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Sanità: sul linguaggio della politica che parla a se stessa e ed il problema dei tempi d’attesa per le prestazioni sanitarie, esistendo una norma statale.

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Prendo spunto per queste mie riflessioni dalla querelle sulle liste d’attesa per una visita specialistica di questi ultimi giorni, partendo dal punto di vista di un cittadino qualsiasi, come sono io.

Una persona non sta bene, e si reca dal medico di base. Se stesse malissimo infatti, sarebbe davvero più opportuno che si rivolgesse ad un pronto soccorso, dato che il medico di base non può fare subito esami ma solo prescriverli anche in urgenza, ma ciò implica che un soggetto in grave difficoltà debba recarsi ad un laboratorio, anche in altro paese, debba attendere, debba ritirare la risposta e debba ritornare dal medico, magari guidando la macchina. Inoltre il medico di base, che non può avere la capacità di diagnosticare subito, così, con uno schiocco di dita, può anche inviare a fare una visita specialistica, sperando in certi casi sia quella giusta, perché sintomi simili possono avere più cause. Inoltre anche se uno soffre cronicamente della patologia “a” non è detto che egli, nel momento dato, soffra di qualcosa legato al pregresso.

Qui inizia il problema dei tempi di attesa per la visita, che un medico può segnare con una priorità un altro no. (Per inciso ora anche una visita urgente può esser erogata entro tre giorni, ed allora non si sa perchè sia urgente). In certi casi comunque, anzi dovrebbe essere in ogni caso, tranne visite di controllo di routine, anche un mese di attesa rappresenta un tempo biblico se uno sta male davvero, ma l’organizzazione sanitaria pare tarata, in Fvg come altrove, per chi è stabilmente sano o sa già cos’ha e cosa fare, in sintesi per una valutazione della cura e non per una prima diagnosi, per la quale, spesso, i tempi si allungano di molto. Così magari i quadri sintomatologici si complicano e trovare il bandolo della matassa diventa sempre più complesso. Ma cosa vuoi che sia …
Una riforma che pone come suo fulcro il medico di base, infatti, ha il limite che non si è posta il problema di che ruolo possa svolgere lo stesso nella società moderna senza avere i mezzi diagnostici a portata di mano, la capacità di un tempo di visitare, affidandosi come tutti al mezzo tecnico prima di intervenire con una cura, e non avendo spesso neppure rapporto con il paziente se non quello rigidamente formale, e mancandogli molte volte la conoscenza di chi ha di fronte. Inoltre sempre più spesso il medico di base non si reca dal paziente, come accadeva un tempo, ma è il paziente, anche con febbre e in stato di forte malessere che deve recarsi dal medico di base con fatica, ammesso trovi qualcuno che lo accompagni, che deve attendere, ecc. ecc., rischiando di contagiare altri, per accedere, spesso sfinito, alla visita, magari senza voglia di parlare, ma solo di tornarsene a casa.

Quindi i tempi di attesa e non solo per l’erogazione di una visita specialistica ma in senso lato, in particolare quelli per la definizione della diagnosi e per la cura, sono un reale problema che dovrebbe essere discusso con i medici e con le rappresentanze dei cittadini, sulla base di dati certi e dell’ascolto esperienziale. Infatti senza dati e informazioni è inutile parlare. Ma invece ….

Vediamo come viene trattato ultimamente il problema in Fvg, facendo due premesse:
-Siamo vicini alle prossime elezioni regionali, e l’Assessora Telesca si è messa in testa, insieme alla Presidentessa di giunta Debora Serracchiani, di magnificare la riforma sanitaria epocale del Pd e NcD, ma inizialmente ben vista da più forze politiche, che è come minimo tragica. Pertanto lancia un proclama al giorno ed è diventata come il prezzemolo: si trova dovunque, senza dimenticarsi di riempire di dichiarazioni il sito istituzionale della Regione usato come il profilo facebook personale.
-Il problema delle lunghe attese per una visita non è una novità, tanto che, ai tempi dell’area vasta udinese, era stato costruito un elenco dei tempi di attesa per visita od esame, sempre e comunque biblici. Ma ritorniamo all’oggi.

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Il 14 marzo 2017 fra i comunicati stampa del Consiglio Regionale compariva questo comunicato di Andrea Ussai, consigIiere per M5S:
«Dal 2013 non viene presentata la relazione che dovrebbe documentare lo stato di attuazione della legge regionale del 2009 sul contenimento dei tempi di attesa delle prestazioni sanitarie nell’ambito del Servizio sanitario regionale. Sono ben quattro anni di seguito che la Giunta Serracchiani è fuori legge e i cittadini continuano a lamentarsi per le continue difficoltà ad accedere rapidamente alle prestazioni sanitarie. L’Esecutivo regionale deve dire pubblicamente quali sono le prestazioni sanitarie per cui vengono superati i tempi massimi di attesa e quali provvedimenti correttivi sono stati adottati nei casi di superamento dei tempi massimi e quali sono gli esiti di tali provvedimenti. Quante prestazioni vengono poi erogate da strutture private in regime di convenzionamento». (M5S: Ussai, tempi di attesa sanità, dal 2013 manca la relazione, in: http://www.consiglio.regione.fvg.it/pagine/comunicazione/comunicatistampa.asp?comunicatoStampaId=537559).

Il comunicato continuava poi sostenendo che «In fondo il precedente modello organizzativo era stato modificato per regolare meglio l’accesso alle prestazioni di specialistica ambulatoriale e per gestire in modo più razionale i tempi d’attesa nella Regione per ottenere un sistema nel quale l’offerta sanitaria risulti omogenea sul territorio regionale, trasparente e di facile accesso per i cittadini. Obiettivi che non sembrano raggiunti. […].  Per questo è urgente conoscere oggi, nell’attuale quadro di riorganizzazione del Servizio sanitario regionale, l’effettiva capacità dei servizi di rispondere ai bisogni di salute dei cittadini». (Ivi). E terminava dicendo che, nel merito, «il silenzio della Giunta Serracchiani è assolutamente imbarazzante. In risposta a una mia interrogazione l’assessore si era impegnata a presentare la relazione sui tempi di attesa entro il mese di maggio 2014 e successivamente, sempre su nostra precisa richiesta, l’Ufficio di Presidenza della Commissione sanità nel dicembre del 2015 aveva programmato la presentazione della relazione sul contenimento dei tempi di attesa delle prestazioni sanitarie per una successiva seduta della III Commissione dedicata a questi argomenti, seduta che non si è mai tenuta – ricorda il consigliere pentastellato. Inoltre, anche il Comitato legislazione, controllo e valutazione ha più volte sollecitato – purtroppo senza successo – la trasmissione di questa relazione. Se a tutte questa inerzia e reticenza aggiungiamo che l’assessore Telesca non si sia mai presentata in Commissione per affrontare questi temi, il quadro è tanto completo quanto preoccupante. D’altronde – conclude Ussai – l’ultimo monitoraggio pubblicato sul sito web istituzionale della Regione e relativo alle liste di attesa delle prestazioni ambulatoriali del Servizio sanitario regionale, che ha utilizzato dati del 2013, risale addirittura alla rilevazione del 2 gennaio 2014». (Ivi).
Comunque successivamente sempre da Andrea Ussai venivo a sapere che la Giunta aveva prodotto una relazione sui tempi di attesa, che era stata anche  vagliata in Commissione, ma le criticità erano ancora presenti anche perché i macchinari nuovi non funzionavano a pieno ritmo. (Andrea Ussai: https://www.youtube.com/watch?v=iMntr4nLwJo 12 ottobre 2017 Ring, aggiornamento al 21 ottobre 2017 quando mi è stato girato il video).

Nel frattempo, mentre i pazienti continuavano e continuano ad organizzarsi alla meno peggio fra pubblico e privato, denaro permettendolo, qualcuno suggeriva che i pazienti in attesa, trascorso un lasso di tempo già definito per legge, ricorressero a visita privata con il ticket, il che, se deve esser richiesto ed organizzato dal paziente, magari con avvocato al seguito, è impensabile, perché vi sono mille escamotage per far desistere qualsiasi poveraccio dal fare una cosa del genere, compresa una visita poco accurata da parte di un medico irato perchè costretto.

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Ma che il Ssn non riuscisse a risolvere i suoi problemi in primo luogo perché troppe risorse gli erano state sottratte, e nel contempo vi erano ancora troppi sprechi, veniva sottolineato, nel gennaio 2017, anche nel corso della XII Conferenza Nazionale Fondazione Gimbe, dedicata alla “Sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale”. Il Presidente della Fondazione, in quella sede, così si esprimeva: «Il finanziamento pubblico del Ssn […] tra tagli e mancati aumenti dal 2010 ha lasciato per strada oltre 35 miliardi di euro, facendo retrocedere l’Italia sempre più nel confronto con i paesi dell’Ocse, quelli europei e del G7, tra i quali siamo fanalino di coda per spesa totale e per spesa pubblica, ma secondi per spesa a carico dei cittadini». (“XII Conferenza Nazionale Fondazione Gimbe. “La sanità pubblica affonda? Le responsabilità sono di tutti. Serve un programma politico”, in: http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=48437). Ed ancora: «Dai dati della Fondazione Gimbe emerge poi che una quota consistente di denaro pubblico continua ad alimentare sprechi intollerabili: 24,73 miliardi/anno erosi da sovra-utilizzo, frodi e abusi, acquisti a costi eccessivi, sotto-utilizzo, complessità amministrative, inadeguato coordinamento dell’assistenza. […] il rapporto Ocse del gennaio 2017 ha confermato che in sanità 2 euro su 10 vengono sprecati». (Ivi).

E la Fondazione si chiedeva se non si fosse troppo promesso senza chiarire poi come agire per mantenere quanto detto e scritto. «Infine […] una considerazione sui nuovi Lea: “Questo grande traguardo politico rischia di trasformarsi in un’illusione collettiva con gravi effetti collaterali: allungamento delle liste d’attesa, aumento della spesa out-of-pocket, sino alla rinuncia alle cure. Infatti, la necessità politica di estendere al massimo il consenso sociale e professionale ha generato un inaccettabile paradosso: siamo il Paese con il paniere Lea più ampio d’Europa, ma al tempo stesso fanalino di coda per la spesa pubblica”. (Ivi). Nel dibattito che seguiva al convegno vi fu chi disse che il problema era politico, sostenendo che “serve un’etica della responsabilità per il servizio sanitario pubblico”, chi sostenne che la spesa pubblica sanitaria dipende da più aspetti e fra questi: dalle tecnologie mediche e sanitarie e dalle scelte politiche non solo sulla sanità, ma sulla salute e sul welfare in generale. (Ivi).

E già nel marzo 2016 Cittadinanzattiva, nel suo: “Rapporto “I due volti della sanità. Tra sprechi e buone pratiche, la road map per la sostenibilità vista dai cittadini” specificava alcune cause di sprechi in sanità, raggruppabili in: «sprechi riferibili […] al mancato o scarso utilizzo di dotazioni strumentali e strutture sanitarie, […] a inefficiente erogazione di servizi e prestazioni, […] a cattiva gestione delle risorse umane. (“Sprechi in sanità. Da Cittadinanzattiva”, in: www.nonsolocarnia.info 3 aprile 2016). E così terminava Tonino Aceti la presentazione del rapporto: «La strategia di aggressione agli sprechi, chiamata contenimento della spesa e spending review, a conti fatti ha prodotto queste certezze: 54 miliardi di tagli cumulati dal Servizio Sanitario Nazionale tra il 2011 e il 2015 e contrazione, o soppressione, di prestazioni e servizi, come certifica la Corte dei Conti. E per il 2016 altri 14,5 miliardi di tagli. Invece resta da dimostrare e spiegare ai cittadini se e quanti sono stati gli effettivi risparmi prodotti dalle manovre e come sarebbero stati reinvestiti, a fronte dei sacrifici richiesti a tutti negli anni. Altrettanta attenzione meriterebbero altri settori di spesa pubblica, ai quali ancora troppo poco si guarda. La debolezza e le distorsioni provocate da questo metodo, in particolare sui cittadini, sono evidenti guardando alle sorti del neo-approvato Decreto Appropriatezza, che dopo pochi giorni dalla sua entrata in vigore, ha bisogno di revisioni e nel frattempo sta ostacolando l’accesso a prestazioni necessarie. La ricetta va cambiata: partire da una più profonda conoscenza dei fenomeni; guardare alle buone pratiche esistenti; mettere a punto interventi selettivi per agire sulle cause e non sparare nel mucchio; riconoscere il valore che ogni attore può dare per contrastare le inefficienze, a partire da cittadini e professionisti; misurare gli effetti prodotti dagli interventi. Su appalti e acquisti occorre migliorare uniformemente impostazione, quindi cosa comprare, in che quantità e come farlo; verificare il rispetto di accordi e procedure, ed occuparsi anche della corretta esecuzione dei contratti, applicando penali in caso di irregolarità o ritardi». (Ivi).

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Alla luce di queste considerazioni, io, pur sapendo che il problema delle lunghe liste d’attesa in Fvg non sia di ora, credo però che la riforma lo abbia reso più acuto, assieme a quell’andare qua e là in una provincia vastissima come quella di Udine, senza che un medico solo e di fiducia, o al massimo un solo reparto, possa seguire il paziente, con conseguenti problemi sia per i pazienti che per i medici specialisti, che potrebbero non seguire realmente più nessuno, trovandosi di fonte a contatti saltuari, a persone ignote, a carte scritte non sempre chiare, a cure non condivise. Ed anche questi fattori, tangenzialmente, comportano maggiori criticità per i pronto soccorso, perché una persona che sta male, davanti al solito “mi dispiace ma … la prima visita possibile è fra un mese, un anno, l’agenda appuntamenti è ancora chiusa”, od ad un “se vuole c’ è un posto a … “ che si trova a 70 chilometri da casa, cerca di percorrere tutte le vie praticabili, essendo in gioco la salute. E poi la presenza di dolore, per esempio, non permette di aspettare. Inoltre già in partenza si sarebbe dovuto capire che i medici di base, da soli, non avrebbero potuto in modo alcuno risolvere il problema delle liste d’attesa, anche se maggiormente finanziati.  E certamente l’aver soppresso ospedali periferici in area vasta, l’aver centralizzato laboratori e molti servizi ad Udine, intasandolo, l’aver portato la sanità al di fuori dell’ospedale viciniore per i pazienti, costringendoli a vagare fra volti ignoti, ed in particolare l’aver ridotto i medici ospedalieri togliendo ospedali, non può non pesare sulle lunghe attese per una prestazione. Perché ormai non trattasi di visita medica vera e propria ma di presentarsi al solito estraneo, che, magari, ti pontifica qualcosa senza forse lasciarti parlare, di diametralmente opposto rispetto al collega, creando una situazione curativa schizofrenica per il paziente. Ed anche questo può accadere, mentre motivazione, fiducia ecc. vengono messi nel cassetto in nome dell’applicazione di principi disumanizzanti ed aziendal-economicistici.   

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Leggo quasi sovra pensiero l’articolo di Mattia Pertoldi: «Maria Sandra Telesca detta l’agenda della Regione, e in particolare del suo assessorato per ridurre le liste d’attesa delle prestazioni sanitarie in Fvg. Un’azione che per l’Assessore alla salute si muove lungo tre assi d’azione: l’organizzazione, il personale e i macchinari» (Mattia Pertoldi, La ricetta di Telesca “Ampliare gli orari e fondi per gli ospedali” in Messaggero Veneto, 11 ottobre 2017).
Incrociando le dita come scongiuro al fatto che l’Assessora riprenda a metter mano alla sanità, visti gli esiti della sua rivoluzione epocale, ed essendo contenta che ella pensi economicamente a sorreggere gli ospedali, una prima considerazione mi balza alla mente: per ora sono solo parole, perché sinché non ci sono dati, proiezioni e schemi organizzativi, è la solita aria fritta.

Poi mentre spero di trovare, nel prosieguo, qualche ulteriore ragionamento sull’argomento, l’Assessora invece passa a parlare dei premi di produzione ai direttori generali, e fa la solita quasi “propaganda” all’ospedale di Udine, che è grande (e non ci dice nuovo e costosissimo) e che è attrattivo, ma non si sa se fra gli attratti ponga anche i costretti ad andarci per la eliminazione di alcuni nosocomi che funzionavano e toglievano l’affanno ad Udine, per esempio il San Michele di Gemona. Insomma è attrattivo davvero o è meta obbligata? Nulla sui problemi dell’ospedale di Gemona, neppure come poliambulatorio per abbassare i tempi di attesa per una visita, nulla su quello di Tolmezzo, nulla su quello di Cividale, nulla su tutti gli altri. Udine è caput mundi. Quindi, per fortuna, torna all’argomento iniziale dicendo che il sistema di rilevazione non si sa di che, è ora «molto più analitico, oggettivo, e trasparente dello stato dell’arte” e qui incomincio a perdermi nella comprensione. Poi passa a dire che per risolvere i problemi della sanità non basta aumentare l’offerta, e su questo non ci piove, ma non servivano anni per capirlo. Inoltre aumentare l’offerta, significa aumentare i posti letto, significa aumentare il numero dei prestatori d’opera cioè dei medici, significa l’esatto opposto della sua riforma, pensata e realizzata con Adriano Marcolongo.  Inoltre dico io, quando i problemi vengono aumentati disfacendo un sistema anche regionale che funzionava, si rischia di toccare il fondo senza aver risolto i problemi pregressi, come quello delle lunghe liste d’attesa, ed i nuovi.

Successivamente si azzarda a dire che si deve agire ancora sull’organizzazione, cosa che, visti i risultati di 3 anni di gestione totalmente in mano sua, fra Zulu, tablet acquistati e scomparsi, centrali uniche, ospedali trasformati in ibridi senza senso funzionanti solo sulla carta, non fa ben pensare. Ma poi scivola in una proposta davvero minima: quella di far uscire i pazienti dalla visita programmata con l’impegnativa in mano e la data per il successivo controllo segnato in calce, creando ulteriore problemi: di collegamento essendoci così almeno tre prenotatori e liste di prenotazione: il medico, il cup regionale, i cup locali, e in alcuni casi le farmacie; di libertà personale perché un paziente è libero di utilizzare il sistema misto pubblico privato magari non avendo piena fiducia in quello pubblico, e confusione. Quindi pare che punti ai macchinari nei poli regionali, quasi fossero la panacea per tutti i mali per risolvere problemi diagnostico curativi, ed esalta le risonanze magnetiche, senza forse conoscerne i limiti d’uso, e dimenticando ecografi ultima generazione e tac, apparecchi per radiografie e via dicendo, e non parlando dei 2 mammografi 3D, regalati e piombati sulla Aas3, senza aver prova, secondo me,  del loro reale valore, che mettono in crisi il programma di screening regionale, e creano nuove paure ed ansie (se non usi la 3D non puoi essere sicura) e corsa al privato ospedaliero. (Nel merito cfr. Laura Matelda Puppini, e Urp Aas3: Olga Passera. Comunicazione risposta alla mia: Lettera aperta … sull’acquisto, con colletta, di una mammografia 3 D, ambedue in: www.nonsolocarnia.info). Inoltre si mormora che in alcuni casi i pazienti vadano in Veneto a farsi operare, perché qui forse si preferiscono soluzioni maggiormente farmacologiche in alcuni casi che potrebbero magari migliorare con una soluzione chirurgica, ma lo dico da profana e per sentito dire, perché non sono un medico e ben pochi dati escono dalla sanità regionale. Non bastano infatti macchinari, organizzazione e personale, l’ospedale non è una fabbrica, la sanità non è un settore produttivo, un medico non è un operaio della catena. Ci vogliono bravi medici specialisti, e buoni formatori medici che facciano partire i neofiti dalla gavetta, da una specie di apprendistato guidato sul campo, prima che i morti si moltiplichino. Ma servono anche bisturi che siano efficienti, e non basta il robot Da Vinci, bisogna pure che vi sia chi, esperto, lo guida. Il sogno è diverso dalla realtà.

Infine pure l’informazione gioca un suo ruolo. Per esempio io non sono riuscita a trovare sul sito dell’Aas3 quali reparti funzionino all’ospedale di Tolmezzo, quali siano le prestazioni erogate, quali operazioni vengano svolte e con che metodologia, quali siano i medici che vi operano, come è stata riorganizzata Gemona del Friuli, rispetto al progetto 2014- inizio 2015, e via dicendo. Pare che ormai uno debba affidarsi ad un chirurgo qualunque, qui o là, senza poter scegliere chi interverrà, ma ciò è lesivo della libera scelta del paziente.

Quindi Maria Sandra Telesca ripassa a parlare delle liste d’attesa in particolare per visite neurologiche e cardiologiche e propone non si sa a chi, utilizzando il condizionale, di aumentare il budget per pagare straordinari o fare nuove convenzioni con i privati, il che sarebbe preferibile per non avere medici stressati. Ma quale sarebbe poi il rapporto fra questi e gli ospedalieri, e potrebbe un medico privato accedere ai referti sanitari del ssr, ammesso che siano corretti? Magari si potrebbe anche assumere medici nel ssn, penso io, dato che la loro carenza sul territorio nazionale si fa e farà sentire. (Cfr. Laura Matelda Puppini. Verso una sanità senza medici o meglio con pochissimi? Chiediamocelo. Alcuni dati da Anaao Assomed ed alcune considerazioni personali, in: www.nonsolocarnia.info).

E comunque dal condizionale bisognerebbe passare, in questo caso, alla realizzazione studiata in modo analitico e preciso. Ma questo è solo un palliativo temporale perché distruggendo ospedali si è creato il caos e difficoltà ben poco appianabili con una manciata di soldi a privati che, fra l’altro, sono ubicati maggiormente verso i poli cittadini, dove esistono anche i grandi ospedali, non nella dimenticata e disastrata periferia regionale ora detta di aree interne quando la Carnia è sul confine. Qui, invero, inizia a far capolino la rassegnazione, il che non è confortante.  Ma per ritornare alla dott. Maria Sandra Telesca, ella chiude le sue dichiarazioni ottobrine dicendo che la sanità è un sistema complesso. Perché non lo ha pensato prima di disfarlo? – mi domando. Eppure proprio lei aveva detto che funzionava. (http://www.rotarytriestenord.it/media–news/dicono-di-noi/relatori-alle-conviviali/maria-sandra-telesca-140415.html). E questa è una delle poche sue dichiarazioni di cui tener, secondo me, conto. Non ce l’ho con l’Assessora, credetemi, ma è il metodo suo e della giunta, il loro modus operandi che non regge.

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E cosa diceva Stefano Pustetto, alla seduta mattutina del consiglio regionale del 30 settembre 2014, avente come oggetto di discussione pure il disegno di legge: “Riordino dell’assetto istituzionale e organizzativo del Servizio Sanitario regionale e norme in materia di programmazione sanitaria e sociosanitaria”  (scelto come testo base) e proposte di legge abbinate: “Revisione dell’assetto istituzionale delle Aziende per i servizi sanitari del Friuli Venezia Giulia – Istituzione dell’Azienda Unica per i Servizi Sanitari Regionali e riorganizzazione del Servizio Sanitario Regionale” e “Modifica dell’assetto istituzionale delle Aziende per i servizi sanitari del Friuli Venezia Giulia” e petizione “Per una nuova organizzazione sanitaria che renda cittadine/i protagonisti della salute pubblica”?

Diceva, da medico specialista: «[…] vediamo che questa riforma, che vuole essere rivoluzionaria, non comporti un peggioramento della qualità della nostra sanità. Vedete, tutte le sfide vanno raccolte con intelligenza e pragmatismo, perché soprattutto quando parliamo di sanità, o meglio, parliamo di salute delle persone, dobbiamo essere molto realisti e coniugare quello che è il progetto con delle basi molto solide. Io devo dire che una delle cose che, da esponente della Sinistra, non ho mai apprezzato, è stata quella di parlare sempre di massimi sistemi scollegandoli da quella che è la pratica, quelli che sono i dati, i numeri». (Atti Consiliari dell’Assemblea -XI legislatura – discussioni – seduta del 30 settembre 2014, p. 24).  Direi che fu profetico.

Comunque, per ritornare alle dichiarazioni dell’Assessora Telesca il 9 ottobre 2017, pubblicate sul Messaggero Veneto, esse poi non venivano seguite da dichiarazioni su come attuarle, ma finivano in querelle con il consigliere Riccardi, che non era stato certamente galante nei confronti dell’Assessora, ma che non aveva però detto nulla di trascendentale, e non si meritava una rispostaccia, ma invece dati e linee di azione concordate con medici ed altre parti interessate con cui controbattere. (http://www.udinetoday.it/politica/lista-attesa-sanita-polemica-riccardi-telesca.html). Invece siamo ancora al mondo di facebook e di twitter, e ben lontani da quei banchi regionali ove un tempo le risposte erano anche serie e documentate.

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Quindi non soddisfatta, l’Assessora si precipitava a pubblicare su Quotidiano Sanità, che per il Fvg è zeppo solo di dichiarazioni di Serracchiani e Telesca, ulteriori precisazioni in politichese e rivolte non si sa a chi, invece di presentare un suo progetto e di sedersi ad un tavolo con medici, dirigenti ed altri per affrontare i problemi. Ma pare che l’Assessora Fvg non ami realmente confrontarsi, da quello che si è visto, anzi qui ha snobbato gli inviti del Gemonese. Ella afferma genericamente che “vista la possibilità concreta di farlo, la Regione vuole incrementare il finanziamento assegnato sulla legge liste d’attesa che finora risultava irrisorio”. (Liste d’attesa. Telesca: “Questione estranea alla riforma, in: http://www.quotidianosanita.it/friuli_venezia_giulia/articolo.php?articolo_id=54740).
Ma se ha soldi a chi li darà? Perché i privati non sono nelle zone marginali, dove però ella ha tolto gli ospedali, come già dicevo, costringendo i pazienti a vagare e “pagare”.

Poi rivendica di aver introdotto maggior trasparenza e che la Regione è intervenuta (a meno che non usi il noi maiestatis) in modo più mirato sulle criticità favorendo i cittadini. E termina con: «Nessuno in buona fede può osare dire che si stava meglio prima». A questo punto qualcuno potrebbe pensare che forse sia un po’ spudorata nel dire quanto, anche perché il giudizio complessivo sulla sua riforma, da che mondo è mondo, non spetta a lei. E termina con: «In merito ad argomenti delicati come quelli che coinvolgono la salute […] la Giunta regionale è sempre pronta a confrontarsi seriamente per migliorare il sistema sanitario nel segno della responsabilità e del rispetto verso gli utenti». (Ivi). Peccato che il 2018 sia ormai vicino.
Beh, io dico, Assessora, che prima era meglio, e altri con me. Bisogna ripensare l’organizzazione attuale riguardando al passato, ed alle criticità attuali cercando di risolverle, altrimenti siamo sempre a “parole … parole”. Ma qui è in gioco la nostra vita e quella dei nostri figli e nipoti.

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I problemi dovevano esser studiati prima, non ora. Comunque secondo me, e lo ripeto, bisogna scindere i bilanci degli ospedali da quelli della salute, ecc. cioè ripartire sin dall’inizio le spese per voci, sulla base di dati oggettivi e rilevazioni, e stendendo un piano aziendale, tenendo conto delle esigenze primarie, perché non basta il denaro se non è chiaro in cosa deve venir impiegato. Si chiama politica economica della buona massaia. (cfr. anche Laura Matelda Puppini, Sanità: fra diritti messi in gioco e responsabilità non sempre chiare e Laura Matelda Puppini, Fvg. Ospedali marginali, fra “polvere di stelle” e macete, ambedue in: www.nonsolocarnia.info). Bisogna rivalorizzare le strutture ospedaliere in primo luogo per l’utenza territoriale (Gemona- Tolmezzo per la montagna e il gemonese) bisognerebbe riavere il laboratorio analisi a Tolmezzo, bisognerebbe tener conto dei traporti pubblici prima di spedire la gente qui e là, e regalare qualche macchinario che è un doppione, ma questo è un problema se è un dono. San Daniele e Tolmezzo non possono farsi la guerra, ma devono organizzarsi in modo efficiente, e per questo rimando all’articolo “Messaggero Veneto del 25 marzo: il dott. Pietro De Antoni sul San Michele di Gemona”. Ospedali: destini legati in Alto Friuli, in: www.nonsolocarnia.info. Insomma senza conoscenza del reale, programmazione, coinvolgimento di associazioni dei cittadini anche a livello nazionale, dato che i problemi, se leggete siti abruzzesi e molisani, sono sempre quelli, ma anche nel Lazio ed al centro di Roma, in Sicilia come in Calabria, si fa per dire, dimenticando la divisione in schieramenti partitici, e ponendo il cittadino al centro del servizio come il territorio, non si giungerà da alcuna parte. Diceva il Sindaco Borghi all’Assessora Telesca, «non vogliamo 2 sanità, ma due modelli organizzativi intelligenti che rispondano ai bisogni di salute di un città come di un ambito rurale/montano». (Gianni Borghi su: “La nuova proposta per la salute in territorio montano”, in: www.nonsolocarnia.info). Infine non si possono dimenticare gli aspetti di motivazione e psicologici sia degli operatori che dei pazienti. (Cfr. Ivan Cavicchi, No al protocol doctor. Contro una medicina senza qualità. Il manifesto, 17 maggio 2016, in www.nonsolocarnia.info, Laura Matelda Puppini. Senza paraocchi. Sulla personalistic- dirigistica riforma della sanità regionale,in: nonsolocarnia.info, Comunicato del Coordinamento Italiano Sanità Aree Disagiate e Periferiche, in: www.nonsolocarnia.info e Daniela Minerva: “L’ultima spiaggia: il dottore col cronometro” da RSalute. Medici come Cipputi? in: www.nonsolocarnia.info). E nel rimandare agli articoli e fonti qui citati, per approfondimenti e problematiche, dico che si devono studiare i problemi prima di cercare di risolverli, e l’antico non è mai da rottamare. Ma Renzi ha infinocchiato molti. E non bastano parole.

