirigere il getto di luce, come nell’immagine che lo ritrae con moglie e figlia. Si nota, poi, come egli faccia cadere la luce su catenine fibie, ecc. che risultano poste in evidenza, e come, seguendo i tempi e la moda dell’epoca, possedesse alcuni oggetti che poneva in mano a chi doveva ritrarre o nell’ambiente per completare l’immagine.  Il suo studio era la sua casa, all’aperto, all’interno: le pareti facevano da fondale, come un deposito esterno, la grata di una finestra, una porta, un muro esterno.

E per ora chiudo qui questo articolo, ricordando con quanta passione, assieme ad Alido, cercai, nel 1990, persone, luoghi, segni, e ringrazio coloro che mi hanno aiutato a schedare, attenti al ricordo del passato, sperando che ora lastre, immagini di Giuseppe di Sopra e le schede originali escano di nuovo per esser ‘donati’ alla comunità ed ad una fototeca della Carnia che abbia una sua realizzazione. E scrivo questo non certo per ricordare vecchi dissidi ma per ricompattare archivi e proporre, inseguendo un sogno in cui credetti.

Laura Matelda Puppini

Le immagini che corredano l’articolo sono state eseguite da Giuseppe Di Sopra, ed ho già specificato la loro provenienza. L’immagine di presentazione ritrae il fotografo, ed è un particolare di una in cui egli è ritratto con la moglie e, sullo sfondo, il giornale Il Lavoratore. VIETATA LA RIPRODUZIONE ANCHE DI POCHE RIGHE SENZA CITARE LA FONTE. SE QUALCUNO INTENDE RIPORTARE L’ARTICOLO INTERO  È PREGATO DI CHIEDERE L’AUTORIZZAZIONE. IN OGNI CASO È VIETATO RIPRODURRE LE IMMAGINI, ANCHE CITANDO LA FONTE, SENZA PERMESSO. OVVIAMENTE SI PUÒ LINKARE CON L’IMMAGINE DI PRESENTAZIONE che puo’ apparire su condivisione diretta facebook. IO HO SCRITTO QUELLO CHE SO E CHE MI È STATO NARRATO, MA SE VI È QUALCHE POSSIBILE ERRORE, VI PREGO DI SCRIVERLO COME COMMENTO O A ME DIRETTAMENTE. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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