Scrivo queste mie considerazioni senza voler offendere alcuno, ma dopo aver visto, sentito, ascoltato, non per denigrare ma come riflessioni dopo aver letto alcuni recentissimi articoli sui tempi d’attesa per avere una prestazione sanitaria. E invito pure l’Assessora ed i politici a leggere: Maria Giovanna Faiella, “Liste d’attesa: ecco che cosa fare per ottenere visite in tempi certi”. Sottotitolo: “Siamo un popolo di pazienti in perenne aspettativa allo sportello medico. Ma esiste
un Piano nazionale in base al quale è possibile esigere tempi certi per un determinato numero di prestazioni. Ecco allora un vademecum su come bisogna comportarsi” in: http://www.corriere.it/salute/17_aprile_27/liste-d-attesa-sanita-esami-visite-in-coda-sette-italiani-dieci-, da cui è tratta anche l’immagine che correda questo mio articolo. Scrive la Faiella: «Attendere mesi, se non anni, per una visita specialistica, un esame diagnostico o un intervento chirurgico. È capitato a più di 7 italiani su 10, secondo il “Rapporto Italia 2017” di Eurispes. Non tutti sanno, però, che se le attese sono incompatibili con i propri bisogni di cura, si ha diritto a esigere la prestazione in tempi certi. Lo stabilisce il Piano nazionale di governo delle liste d’attesa (Pngla) 2010-2012, tuttora in vigore. In concreto, che cosa fare per ottenere prestazioni sanitarie nei tempi stabiliti per legge? Facciamo chiarezza con l’aiuto di PiT Salute (Progetto integrato di Tutela) e del coordinatore nazionale del Tribunale del diritto del malato-Cittadinanzattiva, Tonino Aceti». Ma il singolo ammalato non può fare nulla, la politica deve applicare le leggi, che non sono un optional. 

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Terremoto del Friuli e ricostruzione. Esiste un “modello Friuli” e cosa si dovrebbe imparare da questa esperienza?

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Suona il campanello di casa. È il mio gemello Marco, con un fardello di libri che gli avevo intimato di non portarmi, avendo già la casa piena di volumi e non sapendo dove metterli. Davanti alle mie rimostranze egli prende la borsa e me la lascia, dicendo che in caso li regali. Così inizio a guardarli ed uno di questi mi incuriosisce parecchio, per l’importanza dei suoi contenuti. Si tratta del volume Sandro Fabbro: “La ricostruzione del Friuli” 3 Ires, Cooperativa editoriale Il Campo, Udine, 1985, che riporta una lunga ricerca pubblicata  9 anni dopo i sismi friulani. Inizio a leggerlo anche perché ogni volta che sento parlare, per la ricostruzione di zone terremotate, di “modello Friuli” vorrei davvero sapere a che cosa ci si riferisca.  Inoltre penso che allora fossero altri tempi, altre ricchezze, altri contesti non ripetibili. Scorro le righe con gli occhi ed alcuni temi mi paiono di attualità, ed una serie di considerazioni affollano la mia mente.

L’ANALISI DI QUANTO ACCADDE IN FRIULI CI AVREBBE DOVUTO INSEGNARE QULACOSA PER IL FUTURO.

Scriveva allora Luciano Di Sopra che ogni evento dannoso deve essere visto come momento di discontinuità, come qualcosa che rompe con il pregresso. (Luciano di Sopra, Prefazione, dove la ricostruzione vien esaminata come processo di gestione della domanda sociale, in Sandro Fabbro, op. cit., p. 13). Ed anche in Friuli ormai si parla di prima e dopo il terremoto, comprendendo, in detto termine, ambedue le grandi scosse del 1976. Quindi il noto architetto ovarese continua dicendo che il modo in cui si presenta il post- impatto non è avulso da quanto esisteva prima, perché le condizioni di possibile danneggiamento maturano prima che l’evento dannoso, per esempio un sisma, abbia luogo. Inoltre nel periodo seguente ad una calamità, vissuta sempre come un shock dalla popolazione e recante un profondo sconvolgimento nell’ordine strutturale dal territorio, la domanda sociale sale vertiginosamente, creando uno squilibrio iniziale tra questa e la capacità di risposta istituzionale. Pertanto si sarebbe dovuto far tesoro di queste considerazioni per il futuro ed approntare schemi teorico – pratici di intervento coordinato fra le istituzioni competenti. Ma quanto è stato davvero fatto?

Scrive Sandro Fabbro, sempre sullo stesso volume, che «Un paese civile ed economicamente avanzato deve prevedere […], tra i sistemi di sicurezza sociale, anche l’intervento di assistenza pubblica alle popolazioni colpite da calamità», trasformando ogni evento calamitoso e le risposte date allo stesso nel periodo seguente in “laboratorio”, da cui acquisire conoscenze ed iniziative utili sia per la prevenzione, sia per completare la ricostruzione degli insediamenti sia per affrontare possibili squilibri prodottisi tra parti di territorio e tra parti di società». (Sandro Fabbro, Introduzione metodologico- teorica sulla natura delle ricostruzioni e risultati dell’indagine nei comuni colpiti dal terremoto del 1976, in: Sandro Fabbro, op. cit., pp. 25-26). E, sempre secondo Fabbro, molto si potrebbe imparare anche dai bilanci consuntivi relativamente all’efficacia delle spese sostenute, per semmai tarare al meglio quelle possibili, qualora calamità si ripetessero. (Ivi, p. 26). 
L’esperienza del Friuli ricostruito può quindi esser studiata per valutare ove ed in che condizioni sia avvenuto il maggior danno per limitarlo nel futuro; per identificare ed interpretare la nuova società ricostruita; per progettare in altre situazioni future; per valutare l’intervento statale in funzione dei risultati sulla ricostruzione materiale dei centri paesani; per analizzare la tempestività degli interventi di soccorso, primo intervento e ricostruzione. In sintesi si dovrebbe imparare dal pregresso ad analizzare lo scandaglio degli intrecci relazionali e causali che possono portare sia ad evitare danni ingenti sia a intervenire tempestivamente. (Ivi, pp. 26-27). Lo si è fatto? Basta vedere L’Aquila, Amatrice e dintorni. Pare che non abbiamo imparato questo grande insegnamento, e le istituzioni abbiano continuato e continuino ad andare avanti come si trovassero ogni volta, vergini, davanti ad una calamità naturale, senza aver tesaurizzato l’esperienza pregressa, senza aver vincolato una cifra per le emergenze di questo tipo, senza aver approntato adeguati strumenti di prevenzione, per esempio interventi sugli edifici a rischio posti in zona altamente sismica.

CHI HA AVUTO, IN FRIULI, I DANNI MAGGIORI?

Per valutare l’effetto di un sisma su un edificio, un centro urbano, un territorio, si deve introdurre il concetto di vulnerabilità. Il terremoto del Friuli, attraverso la valutazione dei danni, ha messo in luce come gli edifici più vetusti che costituiscono i centri storici siano i più vulnerabili. Pertanto si dovrebbe intervenire mettendo in sicurezza con tecniche di consolidamento ed antisismiche tali costruzioni nelle aree a rischio. (Ivi, p. 29). Inoltre il termine “ricostruzione” non può esser applicato al mero ambito urbanistico, ma implica anche la ricostruzione del tessuto socio-economico lacerato, e prevede la presa di coscienza, da parte della popolazione, dei danni provocati e provocabili dal degrado edilizio ed ambientale e dall’abusivismo. (Ivi, pp. 29 e 34).
 Dallo studio dell’Ires, presentato nel volume del Fabbro, emerge che le deformazioni plastiche degli edifici, causate dai terremoti del 1976, possono esser classificate sulla base dei materiali utilizzati per la loro costruzione e delle tecnologie e tecniche edilizie adottate. (Ivi, p. 47). 
«Il danno che una determinata intensità di stress provoca su un sistema di edifici – scrive Fabbro –  è la risultante dell’accumularsi dei diversi livelli di vulnerabilità contenuti nel tipo di materiale costruttivo adoperato, nella tecnica di assemblaggio dei materiali, nelle caratteristiche strutturali dell’edificio, nella frequenza e nella qualità con cui, nel corso del tempo, sono stati apportati consolidamenti e interventi di manutenzione alle strutture, nella stessa distribuzione spaziale degli edifici». (Ivi, p. 47).

I centri più colpiti in Friuli avevano il 70% di edifici di origine medioevale, edificati con tecniche costruttive del passato, i tre/quarti dei quali erano adibiti ad attività agricole, e locati, assieme a stalle, fienili, depositi, in centri ristretti, anche posti sotto-monte, per lasciare lo spazio circostante all’agricoltura. Questi agglomerati erano costituiti da un continuum di unità: case agricole, strade, piazze, cortili, orti, fondi agricoli. (Ivi, p. 48).
Il materiale costruttivo risultava povero, per esempio sasso smussato, che non permetteva una buona tenuta dei leganti, mentre le malte, una miscela di inerti e calce, risultavano spesso di non buona qualità, ed avevano subito, nel tempo, un deterioramento a causa degli agenti atmosferici, trasformandosi in materiale friabile. Infine le case non avevano una struttura a gabbia che le sostenesse. (Ivi, p. 49).
E nel merito Fabbro segnala che, mentre negli antichi abitati e centri storici fu distrutto il 72% degli edifici, nelle zone viciniori di nuova edificazione fu distrutto solo il 7% dei fabbricati anche se vi furono pure  casi di strutture nuove lesionate irrimediabilmente, come per esempio il nuovo ospedale di Gemona ed il palazzo a struttura pensile di Majano. (Ivi, p. 52). Quindi secondo Fabbro, sulla base dei dati elaborati, il 85% degli edifici vetusti non ha offerto alcuna garanzia di resistere al sisma, mentre solo il 7,2% delle costruzioni erette dopo il 1960 è stato abbattuto. (ivi, p. 50).  
«Da ciò sembra di poter dire – scrive Fabbro – che un determinato stress è più distruttivo su un sistema insediativo e sociale sottosviluppato posto anche ad elevate distanze dalla sorgente che su un sistema posto nelle sue immediate vicinanze (quindi con le più elevate intensità) ma sviluppato e socialmente attrezzato» (Ivi, p. 52).

Cosa abbiamo imparato da queste analisi sul terremoto del Friuli, quando altri eventi sismici hanno funestato l’Italia, dall’Irpinia e Basilicata all’ Abruzzo e a L’Aquila, dalla Sicilia all’ Umbria fino ad Amatrice?  Nulla di nulla. E quanto si è parlato di questi problemi?
Renzi gira in treno in carrozza di lusso con il suo staff, non certo da pendolare per lavoro, sperando in improbabili bagni di folla, Gentiloni e c sono impelagati in una legge elettorale che porta dritta al potere di una ristretta cerchia e nei giochetti su Visco, a cui la popolazione italiana non credo sia molto interessata, se non per consolidare il pensiero non certo populista, su certi politici, mentre Amatrice ed isola d’Ischia sono sparite dai giornali dopo la fase di scoop. E che ne è stato dei progetti di ricostruzione, per gli abitati colpiti dai precedenti sismi, se mai sono esistiti, e della loro realizzazione? Per quanto riguarda L’Aquila, quello che si sa da servizi televisivi non recenti è lungi dal fa ben sperare. 
Infine che dire della speculazione sulle disgrazie altrui, fenomeno contro il quale si batté Monsignor Alfredo Battisti, mai dimenticato? Fra un po’ forse parrà normale, perché ormai il concetto di normale sta cambiando, e non indignano più comportamenti che gridano vendetta contro Dio, davanti ai quali ci si approccia, sempre più, facendo finta di non vedere, e con un eh, mah…

Ma per ritornare al terremoto del Friuli ed alla ricostruzione che ne seguì, si nota come i danni variarono in funzione del reddito familiare, e solo il 20% delle famiglie con reddito elevato ebbe danni rilevanti a fronte del 43% delle famiglie a basso reddito (Luciano Di Sopra, op. cit., p. 19), forse perché quelle più ricche avevano già apportato degli ammodernamenti alle loro dimore.
Ed infine lo studio Ires fa notare come pare evidenziarsi, dai dati acquisiti, una correlazione tra livello di danno e condizioni bio- sociali delle famiglie, essendo più colpita la fascia povera ed anziana, fra l’altro più bisognosa di aiuto ed anche meno capace di avere iniziativa personale, rischiando una ricostruzione a due velocità. (Sandro Fabbro, op. cit., p. 54).

LA RICOSTRUZIONE IN FRIULI.

Luciano Di Sopra divide in tre fasi (da lui definite onde) il post terremoto: la fase dell’emergenza; la fase del reinsediamento provvisorio, la fase della ricostruzione, fino a giungere, da una situazione in entrata ad una uscita. (Luciano Di Sopra, op. cit., p. 17). La fase iniziale contempla la creazione di strumenti giuridici, procedurali, operativi e di controllo per poter affrontare i problemi sorti, la fase finale comporta una lunga onda terminale, dovuta anche alle diverse capacità di ripresa di alcune realtà marginali. (Ivi, pp. 17-18). Inoltre nella ricostruzione del Friuli si è superato il modello tradizionale di ricostruzione ove un progettista solo decideva il da farsi ed i contenuti da imporre al territorio, come è accaduto nel Belice e come volevano fare alcuni urbanisti anche in Friuli, spostando gli abitati verso l’asse Udine Pordenone, e si è passati ad un concetto di ricostruzione come “laboratorio” (Ivi, pp. 12-13)  scegliendo di ricostruire com’era, dov’era, il più possibile, e rigettando idee utopistiche e razionalistico-costruttivistiche. (Sandro Fabbro, op. cit., p. 77). Altro principio seguito è stato quello di “ricostruire almeno quanto prima”. 

Dal punto di vista finanziario la ricostruzione del Friuli ha sfruttato il momento congiunturale positivo, in sintesi non sarebbe potuta avvenire nei modi in cui è avvenuta allora, ora, e se metà del costo della stessa è stato  a carico dello Stato tramite la concessione di contributi, l’altra metà è stata a carico dei privati, con «una mobilitazione di risorse familiari a carattere “straordinario”, attraverso il ricorso ai risparmi, alle rimesse aggiuntive da parte dei lavoratori all’estero, alla vendita di terreni, all’aumento del lavoro e quindi del reddito familiare, ed al ricorso al credito bancario, con il fine di non perdere l’opportunità di realizzare una casa finalmente nuova, grande, strutturalmente protetta, di elevata qualità costruttiva nei materiali e nelle finiture. (Ivi, p. 98). 
Quello che non fu previsto allora, è il modello attualmente accentrato, che penalizza la montagna e la pedemontana ove più si è investito a livello abitativo, e che porta popolazione giovane ad andarsene, abbandonando i centri ricostruiti, ed a vendere o svendere le abitazioni antisismiche. A fronte quindi di un investimento enorme di denaro, pare che la ricostruzione sia finita perché non si è pensato a supportare in modo intelligente la popolazione stanziale, e si è proceduto, all’opposto, togliendo servizi e non occupandosi della possibilità di impiego in loco.
E questo investire in abitazioni da parte dei nuclei familiari ha avuto il risultato di una sovraesposizione di spesa in beni esclusivamente immobiliari a svantaggio dell’investimento in altri settori sociali, culturali, produttivi, ed ha prosciugato risorse finanziarie, tanto che alcune famiglie furono costrette ad interrompere il completamento delle opere per esaurimento dei fondi.(Ivi, p. 98).

Inoltre i centri maggiori sono riusciti a ricostruirsi prima di quelli minori e svantaggiati, fattore che ha influito sulle dinamiche di rientro (Ivi, p. 65), ed in alcuni casi la salute e l’età o problemi di carattere normativo urbanistico, hanno impedito ad alcuni terremotati di ricostruire in modo autonomo e di accedere ai contributi. (Ivi, pp. 56-57).
Il fatto poi di dover impiegare denari propri unitamente al sogno della casa nuova vista come status symbol, (Ivi,p. 87), hanno portato molti nuclei a cercare nuove tipologie abitative locate fuori dai ristretti centri storici, come i villini unifamiliari, le ville a schiera, o l’appartamento in piccolo condominio. Ed è anche accaduto che l’assenza di qualsiasi indirizzo normativo sia sul piano estetico che sul piano strutturale nel ricostruire, si sia tradotta «in una sostanziale corruzione dei segni e delle forme compositive ereditate dal passato senza apportare peraltro validi correttivi dal punto di vista statico-strutturale». (Ivi, p. 49).

Secondo me, poi, l’espansione abitativa fuori dai centri antichi e preesistenti è stata in alcuni casi notevole, svuotando parzialmente gli stessi di abitanti, si è sprecato, successivamente, molto suolo per capannoni e centri commerciali, enormemente sovradimensionati rispetto alla popolazione residente ed anche ai possibili acquirenti, e si sono create zone artigianali ed industriali in eccesso, continuando una tendenza, per esempio in Carnia, i cui limiti erano già presenti a Tiziano Miccoli nel 1972. (Carnia, problemi di oggi problemi di ieri. L’intervento di Tiziano Miccoli al I° convegno sul tema: “La cooperazione nella nuova Comunità Montana”. Tolmezzo il 26 febbraio 1972, in: www.nonsolocarnia.info).
La politica degli sprechi non è solo quella delle opere non completate o dismesse ma anche quella dell’uso non razionale delle risorse di un territorio, penso fra me e me.
Infine il sogno della bella casa e la foga della ricostruzione, insieme alle distruzioni, hanno portato alla perdita sia di documentazione familiare che di archivi documentari e fotografici, di volumi anche di pregio, di edifici di un certo valore, almeno nella loro strutturazione d’epoca.
Nel caso del Friuli si dimentica di dire, poi, che per abbattere i costi a carico dello Stato, i lavori di consolidamento perimetrale furono appaltati a grosse ditte, come, per esempio e se non erro la “Cosma” che operò a Tolmezzo, che non conoscevano il territorio ed agirono con una metodologia similare su ogni edificio. Quindi quando si parla di “modello Friuli” con riferimento alla gestione preminentemente comunale e regionale della ricostruzione, si sbaglia, perché lo Stato intervenne direttamente e massicciamente nelle scelte con il Commissario Straordinario Zamberletti.  
Inoltre i comuni meno colpiti, cioè i sistemi meno collassati, come prevedibile, riuscirono a reagire in modo più tempestivo, ed ad appropriarsi di mezzi e risorse maggiormente degli altri. Ciò potrebbe aver «dato luogo ad un processo di trasferimento di risorse più accelerato e proporzionalmente superiore al danno subito nelle aree meno danneggiate, a tutto svantaggio di quelle che esprimevano fabbisogni più radicali ed urgenti». (Sandro Fabbro, op. cit., p. 64).

La ricostruzione portò, dal punto di vista urbanistico, spesso ad una mobilità localizzativa degli edifici, a modificazioni più o meno radicali del modello abitativo, tanto che solo il 12% di coloro che dovettero ricostruire l’abitazione, la fecero simile a quella precedente. E di fatto solo il 57% del tessuto urbano tradizionale ricostruito venne a trovarsi nell’antico sito, mentre il 43% si frantumò in localizzazioni diverse (Ivi, p. 83), ed alla socialità del cortile si sostituì la solitudine della casa isolata unifamiliare.
Il sisma e la ricostruzione generarono, quindi, un Friuli completamente diverso da quello precedente, con tanti sogni ma anche con una netta perdita valorale e sociale.
Io credo che le istituzioni dovrebbero far tesoro di queste considerazioni di Luciano Di Sopra e di Sandro Fabbro basate sui dati dell’Ires, privilegiando una chiave di lettura di un evento così grave non solo per rievocarlo e retoricamente celebrarlo, ma formativa e conoscitiva proiettata verso il futuro. (Ivi, p. 26). Ma pare che questo non sia accaduto, e così siamo ad Amatrice, ed alla desolazione di alcune esperienze discutibili come quella abruzzese. Inoltre cosa significa, alla luce di quanto sopra esposto, «Modello Friuli», di ricostruzione?

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo rappresenta il rischio sismico delel varie regioni italiane, ed è tratta, solo per questo uso, da: http://tg.la7.it/cronaca/esperto-italia-a-forte-rischio-sismico-le-regioni-pi%C3%B9-pericolose-25-08-2016-107194. Laura Matelda Puppini

Sacile (Pn). Palazzo Ragazzoni. Domani 27 ottobre 2017. Pomeriggio storico- letterario in ricordo degli 80 anni della guerra di Spagna.

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All’ultimo momento, ma meglio tardi che mai, vi invito domani, 27 ottobre 2017, a Sacile, a Palazzo Ragazzoni,  alle ore 18, per ascoltare un dialogo a più voci, letture, e canzoni sulla guerra di Spagna. Dopo i saluti di Loris Parpinel, presidente dell’Anpi di Sacile, Marco Puppini, vice- presidente Aicvas, dialogherà con Maurizio Lo Re, autore di Domani a Guadalajara, Sergio Alonge, autore di L’uomo degli aeroplani. Seguiranno letture a cura di Mariangela Pacorig e Claudio Moras, e chiuderà la serata il complesso Angeles Aguado che canterà canzoni della guerra spagnola. Qui di seguito trovate il programma invito in b/n per problemi tecnici.  Laura Matelda Puppini

 

Elio Bullian. La storia dei fratelli Lucchini, comunisti e partigiani, ed altre storie ampezzane.

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«Il mio casato non è originario di qui, ma di Clauzetto. Il mio trisavolo è venuto ad Ampezzo nel 1829. I Nigris Beorchia avevano una vasta proprietà ed avevano bisogno di personale per la fienagione e così la mia famiglia è giunta qui. Mio bisnonno Osvaldo, detto ‘Svualdòn da siea’, (lo chiamavano Svualdòn perché era alto), è andato militare sotto l’impero austriaco, però lui era muratore. E so che ha lavorato anche per costruire il ponte del Teria. E Pietro Bullian, di altro ceppo e della cui casata è Maurilio, mi diceva: “Ricordati, ragazzo, che quando passi il ponte devi toglierti il basco, perché tuo bisnonno, qui, ha lavorato”.
Ho anche una foto di mio bisnonno.  

Mio nonno si chiamava Pietro, e, come il padre, faceva anche lui il muratore, mentre mio padre era un bravissimo decoratore.
Non so chi sia Pietro Bullian, nato a Lione nel 1925, so invece che vi era un mio omonimo, Elio Bullian, che era della Folgore e reduce di El Alamein. Era con Mario Martinis, zio di Cristina, e si è salvato per un pelo nella famosa battaglia.

Io ho conosciuto Mario, Ottavio e Francesco Lucchini al mio rientro dalla Francia, nel luglio del 1942, perché abitavano qui vicino, erano dirimpettai, limitrofi. Loro padre, Andrea, era un carpentiere di prima categoria, un teleferista, ed un bravo calzolaio, che sapeva fare le scarpe, non solo aggiustarle. A me ha ricavato un bel paio di scarponi da un vecchio paio di stivali di un tenente dell’aviazione, che era ospite da mia zia. Era morto, abbattuto con l’apparecchio, ed erano rimasti gli stivali.

Siamo tornati, da profughi, in Italia, perché in Francia, dove sono nato e dove mio padre, Angelo Osvaldo Faustino, classe 1897, decoratore, aveva molto lavoro, era iniziata a mancare la materia prima: nichel, biacche, colori, e c’erano bombardamenti in continuazione.
In quella situazione, il governo francese decise di dare un’agevolazione alle famiglie di lavoratori stranieri che volevano rientrare nel paese d’origine, mettendo a loro disposizione, in cambio solo di una piccolissima cifra, un intero vagone ferroviario per portar via quel poco di arredo che avevano e gli strumenti di lavoro. Così anche noi, con il nostro vagone, passammo il confine, e giungemmo fino a Villa Santina con le ‘nostre cose’, malgrado la guerra. Percorremmo, poi, la strada fra Villa Santina ad Ampezzo, con tutti gli averi, grazie a mio zio, Bernardino Del Fabbro, che aveva un carro guidato da una pariglia di cavalli. Egli faceva di mestiere il ‘cjaradôr’, ed aveva la stazione all’altezza del ponte di Mediis. Aveva avuto due figli, due maschi, che erano morti, ambedue, in Russia. Del Fabbro lavorava principalmente per Umberto De Antoni, trasportando i tronchi, che venivano portati giù con la teleferica dal monte Pura sino alla segheria di Villa Santina. Umberto De Antoni era il più grande industriale della Carnia, e viaggiava con l’automobile con le tendine, per non farsi vedere, ed abitava anche lui a Villa Santina.
Io ho fatto le scuole elementari in Francia, ma poi ho dovuto abbandonare tutto e riprendere la scuola ad Ampezzo, mentre la situazione andava di male in peggio.

La mamma di Cristina Martinis faceva parte della famiglia Lucchini, si chiamava Rita, era sorella di Ottavio, Francesco e Mario, ed era nata nel 1928. Andrea ed Erminia Lucchini, con i figli, stavano a Lateis di Sauris, ma poi erano scesi ad Ampezzo anche per far frequentare le scuole professionali serali ai figli.
Nel 1942, quando sono giunto dalla Francia, qui però c’erano solo Francesco detto Franz, nato nel 1926, che lavorava con il padre presso la ditta Monti, ed i genitori, mentre i suoi fratelli, Mario, nato nel 1920, ed Ottavio, nato nel 1922, erano soldati e Rita, in quel momento, si trovava a Collina, presso la zia. Così, da ragazzino, ho pensato: “Guarda quella famiglia ha un figlio solo, come la mia!” Invece, poi, è ritornata Rita, e sono arrivati a casa prima Ottavio e poi Mario, e la famiglia è cresciuta.
Per quanto riguarda Andrea, loro padre, so che era più vecchio di mio padre e che non si interessava di politica e che amava andare a caccia.  
Durante la guerra aveva sempre lavorato con la ditta Monti, che ha costruito per la Sade la centrale nella caverna. Era un lavoro molto duro, e c’era tanta polvere. E Franz, che lavorava con suo padre, si lamentava perché diceva che era duro spingere i carrelli fra le rocce. Poi, però, sotto l’occupazione tedesca, la Monti ha smesso di lavorare, perché la situazione era diventata impossibile, ed ha chiuso i cantieri praticamente poco prima che venisse incendiato Forni di Sotto. Andrea era carpentiere, ma faceva pure il calzolaio, ed era molto bravo nel costruire teleferiche. Nel dopoguerra, dato che non c’era molto lavoro, si era impiegato nella costruzione di una di queste che partiva dal Lumiei e andava verso Pani. E poi costruì anche una piccola teleferica domestica, che partiva dal poggiolo e giungeva sino al mio orto.
Allora venivano con i camion da Padova a prendere legname, ed egli aveva anche la funzione di smistarli. E per terminare, alla fine degli anni cinquanta, Andrea è andato a lavorare fuori, a Pantelleria ed ad Isola delle Femmine.

MARIO LUCCHINI

Mario, nel 1940, aveva lavorato al fianco degli ingegneri nella fase di tracciamento della diga. Ma poi vi fu uno sciopero, e gli scioperi, a quei tempi, erano tutti vietati. E dopo lo sciopero, i padroni hanno scremato i lavoratori, togliendo le persone che pensavano potessero essere pericolose politicamente per l’ambiente di lavoro. Ed anche Mario Lucchini fu mandato a casa. E l’ingegnere alle dipendenze del quale lavorava protestò, perché Mario era un bravissimo canneggiatore.
Poi è stato arruolato, ed è andato a combattere sul fronte greco – albanese. (1). Quindi è ritornato a casa ma poi è stato immediatamente richiamato, come tutti quelli nati nel 1920, ed è stato inviato in Montenegro a Banja (2), dove si trovava il 22 maggio 1942, con il 383° Reggimento Fanteria Venezia, plotone sciatori, 10^ Compagnia. (3). Qui venne ferito alla spalla sinistra e fu ricoverato in un ospedale, quindi fu mandato per una breve licenza a casa, ed infine fu rispedito al fronte, in Serbia, a Sìenza (4), ove risultava trovarsi il 20 dicembre 1942. E fu preso prigioniero dai partigiani slavi.
Egli viaggiava su di un veicolo che faceva parte di una autocolonna militare. Quindi scese, con alcuni commilitoni, per salire su di un colle in perlustrazione e, voltatosi, vide l’autocolonna in fiamme. Poi il gruppo di cui faceva parte fu raggiunto, circondato e catturato dai partigiani titini che avevano causato l’incendio. Allora era già ferito, e quando era costretto a portare feriti partigiani slavi, sentiva il suo sangue scendergli dalla spalla. E raccontava che qualche volta aveva preso anche qualche botta.
In quel periodo, però, i tedeschi avevano organizzato una grande offensiva, ed i partigiani titini dovettero ritirarsi sulle montagne, e nella confusione lasciarono perdere i prigionieri. Mario ed un suo compagno di prigionia si trovarono così da soli, isolati. Quando infine videro i tedeschi che avanzavano, il suo compagno volle esporsi segnalando la sua presenza, nonostante Mario gli avesse detto di non farlo perché poteva esser scambiato per un ribelle, e fu falciato dai nazisti. Mario invece si distese ed attese che i tedeschi lo raggiungessero, e quindi, essendo stato riconosciuto come un “camerata”, venne portato nel loro campo. Ma lì non gli davano cibo sufficiente, e così fu costretto a raccogliere le scatole di carne che buttavano via i soldati, per recuperare quel poco che era rimasto all’interno. Ma naturalmente, nel raschiare, si era tagliato le dita. Infine fu caricato su di una nave ospedale, raggiunse l’Italia e fu ricoverato all’ospedale di Verona, da cui fuggì dopo l’8 settembre 1943.

Ottavio Lucchini, invece, era nato nel 1922. Militare nella campagna di Russia, era stato là ferito poco prima di Natale durante un assalto: una scheggia di granata gli aveva fratturato la mandibola (5). Così fu inviato all’ospedale militare di Roma, dove lo curarono bene. Si vedeva la cicatrice, ma nulla di più. E a spese dello Stato i suoi genitori avevano potuto anche andare a trovarlo. Allora non era ancora iniziata la terribile ritirata di Russia, e l’esercito italiano riusciva ancora ad organizzare un servizio sanitario. Poi, quando è stato dimesso, è andato in convalescenza a Rimini, sempre a spese dello Stato, e poi è rientrato qui ad Ampezzo.

Poi giunse l’8 settembre 1943. Qui ad Ampezzo quasi non ci accorgemmo di cosa era capitato, e quei pochi superstiti di Russia, presenti in paese, stavano buoni e zitti a casa. E nell’ autunno del 1943 qui la situazione era abbastanza tranquilla. I tedeschi ci mandarono solamente un sergente, un piccoletto, soprannominato “Tac”, che aveva come compito di insegnare agli anziani del paese a marciare battendo i tacchi, da cui il suo soprannome, mentre noi, ragazzetti, incuriositi e divertiti, spesso li seguivamo ridendo.
Quindi, nel novembre 1943, giunse ad Ampezzo una strana e bella orchestra, che suonava molto bene, che suonava in piazza, e tutti la andavamo ad ascoltare. Ma poi mi accorsi che era un’orchestra di ben armati. Era formata da militari dell’R.S.I. ed iniziò a proiettare film contro gli americani. E si capì che erano stati mandati ad Ampezzo a scopo propagandistico, per inculcare nella popolazione che, mentre gli americani erano solo capaci di bombardare, i tedeschi, invece, offrivano pace e tranquillità.
E in effetti quell’ autunno era tutto calmo, e qui da me giungevano gli anziani a scaldarsi, e so che prendevano la situazione come veniva, senza preoccuparsi troppo, quasi che quello che stava accadendo fosse stato un diversivo alla routine paesana.

E una volta io, mio padre, Domenico il fabbro e Mario, prima che aderisse alla resistenza, siamo sgusciati via insieme, mentre arrivavano in paese i repubblichini, e ci siamo rifugiati nella famosa caverna di Susanna. E quel giorno abbiamo rischiato parecchio, perché poi siamo ritornati per vedere se i repubblichini se ne fossero andati via, e siamo arrivati fin sotto il muro di casa, e c’erano proprio loro nel cortile. E tuo zio mi ha detto di star buono, perché se ci vedevano … E poi siamo scivolati piano piano via, e siamo ritornati alla grotta. E Mario aveva anche allora con sé la famosa valigetta in ferro, che tutti pensavano contenesse cibi, ed invece aveva al suo interno l’occorrente per sbarbarsi, cosicché, nel caso fosse stato intercettato dal nemico, si sarebbe mostrato ben rasato, e sarebbe stato scambiato meno facilmente per un partigiano.

Poi purtroppo arrivò il marzo 1944, ed il momento in cui doveva esser espletata la leva della classe 1925. E questo divenne un problema. Quelli nati in quell’anno dicevano: “Cosa facciamo?” E non sapevano che fare.
Ma poi è accaduto l’omicidio di Giobatta Candotti, un ragazzo buono, un lavoratore. Mi pare ancora di rivedere Leonardo, suo papà, che piangeva continuamente il suo figlio ucciso perché non aveva voluto salire su un camion di repubblichini. Doveva finire un lavoro … Quelli gli spararono. Con lui c’era Arturo Felissatti, che aveva forse 16 o 17 anni. Non appena vide il camion egli si nascose in un tombino dell’Anas e non fu trovato. Dopo un ben po’ di tempo ritornò a casa tutto smarrito e confuso. Aveva preparato la mobilia per le nozze Tita, era in procinto di sposarsi… E fu la sua morte a sollevare l’indignazione del paese, seguita dall’incendio di Forni di Sotto. E iniziò la resistenza organizzata ampezzana.
Prima della morte di Tita Candotti i cosiddetti partigiani erano un po’ dei cani sciolti; dopo l’incendio di Forni di Sotto si sono organizzati, con comandanti e commissari, e comandanti qui erano Mario Candotti, che era stato in Grecia e Russia, e Ciro Nigris, che era stato anche lui in Russia, ed hanno incominciato ad impostare il movimento partigiano sia dal lato militare che dal lato politico.

MARIO LUCCHINI ‘ZETA’ (ULTIMO A DX) CON ALTRI PARTIGIANI.

Ma mentre ad Ampezzo la storia andò avanti come in gran parte dei paesi della Carnia, Sauris aveva, dopo la Zona Libera, chiesto un presidio tedesco che lo sostenesse in funzione anti- cosacca, dato che gli abitanti erano di madre lingua tedesca. Così i tedeschi inviarono 200 soldati che, nel passaggio, uccisero una persona qui, ad Ampezzo, in borgo Clendis. E mi ricordo che giunse il medico Armando Zagolin che sentenziò che non vi era nulla da fare, e che quello era tutto bucato.

Mi rammento pure di un polacco che disertò dall’esercito tedesco mentre la colonna di soldati si portava a Sauris. Egli lasciò i compagni e si nascose nella condotta forzata della Sade in località Cretis, e quindi raggiunse Plan dal Sac, ove, in una grotta, l’ingegner Luciano Di Brai, direttore dei lavori della diga del Lumiei, aveva posto diversi macchinari. Fu quindi raggiunto dal personale della diga e dall’ingegnere che decise di portarlo all’Albergo Alla Posta. Poi probabilmente si unì ai partigiani, ma non lo so per certo.

E fra quelli di Ampezzo andò partigiano anche Giulio De Monte, detto “Giulio mat”, perché prendeva la vita con buonumore. Egli aveva fatto la campagna di Russia ed era riuscito, nel corso della stessa, a mettere fuori combattimento un carro armato T 34 che sparava sugli alpini nella ritirata. Ed era un pluridecorato. Noi eravamo studenti ad Udine, ed egli ci ha pagato da bere, perché gli avevano dato la medaglia d’argento. Poi divenne comandante di un battaglione di partigiani garibaldini e, nel dopoguerra, emigrò all’estero, occupandosi come carpentiere. E so che era stata partigiana anche Lidia De Monte, che però apparteneva ad una famiglia diversa da quella di Zan Zan. Qui ad Ampezzo ci sono diverse famiglie De Monte, che non sono parenti fra di loro. Invece il fratello di Giulio è stato capitano degli alpini alla caserma di Tolmezzo.

Mi rammento pure Mario Foschiani, Guerra, uno dei primi partigiani giunti qui nel 1944. Mi ricordo di averlo incontrato nel gennaio del 1945, quando mi trovavo a Mediis, e abbiamo fatto insieme tutto il “Crivèl” (6): i cosacchi davanti ed io con lui. Quella volta camminava male, e la pattuglia a cui apparteneva era andata in Cjamesàn (7), ma lui era stato ferito ad una gamba qui, ad Ampezzo, in piazza. Era sceso un tedesco del presidio di Sauris, quando esso era ancora presente, e gli aveva chiesto i documenti. Guerra si era messo a ridere ed era scappato, e gli avevano sparato.

E qui vicino abitava anche Eugenio De Luca, che era zoppo. Era un fuoriuscito, uno di quelli che erano andati all’estero senza passaporto, di quelli che erano scappati o perché non si erano presentati alla leva o perché non avevano voluto la tessera del Partito Fascista. Rientrato in paese dopo il 25 luglio, usava criticare aspramente Zagolin e l’attività dei partigiani, sentendosi forte del suo essere di sinistra. Fu prelevato dai partigiani una sera del luglio 1944, nel cortile, e venne fucilato sul tornante di Cjamesàn.

E mi ricordo Armando Zagolin che era un medico piuttosto severo, ed era rigido nel comportamento, ma poi, da partigiano, portava la barba lunga, cosa per lui inusuale. E mi rammento pure sua figlia Cesira Zagolin, legata su di un carro cosacco. Sua sorella Annamaria era a scuola con me, ma so che ora è morta. Comunque Angela Grillo dovrebbe avere documentazione. È la figlia di Grillo Francesco. Lui era una persona che meritava, ma purtroppo se ne è andato. Aveva raccolto un sacco di materiale che ora ha Angela. (8).

Ma per ritornare ai fratelli Lucchini, dopo l’8 settembre rientravano i soldati, ed era rientrato Ottavio, ed era allora barbiere Elvio De Luca, che era stato in Francia ed aveva seguito dei corsi di marxismo. E teneva delle lezioni, dava spiegazioni su Carlo Marx e sulle sue opere, come “Il Capitale”. E questi incontri di apprendimento si tenevano la sera, perché erano proibiti, nella casa dei Lucchini, dove c’era il laboratorio, al secondo piano. Lo so perché, abitando vicino, ed avendo il muro adiacente, sentivo sempre, la sera, questo movimento, ed allora avevo chiesto cosa accadesse. Ma mi fu risposto che poteva essere un sibilo. Non so se allora battessero a macchina le lezioni o gli appunti, so che poi Ottavio ha portato a casa una macchina da scrivere, con la quale ho imparato anch’io a battere a macchina i testi. E poi, ai tempi della Zona Libera, veniva Nicola Pellizzari con i partigiani, la sera, a scrivere lettere e comunicati.

Di Ottavio ricordo solo che, una volta, quando era partigiano, mi ha portato un vocabolario di latino, il Carboni. Glielo avevo chiesto io, e lui mi ha procurato l’ultima edizione. Dopo due o tre giorni è giunto con il volume, e non ho mai saputo dove lo avesse preso. Ma era l’ultima edizione, ottima!!!! E io pensavo “Chissà che vocabolario mi porta!” Invece mi ha portato proprio quello, preciso! Può darsi che Ottavio avesse acquistato il dizionario, perché aveva anche la ricevuta, e costava ben 50 lire. Ma senza quello non si poteva studiare latino.
Qui c’era De Monte, il postino, che andava a prendere la posta a Tolmezzo e così comperava pure dei libri per noi: gli facevamo l’elenco … e lui ce li acquistava. Ma il Carboni non c’era più a Tolmezzo.
Ogni tanto i partigiani ritornavano vicino a casa, ma i Lucchini sono sempre stati in prima linea, contro i tedeschi. E da che mi ricordo, i partigiani andavano verso i paesi anche per ispezionare, per controllare il movimento delle truppe tedesche, ed andavano anche in abiti civili.

So però che, appena finita la guerra, nel ’45, Ottavio divenne responsabile della caserma dei carabinieri occupata dai partigiani. E i partigiani si erano organizzati per costruire un pociòn, cioè una specie di piscina. E io ero incaricato di portare, la sera, le mine anticarro. Ottavio mi portava delle valige simili a quella di ferro per gli oggetti per sbarbarsi, che le contenevano, e se mi avesse visto mia madre portare quelle valige, guai. E andavo verso il luogo convenuto, ed arrivava un partigiano che le posizionava, e c’erano di quelle esplosioni! Perché erano mine anticarro davvero potenti! Rompevano i sassi, e poi avevano fatto un po’ di diga, e lì si faceva il bagno! E il pociòn c’è ancora.

OTTAVIO LUCCHINI

Non conosco, invece, la vita partigiana di Mario, Ottavio e Francesco (9), so solo che rientrarono ad Ampezzo verso la fine del 1945, ma non ebbero vita facile.
Franz era molto intelligente ed avrebbe preferito studiare, ma ha dovuto fare l’operaio comune. Gli imprestavo i miei libri di fisica, e lui faceva gli esperimenti in modo tale che forse neppure un professore di fisica sarebbe riuscito a fare, e utilizzava i capelli di sua sorella per le prove elettriche … era bravissimo.
E appena finito di lavorare, si metteva a leggere un libro o La Domenica del Corriere, ed ha faticato ad adattarsi al lavoro solo manuale.

Allora, nel 1945, un pezzo del paese seguiva i democristiani, i cosiddetti benpensanti, quelli che “non stavano né da una parte né dall’altra” un pezzo i comunisti, che potevano essere qui circa una novantina. Il segretario della sezione PCI di Ampezzo era Attilio Mignozzi, un veneziano, una persona veramente brava, che era un impiegato tecnico della Sade e che poi è rimasto qui fino agli anni ’90. La sede del Pci era di fronte all’albergo Alla Posta. Ed ora vi racconto un episodio.
Il clima fra prete, con democristiani al seguito, e comunisti non era dei migliori.
Un giorno il cappellano partì con alcuni ragazzi del paese alla volta della sede del Partito Comunista, e, giunti ivi, ruppero l’insegna con la falce e martello.
I membri del Pci denunciarono il fatto alle autorità, ma poi, sapendo chi era stato, decisero di incontrarsi con gli stessi e chiudere la cosa facendo rifare l’insegna a spese dei democristiani e così avvenne. I democristiani vennero a casa mia e chiesero a mio padre di fare una insegna con sfondo rosso e falce e martello. Mio padre si stupì e chiese cosa avessero a che fare loro con la falce e martello … e loro lo spiegarono. Poi giunsero a casa mia i comunisti a chiedere se i democristiani avessero ordinato l’insegna, e, avuta risposta positiva, su domanda di mio padre portarono una copia esatta del disegno, onde fosse eseguita nel migliore dei modi. Questo era il clima che c’era allora. Comunque a quei tempi non c’era via di mezzo: o comunisti o democristiani.

Ma per i comunisti ad Ampezzo la vita non era facile, ed esser comunisti era l’antitesi del “passaporto”, diciamo così. Ed i fratelli Lucchini erano comunisti. Nel 1946, comunque, Mario Ottavio e Francesco erano ancora qui, e lavoravano, mi pare, alla costruzione della diga di Sauris.  Ma la Sade, finiti i lavori principali, ridusse il personale alle sue dipendenze e licenziò molti operai, in particolare quelli comunisti o simpatizzanti per il comunismo, tenendo al lavoro quelli che avevano qualche appoggio in particolare dal prete. Ma in seguito, per non avere in loco mine vaganti, assunsero anche qualche comunista, per esempio Antonio De Luca, che era mio cugino, e Francesco Fiorenza, “Cecchino”.

Comunque, in generale, nel dopoguerra, finiti i lavori della Sade, qui non c’era molto lavoro. Andrea, il vecchio, si era adeguato a fare il boscaiolo, a fare le teleferiche ad organizzare lo smistamento del legname, i suoi figli Mario, Ottavio e Francesco andarono, presumibilmente senza contratto di lavoro, attraversando clandestinamente le Alpi, in Francia, nel 1947 o 1948. Ottavio pare sia espatriato assieme a Renato Fachin, detto Piazza, che era privo di contratto di lavoro, passando per la Val D’ Aosta. So che Renato, quando giunse oltre confine, fu fermato dalla polizia francese ed affidato ad un contadino perché raccogliesse barbabietole. Se uno, poi, riusciva a lavorare bene, allora il lavoro veniva confermato e poteva fermarsi ulteriormente, altrimenti veniva espulso. Renato Fachin è riuscito a fermarsi in Francia ed è andato, poi, a lavorare nei cantieri edili come carpentiere. Anche mio padre è andato a lavorare in Svizzera, ma se non avevi in mano il contratto prima di partire non andavi né in Svizzera né in Francia.
Ottavio morì lì, annegato nel Rodano, nel 1952. La domenica, per rilassarsi, andavano al fiume. È capitato su di un vortice, ed è stato risucchiato. È stato un incidente.
Mario mi pare sia rientrato molto presto, perché ricordo che era qui nel 1949. Nel 1949, comunque, mi ricordo che insieme siamo andati a vedere anche dove c’era “il covo dei partigiani”, ma poi è arrivata la notte, e siamo rientrati.

FRANCESCO DETTO FRANZ LUCCHINI

Invece quella di Francesco è altra storia. Una sera mi pare del 1956 o 1957, perché io sono andato via nel 1962 e Andrea è morto nel 1963, l’abbiamo visto arrivare con un’automobile della polizia. Ed era accompagnato da due poliziotti in divisa e da due in borghese. La macchina si è fermata e mi hanno chiesto se conoscevo Franz, ed io ho risposto di sì. Ho detto che sapevo che si chiamava Lucchini Francesco, che abitava lì vicino, ed allora l’ispettore mi ha detto di chiamare qualcuno della famiglia. Così ho chiamato Andrea, suo padre, e poi sono andato via perché non era il caso che mi fermassi lì. Franz era stato consegnato dalla polizia francese a quella italiana, al confine, ma non so per quale motivo. So invece che in Francia aveva subito delle violenze, forse perché faceva parte di associazioni politiche e partecipava a manifestazioni politiche. Ed al suo rientro Franz era molto provato, era quasi assente, non era più lui, e nessuno capiva cosa gli fosse successo, se gli avessero fatto qualcosa. E lui non ha mai detto nulla, non ha mai narrato cosa gli fosse accaduto. e da che mi dice Cristina, anche Francesco fu poi internato in manicomio ad Udine e sottoposto ad elettroshock e risultava schizofrenico e paranoico. Poi, con il tempo recuperò un po’, ed io avevo parlato con Aldo Vecchi perché lo prendesse a lavorare, ma egli aveva delle perplessità. 

Anche Mario, al suo rientro, mi pare nel 1952, fu ricoverato in ospedale psichiatrico a Udine, e fu sottoposto ad elettroshock. Lo so perché io, che ero allora studente ad Udine e sono andato a trovarlo, ed era normalissimo, e non dava segno alcuno di squilibrio, e si lamentò di questo elettroshock che gli volevano fare. Ma mentre Francesco ne risentì tantissimo, Mario molto meno, e continuò a lavorare diventando capo cantiere presso la ditta di Aldo Vecchi. È andata così: prima Mario è venuto con me a fare misurazioni dei terreni, dove c’è il complesso di Aldo Vecchi, vicino al cimitero. E poi, quando sono incominciati i lavori, ho chiesto a Vecchi che lo prendesse a lavorare, e così lo ha assunto ed è diventato capo cantiere ed ha seguito lui i lavori di quel complesso, ed era molto apprezzato.
Più di così non so sui tuoi zii.

Mi ricordo invece due fatti di quei tempi, di cui uno mi fu raccontato.
La chiesetta di Sant’Antonio, a Cima Corso, è stata decorata da mio padre, nel 1944.

Un giorno, una domenica, qualcuno si era divertito a sparare alle statue della chiesetta di Sant’Antonio, a Cima Corso. Le statue, danneggiate, furono portate a mio padre perché le riparasse, cosa che fece, e quindi furono riportate al loro posto. Così poi egli continuò a lavorare per affrescare la chiesa.
Un altro giorno egli ed un muratore, che si chiamava Vittorio Sburlino, salirono a Cima Corso per lavorare nella chiesetta, ed ad un certo punto, mentre erano lì, la porta si aprì ed entrò un ufficiale tedesco. Era un Maggiore che era stato decorato in Russia e che stava facendo una ricognizione con i militari. Ma lui non pareva molto interessato a loro, e, dato che l’altro aveva lavorato in Germania (e sapeva un po’ di tedesco) parlarono insieme, e l’ufficiale raccontò che era venuto in ricognizione, che era venuto per vedere le montagne, e di guerre ne aveva viste tante. Quindi si recò a vedere dove lavoravano gli operai, perché lì c’era la stazione della teleferica che partiva dai boschi di Mediana, e che portava giù il legname che poi veniva inviato a Villa Santina con i carri ed i cavalli. Quindi l’ufficiale ed i militari tedeschi risalirono, rispettivamente, in macchina e sul camion della scorta, e si diressero verso Forni di Sotto. Nel ritorno, una mina anticarro fece saltare la macchina tedesca, ferendo gravemente l’ufficiale. E proprio mentre avveniva questo, mio padre diceva al muratore che gli mancava il colore ‘rosso di Pompei’, e che lo voleva avere subito. Invano il muratore cercò di dire che si poteva aspettare l’indomani. Ma mio padre volle andare ad acquistarlo subito ed abbandonò la chiesa. Subito dopo giunsero nella chiesetta di Sant’Antonio i tedeschi, presero Sburlino, lo caricarono sul camion assieme agli altri operai, mentre il loro ufficiale stava per morire, e li portarono tutti a Spilimbergo. Nel frattempo mio padre, preso il ‘rosso di Pompei’, ritornò alla chiesetta. Giuntovi, vide la porta spalancata e gli operai addetti alla teleferica che non c’erano più, ed iniziò a pensare: “Qui c’è qualcosa che non va”. Richiuse quindi la porta e se ne andò via.
Ed il bello è che il fratello di mia nonna, che faceva il carradore, era arrivato alla chiesa con i cavalli mentre c’era la retata tedesca, e caricarono anche lui sul camion. Ed i cavalli sono tornati indietro da soli, e si sono fermati qui, in piazza, a bere, e poi è venuto il figlio a prenderli.  E così mi padre si è salvato. E l’Arciprete ha detto: “Ti sei preso cura del Santi e loro ti hanno aiutato!”. Credere o non credere, questo è un fatto vero!
Udito quanto successo, il segretario comunale Vittore Grillo ed altri scesero dal comandante. Mi ricordo ancora Vittore: aveva la barba, ed uno sguardo fisso.  Ed al comandante tedesco Grillo disse che il fatto era sì molto grave ma non era avvenuto in territorio di Ampezzo, e quindi non sapeva perché se la stessero prendendo con questi lavoratori. La risposta fu che era stato massacrato un eroe di guerra. Comunque il comandante tedesco chiamò un ufficiale e gli chiese dove fosse avvenuto l’attentato. E quello confermò che era avvenuto al di fuori del Comune di Ampezzo, in territorio del comune di Forni di Sotto. Ed allora il comandante tedesco decise che i maschi non anziani sarebbero stati mandati in Germania, mentre i vecchi sarebbero ritornati a casa. E fra quelli che andarono in Germania c’era anche il padre di quelli che avevano l’osteria ‘Al Pura’, che poi è ritornato. Ma sono ritornati anche altri, ma non mi ricordo chi, mentre Vittorio Sburlino, detto Vittorio della comare e il fratello di mia nonna sono stati rimandati subito a casa.

Ed infine vi racconto un altro episodio. Andrea si lamentava di non riuscire ad avere i cavoli cappucci buoni per fare i crauti. Allora gli dissi di cambiare seme. Io ero cliente e lo sono ancora, dei fratelli Ingegnoli di Milano, esperti in sementi, e così, dopo aver cercato sul loro catalogo una semenza che potesse andar bene, la ordinai per lui.  Poi seppi che il nuovo seme era giunto, poi più nulla. Verso l’autunno, un giorno Andrea mi chiamò e mi disse di andare con lui. Così, saliti sul camioncino, ci muovemmo verso Lateis, il paese di origine dei Lucchini. Andrea mi portò a vedere che aveva un campo intero di cappucci per fare i crauti, da portare giù. Ma io non ho mai voluto assaggiarli, e per questo motivo era arrabbiato a morte con me. Non mi piacevano, e non li volevo mangiare. Un giorno, trovandomi con mia moglie a Pedavena, in un ristorante mi proposero il piatto tradizionale della casa, e mi portarono un piatto enorme di crauti!!! Ed ho pensato ad Andrea ed ai suoi crauti, che avevo sempre rifiutato! E quella volta li ho mangiati, e mi sono piaciuti. Per fare i crauti ci vuole una botte, ed Andrea Lucchini i se l’era fatta da solo. Andrea aveva anche il tornio, e sapeva fare di tutto, perfino le ruote per il mio triciclo! Quello era il primo mezzo di trasporto per noi bambini, e lo usavamo per andare giù per la ‘Cleva’.

Ma ora si è fatto tardi, ed è giunto il momento di chiudere questa intervista».  

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(1) Anche Mario Candotti nel suo: Ricordi di un uomo in divisa, naia, guerra, resistenza, ed. Ifsml ed Ana-Pn, 1986, a p. 51 ricorda di aver incontrato, sulla strada di Valona, nel gennaio 1941, l’alpino, ma forse il fante Mario Lucchini, a cui aveva dato dei generi di conforto.

(2) Località non reperita. Il termine “Banja” fa parte di alcuni nomi di località della ex- Jugoslavia, ma io non ho trovato un luogo con solo questo nome, tranne un accenno ad una piccola località in comune di Tivat, nella baia di Cattaro, in Montenegro. L’informazione di data e luogo mi è stata trasmessa da Cristina Martinis, in data 3 ottobre 2017, che l’ha ripresa da una immagine spedita dallo zio allora, trovata in casa.

(3) Il 1° dicembre 1941 veniva costituito il 383° Reggimento Fanteria “Venezia” per trasformazione del 235° Reggimento Fanteria costituito a sua volta a settembre dello stesso anno. Nel febbraio 1942, il Reggimento fu inviato in territorio jugoslavo e venne dislocato a Plijvlie in Montenegro dove fu posto alle dipendenze della Divisione Alpina “Pusteria” che lasciò, però, il 18 aprile successivo per riunirsi alla Divisione “Venezia”. Dal 17 giugno 1943 venne assegnato al Comando Difesa Territoriale d’Albania e si schierò nella zona di Tirana dove l’8 settembre venne sciolto a seguito degli eventi che seguirono all’armistizio. (http://www.regioesercito.it/reparti/fanteria/rgt/rgt383.htm). Quindi Mario Lucchini, vista la storia del 383° Reggimento fanteria, il 22 gennaio 1941, data in cui Mario Candotti lo vede sulla strada di Valona, faceva parte probabilmente di un’altra unità militare.

(4) Località non reperita. Forse non Sienza ma Sjenica. L’informazione di data e luogo mi è stata trasmessa da Cristina Martinis, in data 3 ottobre 2017, che l’ha ripresa da una immagine spedita dallo zio allora, trovata in casa.

(5) Mario Candotti scrive di esser stato informato, quando si trovava in Russia, nei paraggi di Golubaja Krinitza, il 30 dicembre 1942, che “Lucchini, sauràn”, si presume Ottavio Lucchini, militare anche lui nella campagna di Russia, era stato ferito. (Mario Candotti, Ricordi, op. cit., p. 104).

(6) Crivèl, località ora in Comune di Socchieve.

(7) Cjamesans è una borgata in comune di Socchieve.

(8) Pare che Angela Grillo abbia venduto ad un amatore la documentazione, che quindi non è più consultabile.

(9) Per il battaglione di appartenenza, per i fratelli Lucchini come per altri,  e nomi di battaglia, cfr. “472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne che scrissero la storia della democrazia, operativi in Carnia o carnici” di Laura Matelda Puppini, in www.nonsolocarnia.info.

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Sintesi delle due interviste ad Elio Bullian di Cristina Martinis, estate 2016, e di quella di Laura Matelda Puppini, mediatore Cristina Martinis, a Elio Bullian in data 22 settembre 2016. Registrazioni di Cristina Martinis. Trascrizioni e fusione in unico testo di Laura Matelda Puppini. L’immagine che correda l’articolo è tratta dal filmato di Cristina Martinis, e ritrae Elio Bullian mentre sta parlando. Le fotografie dei fratelli Lucchini, inserite nel testo, provengono da Cristina Martinis.

Cristina Martinis e Laura Matelda Puppini.

 

 

 

Proprietà collettive: è arrivato l’atteso riconoscimento costituzionale.

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Ricevo da: vicinia@friul.net, e volentieri pubblico. 

«Il riconoscimento pieno delle funzioni economica, sociale e ambientale della Proprietà collettiva, atteso per quasi un secolo da migliaia di Comunità rurali e alpine d’Italia, è finalmente giunto.
Il 26 ottobre, con il voto unanime della Camera dei Deputati (294 voti favorevoli, 0 voti contrari e 3 astenuti), si è concluso l’iter della Legge “Norme in materia di domini collettivi”, già approvata dal Senato il 31 maggio.
D’ora innanzi, nessuno potrà più considerare i Beni che le Comunità locali continuano a godere collettivamente, in forma indivisa e per diritto consuetudinario, un relitto del passato da “privatizzare” o “nazionalizzare”, attraverso le svariate forme di «liquidazione» architettate dalla Legge 1766 del 1927 che, non a caso, l’attuale presidente della Corte costituzionale, Paolo Grossi, continua a definire «auschwitziana».

L’articolo 1 della nuova norma, firmata dai senatori Giorgio Pagliari (Emilia-Romagna), Bruno Astorre (Lazio), Nerina Dirindin (Piemonte) e Francesco Palermo (Bolzano), dichiara solennemente che «La Repubblica tutela e valorizza i beni di collettivo godimento, in quanto: a) elementi fondamentali per la vita e lo sviluppo delle collettività locali; b) strumenti primari per assicurare la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale; c) componenti stabili del sistema ambientale; d) basi territoriali di istituzioni storiche di salvaguardia del patrimonio culturale e naturale; e) strutture eco-paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale nazionale; f) fonte di risorse rinnovabili da valorizzare ed utilizzare a beneficio delle collettività locali degli aventi diritto».
Il riconoscimento diviene ancor più solenne, in virtù del suo ancoraggio costituzionale. I diritti dei cittadini «di uso e di gestione dei beni di collettivo godimento», in base alla nuova legge, non vanno riconosciuti soltanto perché «preesistenti allo Stato italiano», ma soprattutto perché ciò viene richiesto dalla Costituzione, in «attuazione degli articoli 2, 9, 42, secondo comma, e 43».

Le “Norme in materia di domini collettivi”, come è stato più volte ripetuto durante i lavori parlamentari e nel corso della discussione finale in aula, durante la quale vi è stata una piena assunzione di responsabilità da parte di tutte le forze politiche nazionali, si prefiggono la valorizzazione di un patrimonio agro-silvo-pastorale immenso.
Il pur incompleto Censimento dell’Agricoltura, portato a termine nel 2010 dall’Istat, ha evidenziato che quasi il 10% della Superficie agricola italiana – quasi 2 milioni di ettari su 17 – appartiene alle Comunità titolari di Assetti fondiari collettivi, come hanno sottolineato sia il deputato friulano Giorgio Zanin che si è adoperato senza risparmio per il traguardo del 26 ottobre, sia la Consulta nazionale della Proprietà collettiva.

«Circa il 10% della superficie agricola utile del nostro Paese – ha dichiarato Zanin nell’aula di Montecitorio – costituisce un valore enorme, per il passato e per il futuro, che da solo basta a rendere ragione dell’importanza della legge». Ma, secondo il parlamentare Pd di San Vito al Tagliamento, i passi in avanti decisivi riguardano anche «il riconoscimento della centralità della Comunità come “soggetto neo-istituzionale”» e della funzione imprenditoriale degli Enti gestori delle terre di collettivo godimento quale motore di sviluppo locale e la promozione di nuovi modelli economici, orientati alla gestione sostenibile e solidale delle risorse naturali, con ricadute sulla «conservazione dei caratteri identitari dei territori» e per la valorizzazione degli ambienti naturali antropizzati, in un’ottica di protezione dell’ambiente e del paesaggio. 

«Il conferimento di una personalità giuridica a tutte le varie ipotesi di Proprietà collettiva oggi esistenti nel nostro Paese – ha osservato nel proprio commento il coordinamento nazionale delle migliaia di Enti gestori d’Italia – è uno dei più importanti risultati della Legge sui Domini collettivi oggi approvata. La Consulta nazionale della Proprietà Collettiva, che rappresenta da oltre dieci anni le istanze dei Domini collettivi, intende aprire da oggi un serio ed approfondito confronto con le Regioni per predisporre la normativa applicativa della Legge oggi approvata».
Lo storico riconoscimento è stato accolto con soddisfazione anche in Friuli e in provincia di Trieste, ove gli Assetti fondiari collettivi sono numerosissimi, nonostante manchi ancora (a causa dei pluridecennali ritardi accumulati dalla Regione e dal Commissariato agli usi civici) un “accertamento” ufficiale definitivo.

Quando nel luglio scorso, i rappresentanti del Coordinamento regionale della Proprietà collettiva sono stati invitati, a Roma, per esprimere il proprio parere sulle “Norme in materia di Domini collettivi”, dinanzi alla Commissione Agricoltura della Camera e al relatore della Legge Giuseppe Romanini, Martino Kraner, Delio Strazzaboschi e Luca Nazzi hanno dichiarato: «Grazie a questa Legge, che riconosce la “dimensione costituzionale” dei Domini collettivi, tutte le Comunità rurali e montane del nostro Paese potranno tornare protagoniste nella costruzione del Bene comune e le straordinarie potenzialità economiche, socio-politiche e ambientali dei nostri Domini collettivi potranno essere sviluppate al meglio… I Domini collettivi, riconosciuti e valorizzati adeguatamente, non consentiranno alle popolazioni rurali di ricavare dai propri patrimoni soltanto le utilità tradizionali (legna da ardere e da costruzione, piccoli frutti, erbe spontanee, funghi, prodotti ittici…), ma soprattutto garantiranno la possibilità di gestire attivamente i “valori patrimoniali collettivi” come elementi propulsivi di un’Economia solidale e autosostenibile e come basi materiali per una produzione economica finalizzata alla crescita della Comunità territoriale e della sua capacità di autogoverno.

La Vicinia. (vicinia@friul.net)»

Comunicato del Coordinamento regionale Proprietà collettiva Friuli-V. G., datato Tolmezzo 29 ottobre 2017.

L’immagine che correda il comunicato è stata da me tratta da: http://www.euricse.eu/it/sibec-prossimi-appuntamenti/, solo per questo uso. Laura Matelda Puppini

 

 

Alla scoperta di un fotografo quasi dimenticato. Riemerge l’archivio di Giuseppe Burba, ricco di momenti, eventi, fatti, scorci.

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Mi telefona Cristina Martinis. Questa volta è venuta a conoscenza di un intero archivio fotografico e vorrebbe sapere cosa si può fare dello stesso. Non ho tentennamenti nel suggerirle di contattare il Circolo Culturale Fotografico Carnico, chiamando poi la proprietaria dello stesso ad un incontro successivo. Avuto il suo O.K., faccio da tramite per un primo contatto, a cui segue una riunione formale, presenti, oltre la sottoscritta, la proprietaria del fondo Sara Burba, Cristina Martinis che la accompagna, Roberto Dao, Adriana Stroili, Dino Zanier, per il Circolo Culturale Fotografico Carnico (Fototeca territoriale).

La sorpresa è stata grande, sia per l’entità dell’archivio composto di lastre e pellicole, sia perché Giuseppe Burba era ignoto agli amanti locali dell’immagine fotografica. Ma vediamo insieme chi è questo fotografo ampezzano rispuntato per noi dal nulla.

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C’era una volta un fotografo che era molto conosciuto nel suo paese e nella sua valle. Si chiamava Giuseppe Burba, era nato ad Ampezzo nel lontano 1917 ed è morto nel 2010. Aveva scattato centinaia di fotografie, iniziando da quando la guerra ed il fascismo lo avevano portato, giovane, nella lontana Albania, ma forse anche prima. Esistono infatti lastre da lui impressionate, una della quali rappresenta sicuramente Sauris, che potrebbero precedere la sua partecipazione alla guerra sul fronte greco albanese come essere successive alla stessa.  

Reduce di Albania e di Russia, militare in Sicilia prima di partire per l’Urss, Giuseppe Burba non voleva ricordare guerre, sofferenze e la ritirata, ed opponeva un ostinato silenzio, talvolta rotto solo da qualche frase, quando gli si chiedeva di parlare di quelle terribili giornate, del dolore, del freddo, della paura. Era stato un alpino nelle steppe e nelle terre di Valona, era stato un semplice soldato mandato a morire dal Duce in guerre di conquista, e per fortuna salvatosi. Aveva subito un congelamento ai piedi durante la ritirata, aveva perso nella stessa un fratello, era stato anche ricoverato a Rimini, ma almeno era giunto vivo a casa. Invano non solo i parenti gli chiesero un breve racconto di quelle tremende esperienze: non riusciva o non voleva rammentare quei tempi, neppure all’incontro commemorativo tantissimi anni dopo.

Sua nipote, Sara Burba, lo ricorda mentre si muoveva, nella chiesa, insensibile al disturbo arrecato ed a qualche protesta, con macchina fotografica, cavi e potente flash, spostandosi di qua e di là per ritrarre nel modo migliore, dopo aver studiato le singole inquadrature, cresimandi e comunicandi, genitori e parenti. Nevicate, architetture locali, feste, visite vescovili, processioni, carnevali, bimbi al primo giorno di scuola elementare erano altri soggetti su cui fermava il suo obiettivo.

Come per molti fotografi di paese, aveva un suo piccolo atelier con il necessario per ritrarre, ove realizzava, con la sua “macchina a soffietto”, foto in posa e formato tessera per i documenti, che poi sviluppava da solo finché utilizzò il bianco e nero. Ma veniva pure chiamato per ritrarre sposi, funerali, occasioni di vita e morte da immortalare e ricordare. Ed a livello contenutistico, il suo archivio ricorda maggiormente quello di Umberto Candoni che quello di Umberto Antonelli. Foto cronaca ed avvenimenti di grido erano però la sua peculiarità, come gli scorci di paese e le grandi nevicate, che lo accomunano a Vittorio Molinari.
Non vi era modifica al territorio del paese che egli non avesse ritratto, né manifestazione pubblica, ed aveva persino immortalato, pedissequamente, ogni nuova amministrazione comunale, il che ci fa pensare che forse avesse pure una qualche forma di collaborazione con giornaletti locali o quotidiani provinciali.
Comunque se prediligeva il paese natio, non disdegnava di immortalare anche altri luoghi e persone della sua valle: la Val Tagliamento. Per esempio le fotografie del Burba che corredano queste mie righe sono state scattate una a Mediis, due a Socchieve.

Passato dalle lastre alla pellicola in bianco e nero, aveva scelto, come strumento tecnico, una 6 X 6, una Zenza Bronica, che permetteva grandi formati. Non si sa ancora l’entità del fondo fotografico, cospicuo, e neppure se il Burba avesse optato, ad un certo punto, per la foto a colori, da mandare a sviluppare altrove, forse, come altri, al grande centro di Azzano Decimo, forse a Tolmezzo, da D’Orlando, il quale cercava di convincere gli altri fotografi carnici a rivolgersi a lui per tale servizio.
Dove aveva imparato a fotografare Giuseppe Burba? Non lo sappiamo, ma secondo la nipote forse era un autodidatta, un appassionato che aveva usato anche più macchine fotografiche affinando la tecnica, o forse aveva appreso i rudimenti dell’arte da un altro fotografo.  Sara ricorda pure che il nonno aveva degli ingranditori, indispensabili per esercitare la professione, di cui però non rammenta la marca.


Giuseppe Burba, per vivere, svolgeva però più attività: aveva il servizio taxi, aveva avuto, per un periodo, una pescheria, aveva svolto la raccolta rifiuti, e faceva trasporti con vari automezzi di sua proprietà, per esempio con un trattore. Ed aveva, sin dal secondo dopoguerra, un suo studio fotografico, locato in paese, ove vendeva suoi scorci paesani trasformati in cartoline, oltre che materiale fotografico e macchine da cucire quale rappresentante locale della Singer. Non era però Giuseppe Burba l’unico fotografo di Ampezzo, perché aveva uno studio fotografico in paese, lungo la statale, anche Livio De Monte, poi emigrato a Tolmezzo. Ma vi era, nel paese, anche un altro grande appassionato di fotografia che però non faceva di quest’ arte un mestiere per vivere, e si chiamava Natalino De Luca, del cui archivio nulla si sa.

La casa di Giuseppe Burba era all’inizio della strada per Sauris, ed era formata da più stanze, e lì aveva pure il laboratorio per lo sviluppo. Burba amava molto la fotografia e, negli ultimi anni, finché aveva potuto guidare la macchina, aveva girato con la sua Panda tutte le malghe della Carnia per fissarle in qualche scatto e poi catalogarle. Comunque il numero maggiore di scatti è databile intorno agli anni ’50-’60, secondo la nipote, ed a quel periodo pare si debba ascrivere la creazione dello studio fotografico, che Burba mantenne attivo sicuramente fino agli anni ’80. Poi continuò solo per passione a fotografare, acquistando macchine fotografiche ed un grandangolo.

Non disdegnava però neppure di utilizzare la macchina da presa, ed aveva una super8, con cui riprendeva in genere scene familiari, parentali e di interesse personale.  La cinepresa è ancora in casa Burba – ci spiega Sara- perché essa ha un valore in sé, anche affettivo e di ricordo. Inoltre, come tutti i fotografi degli anni sessanta, settanta, aveva fatto anche diapositive e vhs, seguendo l’evolversi dei tempi nel settore.

Giuseppe Burba ad Ampezzo era conosciuto, ci spiega Cristina, ed era sempre presente, con la sua macchina fotografica, dalle recite al Carnevale, e se le sue immagini potevano apparire inizialmente banali e scarsamente significative, dopo alcuni anni, esse erano assunte a segni rappresentativi di un tempo, di un’epoca, ed ora molti amano ritrovarsi nelle sue immagini. Inoltre i professionisti della fotografia fanno parte, con i loro scatti, della storia della fotografia, che fa parte, a sua volta, della cultura materiale, e quindi un archivio fotografico ha sempre un valore storico, perché il materiale che lo compone ha fissato modifiche ambientali, elementi del costume, del vestiario, del gusto e della storia della comunità paesana, eventi ed altro ancora.

Era nel garage l’archivio di Giuseppe Burba che ora ritorna alla luce, chiuso in scatoloni, e l’amore di Sara per il lavoro del nonno lo ha fatto riemergere, e lo si può notare da quanto ci narra sul tentativo di salvarlo in proprio, utilizzando un apposito scanner, ma il tempo le era mancato per portare a termine l’impresa.

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Roberto Dao ha scannerizzato alcune immagini da pellicola e ce le mostra: egli non le ha ritoccate, tranne una, un paesaggio ampezzano che risultava talmente poco nitido da richiedere un correttivo. Adriana Stroili spiega che le immagini vengono scannerizzate fedelmente, per non alterare l’originale, e quindi semmai, qualora necessitino di qualche ritocco, lo stesso viene apportato su copie.

Quindi ci informa di una convenzione esistente fra il Circolo Culturale Fotografico Carnico e i comuni carnici per la valorizzazione di immagini e fondi del luogo, firmata anche dal comune di Ampezzo. Inoltre un lavoro di questo tipo presuppone il coinvolgimento dell’Uti e di altri Enti anche a livello economico, per una borsa lavoro che sostenga nella scannerizzazione e non solo. Si parla inoltre di una futura mostra ad Ampezzo, quando la riproduzione delle immagini sarà a buon punto. E ci si lascia con questi propositi.

Naturalmente la biografia del Burba e la descrizione del suo lavoro non possono esser limitati a queste poche righe, scritte solo per incuriosire, presentare, chiedere informazioni e frutto della registrazione dell’incontro avvenuto presso il Circolo Culturale Fotografico Carnico il 12 ottobre 2017.

Le immagini del Burba qui riportate si trovano sul sito regionale: http://www.ipac.regione.fvg.it/aspx/ViewRicerchePercTemRicAppr.aspx?idsttem=6&idAmb=120&TSK=F&C1=AUFB|AUF|Foto+Burba&START=1, da cui sono tratte. Ivi l’immagine posta per presentare l’articolo è considerata come scattata ad Ampezzo ma Clori Micheletto oggi mi avvisa che è scattata a Mediis luogo confermato anche da Cristina Martinis. Clori scrive che alle spalle si vede l’osteria “Buona vite”.

Laura Matelda Puppini

 

Pace e Pacificazione: dell’ambiguità dei termini, dei concetti e dei contesti, nella lettura di fatti storici.

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Mi giunge uno strano invito dalla sezione Anpi di Paluzza, di cui non capisco il senso: esso riguarda la presentazione del libro scritto da Fabio Verardo sugli stupri cosacchi a donne in Carnia, intitolato “Offesa all’onore della donna”, ma parla pure di pacificazione. Infatti così recita: «“Offesa all’onore della donna” – dott. Fabio Verardo ricercatore “… è possibile una pacificazione? …”»

«Oddio, cosa è questa nuova?» – Penso tra me e me, mentre mi vengono alla mente: il tentativo di “pacificazione” voluto da Giovanni Miccoli a Trieste per le foibe, miseramente fallito non certo per colpa sua, e quello fra Giovanni Padoan ‘Vanni’, e don Redento Bello ‘Candido’, che dopo “lo storico abbraccio” dell’estate 2001, aveva rilasciato un’intervista a mio avviso piena di acredine contro i garibaldini e gli sloveni. (“I diritti umani li ho sempre considerati qualcosa di sacro”, intervista a don Redento Bello ‘Candido’ – Udine 22 dicembre 2003, in: Liceo Classico “San Bernardino” Tolmezzo, Voci della memoria, Gemona del Friuli, 2004, pp. 19-41).
Egli, a p. 38 così si esprime, rispondendo alla domanda: «Lei quando ha iniziato a spingere per la pacificazione con i garibaldini»?  «Subito dopo il 1965, quando ‘Vanni’ ammise le prime colpe dell’eccidio. Ma volevo che i garibaldini si facessero avanti e chiedessero perdono riconoscendo, condannando e risarcendo il più possibile l’episodio. Solo più tardi ‘Vanni’ si è reso disponibile a chiedere perdono alle famiglie e questo è un risarcimento morale della ferita. Lui ha chiesto perdono per sé stesso, comunista e marxista, unico comandante ancora in vita, e per tutti coloro che la pensano come lui».  Inoltre continua dicendo che «L’Anpi non riconosce la propria responsabilità perché nata successivamente, e non accetta la pace, ma tale scelta è ideologica». A parte il fatto che non si capisce di quali misfatti, secondo don Bello, avrebbe dovuto farsi carico l’Anpi, le immagini ed i testi di quell’estate 2001 rimandano alla pacificazione fra osovani e garibaldini, fra Apo ed Anpi, non ad una assunzione di responsabilità da parte di ‘Vanni’ per l’eccidio detto di Porzûs, (perché a questo credo di riferisse qui don ‘Candido’), e men che meno ad una richiesta di perdono per il suo esser marxista e comunista, allargata a tutti coloro che lo erano ed erano stati. E pure Federico Vincenti, presidente allora dell’Anpi di Udine, nel narrare gli incontri tra Padoan e don ‘Candido’, conclusisi con la ‘pacificazione’ così aveva descritto la finalità degli stessi: «Don Redento veniva a trovarci spesso. Lui e Vanni parlavano in continuazione per poter concordare la riconciliazione tra Apo e Anpi. Fu un processo lungo, si incontrarono molte volte. Io personalmente sono sempre stato favorevole alla pacificazione, quando ho partecipato alle cerimonie dell’Apo ho parlato e ho ricevuto anche degli applausi». (Maurizio Cescon, Don Bello e Vanni: per la pace di Porzus anni di confronto, in Messaggero Veneto, 14 febbraio 2013).

Non solo: nel contesto specifico dell’incontro paluzzano, giova ricordare che «lo stupro di guerra e la schiavitù sessuale sono oggi riconosciuti dalle convenzioni di Ginevra come crimini contro l’umanità e crimini di guerra.  Lo stupro oggi è anche affiancato al crimine di genocidio quando commesso con l’intento di distruggere, in parte o totalmente, un gruppo specifico di individui». (https://it.wikipedia.org/wiki/Stupri_di_guerra).

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Un concetto che mi viene poi alla mente, nel riflettere sulla ‘pacificazione’, è quello di ‘risentimento’, come definito dal grande Jean Amery, di famiglia ebraica, partigiano in Belgio, catturato e selvaggiamente torturato, poi finito in campi di concentramento. Dopo la liberazione, egli guarda la Germania occidentale che appare, agli occhi dei più, come un esempio di «fioritura economica, […] stabilità democratica e moderazione politica». (Jean Amery, Intellettuale ad Auschwitz, Bollati -Boringhieri. ristampa 2002, p. 112). E dice: «Non mi sento a mio agio in questo paese pacifico, bello, popolato da persone capaci e moderne. Il motivo lo si sarà già intuito: appartengo a quella specie dì uomini, fortunatamente in via di estinzione, abitualmente definita ‘vittima del nazismo’». (Ibidem).

Egli, posto davanti ad una Germania i cui caffè sono di nuovo pieni di quegli industriali che avevano sfruttato il lavoro nei lager e di ex nazisti, e ove le case e le città ricostruite, le fabbriche nuovamente attive, i balconi fioriti di gerani paiono segni per lasciare il passato alle spalle, si interroga sul ‘risentire’, come sentimento ineliminabile, ma anche come strumento per la riflessione sui valori morali, che non possono, a suo dire, andare e venire come le mode.

«Perché non dovrei avere risentimento?» – pare chiedersi. Infatti esperienze così dolorose, secondo lui, non possono esser dimenticate, ma invece devono venir rivissute per poterne trarre un insegnamento etico. Se si affrontasse il tema del ‘risentimento’ nella prospettiva della polemica politica, poi, a suo avviso «si giungerebbe, senza troppi sforzi, alla conclusione che i risentimenti sopravvivono perché, nella vita pubblica della Germania Occidentale, restano attive personalità che furono vicine ai persecutori, perché i criminali hanno buone possibilità di invecchiare rispettabilmente, e di sopravvivere, trionfanti, a chi del nazismo fu vittima». (Ivi, p. 113). E conclude: «Devo assumermi la responsabilità del mio risentimento, accettando il giudizio negativo della società», che vuole il suo superamento.  (Ibidem).

E quindi continua dicendo che, a lui, vittima, torturato, offeso, guardare serenamente ai giorni futuri riesce tanto difficile quanto ai persecutori di ieri riesce sin troppo facile. Inoltre, secondo qualche uomo ispirato, le vittime dovrebbero interiorizzare ed accettare l’antico dolore. Ma gli mancano, per farlo, la voglia, il talento, la convinzione. «Non posso, in nessun caso – afferma- accettare un parallelismo tra il mio percorso e quello degli uomini che mi punivano a nerbate. Non voglio diventare il complice dei miei torturatori. (…). Le montagne di cadaveri che mi separano da loro non possono essere spianate». (Ivi, p. 120). Ed «Il mondo che perdona e dimentica» – sempre – secondo Amery, ha già condannato le vittime, non i carnefici. (Ivi, p. 128).

Così scrive, nel merito del pensiero di Amery, Sara Ballabio: «Améry si scontra vivamente con il comune andamento della storia, quella storia che integra a poco a poco lo sterminio. Hitler e Himmler si spostano lentamente verso un passato storico, la punta lancinante dello scandalo si spezza, una coltre di normalità si stende sull’intero paesaggio della coscienza tedesca e ogni senso reale svanisce. In questo modo, […], la vera “colpa collettiva” sembra pesare paradossalmente sugli ebrei: colpa di ricordare una insostenibile enormità del male che tutti vogliono accantonare e di incarnare, quindi, l’irrazionalità del reale, che ci si sforza di addomesticare in consolanti rassicurazioni razionalistiche». (Sara Ballabio, La sconfitta dello spirito ad Auschwitz. Le riflessioni di un testimone diretto – dal libro: Intellettuale ad Auschwitz di Jean Améry, in: http://ospitiweb.indire.it/~copc0001/ebraismo/amery.htm)

Mi pare che Amery chiarisca il perché non vi possa esistere ‘pacificazione’, assumendo il ruolo di testimone del suo esser stato vittima, che implica l’attribuzione ad altro del ruolo di carnefice, non accettando, quindi, che vittima e carnefice siano posti sullo stesso piano.

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In Italia la ricerca di una ‘pacificazione’, fra cosiddetti ‘neri’ intendendo i militi delle Brigate Nere, Rsi, e X Mas, ha origini lontane e tende ad accomunare fascisti e partigiani, in una visione ideologica precisa, che confonde e non analizza, e che pare propugnata da collaborazionisti in cerca di nuova verginità, dimenticando l’asservimento ad Hitler della Repubblica di Salò ed i loro comportamenti, e cercando di portare a livello pubblico una rimozione personale di quanto fatto durante la seconda guerra mondiale. (Cfr. per esempio: Sonia Residori, Una legione in armi. La Tagliamento tra onore, fedeltà e sangue, Cierre ed. Istrevi, 2013).
Leggendo però l’articolo di Stefano Fabei, ‘Aprile ’45 la pacificazione impossibile’, in: www.storiainrete.com, sembra comunque che alla fine della seconda guerra mondiale ci fosse stata una ipotesi di accordo fra fascisti ed antifascisti per un passaggio senza spargimenti di sangue alla nuova Italia nata dalla resistenza, poi naufragato. Ma pare l’autore si dimentichi che esistevano nella penisola anche gli alleati e che il contesto non era quello di una guerra civile ma mondiale.

Inoltre sembra che le ‘pacificazioni’ vadano periodicamente di moda, per esempio nel 2008 si parlava pure di pacificazione fra franchisti e repubblicani in Spagna (AA. VV., Pacificazione e riconciliazione in Spagna, in “Storia e problemi contemporanei”, n. 47, a. 2008, pp. 109), e Gianni Conedera pubblicava nel suo ‘Dalla Resistenza a Gladio’, nel 2009, a p. 78, una immagine che ritraeva Ciro Nigris accanto ad Alois Innerhofer, nazista delle Waffen SS, scrivendo, in didascalia, che era  «foto storica di due nemici», incontratisi sull’opposto fronte ai tempi della Resistenza ed in particolare al momento dell’attacco partigiano alle forze tedesche al ponte di Noiaris di Sutrio, poi fotografati insieme senza rancore, aspetto che forse qualcuno ha letto, penso erroneamente, come l’emblema di una specie di pacificazione, non solo personale.

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Per quanto riguarda la Spagna, Marco Puppini, vice presidente dell’Aicvas nazionale, mi scrive che in Valle de los Caidos (Valle dei caduti), ad una decina di chilometri dall’Escorial, nella comunità autonoma di Madrid, vi è un enorme mausoleo, comprendente anche un’abbazia ed una basilica, sormontato da quella che è ritenuta la più grande croce mai costruita, visibile a decine di chilometri di distanza. Esso fu progettato da Francisco Franco nel 1940 e venne terminato nel 1958, per dare sepoltura a José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange spagnola, formazione dell’estrema destra simpatizzante per il fascismo, e quindi vi fu sepolto pure il ‘Caudillo’. Ma furono posti ivi anche circa 34.000 corpi, di cui 13.000 non identificati, sia di caduti dell’esercito francista (spesso trasportati nel mausoleo senza chiedere il permesso ai familiari) che repubblicano (spesso tolti dalle fosse comuni ed ovviamente anche in questo caso senza il consenso dei familiari). Il complesso funebre fu edificato, in buona parte, da prigionieri politici e comuni, che in questo modo vedevano ridotta la loro pena; spesso però essi morivano in incidenti sul lavoro.
Ma, secondo lui, una simile esaltazione di Franco, della Falange e della chiesa cattolica, non ha niente a che vedere con la riconciliazione o il rispetto per i caduti dell’altra parte.

Inoltre questo concetto di ‘pacificazione’ appare molto biblico nella sua esplicitazione, e comporta uno “stringersi la mano davanti all’altare”, in un’ottica che considera i fatti storici e l’attribuzione di responsabilità in contesti precisi alla stregua di eventi riguardanti la sfera personale, con un passaggio dall’analisi oggettiva al vissuto individuale ed emotivo, quasi ci trovassimo davanti ad un rapporto amicale o di coppia. Infine non può sfuggire la possibilità di interpretare dette ‘pacificazioni’ con un «chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdámmoce ‘o ppassato», impensabile in situazioni come quelle creatisi nel corso della seconda guerra mondiale.

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Cerco quindi il significato di ‘pace’ in ambito storico, sul notissimo vocabolario della lingua italiana Devoto – Oli, e lo trovo facilmente: «pace: situazione contraria allo stato di guerra, […] atto che sanziona la definitiva cessazione di uno stato di guerra», per es. pace di Versailles. Cerco pure ‘pacificazione’ e trovo: «ricostruzione di una situazione o di un rapporto di pace, eliminazione di motivi dichiarati di ostilità o anche di violenze e squilibri nell’ambito spirituale e sociale», ove la connotazione del termine riporta alla sfera soggettiva, e mi chiedo ancora una volta cosa significhi ora per i carnici cercare una ‘pacificazione’ con i ‘cosacchi’, senza fra l’altro saper neppure chi siano e siano stati, non popolo unito ma insieme di più gruppi, fra cui anche giorgiani, per esempio, o ‘caucasici’.
Inoltre questo sentire emozionale, di cui la ‘pacificazione politico – istituzionale’, chiamiamola così, fa parte, non necessariamente implica una condivisione di altri, un comune sentire, ed una modificazione verso l’oggettività nel modo di leggere i fatti, e quindi permane sentire soggettivo dei pochi individui istituzionalmente coinvolti nel sostenerla, e nessuna morale o indicazione per il futuro vengono tratte dal raggiungimento della stessa.

L’unica via è la ricostruzione oggettiva da parte degli storici ed anche dei giudici, dei fatti e delle responsabilità, secondo me, dimenticando piani soggettivi. Ma purtroppo in Italia, nel dopoguerra, spesso la politica e parte della società hanno utilizzato, nei riguardi degli ex-fascisti, l’ “io non vedo, non parlo e non sento” delle famose tre scimmiette, giustificandolo con una ipotesi non dimostrata e protrattasi per decenni, di una ventilata occupazione da parte del comunismo titino di territori italiani, e tenendo così in piedi più di un “fascismo”, dando linfa a personaggi discutibili come Junio Valerio Borghese, tanto per fare un esempio, facendo in modo che si confondesse il pensiero politico cattolico con quello  fascista. (Cfr. Giacomo Pacini, Le altre Gladio, Einaudi ed. 2014, e Ferdinando Imposimato, la Repubblica delle stragi impunite, Newton Compton ed., 2012). E così è andato a finire che pure i criminali di guerra non sono stati processati o consegnati al paese ove i loro crimini erano stati compiuti, come gli accordi internazionali richiedevano. (Cfr il filmato: Fascist legacy, link in: www.nonsolocarnia.info).

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E una visione distorta della storia patria, che richiama un sentire simile a quello che porta alle ‘pacificazioni’, potrebbe esser stata la motivazione per dare 300 medaglie al valore a Rsi e fascisti, in occasione della giornata del ricordo, facendo infuriare, nel 2014, l’Anpi nazionale e non solo.

«Quelle 300 medaglie concesse dai governi in carica dal 2004 ai 300 combattenti di Salò per il «Giorno del Ricordo» dedicato alle vittime delle Foibe? Un fatto «grave e inammissibile» secondo l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia). Le onorificenze sono state date applicando la legge – (la 92 del 2004 che ricorda le Foibe) – «in netto contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Per questo occorre sospendere gli effetti del provvedimento, revocare i fregi già concessi dopo aver avviato «un’indagine accurata». (…).

La vicenda è emersa dopo che si scoperto che una delle medaglie date «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» era per un bersagliere della Repubblica Sociale di Salò, il capitano Paride Mori. (…). Nell’elenco dei medagliati — circa 300: nella quasi totalità militari della Repubblica sociale di Salò — compaiono però altri nomi. Imbarazzanti assai. Soprattutto quello di un criminale di guerra sia per la giustizia italiana che quella jugoslava: ovvero il prefetto di Zara Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nella relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone. Catturato dai partigiani di Tito, venne fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Stando inoltre a carte provenienti da Belgrado, dall’«Archivio di Jugoslavia» – l’archivio di Stato della ex Jugoslavia – ci sono altri quattro criminali di guerra tra i medagliati delle foibe: si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi. Colpevoli, a seconda dei casi, di saccheggi, uccisioni a sangue freddo, torture. (…).

Le parole dell’Anpi sono tranchant: «Nessun riconoscimento – né per questa legge né per altre – può essere attribuito a chi militò per la Repubblica Sociale Italiana, in nome di una presunta pacificazione. Non c’è nulla da “pacificare”; c’è solo da rispettare la storia e la Costituzione, nata dalla Resistenza». (Alessandro Fulloni, ANPI: «togliere ai repubblichini medaglie per Legge sul Ricordo», in. Corriere della Sera, 3 aprile 2015).

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Infine come non condividere quanto diceva Guido Liguori in un’intervista a ComInform nel 1996? «C’è un’ansia di “pacificazione” che è tutta politica. Non si tiene conto dei conflitti reali che ci sono stati nel nostro passato. Si calpesta la storia, la si falsa. (…). La storia, certo, non deve rimanere rinchiusa nelle accademie. Ma neanche va tirata come un lenzuolo per esigenze politiche o, peggio, giudiziarie. Le giovani generazioni, di fronte a questo uso disinvolto, finiscono per non avere le idee chiare; giunge loro un messaggio confuso, strumentale, che non aiuta a conoscere i fatti». (http://www.sitocomunista.it/resistenza/foibe/storiografia.html).

Pertanto, alla luce di queste considerazioni, a Paluzza cosa si voleva fare, come, fra l’altro, sezione locale Anpi? Chiediamocelo. Secondo me una ‘pacificazione’ per crimini di guerra compiuti nella seconda guerra mondiale presupponeva anche in Italia che, subito dopo la fine del conflitto, si chiarisse chi fu la vittima e chi fu il carnefice, e che i carnefici venissero puniti, ma ciò non accadde qui perché invece, per vari motivi di carattere squisitamente politico, si confusero le acque spostando l’attenzione sugli sloveni ritenuti solo ed unicamente possibili invasori comunisti, e sui comunisti, fino a giungere a confondere i contesti dei fatti bellici, dimenticando che i partigiani sloveni combatterono contro il nazifascismo, e facendo passare, tra un distinguo e l’altro, in particolare con il cosiddetto revisionismo storico, i fascisti, collaborazionisti, che si macchiarono pure di orrendi delitti, come eroi della patria. (Cfr. Giacomo Pacini, Ferdinando Imposimato, Sonia Residori, Alessandro Fulloni, opere citate). E se erro correggetemi.

Senza voler offendere alcuno, ma per chiarire in modo documentato il mio pensiero, ed aprire un dibattito su questi temi.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda questo articolo è tratta da: http://slideplayer.it/slide/188665/ e ricorda la Conferenza di San Francisco. Secondo quanto concordato a Yalta, l’amministrazione Usa invitò 50 Paesi a San Francisco. La Conferenza iniziò i lavori il 25 aprile 1945. Durante la stessa si decise che i principi guida stabiliti in precedenza dalle grandi potenze non sarebbero stati rinegoziabili. Il testo adottato nella sessione finale, il 26 giugno 1945, fu sottoposto a ratifica negli stati firmatari e la Carta entrò in vigore il 24 ottobre 1945, giorno in cui nacque l’Onu, che sostituì la Società delle Nazioni. (https://www.tesionline.it/v2/appunto-sub.jsp?p=6&id=829 e https://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_delle_Nazioni_Unite). Se però detta creazione sancì dei principi unificatori, essa originò anche un blocco verso l’Urss, prima alleata ad Usa ed Inghilterra nella lotta ad Hitler, di fatto ricreando una situazione di belligeranza. Laura Matelda Puppini 

Felice Carlo Besostri, avvocato di tante battaglie contro le leggi elettorali che tolgono potere ai cittadini, sarà Fvg il 14 e 15 novembre 2017 per due incontri pubblici.

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Per due giorni, il 14 ed il 15 novembre 2017, Felice Carlo Besostri, Avvocato costituzionalista del foro di Milano, coordinatore avvocati anti-italicum, sarà in regione per continuare la battaglia contro le leggi elettorali che tolgono ai cittadini la capacità di eleggere i propri rappresentanti.

Felice Carlo Besostri,  giurista esperto di pubbliche amministrazioni, diritti umani e protezione delle lingue regionali e minoritarie, è stato senatore e componente delle Assemblee parlamentari del Consiglio d’Europa, dell’Unione dell’Europa Occidentale e della Iniziativa Centroeuropea, e, guidando un gruppo di avvocati, è riuscito a far decadere il Porcellum e l’Italicum facendoli giudicare dalla Corte Costituzionale, che le ha dichiarate illegittime. Ora ha chiesto alla Corte di esaminare anche il Rosatellum e la Corte comincerà a farlo il 12 dicembre. Ma intanto già mercoledì 15 Besostri sarà al tribunale di Trieste, per un’udienza relativa a uno dei tanti ricorsi sollevati con lo scopo di riuscire a evitarci di eleggere, per la quarta volta, un Parlamento con un voto incostituzionale.

INVITO PERTANTO TUTTI A PARTECIPARE AD UNO DEI DUE INCONTRI  PUBBLICI PREVISTI PER SPIEGARE I RILIEVI DI INCOSTITUZIONALITÀ RISCONTRATI NELLA LEGGE ELETTORALE APPENA APPROVATA CON UNA SERIE DI VOTI DI FIDUCIA SIA ALLA CAMERA, SIA AL SENATO

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IL PRIMO INCONTRO, ORGANIZZATO DA LIBERTÀ E GIUSTIZIA E DAL COORDINAMENTO PER LA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE

CON TEMA: “ANCORA UNA LEGGE ELETTORALE INCOSTITUZIONALE?”

SI TERRÀ MARTEDÌ 14, ALLE 20.30,

NELLA SALA FERUGLIO DEL COMUNE DI TAVAGNACCO, A FELETTO UMBERTO, IN PIAZZA INDIPENDENZA 1.

Oltre all’avvocato Felice Carlo Besostri, parleranno l’onorevole Serena Pellegrino di Sinistra Italiana, il professor Marco Cucchini di Articolo 1 – MDP. Modera: Gianpaolo Carbonetto del Comitato Friuli per la Democrazia Costituzionale.

 

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IL SECONDO INCONTRO SI TERRÀ A TRIESTE, MERCOLEDÌ 15, ALLE 17.30,

NELL’AULA GRANDE DELL’UNIVERSITÀ CUSANO, IN VIA FABIO SEVERO 14,

E PREVEDE L’INTERVISTA PUBBLICA A FELICE CARLO BESOSTRI

da parte di Diego D’Amelio, storico, e cronista politico de “Il Piccolo”,

e di Biagio Mannino, politologo, giornalista freelance e blogger.

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Coordinamento per la Democrazia Costituzionale del Friuli – Venezia Giulia.

Testo inserito da Laura Matelda Puppini.

 

 


Giochi di guerra con ‘elmo e fucile’ a Forni Avoltri per i ragazzi del comune. Quale educazione stiamo dando ai nostri giovani? E due considerazioni sul progetto Movimento in 3 S.

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Mi giungono da Franceschino Barazzutti l’articolo di Gino Grillo: Basta videogames, i giovani vanno a giocare alla guerra, in: Messaggero Veneto 1 novembre 2017, ed un suo commento che totalmente condivido. Inoltre mi chiedo il perché di questa scelta da parte dell’Amministrazione comunale di Forni Avoltri, guidata dalla docente alle scuole superiori dott. Clara Vidale, e se ad essa competano scelte fortemente educativo- formative di questo tipo. Pare che detta attività sia stata tenacemente voluta da Patrizia Gaier, assessore con licenza di scuola media superiore, e mi domando se non sarebbe stato il caso di chiedere almeno la consulenza a qualche pedagogista, prima di avviare ragazzi ‘all’elmo ed al moschetto’, si fa per dire, e neppure tanto. I danni a livello educativo si pagano, e questa attività presuppone che a Forni Avoltri tutti i giovani utilizzino video games solo per giochi di guerra, non per altro. Inoltre una cosa è giocare ad un videogame, altra cosa è vivere il gioco in prima persona imbracciando un fucile ad aria compressa, che non è indolore se colpisce, (cfr. per esempio: http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/10/27/news/milano_ventenne_spara_dalla_finestra_con_un_fucile_ad_aria_compressa_e_ferisce_una_ragazza-99117492/e https://www.ilgazzettino.it/nordest/pordenone/pordenone_zoppola_carabina_ferito_vicino_casa-362057.html) e che può comportare l’identificazione nel soldato, aspetto di mussoliniana memoria. E poi ci meravigliamo se …

L ‘articolo in questione è il seguente.
«Gino Grillo: Basta videogames, i giovani vanno a giocare alla guerra, in Messaggero Veneto 1 novembre 2017.  Sottotitolo: La proposta del Comune di Forni Avoltri per riportare i ragazzi all’aria aperta. Solo due famiglie contrarie su 22, coinvolti anche alpini e una società sportiva.

[…]. Giochi di guerra per aggregare la gioventù. È l’insolita proposta del Comune di Forni Avoltri che ha coinvolto i “suoi” ragazzi e le ragazze dai 14 ai 17 anni – studenti che frequentano diversi istituti superiori della provincia, ma tutti residenti in paese – in una “partita” di soft-air (attività ludico/sportiva basata su tecniche, tattiche e usi militari che prevede l’utilizzo di armi ad aria compressa) denominata “For Teen Softair Day”, nome creato giocando sull’assonanza di “fourteen” (14 in inglese) e “For”, Forni in carnico.
Sabato scorso il Comune ha dato l’avvio a un progetto di aggregazione rivolto ai propri adolescenti, organizzando assieme all’associazione sportiva Falchi della Carnia di Zuglio (la cui attività si concentra appunto nella pratica del soft-air) una giornata all’insegna della simulazione di guerra immersi nella natura.
L’assessore alle politiche giovanili, Patrizia Gaier, ha spiegato il perchè dell’iniziativa. «Sedici fra ragazzi e ragazze, di età compresa tra i 14 e i 17 anni, sono stati ricevuti dagli alpini di Zuglio che li hanno calorosamente accolti nella loro sede, per poi recarsi tutti insieme sul campo da gioco dei Falchi della Carnia e cimentarsi in un mini-torneo di softair. I giovani sono rientrati a casa stanchi, ma contenti per questa nuova avventura che li ha visti cimentarsi in quella che può comunque essere considerata una pratica sportiva all’aria aperta, coinvolti in un gioco di squadra e di collaborazione per salvare la terra da un terribile virus, disinnescare falsi missili e salvare un ponte strategico».

L’idea, certamente insolita, era quella di distogliere i giovani dall’inedia o dai pomeriggi trascorsi davanti alla televisione, ai videogiochi e al computer per riportarli alla natura. «Ne abbiamo discusso in municipio, poi – prosegue Gaier – abbiamo parlato con alcuni ragazzi, che ci hanno proposto il soft-air».
Ne è seguito un approfondimento, da parte dell’amministrazione comunale, sul tipo di attività proposta, giungendo alla conclusione che «più che un gioco di guerra, il soft-air è un’attività ludico-sportiva che in più insegna a rispettare le regole. Oltre al gioco di squadra, la partita ha portato i ragazzi a contatto con la natura, insegnandone il rispetto e la tutela. I Falchi della Carnia hanno stilato, pena l’uscita dal gioco, un elenco di regole imprescindibili tra cui, oltre a quelle di gioco, erano enumerati il rispetto dell’area di gioco e degli animali e il divieto di abbandono dei rifiuti».
L’assessore commenta che su 22 ragazzi compresi in quell’età, ben 16 vi hanno preso parte, con l’assenso dei genitori, alcuni dei quali hanno anche manifestato l’interesse e la volontà di accompagnare fattivamente i loro figli in questo gioco. Fra quanti non hanno ritenuto di prendere parte alla giornata solo due alunni, i cui genitori hanno dichiarato di non apprezzare questa tipologia di attività. Gli altri assenti, invece, non hanno partecipato perché malati o impegnati in appuntamenti sportivi precedentemente assunti.
L’assessore Gaier, dopo aver fugato «i dubbi di quanti, a mio avviso sbagliando, pensavano si trattasse di un gioco violento. Nulla di più falso: molti videogiochi, seppure virtualmente, sono molto crudi e violenti: aggettivi che proprio non trovano collocazione in questo gioco-sport», considerato l’esito positivo espresso dai ragazzi e dai genitori, sta già pensando di far diventare il “For Teen Softair Day” un appuntamento fisso per gli adolescenti di Forni Avoltri».

Questo il commento del dott. Franceschino Barazzutti, già docente di scuola media e sindaco di Cavazzo Carnico:

La lettura dell’ampio articolo e le relative eloquenti  fotografie  sull’iniziativa del Comune di Forni Avoltri  di organizzare per i giovani  di età compresa tra i 14 ed i 17 anni degli “war games” (giochi di guerra) con “l’utilizzo di armi ad aria compressa”  per distoglierli dal telefonino, dai videogames e portarli all’aria aperta  mi ha indotto, lì per lì, a pensare se in tutto il bellissimo territorio di quel comune non ci siano boschi da visitare, studiare, mantenere, se non ci siano percorsi, sentieri di fondovalle, di mezza costa, in quota da percorrere  e da conservare, se non ci siano malghe dove vedere ed imparare interessanti aspetti del lavoro e della cultura montanara, se non ci siano corsi d’acqua da studiare sotto vari aspetti e da curare, se non ci siano impianti sportivi e una palestra in cui svolgere una salutare attività sportiva,  se non ci sia una sala cinema-teatro,  se non ci sia una biblioteca per buone letture,  se non ci sia una chiesa, se non ci sia una scuola. Potrei continuare ma mi fermo qui

Poi, passato il lì per lì, ricorro alla mia memoria: tutto quanto sopra elencato a Forni Avoltri esiste, eccome, quanto basta ed avanza!

Allora gli amministratori comunali di Forni Avoltri, anziché importare “novità” che nulla hanno a che vedere con la nostra cultura, guerresche e quindi diseducative, s’impegnino invece a che la gioventù esca dai videogames frequentando le strutture ed impianti esistenti a Forni Avoltri. Forse è il caso che li frequentino anche gli amministratori comunali e che si occupino di qualcosa di più serio per fermare il continuo declino della nostra montagna.

 In un mondo già segnato da uno sfrenato individualismo dobbiamo saper educare i nostri ragazzi non a mettersi l’uno contro l’altro, ma l’uno accanto all’altro. Dobbiamo insegnare loro non ad essere antagonisti ma a collaborare, perché solo mettendo in comune le proprie capacità ed unendo le loro forze saranno in grado di affrontare le terribili sfide che li aspettano nel mondo di domani.

Mandare in giro un ragazzo con uno strano elmo-maschera ed un’arma spianata (ad aria compressa, scrive il giornale), come quello della foto riportata sul Messaggero Veneto è totalmente diseducativo: è l’esaltazione della forza anziché della ragione, di qualcosa che purtroppo abbiamo già visto e vediamo in altre parti del mondo e che non vogliamo più vedere, anche perché toccherebbe proprio ai nostri ragazzi di pagarne il prezzo.     

Franceschino Barazzutti, già docente scuola media e sindaco di Cavazzo Carnico.

Come non condividere che i ragazzi dovrebbero essere educati non a spararsi l’un l’altro con un fucile ad aria compressa, pericoloso e che non garantisce la sicurezza e l’incolumità, ma a stare uno accanto all’altro?

Ed io, da psicopedagogista ed insegnante anche di educazione fisica alle elementari quale sono stata, avrei qualcosa da dire, ma principalmente per l’adeguatezza fisica ed il clima competitivo proprio dello sport, anche sul progetto Movimento in 3 S, che implica di proporre per esempio tiro con l’arco alle elementari, (sport che sviluppa alcuni muscoli principalmente) senza far vivere il movimento come gioco, anche comune, come sviluppo di armonia e di coordinazione, ricercandone le potenzialità come anche la Grecia voleva. Ma questa è altra storia.  (Articolo di riferimento: Stop a sedentarietà e obesità Studenti a lezione di salute, in Messaggero Veneto, 22 ottobre 2017). Mi ero subito precipitata a leggere l’articolo sul Messaggero Veneto, sperando in qualcosa di meglio di un generico avviamento a sport specifico sino dalle elementari, magari per enucleare i possibili campioncini di turno, quando si dovrebbe ancora giocare a  ‘L’orologio fa tic tac’, ed ai vari giochi motori a cui la pedagogia, la psicologia  ed anche la tradizione ci rimandano.  Infatti una cosa è l’educazione al corpo ed al movimento e quindi l’educazione fisica, altro l’avviamento allo sport; una cosa è il gioco altra cosa è la competizione pura che si vede sempre più come unico elemento caratterizzante la pratica sportiva.

Senza voler offendere alcuno.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna queste riflessioni mie e di Franceschino Barazzutti  è quella che correda l’articolo citato di Gino Grillo ed è tratta dal Messaggero Veneto, solo per questo uso. Laura Matelda Puppini 

San Martino di Tours.

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Ho già pubblicato su San Martino i dotti saggi del prof. Alessio Peršič, ed ora vorrei ritornare su questa figura per altri approfondimenti. Dopo aver cercato qualche notizia su internet, ho trovato alcune note interessanti su San Martino di Tours sul sito francese a lui dedicato: https://saint-martindetours.com/saint-martin/, che rimanda a: http://www.saintmartindetours.eu/.

L’articolo mi pare di spessore perché tende a distinguere le note storiche sul Santo dalla descrizione agiografica dello stesso. E così si legge nel merito:

«San Martino di Tours, personaggio storico, si lascia difficilmente percepire dietro la mole di testi prodotta sulla sua figura nel corso dei secoli. Il punto di partenza, per ciò che sappiamo sulla sua vita, si trova nell’opera di Sulpicio Severo, uomo di legge, noto avvocato e letterato di Bordeaux, appartenente, per nascita, all’aristocrazia gallo-romana e formatosi, indirettamente, alla scuola di Ausonio.

Sulpicio Severo era nato circa nel 360 dopo Cristo, ed entrò in rapporto con altri grandi letterati del suo tempo come Paolino, anche lui originario di Bordeaux, divenuto poi vescovo di Nola in Campania, o come san Girolamo, il noto traduttore della Bibbia dall’ebraico in latino.
Sulpicio Severo fu attratto dall’ascetismo cristiano, rifiutando di considerare il cristianesimo solo come una novità nell’impero romano. Egli quindi cercò di studiare e vivere il Vangelo sposando un modello di vita cristiano austero, privo di onori, di incarichi ufficiali e dei loro impegni, e prendendo seriamente l’appello a seguire Cristo nella meditazione e nella preghiera.
E con questo spirito egli iniziò a parlare di Martino, vescovo di Tours, seguendo l’invito fattogli dall’amico Paolino. Per svolgere questo compito, Sulpicio decise di recarsi a Tours, per conoscere meglio il vescovo taumaturgo, cioè che compiva miracoli.
Sulpicio incontrò più volte Martino dal 395 al 396, e di ciò si ha certezza. Quindi sulla base di quanto appreso in quegli incontri, scrisse una Vita del vescovo di Tours che appare, da come egli lo rappresenta, personaggio straordinario. Sulpicio poi completerà il suo racconto con delle lettere in cui insite in modo particolare proprio sulla morte di Martino, avvenuta nel 397 e sui funerali eccezionali che gli furono tributati.

Sulpicio, letterato, nello stendere la vita di Martino, sottolineò, nel prologo, i limiti dell’opera: seguendo una norma della retorica, precisa che si ritiene indegno e incompetente per redigere un’opera di tale spessore, ma che si è dedicato a tale impegno solo perché glielo ha chiesto un amico.

Questo aspetto fa comprendere come Sulpicio Severo abbia voluto deliberatamente scrivere la vita di Martino come quella di un santo, come fu immediatamente riconosciuto, sin dalla fine del quarto secolo, pur non essendo egli morto martire sotto una delle tante persecuzioni, ma avendo vissuto a lungo ed essendo morto di vecchiaia.

Sulpicio Severo però non ci ha fornito date certe per inquadrare meglio, storicamente, la vita del vescovo di Tours, ma dal suo racconto possiamo derivare alcune concordanze, che ci permettono di datare alcuni eventi. Martino era un soldato ed abbandonò il servizio militare durante una campagna condotta dall’imperatore  Giuliano sul Reno, databile nel 356, quindi, da Vescovo di Tours, incontrò a Treviri l’imperatore Valentino I, sicuramente intorno al 372-373, poiché non può esser diversamente, e, successivamente, incontrò pure Massimo imperatore, intorno al 384-385, per parlare di Priscilliano, (d’Avila, vescovo spagnolo fondatore del movimento eretico detto priscillianesimo, che fu consegnato, assieme ad alcuni suoi seguaci,  dalla chiesa cattolica al potere civile e da questo giustiziato a Treviri nel 385 – https://it.wikipedia.org/wiki/Priscilliano n.d.r). 

Inoltre sappiamo che Martino era nato in Pannonia, che si era quindi spostato a Pavia, che aveva avuto la visione di Cristo ad Amiens, dopo aver diviso il suo mantello con un mendicante, che era diventato, ad un certo punto, un discepolo di Ilario di Poitiers, impegnandosi poi nella lotta all’arianesimo.  Infine egli fu un iniziatore del monachesimo a Milano, spostandosi poi sull’isola di Gallinara in Liguria, quindi a Ligugé ed infine a Marmoutier, dove Sulpicio Severo lo incontrò alla fine della sua vita. Ma la data di morte di Martino non è certa, essendo stata riportata solo da Gregorio di Tours due secoli più tardi.

Dopo aver steso una prima biografia del Santo, Sulpicio Severo, qualche anno dopo, la arricchì di nuovi racconti riguardanti miracoli compiuti da Martino, che egli paragonava ad un eroe della Cristianità, nel corso dei suoi numerosi spostamenti, e che non aveva avuto la possibilità di inserire nella stesura della precedente biografia. Non esistono altre biografie di Martino, e quindi possiamo conoscere la sua storia solamente nella versione dataci da Sulpicio Severo e come da lui ‘filtrata’».  (https://saint-martindetours.com/saint-martin/- Traduzione dal francese di Laura Matelda Puppini. Permesso alla pubblicazione dato l’11 novembre 2017, via email, da Antoine Selosse, Direttore del ‘Centre Culturel Européen Saint Martin de Tours’ che detiene i diritti di pubblicazione sul testo. Sito: www.saintmartindetours.eu).

Le note biografiche su San Martino sono quindi scarne, mentre quelle relative ai suoi miracoli ed alle meraviglie che su di lui si narravano risultano maggiori, ma il vagliare quanto sia realmente accaduto o meno e quindi analizzare le fonti, conoscendo l’approccio metodologico specifico, è compito dello storico.

E l’autore od autrice di questo testo, non firmato, fa alcune considerazioni non di poco conto.

La prima è che Martino fu proclamato santo non perché martire, non quindi per aver sparso il suo sangue per Cristo, come precedentemente accadeva, ma per aver eccelso nelle virtù cristiane, tanto da esser conosciuto come taumaturgo, persona in grado di fare miracoli. (cfr. nel merito Peter Brawn, Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, Einaudi ed., 2002).

Inoltre il suo essere persona eccezionale è pure dimostrato dal fatto che egli aveva visto Cristo, e la visione era considerata accesso privilegiato alla rivelazione. Non si può poi dimenticare un fatto importante: Martino era stato discepolo di Ilario vescovo di Poitiers, esiliato in Frigia per non aver voluto aderire all’arianesimo, aspetto da cui certamente poteva esser derivato l’impegno che pose nella lotta di questa eresia.

Inoltre il culto del vescovo di Tours si diffuse ampiamente in Europa ai tempi di Carlo Magno, che sottomise i Sassoni con la fame, le devastazioni, il ferro ed il fuoco, ed imponendo con la forza il Cristianesimo. (Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Magno). Martino, famoso in terra di Francia, era stato un soldato, e ciò può aver dato adito alla diffusione del culto del Santo, vescovo di Tours, in Europa come simbolo del ‘Cristianesimo militare’, portata avanti dalle truppe di Carlo Magno al di là del Reno. «Come tutti i re dei Franchi che lo precedettero, Carlo vide in Martino il difensore per eccellenza del suo Regno e si recò sicuramente in pellegrinaggio a Tours». (Bruno Judic, Saint Martin et l’Europe, in: https://drive.google.com/file/d/0B323qG2ba924M3k0RThIVWRSUlE/view).

La festa di San Martino ricorre l’11 novembre, giorno in cui scadevano i contratti agricoli, ed era giorno di mercati e fiere, ed in cui prendevano forma tradizioni di diverso tipo. (https://it.wikipedia.org/wiki/11_novembre).

Comunque su San Martino, oltre ai due contributi di Alessio Peršič pubblicati su www.nonsolocarnia.info, si consiglia la lettura di Jacques Fontaine, Alle fonti della agiografia europea: storia e leggenda nella vita di san Martino di Tours, Rivista di Storia e Letteratura Religiosa 2, 1966. Inoltre in lingua francese esiste una bibliografia notevole relativa a San Martino, che è leggibile in: http://saint-martindetours.com/bibliographie/.

Si ringrazia sentitamente Remo Cacitti, docente di storia del cristianesimo, per le informazioni datemi velocemente al telefono su alcuni aspetti.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo ritrae il gruppo scultoreo in legno di Domenico Mioni detto Domenico da Tolmezzo: San Martino che dona parte del mantello al povero, che si trova nel Museo della Pieve di Gorto ad Ovaro. (Udine) – Carnia. La scheda dell’opera è reperibile in: http://www.ipac.regione.fvg.it/aspx/ViewProspIntermedia.aspx?idScheda=5950&tsk=OA&tp=vRA&idAmb=120&idsttem=2&idTem=115. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

Medicina subita.

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La riforma della sanità in Italia, con i suoi problemi è attualmente al centro di prese di posizione partitiche, di adesioni, polemiche, dictat, imposizioni che trovano ampio spazio sulla stampa e sugli organi di informazione, dimenticando che l’oggetto della sanità è la salute, e che la salute è legata concettualmente e praticamente, alla malattia, alla origine della stessa ed alla sua cura.

E diagnosi e cura non possono appartenere alla sfera tanto cara ai politici del un po’ sì ed un po’ no, e delle opinions, e la diagnosi deve essere scritta, anche da parte del medico di base, che dovrebbe tenere una scheda per ogni paziente. Inoltre a me pare che alcuni medici magari pensino di operare in scienza e coscienza, ma la scienza non vada oltre un certo limite, essendo tra l’altro ormai l’informazione medica inquinata dal mercato, dalla propaganda, dalle manie, dalle imposizioni e dai proibizionismi accesi.

Non da ultimo, sempre più l’agire di alcuni medici pare ruotare intorno all’incomunicabilità ed alla discutibile conoscenza, e si muove tra clichè, mode, tabù. E penso tristemente a quando ad ogni donna in menopausa veniva diagnosticata, con strani balzelli, una cistite interstiziale che non presuppone uso di antibiotico, togliendo dall’emisfero diagnostico vaginiti ed uretriti batteriche oltre ivu e cistopieliti!!!!  E cosa potrebbe accadere se infermieri, con tre anni di conoscenze, fossero parificati ai medici? Inoltre diagnosi errate possono passare da uno all’altro, creando una filiera di errori senza fine, per terminare, poi, magari in un cul de sac. E si può giungere sino a negare l’ovvio, come quando ci si accaniva a voler risolvere il problema del rapporto fra cieli e terra, ponendo questa al centro dell’universo, anche dopo che le immagini del canocchiale andavano dicendo altro. Ma vorrei ora passare ad alcune considerazioni di carattere generale che riguardano le fissità ed i tabù, trattando di un problema non tanto poi banale: le infezioni urinarie in particolare nell’anziano.

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I medici di base sanno benissimo che le infezioni urinarie recidivanti nell’anziano, in particolare allettato o in carrozzella, e quindi in situazione predisponente anche a causa dell’uso del pannolone, sono una realtà, ma si comportano in modo diverso, sino a negare i sintomi, seguendo magari opinioni diffuse, e sposando il concetto di batteriuria asintomatica, anche quando vi è presenza di sangue nelle urine, quasi questo non fosse un sintomo degno di approfondimento anche sul versante infettivo, e sottovalutando quanto può emergere da un esame delle urine.

Tra le ‘fissità’ mediche nello specifico brilla, secondo me, quella che vuole ogni infezione delle vie urinarie essere prevenibile, non si sa perché solo nelle femmine, acidificando l’urina, senza pensare che il buon Dio ha dato un ph nella norma per qualche motivo, e facendo fare affari d’oro ai venditori di mirtillo rosso.
Ora da che si sa, acidificare l’urina con mirtillo rosso potrebbe prevenire solo cistiti da escherichia coli. Infatti, come si legge in: http://www.nutrizionista-ancona.it/mirtillo-rosso-e-infezioni-alla-vescica/: «Circa 30 anni fa è stato dimostrato che se si mette del succo di mirtillo rosso in una provetta con E. Coli, questi non è più in grado di attaccarsi. (…). Studi successivi hanno dimostrato che la capacità adesiva di E. Coli nell’urina di un soggetto che beve succo di mirtillo è molto minore di quella di un soggetto che beve solo acqua. La capacità adesiva del batterio diminuisce alcune ore dopo l’ingestione del succo, e resta molto bassa per tutta la giornata».
Quindi è stata dimostrata solo la minor capacità di un particolare batterio di aderire alla parete non che qualsiasi patogeno vescicale non sia in grado di agire se una persona assume mirtillo rosso. Pertanto il suo utilizzo potrebbe esser consigliato qualora si sappia che il soggetto soffre di infezioni recidivanti da escherichia coli, e dopo aver curato l’infezione stessa, ben sapendo che, comunque, l’infezione potrebbe ripresentarsi. Inoltre anche acidificare ad oltranza l’urina, in funzione preventiva, non è buona cosa, e potrebbe comportare irritazioni al sistema urinario, tanto che in certe forme irritative della vescica viene sconsigliata l’assunzione di alimenti acidi od acidificanti, mentre il mirtillo rosso tra l’altro, se usato per lunghi periodi, può generare osteoporosi, ipercistinuria, calcoli renali. (http://www.my-personaltrainer.it/alimentazione/acidificare-le-urine.html).  Ed in ogni caso il mirtillo rosso non è un antibatterico.

Escherichia coli, poi, è battere che vive normalmente nell’intestino, e che può provocare infezioni addominali anche mortali, e sulle quali il mirtillo rosso non agisce in modo alcuno. Nel lontano 2011 una epidemia di infezioni intestinali, poi diagnosticate come causate da escherichia coli, colpì la Germania, coinvolgendo migliaia di persone e provocando 53 vittime. La causa fu attribuita all’ingestione di germi di grano contaminati, ma – accusa la rivista Nature –  dopo un anno dalla spaventosa epidemia si poteva notare la lentezza europea nell’adottare le adeguate contromisure che al tempo erano state proposte e sollecitate. «Tutto, nell’indifferenza generale, è rimasto come prima, sia per quanto riguarda la riforma dei sistemi di contenimento delle epidemie, sia, soprattutto, per quanto riguarda le misure di prevenzione» e nel 2012 i paesi membri dell’UE stavano ancora discutendo il da farsi, e pensando a come intervenire anche sulle carni, essendo pure le stesse possibile veicolo infettivo. (Giordano Masini, Morti della morte sbagliata. Escherichia coli un anno dopo, in: La valle del Siele, 1 giugno 2012). Che l’acqua e i cibi contaminati siano il grande veicolo di infezioni non è una novità e fa parte del sapere antico, ma nessuno vuol parlare dell’inquinamento ambientale, e si preferisce, magari, far bere mirtillo a gogò. Inoltre coloro che hanno propinato in scuole ospedali e caserme carne guasta avrebbero dovuto esser condannati subito all’ergastolo, come coloro che inquinano facendo ammalare. (Cfr. http://www.ansa.it/toscana/notizie/2017/11/08/carne-avariata-in-mense-scuole-ospedali-e-caserme-arresti_43551f68-1d35-482a-8d46-6c96de466eb8.html).

Il proliferare di germi nel basso apparato urinario, nei genitali e nel colon, poi, potrebbe esser anche favorito dal lavoro sedentario protrattosi per molte ore al giorno, con stasi e ristagni di urine, sperma e feci, ma cosa vuoi che sia, basta adottare la settimana corta che fa risparmiare l’economia. E lo stare fermi certamente permette il formarsi di infezioni urinarie ed al pavimento pelvico non solo in coloro che sono in carrozzella e che sono allettati. Ma in ogni caso prima di trattarle a gogò con mirtillo rosso, credo che debba venir fatta una analisi precisa del o dei germi infettanti e della loro quantità, onde intervenire in modo adeguato non trascurando sintomi come sangue in urina, che mai dovrebbe essere presente, e che non si sa quale genio abbia detto essere normale.

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Altra fissità di alcuni rappresentanti della classe medica, anche specialistica, nel trattare infezioni urinarie, è la presenza di nitriti in urine. A parte il fatto che la possibilità di trasformazione dei nitrati in nitriti potrebbe dipendere anche dalla quantità dei primi assunti con l’alimentazione, i nitriti sono rilevabili solo in urina concentrata. Inoltre non tutti i germi ma solo escherichia coli ed alcuni altri di origine intestinale producono positività ai nitriti, ma non: Staphylococcus, Streptococcus, Haemophilus. E «Il test dei nitriti nell’urina è più accurato se eseguito sulle prime urine del mattino, che hanno sostato a lungo in vescica dando il tempo a eventuali batteri di metabolizzare i nitrati. La negatività del test non esclude comunque un’infezione, dato che alcuni germi non hanno la capacità di ridurre i nitrati a nitriti». (http://www.my-personaltrainer.it/salute/nitriti-urine.html).
Ed ancora. «I batteri hanno bisogno di stazionare in vescica almeno 4 ore, per riuscire a compiere la trasformazione dei nitrati in nitriti, falsi negativi possono avvenire per la presenza di vitamina C o urobilinogeno, falsi positivi possono essere dati dalla presenza in urina di pigmenti o di alcuni farmaci. (https://cistite.info/esami-diagnostici/valori-dell-esame-chimico-delle-urine.html).
In sintesi la possibilità di utilizzare la trasformazione dei nitrati come fattore diagnostico di infezione, presuppone alcune condizioni e la positività al test implica solo la prescrizione di ulteriori approfondimenti diagnostici. Un dato importante invece, indicativo di ivu, è quello della presenza di leucociti in urina. (http://www.my-personaltrainer.it/salute/nitriti-urine.html).
Infine, come tutti sanno «Nelle urine di un individuo sano non ci sono né batteri, né parassiti e neppure lieviti» (Ivi) mentre la presenza di cellule squamose potrebbe indicare impurità nel campione, e quindi implica il ripetere l’esame, non certo l’evitarlo, e l’incidenza sull’esame urine dell’assunzione di diuretici dovrebbe esser tenuta nella giusta considerazione. (Ivi).

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Per quanto riguarda la presenza di sangue nelle urine, vorrei sempre sottolineare come non debba esistere. «Il sangue è una sostanza normalmente estranea alla composizione delle urine». (http://www.my-personaltrainer.it/salute/sangue-urine.html). «Si definisce ematuria la presenza di sangue nelle urine. Il sangue può essere visto […] a occhio nudo o al microscopio, sotto forma di globuli rossi. La presenza di tracce di sangue nelle urine indica che c’è una fonte di emorragia nell’ambito del tratto urogenitale: nei reni, nei condotti che trasportano l’urina dai reni alla vescica (ureteri), nella prostata (negli uomini), nella vescica o nel condotto che trasporta l’urina all’esterno (l’uretra)». (http://www.studiourologicogallo.it/sangue_urina). Pertanto non è mai senza causa, e se uno pensa venga dall’esterno bisogna dimostrarlo e disinfettare i genitali, se uno pensa sia indice di altro bisogna sottoporre il soggetto ad ulteriori indagini, ma non sempre ciò avviene.  (http://www3.varesenews.it/salute/scheda.php?id=1255). Se il paziente è un grande anziano, il medico può fare una serie di valutazioni curative, ma non esimersi dal diagnosticare o fare accertamenti, lasciando il soggetto nelle mani di Dio.

Le cause più comuni di ematuria sono: iperplasia prostatica benigna (IPB) specie negli uomini oltre i 40 anni, calcolosi vescicale e renale, malattie del rene, farmaci, traumi, tumori, infezioni, ostruzioni dell’apparato urinario, (http://www3.varesenews.it/salute/scheda.php?id=1255) e dovrebbe portare immediatamente in un ambulatorio medico e semmai dallo specialista.
 Esistono poi altre patologie che potrebbero provocare ematuria, quali l’anemia falciforme, il lupus eritematosus sistemico, la sindrome di von Hippel-Landau. (Ivi). Invece talvolta si lascia perdere. Ma capisco anche che il buon senso medico, che voleva giustamente la presenza di sangue nelle urine assieme a batteri, anche fecali, come un segno di ivu, si trovi in grave crisi dovendo applicare le linee guida per la cura delle stesse date dalla Regione Fvg, praticamente a me incomprensibili. E almeno un tempo esisteva il discutibile e parzialmente tossico blu di metilene, o il medico in presenza di ivu recidivante in anziani dava una bustina di Monuril. Ma ora …

Così può darsi che, messi in difficoltà da super esperti che trattano magari solo infezioni gravissime, medici di base possano lasciar perdere l’esito delle analisi, sottovalutino il sintomo, non prescrivano urinocoltura alcuna ed evitino pure l’uso di disinfettanti esterni per paura che in soggetti che vivono in case di riposo o r.s.a. le stesse possano venir accusate di scarsa igiene, in attesa di vedere l’evolversi della situazione. In tal modo si tergiversa, e va a finire che il paziente non solo ha motivo di malessere recidivante, ma anche potrebbe cadere, dai oggi dai domani, in acuto, non essendo presenti accertamenti diagnostici degni di questo nome, e potrebbe finire in un pronto soccorso e successivamente in un ricovero ospedaliero da cui potrebbe uscire anche morto per carenza di dati orientativi della diagnosi o venir sottoposto ad una mole di farmaci, che magari mal può sopportare. Che fare allora di tutta la medicina territoriale, se poi non prescrive più e lascia andare il mondo come vuole? Si può vivere meglio o peggio, ed alcune situazioni possono cronicizzarsi, e, se non adeguatamente valutate e trattate, possono portare a patologie acute o collaterali. Ma forse una causa in tutto ciò è l’attuale antibiotico fobia, generata dalla politica, che sembra caratterizzi il medico virtuoso da premiare con la classica ‘caramella’, urlata da giornali e media che pare metta alla gogna chi li utilizza, in barba a Fleming, per fermare una infezione anche non gravissima ed impedirne poi una di questo tipo, che potrebbe avere anche esiti letali. (http://www.lastampa.it/2017/11/18/italia/cronache/le-infezioni-in-ospedale-uccidono-due-volte-di-pi-degli-incidenti-stradali-fhy8P4Y4nLMqa8GO6EaGSL/pagina.html). E un metodo c’è per non usare antibiotico: non prescrivere analisi che possano evidenziare una infezione, o celarsi dietro la fola che non si può prendere un campione di urina. Tanto cosa vuoi che sia …. E si soprassiede sull’abuso massiccio degli antibiotici negli allevamenti animali a livello non solo europeo ma mondiale. (Cfr. Batteri antibiotico-resistenti da animali a uomo. L’uso massiccio di antibiotici nell’allevamento animale ed i pericoli per la salute umana, in: www.nonsolocarnia.info).

Due fissità sono presenti in Italia, fino, in un caso, a dare dati falsati da parte di Lorenzin (Marcello Pamio: Vaccini: L’epidemia di morbillo esiste, ma solo nel cervello della Lorenzin, in: https://disquisendo.wordpress.com/2017/06/25/): quella sul vaccino per il morbillo, a cui personalmente non sono contraria ma che viene presentato come la panacea ad ogni male futuro, quando, con l’inquinamento, l’aumentare del gradiente geotermico ed il mutare delle stagioni non sappiamo neppure quali nuove pesti ci raggiungeranno, e l’antibiotico fobia, nata da un invito all’uso consapevole della categoria di farmaci, ma scivolata sino a un “Meglio no che sì”. (Elena Del Giudice, No all’ abuso di antibiotici, meno consumi più efficacia, in Messaggero Veneto, 12 novembre 2017).
E siamo passati, sulla stampa provinciale, da: non usate antibiotici nell’influenza, cosa che noi pazienti non vorremmo mai leggere perchè non siamo così stupidi dal farlo, a convegni della politica ove pare si inizi a urlare il dalli all’ untore al medico che li usa, facendo precipitare all’età della pietra, e ipotizzando un  comportamento virtuoso se li si nega la maggior parte delle volte, lasciando magari che il fisico del paziente si arrangi. Ma ahimè esso non sempre si arrangia come si vorrebbe. E non vorremmo che andasse a finire che, per noi poveracci, ogni antibiotico debba esser centellinato, a differenza che per i ricchi e i politici e le loro ‘aristocratiche’ famiglie, a cui nessuno li negherebbe, in barba al diritto alla salute ed alle cure. Ma un futuro ben poco radioso si profila leggendo l’articolo di Elena Del Giudice, citato, che inizia con “Più no che sì” e continua con “Addio alle armi?” e descrive in toni apocalittici il domani, su dati che nessuno sa da dove fuoriescano, facendo intuire che meno gli antibiotici vengono usati oggi più potranno salvare, non si sa neppure da che germi, nel 2050, e con il rischio, per noi pazienti, di problemi vari, fino alla sepsi, a danni vari ed alla morte, dati magari da tentennamenti medici, o da atteggiamenti per apparire virtuosi al gota dei nuovi Dei. Ma se questo è operare in modo scientifico lasciamo perdere. Un farmaco non si usa più no che sì, ma quando serve, e non devono venir tolti accertamenti diagnostici dai medici per non decidere nel merito. Sappiamo che la politica sanitaria meno usa antibiotico più risparmia sui farmaci ma vivaddio … di infezioni si può morire, restare handicappati …  Ricordando che gli antibiotici sono farmaci salvavita e che ogni infezione non grave non trattata presuppone la possibilità che poi uno cada, magari, in una gravissima con successiva ospedalizzazione, o in alterazioni del sistema immunitario ed in malattie legate allo stesso, senza voler offendere alcuno, questi miei pensieri ho scritto, e se erro correggetemi, scusandomi preventivamente se ho capito male, dato che non sono un medico.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

  

 

 

 

 

 

Tolmezzo, 29 novembre 2017, ore 17.30, sala Uti. Dibattito su: La Carnia di ieri. La Carnia di oggi! La Carnia di domani?

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Gentilissimi lettori, vi invito a partecipare al dibattito pubblico promosso da: Associazione Culturale Giorgio Ferigo; Comitati Carnici per la difesa della montagna; Gruppo Gli Ultimi; Legambiente – Carnia, a

TOLMEZZO IL 29 NOVEMBRE 2017 ALLE ORE 17.30 PRESSO LA SALA UTI DELLA CARNIA (EX COMUNITÀ MONTANA)

intitolato : LA CARNIA DI IERI. LA CARNIA DI OGGI! LA CARNIA DI DOMANI?

prendendo spunto dallo sciopero del lontano 29 novembre 1967- nel cinquantesimo dell’evento.

Relazioni introduttive di MARCO LEPRE e FRANCESCHINO BARAZZUTTI. Modera DENIS BARON (Ass. Giorgio Ferigo).

 

Nel merito vi invito a leggere su www.nonsolocarnia.info il mio:

La Carnia tace. Ma non fu sempre così. Il grande sciopero del 29 novembre 1967.

Per introdurre l’argomento della serata, a cui non potrò partecipare perchè sono via da Tolmezzo, e sono stata avvisata dell’incontro solo ora, riporto il testo del pdf inviatomi che non posso allegare per problemi tecnici mai risolti.

«Cinquanta anni fa …

“Tutto chiuso in Carnia: chiusi i municipi, chiusi i negozi, chiusi gli esercizi pubblici, gli istituti di credito, le scuole, le fabbriche, le botteghe artigiane”. Così esordiva il 29 novembre del 1967 l’articolo del quotidiano Il Gazzettino che annunciava lo Sciopero Generale della Carnia.
Quel giorno una moltitudine mai vista prima e che forse non si è mai più rivista in seguito, stimata dal Corriere della Sera in oltre cinquemila persone, sfilò per le vie di Tolmezzo issando cartelli di protesta e radunandosi in piazza XX Settembre per ascoltare le rivendicazioni lette dal balcone del municipio.
Del Comitato di Agitazione facevano parte la Giunta della Comunità Carnica, i Sindaci, i rappresentanti dei sindacati, delle associazioni di categoria, degli studenti universitari e di tutte le segreterie locali dei partiti politici.

A provocare la grande manifestazione non era stata solo l’annunciata chiusura da parte della Società Veneta della linea ferroviaria Carnia-Tolmezzo-Villa Santina – fatto che veniva percepito come un ulteriore colpo alle possibilità di sviluppo del territorio – ma tutta una serie di questioni che da tempo erano state poste inutilmente all’attenzione delle autorità statali e regionali: dalla grave realtà occupazionale che spingeva migliaia di montanari ad emigrare, alla lunga attesa per vedere concretizzarsi le promesse di industrializzazione; dalle conseguenze dello sfruttamento idroelettrico, aggravate dal rifiuto dei gestori degli impianti di versare al BIM i sovracanoni dovuti per legge, al mancato ammodernamento delle infrastrutture viarie; dalla questione del dissesto idrogeologico e dei risarcimenti per i danni provocati dalle recenti alluvioni, alla difficile situazione dei bilanci comunali; dalla preoccupazione per l’estensione delle servitù militari a quella per la chiusura od il ridimensionamento di importanti servizi come il Tribunale e l’Ospedale Civile di Tolmezzo.

Quello che è passato alla storia come lo “sciopero del trenino” segnò, nella Carnia del secondo dopoguerra, un momento di netta rottura con la situazione precedente, sia perché venne raggiunto un punto di tensione nei confronti dello Stato particolarmente acuto, sia perché da esso deriveranno risposte e conseguenze di fondamentale importanza.
Un significativo cambiamento si ebbe già alle elezioni regionali e politiche della successiva primavera, che penalizzarono la democrazia cristiana e portarono al successo i socialisti e le forze autonomiste.
Esponenti carnici del PSI, in particolare, entrarono in Parlamento e ottennero la Vicepresidenza della Giunta Regionale.
Tutto quello che di positivo seguì negli anni successivi – dalla creazione della zona industriale all’insediamento della SEIMA (finanziata dalla legge regionale che incentivava l’industrializzazione della montagna), dalla nascita dei poli turistici invernali dello Zoncolan e del Varmost all’istituzione delle Comunità Montane come strumento di autogoverno dei montanari – sarà in qualche modo il frutto di quella protesta e di quella stagione di impegno e proposta che vide spesso in sintonia i cittadini con i loro rappresentanti nelle istituzioni.

… e oggi?

Molte sono le analogie che si possono trovare tra la difficile situazione che la montagna viveva alla fine degli anni Sessanta e la realtà odierna e innumerevoli sono le cose da criticare e i motivi per provare delusione, rammarico e rassegnazione. Una cosa però è certa: solo con l’impegno e la partecipazione si può pensare di uscire dai momenti più negativi. Solo cominciando a informarsi, conoscere, riflettere e sforzandosi di confrontarsi e avanzare proposte concrete si può sperare di trovare l’unità e la forza per cambiare l’attuale stato delle cose. Questa, in fondo, è la lezione che ci viene dallo sciopero del trenino.».

(Testo dal pdf inviatomi – senza firma).

INVITO CALDAMENTE TUTTI A PARTECIPARE ED AD INTERVENIRE.

Laura Matelda Puppini

 

 

In un mondo di ‘rutti e puzze’, ove madre e padre sono perduti, e Hide ha vinto su Jekyll.

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Intitolo così questo mio strano articolo, che tratta ancora una volta della violenza sulla donna, che marcia insieme al bullismo, alla violenza sui minori, che porta anche il volto di chi vende agli stessi droga, alla violenza sugli anziani, sui deboli e sui non baciati dal destino.

La violenza ci circonda ed appartiene alla nuova cultura globalizzata, ne è uno degli elementi portanti, ed è, assieme al denaro, uno dei fattori che permette, sempre secondo una nuova etica che vuole Mr. Hyde sopraffare Jekyll, al singolo di affermarsi con la prepotenza e la prevaricazione, e di fare del possedere il nuovo fine dell’ esistenza, cancellando diritti e doveri ed il rispetto dell’altro. Basta possedere, basta far vedere “chi sono io”, in barba a qualsiasi legge morale e codice di comportamento.

Dr. Jekyll, la persona che si comporta normalmente per le regole del suo stato sociale e della morale corrente, sempre più lascia lo spazio a Mr. Hide, il suo doppio negativo, e ne favorisce il prendere il sopravvento, sino a giungere, ora in particolare, alla quasi negazione che fra i due vi sia una sostanziale differenza, fino a cancellare l’esistenza del bene e del male, ed a ritenere che il comportamento corretto sia solo quello a difesa degli interessi personali e peculiari, come certa politica e mafia ci hanno insegnato, basato su orgogli assurdi, che impediscono ogni presa di coscienza del proprio limite, aspetto che le antiche religioni ed anche il comunismo con l’autocritica sottolineavano.

Inoltre non si riesce più a dare il giusto valore ai comportamenti, a furia di minimizzare, di cercar di far superare, senza che la vittima abbia mai giustizia. L’ etica del ‘Eh ma …’ è sotto gli occhi di tutti.  Così una azione chiara di bullismo diventa uno scherzo da ragazzi; una violenza alla compagna un non esser riusciti a controllarsi, invocando poi la teoria del raptus dopo aver acquistato la benzina; e uno sfregio alla dignità di un anziano viene giustificato da un ‘Ma se l’è cercata’e via dicendo. A forza di giustificare guerre, massacri, pedofili, assassini, ed anche i fautori dei bunga bunga, ormai ci siamo abituati a tutto. Ci siamo abituati a tutto … ripeto fra me e me … questo è l’aspetto da distruggere, questo non voler vedere, sentire, parlare …

Non esistono più padre e madre, non esiste affetto, comprensione, autorità, tenerezza in questo mondo di ladri e di ben pochi eroi, mentre singoli, magari abbruttiti dal lavoro schiavizzante, umiliante, cancellante, che riporta a automi, Cipputi stanchissimi, precari senza sindacato, senza diritti e senza l’orgoglio della sinistra, diventata per lo più il pappagallo della destra, sfogano le loro frustrazioni in ambito domestico fino alla violenza estrema, che può scoppiare anche per un nonnulla. Non esistono madri e padri con il loro carisma,  la sessualità non è più vista come l’amore che crea nuova vita, ma solo come un chiavare e uno scopare, la donna viene sempre più spesso vissuta come oggetto sessuale, culo, tette, figa, serva, domestica, proprietà personale, e vi è chi, come Jekyll, si trasforma in Hide. Credetemi, ‘Lo strano caso del dott. Jekyll e di Mr. Hide’, sarà anche un romanzo di fantasia, come scrive wikipedia, ma è principalmente una storia che porta ad una riflessione morale non di poco conto. Lo yin e lo yang, intesi come il maschile ed il femminile non si uniscono più in una armonia generatrice all’interno di un universo e di una natura, ma in un mondo naturale stravolto si oppongono in una conflittualità disgregatrice, ove il maschile può uccidere il femminile, ove il pene cancella la sua vagina, ove il bene ha il sopravvento sul male.   

Guardo Tolmezzo riempita di palloncini rossi, colore del comunismo, mentre ho appena firmato una petizione per la salvezza dei centri antiviolenza, e mi chiedo cosa si pensi realmente di fare, anche con buone intenzioni, per fermare la violenza contro la donna, contro il bambino, contro l’anziano, violenza che viene esercitata da chi è più forte ed ha posizioni di potere verso il più debole, anche se è velata e celata, e che può esser ben più tragica di una pacca sul culo, esecrabile, naturalmente. È violenza cancellare l’identità, è violenza sfottere il prossimo, è violenza …. ed il sadismo non è stato cancellato dalla faccia della terra. Ed in un mondo violento esistono carnefici e vittime, il cui ruolo, ci ricorda Jean Amely, non può essere confuso.

Mi viene alla mente Stefania Catallo ed il suo centro antiviolenza a Tor Bella Monaca a Roma, dove gli operatori certamente non si arricchiscono, e che vive anche con sfilate di abiti da sposa, chiuso, riaperto, sfrattato, oggetto in giugno di un raid forse intimidatorio, e penso che lo Stato dovrebbe fare di più, che la stampa dovrebbe fare di più, non solo due articoli che ormai profumano di stantio e le storie esemplari di un paio di donne certamente encomiabili. La lotta alla violenza non ha bisogno di giornate celebrative contro, ma di un impegno di tutti, non ha bisogno di buoni propositi ma di una conversione dei cuori e delle coscienze.

Ma se il mondo è quello da me sopra descritto di ‘rutti e puzze’, senza aspetti valoriali reali, etica, affetto amore anche del prossimo, comprensione, tenerezza, senza autorità reale e colore, e dove chi è più ricco e potente tutto può, se la società verso cui stiamo andando è quella descritta da Marco Ferreri nell’angosciante film ‘La grande abbuffata’ che diventa l’ultimo desiderio, e se persino la pietà di Antigone, che seppellisce il corpo del fratello violando l’editto, non ha più senso, perché anche la morte non a più un suo pathos, e se anche i beni per la vita di tutti sono tranquillamente venduti a privati con un eh, mah … e se la violenza alla donna viene totalmente scissa dalla restante violenza, allora non capisco davvero come si voglia cercare di affrontare praticamente il problema, senza chiuderlo solo in giornate celebrative – contro.

Poi penso a giovani che conosco, e una speranza nasce in me che tutto non sia perduto, se la scuola sarà davvero buona e non buonista -renziana che premia chi ‘non rompe’, e realmente educativa,  e se la società inizierà davvero a ritornare a ciò che è permesso e ciò che è vietato per tutti non solo per i poveracci, ed a punire chi va contro la legge, e cercherà di muoversi per togliere  l’esaltazione del singolo e volgere ad un  progetto di comunità in cammino, ove la dignità della persona venga rispettata, ed anche l’ascolto dell’altro, ove bene e male non vengano confusi in una nuova ‘religione civile’, e ove si punti all insegnamento dell’ autocontrollo. Così si batte la cultura della destra, del fascismo e del nazismo, e la violenza connaturata negli stessi.

E termino ringraziando tutti coloro che quotidianamente si impegnano concretamente contro la violenza, dalle forze dell’ordine a Stefania Catallo ed altre/i.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che è la copertina di La strana storia di Dr. Jekyll e Mr. Hide è tratta da http://www.magazine.irno.it/culture/libri-online/33413-libri-online-strano-caso-dr-jekyll-sig-hyde-6-9,solo per questo uso. L’immagine la centro dell’ articolo è tratta da: https://caserta.zon.it/giornata-internazionale-contro-la-violenza-sulle-donne/. Laura Matelda Puppini 

 

 

 

Aldevis Tibaldi. Lettera aperta al Vicario della Arcidiocesi di Udine, su La Vita Cattolica e sul nuovo elettrodotto friulano.

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Gentilissimo Mons. Andrea Bruno Mazzocato,

al di là della simpatia istintiva che nutro nei confronti della Sua persona e di certi suoi sentimenti di vicinanza al popolo del Friuli, non riesco a trattenere il mio disgusto di fronte agli ultimi accadimenti che hanno caratterizzato il foglio diocesano di cui Lei stesso riveste -ritengo pro tempore- la carica di Direttore Responsabile.

Chi Le scrive è un agnostico impenitente, reso tale dalla arroganza di dimostrare a sé stesso che non serve la minaccia dell’Inferno per amare il prossimo; un agnostico che tuttavia attinge i suoi sentimenti umanitari dal discorso della montagna e che è affascinato dalla figura carismatica e dalla rivoluzionaria forza interiore del Cristo, e dalla portata etica della sua opera e della sua morte; un agnostico che ha provato disprezzo per la Chiesa quando ha voluto mortificare la memoria di Oscar Arnulfo Romero, e che oggi non si vergogna di emozionarsi davanti al ricordo di pre’ Bellina o alle prese di posizione di Papa Francesco.
Con siffatti sentimenti dodici anni fa ero rimasto impressionato dalle parole del rappresentante della stampa cattolica e da come egli aveva concluso un convegno stigmatizzando i media che si erano messi a servizio della politica e che si erano, in tal modo, sottratti al loro dovere istituzionale di relazionarsi con la collettività in un rapporto improntato al dialogo, non certo all’indottrinamento. E mai avrei immaginato che un giorno sarei diventato un assiduo lettore della Vita Cattolica.

Ebbene, sfogliando l’ultimo numero del settimanale, con mia grande sorpresa non ho più sentito ‘l’odore delle pecore’ che lo aveva caratterizzato in questi ultimi anni, quello stesso odore preminente che Papa Francesco aveva sollecitato a seguire rivolgendosi al clero di Roma nella sua prima messa crismale: “Questo vi chiedo, di essere pastori con l’odore delle pecore, pastori in mezzo al proprio gregge, e pescatori di uomini”. E per quanto sfogliassi le pagine dalla nuova Vita Cattolica non usciva che l’odore stantio dei quotidiani di regime. Insomma, era diventato improvvisamente un giornale comune, di quelli che a Trieste direbbero: “senza sal, né pevere”. Anzi se mi permette di dare sfoggio alla mia abituale insolenza, mi è sembrato persino uno strumento volto a suscitare quella rassegnazione che da sempre è il mezzo preferito per governare il popolo con la minor fatica possibile e a dispetto dei suoi diritti e della verità.

Tralascio di commentare l’articolo di fondo dedicato alla manutenzione delle strade udinesi, per manifestare il mio sbalordimento nel leggere l’articolo di pagina 21 incentrato sugli elettrodotti da terzo mondo di questa povera Regione. Ebbene, rinnegata la ricerca della verità che ha caratterizzato il settimanale in questi ultimi anni, l’articolista è precipitato nella banalità di chi non deve dispiacere ai padroni del vapore. Quella vicenda per la quale chi scrive ha dedicato dieci anni della sua vita, è stata liquidata alla stregua di una battaglia legale persa da alcuni sindaci e conclusa dal ‘buon senso’ del sindaco di Palmanova che ha deciso di gettare la spugna dopo la recente, vergognosa e scontata sentenza del TAR del Lazio.
Ed ancora: l’articolo si annunciava con un titolo da bar sport “La Bassa perde, la Carnia vince” e l’autore si guardava bene dal fare la cronistoria di una delle più vergognose pagine della politica regionale, ovvero del peso avuto, nella questione elettrodotti, dai tribunali amministrativi e non solo: quelli italiani proni ai voleri del monopolista e quelli austriaci orientati alla salvaguardia dei beni comuni, tanto da essere stati i veri artefici della censura dell’elettrodotto aereo della Carnia.

La Vita Cattolica, invece, emulando i quotidiani di regime, fingeva di non vedere la schifezza che hanno realizzato sulle nostre teste, si scordava dell’inqualificabile asservimento dei nostri Amministratori regionali, dei ricatti, delle menzogne e dell’abuso di posizione dominante emersi nel corso di questi ultimi dieci anni. Ma soprattutto non parlava dei soprusi e delle pressioni prodotte in danno degli agricoltori espropriati, delle umiliazioni, per non dire delle violenze subite, in un clima da repubblica delle banane. E non è nemmeno entrata nel merito delle vergognose compensazioni ambientali che di ambientale non hanno un bel nulla, essendo solo delle ‘esche avvelenate’ utili a lisciare il pelo ai sindaci grazie ai soldi generosamente concessi sottraendoli dalle nostre tasche.
Insomma l’articolista pareva proprio parlasse con la bocca dell’industriale legato a filo doppio alla governatrice, facendo “il verso alle veline del proponente” per tema di inimicarsi il potere. Nulla a che vedere con don Milani quando diceva “della verità non bisogna avere paura”; nulla a che vedere con le parole del precedente arcivescovo di Udine, Mons. Pietro Brollo, che, quando ci accolse in udienza, di fronte allo scempio ambientale che si stava consumando in danno dei nostri agricoltori, ci manifestò tutto il suo rammarico con un: “Come è possibile non tener conto delle istanze di chi come voi vive con le mani immerse nella terra dei padri?” Figlio di questa terra non gli fu difficile riflettere sulla negatività di un’opera imposta dall’alto nell’esclusivo interesse del proponente e nella sudditanza dei nostri Amministratori regionali. Inoltre riflettere sul degrado ambientale significò e significa capire le ragioni culturali e politiche che stavano e stanno mettendo in pericolo l’identità del nostro popolo e la sopravvivenza stessa del nostro pianeta.

Anni dopo, nella “Laudato si’…’, Papa Francesco giunse a parlare del ‘Paradigma tecnocratico’ ovvero di quel modello di sviluppo che ha ispirato i processi decisionali della politica, facendo leva sulla chimera di una millantata straordinaria efficacia della tecnologia. E le decisioni di chi governa vengono avvallate pure dalla chimera di un progresso che si è rivelato più che mai illusorio, senza che alcuno si sia preoccupato che ad esso corrispondesse un progresso etico, un’accresciuta consapevolezza ed un avanzamento culturale capaci di suscitare un nuovo umanesimo e con esso la salvaguardia del pianeta.
Del resto se il nostro cronista si fosse dedicato a coltivare quella verità che impegna la nostra coscienza non meno della nostra intelligenza, avrebbe scoperto, al di là delle estemporanee dichiarazioni di un sindaco in cerca di una via di fuga, la resistenza agli imbrogli e all’aggressione nostra, con la nostra dignità, e del nostro habitat, che prosegue con immutata intransigenza e con azioni giudiziarie che lasciano poco spazio alle illazioni e che avranno il loro culmine nell’esito delle nostre denunce per disastro ambientale e nel nuovo determinante appuntamento nel mese di gennaio presso il Consiglio di Stato: perché Debora Serracchiani passa, ma il Friuli rimane.

Qualora avesse gettato uno sguardo, poi, alla recente sentenza del TAR del Lazio, il nostro incauto articolista si sarebbe accorto che la governatrice, invece di rimettersi alla decisione della Corte, si era aggregata alla Terna per costituirsi in giudizio contro le sue stesse Comunità, ed avrebbe scoperto lo sviamento del Ministero dell’Ambiente, fattosi portatore più di interessi economici e produttivi, che di quelli che gli competono, ed avrebbe scoperto quanto fatto dal Consiglio dei Ministri per favorire la Terna e quindi impedire una soluzione condivisa e rispettosa dell’ambiente. Avrebbe infine capito che la Corte non aveva preso minimamente in considerazione il preteso miglioramento del progetto rispetto a quello iniziale bocciato dal Consiglio di Stato.

Dal canto nostro avremmo preferito che l’articolo fosse almeno l’occasione per riflettere sui diritti negati, sul ‘diritto’ quale struttura collettiva dei comportamenti sociali, che ha visto l’alba della sua riconoscibilità nelle incisioni della pietra consegnata sul monte Sinai a Mosè. Un ‘diritto’ che oggi più che mai deve essere sottratto alle mani dei potenti ed alle segrete stanze per tornare ad essere un diritto che viene dal basso, prodotto dalle Comunità, quindi non imposto da chi detiene il potere e fa del suo meglio per insidiare la Costituzione.

In ultima analisi mi chiedo quale possa essere il futuro di un settimanale che ha perso ‘l’odore delle pecore’ e che in questo delicato momento pre – elettorale sembra ispirare sentimenti di rassegnazione, di una testata che con il pretesto ridicolo e farisaico dei costi eccessivi ha licenziato sui due piedi un direttore encomiabile e la sua redattrice, che hanno fatto moltiplicare le vendite e la presa di coscienza dei suoi lettori.

Tibaldi Aldevis – Comitato per la Vita del Friuli Rurale – www.facebook.com/comitato.friulirurale.

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: http://www.dovatu.it/news/elettrodotto-udine-redipuglia-governo-coloniale-in-friuli-21750/. Laura Matelda Puppini

 

‘Fremasons’ del Gran Oriente d’Italia. Cenni di storia della massoneria fino alla prima guerra mondiale.

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Non sapevo cosa fosse la Massoneria, ma me ne parlò positivamente mio padre, per l’importanza che dava all’educazione, allo studio ed al miglioramento delle condizioni di vita dei più poveri; non sapevo cosa fosse la Massoneria, ma poi incontrai la figura di Vittorio Cella; non sapevo cosa fosse la Massoneria, ma poi Romano Marchetti mi parlò di suo zio, Mario Agnoli; non sapevo cosa fosse la Massoneria, ma poi lessi che vi era affiliato anche Giovanni Cleva … Le associazioni si leggono attraverso le loro finalità e l’impegno concreto di uomini che ve ne fecero parte, penso fra me e me.  

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Ho letto, perché interessata all’argomento, l’articolo di Franco Cardini: Le origini segrete della Massoneria, in Il Fatto Quotidiano 9 luglio 2017, tratto dal suo articolo Storia della Massoneria tra segreti e anticlericalismo, in: Vita e Pensiero, n.3/2017, rivista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, fonte forse non proprio neutrale nello scrivere su questo argomento, e francamente ho capito poco e nulla perché mi pare un guazzabuglio. Eppure volumi sulla storia della Massoneria non mancano, e vanno da: Carlo Francovich, Storia della massoneria in Italia, dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, 1974, da alcuni ritenuto, però, per certe parti superato; AA.VV., La Massoneria. La storia, gli uomini, le idee, (a cura di Zeffiro Cioffoletti e Sergio Moravia), Mondadori ed., 2011; Fulvio Conti, Massoneria e religioni civili, cultura laica e liturgie politiche, il Mulino saggi, 2008; Fulvio Conti, Storia della massoneria italiana: dal Risorgimento al fascismo, Bologna, Il mulino, 2006; Aldo A. Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani ed., 1992, Valentina Maria Melfa, Massoneria e fascismo. Dall’interventismo alla loggia partigiana, Bonanno editore, 2010, solo per citarne alcuni, che presentano pure una ricca bibliografia a corredo.   

E bisogna star molto attenti a non confondere qualsiasi gruppo iniziatico con la Massoneria, ed anche la stessa, in Europa, ebbe vari volti. Attualmente in Italia si trova divisa tra il G.O.I., Grande Oriente d’Italia, di Palazzo Giustiniani, e la Gran Loggia d’Italia, Obbedienza di Piazza del Gesù, Palazzo Vitelleschi. Infine non deve meravigliare il fatto che la Massoneria fosse associazione segreta ai tempi dei Papa re, di Sovrani ed imperatori, in quanto il professare idee libertarie nate anche dall’Illuminismo, poteva portare dritto al patibolo. Quindi per riconoscersi e non lasciare tracce che potessero cadere in mano a terzi, ed al fine di creare un reale “spirito di corpo”, i massoni utilizzavano un rituale preciso, che ancor oggi caratterizza i lavori delle logge. Ma anche la chiesa cattolica, in particolare dopo il Concilio di Trento, si è arroccata su rituali e arredamenti peculiari, che fecero spendere non poco alle comunità di villaggio, già oberate da ben altri problemi.  Inoltre la Massoneria aveva preso origine dalla corporazione degli architetti, ove si entrava per diritto ereditario, trasmettendosi il mestiere ed i segreti dello stesso da padre in figlio, ed a cui fanno riferimento i simboli della Massoneria, che si era mutata in associazione che prevedeva la libera adesione ad alcune condizioni più di carattere materiale che altro. Semmai, invece, non era ed è possibile abbandonarla, ma esiste la possibilità, per gli adepti, di essere messi in sonno, cioè di uscire dalla partecipazione attiva, mantenendo però la qualità di iniziato, e quindi di richiedere, in seguito, di essere riammessi ai lavori della Loggia. (http://www.grandeoriente.it/che-cosa-e-la-massoneria/glossario/).

Attualmente, quando in Italia si riportano dati anche sugli affiliati, ci si riferisce, in genere, alle logge del G.O.I., Grande Oriente d’Italia, come farò in questo mio articolo, ma in Italia vi furono e sono altre logge, di diversa obbedienza e rituale. (Fulvio Conti, La Massoneria e la costruzione della nazione italiana dal Risorgimento al Fascismo, in: AA.VV., La Massoneria. La storia, gli uomini, le idee, op. cit., p. 156). Inoltre all’interno di una stessa obbedienza possono essere praticati diversi riti, senza che questo comporti uno scisma. (http://www.cesnur.com/appendice-i-massonerie-e-religione/obbedienze-e-riti-massonici/).

 

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Finalità.

La massoneria è nata come associazione iniziatica e di fratellanza che propone un patto etico-morale tra persone libere ed una tensione collettiva fra tutti gli affiliati tendente al perfezionamento delle più elevate condizioni dell’umanità.

La massoneria ufficiale dichiara di non avere barriere etniche, religiose, ideologiche e politiche, ed ha come riferimento normativo le “Costituzioni di Anderson”, scritte nel 1723 dal fratello e pastore presbiterano James Anderson, (Il testo è reperibile sul sito del Grande Oriente d’ Italia – Palazzo Giustiniani, http://www.grandeoriente.it/chi-siamo/antichi-doveri/), anche se esistono alcune differenze dovute a tradizioni locali e storiche. Sin dal suo sorgere, la massoneria è costituita da logge, cioè gruppi organizzati di persone che operano insieme con gli stessi scopi e ideali, seguiti da ogni massone del mondo. In questo senso è considerata dai suoi aderenti “universale”, pur nelle sue complesse diversità interne.

Ancor oggi sul sito del Grande Oriente d’Italia si può leggere che esso è un Ordine iniziatico i cui membri, senza distinzione di razza o di ceto sociale, operano per l’elevazione morale e spirituale dell’uomo e dell’umana famiglia, che la natura della Massoneria e delle sue istituzioni è umanitaria, filosofica e morale, e che essa lascia a ciascuno dei suoi membri la scelta e la responsabilità delle proprie opinioni religiose, ma nessuno può essere ammesso in Massoneria se prima non ha dichiarato esplicitamente di credere nell’Essere Supremo. Inoltre la Massoneria non è una religione né intende esserlo; non pratica riti religiosi, non valuta le credenze religiose, non si occupa di nessun tema teologico, non consente ai propri membri di discutere in Loggia di argomenti religiosi. Inoltre afferma l’alto valore della singola persona umana e riconosce ad ogni uomo il diritto di contribuire autonomamente alla ricerca della Verità. La Massoneria lavora con propri metodi, mediante l’uso di rituali e di simboli coi quali esprime ed interpreta i princìpi, gli ideali, le aspirazioni, le idee, i propositi della propria essenza iniziatica. Essa stimola la tolleranza, pratica la giustizia, aiuta i bisognosi, promuove l’amore per il prossimo e cerca tutto ciò che unisce fra loro gli uomini ed i popoli, per meglio contribuire alla realizzazione della fratellanza universale. Il Massone è tenuto ad osservare scrupolosamente la Carta Costituzionale dello Stato nel quale risiede o che lo ospita e le leggi che alla stessa si ispirano.
La Massoneria non permette ad alcuno dei suoi membri di partecipare o anche semplicemente di sostenere od incoraggiare qualsiasi azione che possa turbare la pace e l’ordine liberamente e democraticamente costituito della società. (http://www.grandeoriente.it/chi-siamo/identita-del-grande-oriente-d-italia/, 2013, http://www.grandeoriente.it/chi-siamo/costituzione-e-regolamento/ novembre 2017).

Qualcuno potrebbe dire che sono solo buoni propositi, ma poi… ma anche la Chiesa cattolica ha buoni principi ma poi non tutti i suoi seguaci li mettono in pratica.

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Da quelle lontane origini …

La Massoneria viene definita da Carlo Francovich la «figlia primogenita dell’intellettualismo settecentesco» e nacque sotto il contrastante influsso del razionalismo e del preromanticismo, legato alla tradizione occultista. (Carlo Francovich, Storia della massoneria in Italia, dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, 1974, nota introduttiva, p. XIII).

Storicamente la sua origine viene fatta risalire all’incontro di quattro logge di liberi muratori, tenutosi a Londra nel 1717 il giorno di San Giovanni Battista, da cui scaturì la Gran Loggia d’Inghilterra, che abbandonando gli antichi scopi corporativi, si dette finalità umanitarie e filantropiche. (Ivi, p.1).

Va pure detto che il termine fremasons, da cui liberi muratori in lingua italiana, deriva dal fatto che gli aderenti alla Confraternita dell’arte muratoria, spesso itineranti, avevano ottenuto, grazie alla Chiesa, l’affrancamento dai tributi e dalle soggezioni alle autorità locali. (Ivi, p. 2). Fra di loro gli adepti si chiamarono e si chiamano fratelli.

Le logge massoniche si caratterizzarono, sin dal loro inizio, vista la loro composizione variegata, per lo spirito di tolleranza sia dal punto di vista religioso che politico. Il massone non era obbligato a praticare una religione precisa, anche se si riteneva buona consuetudine seguire quella del paese d’origine.  (Carlo Francovich, Storia, op. cit., p. 9).

Dall’Inghilterra la Massoneria si diffuse in Francia e negli Stati Imperiali, in particolare nel mondo germanico. Intorno al 1730 sorsero le prime logge anche in Italia, composte, inizialmente, prevalentemente da stranieri.  (Ivi, p. 37). Una della Logge più importanti fu quella di Firenze che, nel 18° secolo, fu caratterizzata dal razionalismo, con tendenze deiste e materialiste. I suoi adepti appartenevano alla minoranza borghese formata da professionisti, intellettuali, proprietari e nobili imborghesiti. Nel 1700, logge sorsero anche a Milano, Verona, Padova e Vicenza, nonché a Venezia, Napoli, Livorno, Genova, Ferrara, Torino, a cui, poi, seguirono altre. (Ivi, pp. 133-149).

Dopo il 1740, con la calata, degli eserciti francese ed austriaco, e con l’insediarsi di sovrani borbonici ed asburgici, si formarono, nella penisola, anche nuovi ordini massonici. Sotto Maria Teresa d’ Austria la Massoneria prese piede anche a Vienna, mentre già fioriva a Praga, (Ivi, pp.238-239), ed alla fine del 1700, anche all’interno della Libera Muratoria italiana, iniziarono ad affermarsi in modo preponderante le idee razionaliste. (Ivi, p. 299).

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La Massoneria nel periodo napoleonico e risorgimentale.

Durante il periodo napoleonico la Massoneria, che presentava diverse obbedienze anche in disputa tra loro, attuò una svolta conservatrice e filogovernativa, mentre in epoca risorgimentale essa conobbe un certo affiatamento con la Carboneria. «Il rapporto di filiazione diretta della Carboneria dalla Massoneria o meglio da quelle logge informate agli ideali democratici ed egualitari […] viene dichiarato in modo esplicito ed inequivocabile. Ma nello stesso tempo risulta chiaro il superamento e il distacco che la Carboneria aveva operato», non solo a causa del conformismo massonico in epoca napoleonica, che condusse la Massoneria alla scomparsa dalla scena pubblica, ma anche per la diversità di pensiero, essendo la Carboneria maggiormente legata alla religione ed ai suoi simboli. (Fulvio Conti, La Massoneria, op. cit., pp. 146-149). Inoltre la composizione sociale delle logge massoniche era aristocratica ed elitaria, mentre invece la Carboneria era a maggioranza medio e piccolo borghese. (Ivi, p. 144).

Nel periodo risorgimentale, la Massoneria non ebbe più coordinamento nazionale, rimase in vita solo in qualche isolata località e riprese brevemente vigore fra il 1847 ed il 1849, durante la stagione riformistico-rivoluzionaria per chiudersi di nuovo nell’oscurità fino alla definitiva ricomparsa all’immediata vigilia dell’unificazione e dell’indipendenza nazionale. (Ivi, p. 149).

E l’organizzazione libero muratoria in Italia, fino al 1856, fu assai labile e la conservazione di vincoli associativi e di eredità culturale fu affidata principalmente alle tipologie aggregative formate da esuli politici emigrati in Europa, in America Latina e in altri paesi, e furono loro che, al rientro in Italia, rifondarono la Massoneria nella penisola. «Ciò nondimeno – scrive Conti- per tutta l’età liberale la Massoneria italiana rivendicò energicamente il contributo dato al movimento risorgimentale soprattutto accreditando la tesi della filiazione diretta della Carboneria e delle altre sette segrete, ma poi anche della Giovane Italia e del mazziniano Partito D’Azione» (Ivi, p. 151), forse esagerando il suo ruolo e creando una specie di ‘religione civile’ incentrata, per esempio, intorno al figura di Giuseppe Mazzini, che non consta fosse stato mai massone, anche se aveva  accettato diplomi onorifici conferitigli da varie logge. (Cfr. nel merito, Fulvio Conti, Massoneria e religioni civili, cultura laica e liturgie politiche, il Mulino saggi, 2008).

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Dopo l’Unità d’Italia

Dopo l’unità d’Italia la Massoneria «fu una delle poche strutture organizzative diffuse sia pure in modo disomogeneo sull’intero territorio nazionale, nelle quali, all’indomani dell’Unità, si raccolsero tutte le anime politiche ed ideologiche del Risorgimento», e i costruttori della futura nazione italiana scelsero di preferenza questa forma associativa per farne un luogo di elaborazione di un progetto politico centrato su di una cultura laica, che veniva vista come la premessa per offrire al paese prospettive di progresso e modernizzazione. (Ivi, p. 153).

Le logge si diffusero ovunque, tanto che nel 1911 solo la provincia di Udine ne era priva. (Ivi, p. 155). Ma più la Massoneria diventava prendeva forza e pareva capace di influenzare la politica e la vita italiana, anche se peccava ancora per essere associazione frammentaria e disomogenea sul territorio della penisola, più si moltiplicarono infuocate campagne antimassoniche, che caratterizzarono la vita della penisola dall’Unità d’Italia. (Ivi, p. 156).

La Massoneria fu, inoltre, uno straordinario agente di moltiplicazione dell’associazionismo di matrice laica, e i suoi esponenti furono artefici di una intensa attività finalizzata alla costruzione di un reticolo associativo molto esteso e ramificato, che andava dalle società di mutuo soccorso alle cooperative, dalle banche popolari alle biblioteche, dalle scuole agli asili, alle società per le onoranze funebri e per la cremazione. (Ivi, pp. 156-157).

Il 21 maggio 1864 i massoni del Grande Oriente d’Italia si incontrarono a Firenze, ed iniziarono a definire le loro linee organizzative ed operative, che però non portarono all’ unificazione delle logge sotto un solo Ordine, tanto che un gruppo delle stesse, nello stesso periodo, si incontrò a Milano, dando origine ad una nuova obbedienza di Rito simbolico, mentre il Supremo Consiglio di Palermo viaggiava per conto suo, dopo aver nominato Gran Maestro Giuseppe Garibaldi. (Fulvio Conti, Storia della massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo, il Mulino, 2003, pp. 55-59).

Ed allora la composizione della Massoneria era così eterogenea che vi faceva parte pure Michail Bakunin, portatore di un progetto per volgere l’associazione liberomuratoria verso ideali rivoluzionari, ma solo successivamente, al suo interno, iniziò a far capolino anche la linea democratico-operaista.  (Aldo A. Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani ed., 1992, pp. 68-69).

In occasione del Congresso pacifista di Ginevra, nel 1867, i vertici della massoneria italiana iniziarono a mostrare vivo interesse per la pace e per il movimento pacifista internazionale. E l’anno seguente, in occasione del congresso pacifista di Berna, essi “fecero del pacifismo democratico e della richiesta di organismi di arbitrato a livello internazionale uno dei temi caratterizzanti il loro impegno politico e sociale.” (Fulvio Conti, Storia, op. cit., p. 76). Ma poi, di fatto, non sempre si mossero su questa strada.

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Fini della Massoneria. Gli statuti del 1867 e l’assemblea del 1869.

Negli Statuti, corpo normativo, del GOI, stesi nel 1867 la Massoneria veniva definita un’istituzione essenzialmente filosofica ed avente per scopi: il miglioramento dell’uomo che si consacra allo studio della natura nell’intento di essere utile ai propri simili; la promozione del perfezionamento dell’umanità e quindi “il progresso infinito dell’universo”. (Conti p. 71). E si sottolineavano l’importanza dell’impegno quotidiano dei fratelli massoni per la beneficienza e la filantropia ed il perfezionamento dell’umanità, e per l’educazione ad una morale conforme agli eterni principi della scienza. (Ivi, p. 73). Allora i principi dell’associazione massonica vennero riassunti in 3 punti: la ricerca del vero; la filantropia; la tolleranza. (Ivi, p. 74). Inoltre si chiariva che i fini esclusivi della massoneria erano lo studio della filosofia, l’educazione ad una morale conforme agli eterni principi della scienza.

In quella sede si sottolineò come la massoneria fosse «superiore a tutte le elucubrazioni e passioni dipendenti da umani interessi, e quindi alle questioni politiche e religiose», e si definirono, pure, “i delitti contro l’onore” contemplati dal suo codice morale che consistevano nell’attuazione di comportamenti atti a svilire il massone e la massoneria; nell’infrazione del segreto massonico; nell’attuazione di comportamenti atti a causare pregiudizio volontario alla fama ed alle altrui sostanze; nell’agire in modo considerato infamante dalla società. (Ibid.).

Nel 1869 i massoni italiani si riunirono a Firenze. Nel corso dell’assemblea si definirono alcuni punti fermi dell’impegno dei fratelli in ambito sociale e cioè l’adoperarsi per: la creazione di scuole popolari ed agricole e di ricoveri per i vecchi, gli infermi, gli ex – carcerati; il soccorso da portare “all’indigenza impotente e vergognosa”; il perfezionamento dell’educazione della donna. Inoltre venivano ribaditi alcuni principi fondamentali per il massone: il non essere né materialista, né deista né panteista, ed il restare legato alla ragione nell’ammettere un fatto; l’essere tollerante; Il professare, in politica, la libertà di pensiero ed azione, entro il imiti consentiti dal contesto sociale; il promuovere la solidarietà fra le classi sociali. (Ivi, p. 77). Infine si precisava che: “il massone esecra la violenza da qualunque parte essa provenga e chiede ai fratelli di essere buoni cittadini e di adempiere attivamente ai doveri”.

E sempre nello stesso contesto, Niccolò Lo Savio, sostenitore della lotta agli squilibri sociali, proponeva di porre a fondamento dell’impegno sociale della massoneria: “non la beneficienza tradizionalmente intesa, ma “l’emancipazione del lavoro dai privilegi e dalla tirannide del capitalismo.”. (Ivi, pp. 76-77. Per Niccolò Lo Savio cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/niccolo-lo-savio_(Dizionario-Biografico)/). In quegli anni fu largamente seguita nel GOI la linea propria del Gran Maestro Lodovico Frapolli che impegnava la Massoneria nella soluzione della questione sociale sposando una politica interclassista e solidaristica. (Ivi, p. 77).

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La ricerca di una unione con la sinistra.  

Dopo la presa di Roma, nel dicembre 1870, si veniva formando, nel GOI, l’idea di una costituente massonica dei vari ordini e logge, atta a cercare un’unificazione, una coordinazione, una nuova vita comune. Dopo un periodo di febbrili trattative, il GOI e le logge siciliane firmavano, nel 1871, un documento concordato, a cui non aderì, però, il Supremo Consiglio di Palermo, sorto in antitesi all’Oriente di Torino. (Ivi, pp. 43-45). E da quel momento le vicende della massoneria cominciarono ad intrecciarsi con quelle della sinistra democratica italiana e del movimento operaio, che proprio in quei mesi stavano vivendo una fase di intensa fibrillazione, dominata dallo scontro fra l’ala mazziniana e quella internazionalista. (Fulvio Conti, Storia, op. cit., p. 88).

Nel novembre 1871 si riunì a Roma il congresso delle Società Operaie che segnò la netta separazione fra le associazioni che si riconoscevano nelle posizioni di Mazzini e quelle che seguivano, invece, la linea di Bakunin. (Ivi, p. 89).

Nel 1872, Giuseppe Garibaldi chiamò a raccolta tutte le forze democratiche, repubblicane, massoniche di libero pensiero della penisola che approvarono un documento noto come il primo ‘Patto di Roma’.  In esso si indicava una serie di riforme civili e politiche su cui mobilitare la democrazia italiana e cioè: il suffragio universale; l’istruzione laica gratuita e obbligatoria; la libertà di coscienza; il decentramento e l’estensione delle autonomie locali; l’applicazione dell’imposta unica progressiva, legata cioè al reddito; l’abolizione della tassa sul macinato; l’abolizione della tassa sul sale e del dazio sul consumo; la riforma del codice penale; l’eliminazione della pena di morte. (Ivi, p. 89).  Secondo Fulvio Conti alcuni di questi temi figuravano già da anni nell’agenda della massoneria italiana e si giunse, più avanti, ad una sostanziale uniformità di vedute fra il mondo libero muratorio e le varie articolazioni del movimento democratico, in particolare con la componente radicale che raccolse maggiormente il “lascito politico” garibaldino. (Ibid).

Il 28 aprile 1872 si riuniva, presso il teatro Argentina di Roma, la “Costituente massonica”, promossa da Giuseppe Mazzoni. Per l’occasione Giuseppe Garibaldi gli inviò una lettera nella quale esprimeva il suo appoggio alla causa della riunificazione delle ‘diverse anime’ presenti all’interno del movimento libero-muratorio e lasciava chiaramente intendere di ravvisare, in tale unificazione, il passaggio fondamentale verso una più generale aggregazione delle forze laiche, operaie e democratiche presenti nel paese. (Ibid.). Nel corso della stessa, la massoneria si dette un nuovo statuto, ove fu messa in risalto la finalità della massoneria e cioè «il miglioramento ed il perfezionamento morale, intellettuale e materiale dell’umana famiglia, col mezzo dell’educazione, dell’istruzione, della beneficienza moralizzatrice». (Ivi, p. 92). Inoltre si stabilì che la massoneria avesse quale scopo pure lo studio delle questioni sociali «senza restrizione di specie o di grado» e che si occupasse di risolverle «colle sole forze intellettuali, tanto individuali che collettive». (Ivi, p.92). Venne pure abolito il giuramento, sostituito da una ‘promessa sull’onore’ e negli atti venne ripristinata l’antica formula: ‘Libertà, Eguaglianza, Fraternità’. (Ivi, p. 93).

Detta Costituente sancì, di fatto, anche l’unificazione delle Logge Massoniche di diverso rito sotto il G.O.I, che si concluse nel 1880. «Il decennio 1870-80 – scrive Fulvio Conti – si chiuse dunque all’insegna di una relativa stabilizzazione della comunione massonica nazionale, che riuscì sostanzialmente ad assorbire le aree di dissenso ed a presentarsi più coesa e omogenea sia sulla scena interna che su quella internazionale». (Ivi, p. 103). Invece per quanto riguarda il pensiero politico, la Massoneria Italiana ed europea, a fine ‘800, si presentava – come scrive Aldo Mola – lacerata tra tendenze internazionalistiche e rivoluzionarie, ispirazioni teistiche e prassi di moderato riformismo. (Aldo A. Mola, op. cit., p.101).

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Impegno massonico verso le classi lavoratrici.

Nel 1879 ebbe luogo una nuova Costituente, che approvò nuove costituzioni, che rafforzavano, pure, il potere del Gran Maestro.

La Costituente del 1879 votò una mozione con la quale vincolava l’obbedienza ad un maggiore impegno in favore delle classi lavoratrici, in modo che alle stesse fossero assicurati, «secondo i dettami della giustizia, i benefici del lavoro, del risparmio e della famiglia». (Ibid.). Ciò avrebbe dovuto avvenire attraverso un forte impegno, nella sfera pubblica, per la lotta alla povertà e per un miglioramento delle condizioni di vita delle classi sociali più disagiate» aspetti che rappresentavano punti di contatto con il socialismo. (Fulvio Conti, Storia, op. cit., p. 103). 

Si iniziarono allora a porre le premesse per l’impegno politico e civile di massoni anche socialisti, quali in Carnia Vittorio Cella, (cfr. Laura Puppini, Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le Cooperative Carniche [1906-1938] Gli Ultimi, 1988) Giovanni Cleva, e forse Riccardo Spinotti, ma per ora non ci sono conferme. E si deve ricordare che senza l’apporto della borghesia “illuminata”, cooperative, società di mutuo soccorso, asili, ecc.  non avrebbero potuto né sorgere né svolgere la loro opera. Le prime ricerche condotte su alcune realtà locali – afferma Fulvio Conti – dimostrano che la massoneria ebbe un rapporto di osmosi con varie altre forme associative – corporative, mutualistiche, filantropiche, politiche –  dalle quali trasse stimoli e risorse umane ed alle quali li dette a sua volta. (Fulvio Conti, Storia, op. cit., p. 10).

Ed a fine Ottocento primi del Novecento, furono innumerevoli le aggregazioni sociali di carattere laico e solidaristico, anche di nuova concezione, che videro la luce per iniziative di logge massoniche: scuole per il popolo, biblioteche circolanti, banche popolari, università popolari, cooperative di consumo e di produzione, asili infantili, associazioni di pubblica assistenza e soccorso, società di cremazione e per le onoranze funebri, società per la pace e per gli arbitrati internazionali, associazioni per sostenere campagne in favore di temi di rilevanza civile come l’abolizione della pena di morte, l’introduzione del suffragio universale e del divorzio, la lotta contro la prostituzione e l’alcolismo. (Ibid.). Ed a ragione o torto, l’opinione pubblica ebbe allora la netta percezione che molte associazioni di matrice laica e solidaristica sorte nella penisola fossero una diretta emanazione della massoneria. (Ibid.).

Quindi, a partire dal 1907, le logge del GOI furono in prima linea nel promuovere la costituzione di Blocchi Popolari, cioè di alleanze di partiti progressisti, che portò in molte città alla nascita di amministrazioni innovative. Fra queste va ricordata quella di Roma diretta da Ernesto Nathan, sindaco della capitale dal 1907 al 1913, e Gran Maestro del GOI prima e poi. (Fulvio Conti, Storia, op. cit., p. 179).

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Massoneria e femminile.

Nel corso della nuova costituente del 1879 si sancì il divieto alle donne di aderire alla massoneria pur affermando l’obiettivo del «miglioramento morale, intellettuale ed economico della donna». (Ibid.).

E nel respingere l’affiliazione femminile, allora venne votata la seguente mozione: «L’educazione impartita fino ad ora alle nostre donne non permise ancora al Grande Oriente di fare un passo avanti in questa via di progresso. (…). Buoni padri di famiglia, educhiamo le nostre figlie ai nobili sentimenti della beneficienza, togliamole dall’incubo del pregiudizio, apprendiamo loro a sapersi condurre nel mondo, diamo loro l’esempio del rispetto alla donna, e verrà tempo che saranno buone ausiliarie dell’ordine nostro. Ammettendole ora a parte dei nostri lavori verrebbero facilmente a screditare, colla loro leggerezza, la più pura delle istituzioni. Però non si perda di vista la questione, e la si studi per arrivare allo scopo». (Ivi, p. 68). L’emancipazione della donna non era ancora possibile, ma si sarebbe raggiunta con il progresso dell’umanità, essendo spontaneo per lei non ricercare ma subire, così che «diventa utopia il pretendere che essa possa o voglia emanciparsi di per sé stessa al punto da far parte della massoneria senza l’appoggio dell’uomo, che sta a capo della famiglia, sia esso il padre, il fratello, il marito». (Ivi, nota 26, p. 368).  Ma in altre logge estere, in Francia come in Inghilterra, essa fu permessa, e si crearono sia logge miste che femminili.

Attualmente La Grande Loge Symbolique de France e altre giurisdizioni che alla stessa fanno riferimento concedono pieno riconoscimento alle donne che sono equiparate agli uomini. Le donne non sono ammesse nelle officine del Grande Oriente d’Italia e in quelle della Gran Loggia Regolare d’Italia ma nei capitoli di un ordine parallelo paramassonico chiamato Ordine delle Stelle d’Oriente e ufficialmente riconosciuto dal Grande Oriente d’Italia, del quale però possono far parte solo donne legate da vincoli di parentela con gli appartenenti al Grande Oriente d’Italia. Dal 1955 sono ammesse donne nella Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M., fondata nel 1910 ed aderente alla massoneria di rito scozzese di piazza del Gesù, e nelle logge miste della Gran Loggia Federale d’Italia. Entrambe le Istituzioni riconoscono alle Sorelle pari dignità iniziatica ed eguali possibilità elettive all’interno delle logge.

La Gran Loggia Massonica Femminile d’Italia è l’unica obbedienza femminile regolare operante in Italia, con statuto e regolamenti riconosciuti a livello internazionale. (Il ruolo delle donne, in: https://it.wikipedia.org/wiki/Massoneria), mentre il Grande Oriente d’Italia precisa che «I Massoni hanno stima, rispetto, considerazione per le donne. Tuttavia essendo la Massoneria l’erede della Tradizione Muratoria operativa, non le ammette nell’Ordine. (http://www.grandeoriente.it/chi-siamo/costituzione-e-regolamento/).

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La fine dell’unificazione a causa della laicità della scuola.

Non credo personalmente che l’unico problema della nuova e definitiva scissione della Massoneria italiana, prodottasi nel 1908, sia stato quello dell’approvazione o meno del testo sulla laicità della scuola, ma piuttosto che esso abbia rappresentato il punto di frattura di due modi diversi di intendere la società ed il ruolo della massoneria al suo interno, che si scontrarono mostrando l’impossibilità di trovare temi comuni di azione politica. Infatti uno dei punti di convergenza fra i partiti della sinistra e il GOI fu la battaglia per una scuola totalmente laica intesa come chiave di volta della lotta per la creazione di uno stato laico e per la modernizzazione del paese. Un referendum interno al GOI, proposto nel 1907, aveva evidenziato un sostanziale appoggio totale degli affiliati all’ipotesi di una scuola elementare da cui l’insegnamento confessionale fosse abolito, mentre molti ancora dissentivano sull’appoggio da concedere al suffragio universale. (Fulvio Conti, Storia, op. cit., p. 180). Pertanto piena adesione venne data dalla Massoneria alla proposta del deputato socialista Leonida Bissolati, di togliere qualsiasi forma di insegnamento confessionale nella scuola elementare, in quanto non obbligatorio per legge.

Ma il voto contrario di alcuni deputati massoni fece mancare il numero previsto per far passare la stessa in Parlamento, e ciò andò ad alimentare il fuoco della scissione, che già covava sotto la cenere in particolare per l’ipotesi di fusione tra il rito simbolico e quello scozzese. (Ibid.).

Così un gruppo di Logge aderenti a quest’ultimo, capitanata da Saverio Fera, pastore protestante, si allontanò dal GOI e formarono una nuova obbedienza, che successivamente prese il nome dal luogo ove si trovava la sua sede a Roma, e cioè Piazza del Gesù.

Inoltre, come non bastasse, Fera accusò il GOI di aver trasformato la Massoneria in una società politica sovversiva, che professava l’ateismo ed era asservita al partito socialista. In questo modo egli ed i suoi fratelli massoni cercarono di spostare l’asse politico italiano a destra, screditando il Grande Oriente agli occhi dell’opinione pubblica, e frenando i suoi propositi democratici. (Valentina Marica Melfa, Massoneria e fascismo. Dall’interventismo alla lotta partigiana, Bonanno ed. 2010, pp. 19-20).

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La separazione, le critiche, l’avvio verso la prima guerra mondiale.   

Con la separazione in due tronconi, si creò, all’ interno della Massoneria italiana, secondo Valentina Marica Melfa, «una rivalità continua che spinse spesso i rappresentanti dell’una a fare il contrario dell’altra, solo per spirito di contraddizione e di opportunismo». (Ivi, p. 20). E «questo costante antagonismo – sempre secondo la stessa studiosa – fu alla base di tante confuse interpretazioni che sono state date sul ruolo della Massoneria nello svolgersi dei fatti». (Ibid.). Inoltre dopo lo scisma, la Massoneria si trovò al centro di una serie di attacchi spesso violenti ed assurdi sia da parte della Chiesa Cattolica che da parte dei socialisti e dei nazionalisti. (Ivi, p. 21). Benedetto Croce, nel novembre 1910, sosteneva che l’ideologia massonica democratica era semplicistica e pressapochista, e recava danno allo spirito della cultura del paese, (Ivi, nota 36, p. 21), i cattolici avevano già scomunicato i massoni nel 1738 e nel 1751, i nazionalisti incominciarono ad accusare gli affiliati al GOI  di «potenziale slealtà verso gli interessi nazionali», dato che praticavano uno spirito pacifista ed internazionalista, fino a giungere a parlare di un vero e proprio «complotto massonico internazionale», senza prove. (Ivi, pp. 21-22).

Ma al di là di quanto sostenuto con accuse senza fondamento, l’azione del Grande Oriente d’Italia fu, nella seconda decade del Novecento, «permeata da una forte ispirazione patriottica, che trasse alimento anche dalla partecipazione alla lunga serie di manifestazioni celebrative del cinquantenario dell’unificazione nazionale. Ma anche allora frizioni interne percorsero l’associazione, che univa più anime, e con l’adesione alla guerra di Libia, il GOI ruppe pure con i socialisti, dopo aver tributato un caloroso saluto ad Andrea Costa, deceduto il 19 gennaio 1910. (Fulvio Conti, Storia, op. cit, pp. 214- 215).

Infatti subito dopo, settori del movimento socialista iniziarono a proporre la questione della incompatibilità fra l’appartenenza alla Massoneria e quella al Partito Socialista. (Ivi, p. 215). Nel corso dell’undicesimo Congresso Nazionale del Partito, vennero presentate due mozioni: una che sosteneva che i socialisti non dovevano più aderire ad una organizzazione fortemente gerarchica come la Massoneria, l’altra che, invece, riteneva che l’adesione alla Massoneria fosse da impedire solo ai dirigenti sindacali.  L’argomento fu quindi sottoposto dal partito socialista a referendum, che non dette risultati ritenuti validi per la scarsa partecipazione al voto. (Ivi, pp. 215-217). E quindi i rapporti tra GOI e socialisti continuarono ad essere buoni.

Quindi l’impresa libica rappresentò in Italia «il definitivo indebolimento dell’umanitarismo paternalista, e pacifista e del positivismo progressista […]», mentre il socialismo si spaccava in riformisti e massimalisti, e il Grande Oriente d’Italia, anche per limitare gli attacchi da parte dei nazionalisti ma non solo, dava la sua piena adesione alla guerra di Libia. (Ivi, p. 218). Il 29 settembre 1911, Ettore Ferrari, Gran Maestro, inviava alle logge una circolare nella quale formulava l’auspicio che il “nostro tricolore” fosse, nell’ impresa libica, «baciato dal sole della vittoria». (Ivi, p. 219). L’abbandono del pacifismo da parte dell’obbedienza di Palazzo Giustiniani, e il suo sostegno ad una guerra coloniale, segnarono indelebilmente, allora, la Massoneria e riaccesero le divergenze con il Partito Socialista. Infine, nel 1913, si giunse, con la sconfitta dei Blocchi popolari, alla fine del progetto giolittiano, e dell’Amministrazione Nathan a Roma, ed ad un’ulteriore crisi in seno al GOI, che lo portò ad avvicinarsi ai radicali, ed a sostenere l’entrata nella prima guerra mondiale dell‘Italia. (Per le motivazioni a detto sostegno cfr. in particolare, ivi, p. 240). E certamente appare credibile quanto disse, nel 1913, nel corso di una giunta dell’obbedienza di Palazzo Giustiniani, Achille Ballori: «Senza dubbio si combatte la massoneria perché si sa che essa si occupa di elezioni politiche». (Ivi, p. 232).

Non sapeva allora la Massoneria che avrebbe perso ben 2000 ‘figli della vedova’, sul campo di battaglia, in quel tragico conflitto che per l’Italia andò dal 1915 al 1918.

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Alla continuazione della storia della Libera Muratoria del G.O.I. forse dedicherò un altro articolo. Ho scritto questo testo perché sono interessata all’argomento, per precisare, e per chiarire, in scienza e coscienza, stanca di leggere commenti negativi su facebook e per vincere certi pregiudizi. Inoltre se si vuole conoscere la storia di un certo tipo di borghesia italiana, ma anche quella del Movimento Cooperativo e solidaristico dell’Italia post- unitaria, e lo sviluppo del pensiero laico,  non si può esulare dal leggere la storia della Massoneria. 

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da http://www.grandeoriente.it/. Laura Matelda Puppini

 

 


Lettera aperta di Franco D’Orlando sulla viabilità in Carnia.

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Carissimi, parlando o scrivendo sulla viabilità in Carnia ho sempre messo in evidenza l’urgenza di intervenire sulla statale 355 della Val Degano: gli ultimi accadimenti franosi tra Rigolato e Forni Avoltri mi hanno spinto ad approfondire e ad evidenziare con qualche particolare come stanno veramente le cose.
Si abbellisce ( anche oltre misura, mancando il traforo di Monte Croce Carnico ) la facciata della Carnia nella Val del But mentre le altre facciate (sopratutto Val Degano e ancora qualcosa nella Val Tagliamento ) sono ricche di crepe o si sgretolano. Questa è la realtà odierna: invito gli amministratori a prenderne veramente atto ed ad agire di conseguenza.
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«Intervenire sulla viabilità in montagna è quanto da tempo sollecitiamo al fine di consentire a qualcuno di poter continuare a vivere in quei luoghi e ad altri di provare perlomeno a intraprendere o a portare avanti qualche attività. Sotto i riflettori sono soprattutto le principali vie di comunicazione sulle quali occorre urgentemente intervenire rispettando priorità ineludibili per croniche criticità che vedono la strada statale 355 della Val Degano al 1° posto di un lungo elenco.
Il percorso che da Forni Avoltri scende sino a Villa Santina ha subito, nel tempo, se escludiamo la biblica costruzione della galleria del Tors, solo piccole modifiche: gli interventi, oltre alle asfaltature, sono stati eseguiti solo per tamponare smottamenti e frane come accaduto ultimamente tra Rigolato e Forni Avoltri.
Problematico è l’attraversamento di Rigolato, da Rigolato a Comeglians la strada scende o sale come una gincana che mette a dura prova, per la sicurezza, chi guida soprattutto mezzi pesanti, e provoca voltastomaco ai viaggiatori su auto. Da Ovaro nord a Ovaro sud vari sono stati i movimenti franosi con la perdita anche di vite umane; tra Ovaro e Villa Santina il percorso stretto e tortuoso non è certo la pista automobilistica che il regista/direttore di fotografia cinematografica Dante Spinotti ci ha “provocatoriamente” fatto vedere nel suo documentario sulla Carnia.
Bus di linea, autotrasportatori con mezzi pesanti (da e per Goccia di Carnia in Forni Avoltri, da e per Cartiera di Ovaro …) viaggiano, in genere, con molta difficoltà e rallentano notevolmente il traffico leggero costretto a muoversi, nel rispetto del codice della strada, a passo di tartaruga per lunghi tratti, confidando nella benevolenza degli autisti nel fermarsi in una delle rare piazzole per far scorrere la lunga fila di auto formatasi alle loro spalle.
Il comune di Sappada in questi giorni è entrato a far parte della nostra regione; passata l’euforia del grande ritorno nella “Patrie dal Friûl”, i sappadini non saranno tanto allegri quando sovente saranno costretti a scendere per una sessantina di km sino a Tolmezzo sull’attuale indecente, insicuro, pericoloso percorso stradale e farne poi ancora una cinquantina per arrivare sino ad Udine o a Codroipo per necessità di carattere amministrativo, giudiziario (tribunale!!!) o sanitario: sarà il caso che si riservino qualche giorno di ferie per l’evenienza. Invitiamo pertanto la presidente Serracchiani e l’assessore Santoro a far predisporre in merito e con urgenza un radicale progetto di riqualificazione e di messa in sicurezza di questa statale, dal 2008 di gestione regionale, partendo dalla Vinadia di Villa Santina sino a Sappada, così come di recente fatto dall’Anas per cercare di “ottimizzare” la SS 52bis carnica (ignorando purtroppo la costruzione dell’ormai per noi indispensabile traforo di Monte Croce Carnico!). In merito stride il fatto che, in confronto, per gli interventi attuali su strade di competenza regionale sono destinate solo delle briciole. Nel contesto la nostra regione ha acquisito ultimamente anche il compito e l’onere della gestione pure delle strade ex-provinciali: cosa accadrà? Considerando quanto da noi sinora fatto c’è da essere in merito molto preoccupati: non è mai stato dato il giusto peso al fatto che il vivere e l’operare in montagna comporta sacrificio, solitudine, isolamento, maggiori costi che possono essere contenuti e meglio affrontati in particolare grazie ad una più idonea, scorrevole e sicura rete stradale.
Ringraziamo per l’attenzione e …mandi.

Franco D’Orlando e l’Unione Autonomista Alpina

– Via Val But 22- Tolmezzo».

L’immagine che correda l’articolo rappresenta una frana sulla strada regionale fvg 355, ed è tratta da: https://www.ilgazzettino.it/nordest/udine/crolla_strada_regionale_355_ovaro_ud_carreggiata_crolla_un_metro_allarme-2435201.html  Laura Matelda Puppini

 

Giovedì 14 dicembre una serata a Villesse organizzata dall’A.I.C.V.A.S. in ricordo del militante nelle Brigate Internazionali: Lino Marega.

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La sezione A.I.C.V.A.S. di Villesse e la sezione Anpi di Villesse,

VI INVITANO  

GIOVEDÌ  14  DICEMBRE  2017  alle ORE 20.30 a VILLESSE (Gorizia), SALA CIVICA DI PALAZZO GHERSIACH

 ALL’INCONTRO RICORDO DI  LINO MAREGA NELL’OTTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA GUERRA DI SPAGNA (1936 – 1939).

NEL CORSO DELLA SERATA 

MARCO PUPPINI DELL’AICVAS PRESENTERA’ IL LIBRO DI

JOSEP ALMUDÉVERLA REPUBBLICA TRADITA – MEMORIA DI UN MILIZIANO E BRIGATISTA INTERNAZIONALE ALLA GUERRA DI SPAGNA, ETS, 2017

           (L’autore, combattente delle Brigate Internazionali, vivente, ha conosciuto Lino Marega in Spagna)

 

MARIANGELA PACORIG LEGGERÀ BRANI

DAL LIBRO DI JOSEP ALMUDÉVER E DALL’INTERVISTA REALIZZATA A LINO MAREGA DA LEOPOLDO GASPARINI

IL DUO NO – BEL SUONERÀ

MUSICHE E CANZONI DELLA RESISTENZA ITALIANA ED INTERNAZIONALE

 

L’incontro ha il patrocinio del comune di Villesse.

La prima immagine rappresenta Lino Marega, ed è tratta da: http://www.iblaudins.it/joomla/soldati-villessini-nella-grande-guerra?letter=m, la seconda rappresenta Josep Almudèver, ed è tratta dal sito http://kaosenlared.net/el-ultimo-superviviente-de-las-brigadas-internacionales-josep-almudever/.

Invito inserito il 7 dicembre 2017 da Laura Matelda Puppini.

Walter Zalukar. Ripensare la sanità regionale.

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Vorrei introdurre queste righe di critica alla riforma della sanità e di proposta del dott. Walter Zalukar, primario per molti anni del Pronto Soccorso dell’ospedale di Cattinara a Trieste, riportando alcuni dati da un articolo di Gian Carlo Blangiardo intitolato: “Analisi. Picco di decessi nel 2017, sfida per il welfare e la società”, in: Avvenire 7 dicembre 2017. Ivi infatti si può leggere: « Dalle statistiche dei morti nei primi sette mesi del 2017 (secondo quanto già disponibile da fonte Istat) prende corpo la convinzione che l’anno che sta per concludersi ci chiederà ragione del non aver sufficientemente affrontato quei segnali di debolezza, già evidenti due anni fa, relativi a un sistema sanitario che tende sempre più a far pagare il prezzo della sfida sulla sostenibilità dei costi soprattutto a chi è più fragile, economicamente e sul fronte delle reti sociali e familiari».

Walter Zalukar. Ripensare la sanità regionale.

L’ospedale di Gemona del Friuli chiude. Quale prospettiva?

Così inizia il dott. Walter Zalukar, il suo intervento, all’incontro tenutosi all’hotel Carnia il 1 dicembre 2017, intitolato: “Ricostruire la sanità in Alto Friuli. Criticità e proposte”, riferendosi all’ospedale di Gemona del Friuli.

«L’ospedale chiude. Quindi il territorio, teoricamente, doveva andare verso felici destini progressivi, con un centro di assistenza primaria ogni 20- 30 mila abitanti, ma senza nessuna indicazione organizzativa, senza nessuna stima dei costi, con dati inesatti. Pertanto ben presto questa indicazione normativa si rivelava essere solo un annuncio: dei contenuti praticamente nulla. Per esempio a Trieste, dopo aver inaugurato dei cap che sono rimasti vuoti, hanno cercato di convincere i medici ad andarci almeno un giorno alla settimana, ma come avrebbero potuto fare? Il medico che stava nel rione ‘x’ avrebbe dovuto andare quel giorno in quel cap, ed i suoi pazienti tutti con l’autobus a rimorchio. Pertanto il tutto si configurava solo come un flusso di malati e medici per fare esattamente la stessa cosa che prima facevano in ambulatorio».

Fra pronto soccorso e punti di primo intervento: un pasticcio all’italiana che pesa sui cittadini.

«Ed andiamo ad una delle cose più tragiche: Il piano di emergenza. Ci avevano detto che avevano delle formule matematiche per calcolare il numero dei mezzi di soccorso ottimali. Siamo andati a cercare in letteratura: mai visto una formula del genere. Inoltre risulta che nel Friuli Venezia Giulia noi abbiamo, per 1.200.000 abitanti e 7.000 kmq., 6 automediche e forse neppure 6, perché a Tolmezzo non l’hanno data e quindi di fatto 5; nelle Marche, territorio un po’ più grande, hanno ben 31 automediche, cioè ne hanno una ogni 300 kmq e non ogni 1300, 1 ogni 250 abitanti e non ogni 205.000 abitanti. Per quanto riguarda la tipologia degli equipaggi dei mezzi di soccorso, ci hanno detto che tutti gli equipaggi saranno professionali. Ma non è vero nulla. Abbiamo metà delle ambulanze con personale volontario non dipendente. E qual è il risultato di questo depotenziamento, lasciando perdere per ora la centrale unica di Palmanova?  Utilizzo per dimostrarlo i dati Sores, cioè della Centrale operativa della Regione. L’11% degli interventi in area urbana arriva in meno di 8 minuti che è il tempo di legge, il tempo normativo. Vuol dire che per codici rossi e gialli l’85% del soccorso arriva in ritardo. Questo non era mai successo in questa regione. Nell’ extraurbano abbiamo solo il 36% che arriva in ritardo. Ma il 36% vuol dire che 3 persone su 10 sono in strada ad aspettare oltre magari i 20 minuti prima che giunga un’ ambulanza. E non parlo dell’elicottero, perché staremmo qui fin oltre la mezzanotte.

I punti di primo intervento, cioè quello che è diventato o che dovrebbe diventare il pronto soccorso di Gemona, vogliono dire, in sintesi, un medico ed un infermiere in servizio, e basta. Il problema è che se avessero avuto un minimo di scrupolo, almeno avrebbero messo un numero sufficiente di ambulanze ed automezzi. Nulla. E per dire che il Pronto Soccorso di Gemona non serviva ci si è basati su dati falsati».

E mancano anche dati recenti e rete oncologica. Inoltre per ripartire si deve ripensare l’assetto istituzionale delle aziende sanitarie.  

«Non c’è rete regionale oncologica, e così la gente deve andare in giro a fare chemioterapie, e, per quanto riguarda il monitoraggio dei tempi di attesa nelle strutture sanitarie, vediamo che gli ultimi dati per un intervento chirurgico, risalgono al 31 marzo 2015, il che significa o che non sanno immettere i dati o che si vergognano a darli.  

Ora noi abbiamo avuto quattro anni veramente bui, e adesso si impone la ricostruzione e la rinascita del ssr. Non sarà facile, ci vorranno anni, … come per Dresda che fu distrutta in poche ore e per ricostruirla ci vollero anni, ed erano tedeschi … Quindi bisognerà lavorare su due settori: ridisegnare gli assetti istituzionali, cioè le aziende, perché come diceva prima qualcuno non è possibile che una azienda vada da Gorizia a Latisana, e si sviluppi come un serpente largo 20 chilometri e largo 150, come non è possibile che ci sia una azienda che abbia una conformazione come la vostra che va da Tolmezzo, o meglio da Sappada a Codroipo. Non è logico, non sono territori omogenei».

Limiti di assetto aziendale, e la riproposizione delle aree vaste, come elemento di territorialità.

«L’assetto istituzionale, cioè la geografia delle aziende, è stato preparato senza neppure una simulazione dei possibili impatti. E infatti le modalità di lavoro sono eterogenee. Per esempio nella Bassa, quelli di Latisana e Palmanova lavorano comunque diversamente dagli altri, e le aziende non sono ancora veramente unificate. Si dice che solo un terzo del processo è andato avanti, e ci vorranno ancora 5 o 6 anni, e converrebbe ritornare indubbiamente indietro. Inoltre vi è difficoltà a collegare ospedali spoke tra di loro, perché i flussi di mobilità dei pazienti e delle persone non si comandano con un tratto di penna.

E soprattutto il collegamento di questi ormai monconi di ospedali ha ridotto l’efficacia dei reparti di base, perché non si può pensare che ad un reparto venga un giorno diretto ed un giorno non diretto, cioè funzioni a giorni alterni a seconda degli spostamenti del primario. O i primari non servono ed allora si aboliscono, o se servono stanno lì ogni giorno.

Gli attuali assetti istituzionali non fanno riferimento ai bacini di utenza consolidati nella storia. E quella che dava un quadro accettabile era la cosiddetta area vasta che, se vi ricordate, coincideva con le province: la provincia di Udine, quella di Pordenone, quella di Trieste e Gorizia e Monfalcone insieme.

Quindi il modello di area vasta consente di progettare l’organizzazione dell’assistenza in ospedale corredandola al suo bacino di utenza. E consente di progettare l’assistenza dell’utenza in ospedale collegandola al suo bacino di utenza. E questo secondo me dovrebbe essere il messaggio da dare nel futuro. Ma prima di dire questo, per mesi ho consultato ex funzionari anche di alto livello della sanità regionale, operativi pure quando la sanità regionale funzionava; ho consultato colleghi, e sono tutti dell’idea che l’area vasta era un progetto intelligente. Ed anche nel contesto di area vasta esistono gli ospedali Hub e spoke, esiste un ospedale principale ove gli ospedali di base possono inviare i casi più complicati: Udine, Trieste, Pordenone, dove si concentra la maggiore complessità di intervento, e quindi si trovano i reparti di neurochirurgia, e di chirurgia vascolare, ecc. ecc… Ma non si possono chiudere gli ospedali di base, non si possono chiudere i reparti di medicina, perché è ridicolo intasare un ospedale hub con pazienti di medicina provenienti dal territorio ove i reparti sono stati smantellati».

Anche sul territorio l’assistenza deve essere rivista e deve essere riportata al distretto.

«Anche sul territorio l’assistenza deve essere rivista. Dobbiamo superare i cap, che sono solo degli sportelli che ripetono quello che dovrebbe fare il distretto, e giungere ad una gestione dei malati che avvenga per processi e non per competenze. Perché ora si opera per competenze. Per un problema si telefona ad uno, per un altro ad un altro… e Telesca è giunta fino a dire che se uno sta male deve prima autodiagnosticarsi se è codice bianco o se è codice giallo o rosso, e poi telefonare ad uno od all’altro … Siamo arrivati a questo, alla follia pura. Quello che invece bisogna dare ai pazienti è un progetto, e per questo parlo di gestione per processi che permetta la continuità di cura e la massima vicinanza delle cure ai luoghi di vita delle persone. Cioè il paziente deve essere curato a casa, non può andare a girare per gli sportelli. Questo è il discorso fondamentale. E quindi bisogna pensare ad un vero progetto di distrettualizzazione, perché deve essere il distretto quello che cura, ma non un distretto pieno di sportelli, perché ci sono i telefoni, perché c’è il sistema informatico, che non so se funzioni dappertutto, perché ci sono i telefoni, ed almeno quelli urbani, funzionano.

In questo ambito e contesto vanno progettati anche i percorsi di cura del malato cronico grave, che è quello che ora non vuole nessuno. Perché il territorio non è capace di curarlo, l’ospedale non ha più letti… E questo è il malato più fragile, che ha necessità di cure. Questo dovrebbe essere uno degli obiettivi della rinascita della sanità della nostra regione.

E soprattutto una riflessione dall’Anaao, che ha ripreso un editoriale del British Medical Journal nel 2013: non è detto che sempre le cure territoriali possono ridurre i ricoveri, perché ormai ci sono anziani molto fragili, con pluripatologie complesse, che quando sono instabili devono essere ricoverati, non si possono curare a casa! Quello che si possa curare gli anziani sempre a casa, fa parte di ideologie prive di fondamento e di scientificità».

Ancora sui problemi dell’emergenza – urgenza.

«Ed ancora sull’emergenza. E qui bisogna rifar tutto, perché avevamo una buona emergenza e l’hanno distrutta totalmente. Questo è il centro di Dresda: bombardamento a tappeto. Bisogna tornare al dipartimento di emergenza, che non è una nostra invenzione, perché tutto il mondo ce l’ha, noi siamo invece riusciti ad eliminarlo, un dipartimento dell’emergenza urgenza che sia responsabile di tutta l’attività dell’area vasta; perché adesso non si sa da chi dipenda il punto di primo intervento di Gemona, non si sa da chi dipendano le ambulanze perché la centrale è a Palmanova, neanche si sa da chi dipenda Palmanova, e probabilmente neppure loro sanno da chi dipendono, e intanto la gente muore perché uno o l’altro non sanno da chi dipendono.

Cosa bisogna fare? So che sarà difficile, però la situazione attuale non è emendabile, non si può correggere. Io ho lavorato 30 anni nell’emergenza, e credo di sapere qualcosa nel merito. Secondo me bisognerebbe ritornare alle centrali operative provinciali, perché non è sostenibile il sistema attuale. Oppure il personale delle 4 province lo si deve mandare a lavorare a Palmanova, facendogli fare ogni giorno il viaggio su e giù, perché non è possibile che prenda la chiamata qualcuno che non conosce dove mandare il mezzo.

Infine l’Europa dice una cosa molto semplice. Oltre l’emergenza 118, ci deve essere anche un telefono, non una centrale a parte, che risponde pure all’urgenza diciamo più lieve, in sintesi qui la guardia medica o similare. Ma allora io dico, la centrale dovrebbe essere una centrale unica anche con più numeri, dove si processano le varie chiamate. Perché tra urgenza e non urgenza c’è una zona grigia, non c’è una separazione netta. Questo sta malissimo, questo non sta malissimo: fra loro c’è tutto un intermedio. E certo il malato non ci può dire al telefono a quale settore appartenga. Talvolta anche noi medici con il malato vicino, abbiamo difficoltà a capire cos’ha: ma vi immaginate rispondendo solo al telefono se io so posso sapere se chi chiama è un codice bianco giallo o rosso, ed ho buone probabilità di capirlo solo sovrastimando, e questo dovrebbe fare una centrale. Tra l’altro una centrale di questo genere diventerebbe il centro di coordinamento, il cervello dei centri di soccorso e della continuità assistenziale, perché si compenetrano, perché il malato cronico che ha una riacutizzazione diventa un’emergenza, non so di che grado, ma so che in questo settore non vi è o bianco o nero. 

Quindi si impone un riferimento unico per tutti, il che comporta il ridisegnare la rete dei mezzi di soccorso e la rete dei presidi dell’emergenza. Però sempre con la responsabilità di un dipartimento di emergenza che è il garante, il responsabile, dell’emergenza nell’area vasta, e che permette di sapere chi sbaglia. Ed ai politici dico che devono scegliere dei tecnici che sappiano fare i tecnici, non devono farlo loro, ovviamente. Questa è la cosa essenziale».

L’importanza di costruire un piano fattibile.

«Per ridisegnare la sanità bisogna fare un piano, e io ne ho fatti di piani. Fare un piano significa produrre un documento programmatico, nero su bianco, non fare gli annunci della Telesca, non fare dichiarazioni del dover essere, che deve avere le caratteristiche della fattibilità, cioè che deve poter essere realizzabile. e servono degli studi che simulino e prevedano l’impatto organizzativo, perché quando hanno deciso di far chiamare prima il 112 che passa poi al 118 per le chiamate di emergenza, chiunque capisce che avvengono due passaggi e tutti comprendono che il tempo per inviare il soccorso raddoppia: non è possibile diversamente. E non mi possono dire che la centrale 118 è in rodaggio! Perché in questo caso rodaggio vuol dire: quanti morti? E poi, dato che i soldi sono quelli che sono, ci sono delle priorità».

Il problema di ridisegnare il ssr implica un approccio tecnico valutativo, non ideologico.

«Il problema del ridisegnare il ssr implica un approccio non ideologico ma tecnico valutativo, deve partire dall’analisi anche spietata dei dati, il che implica di non dire che tutto va bene, ma invece di riconoscere che alcune cose vanno male e non possono essere nascoste. Pertanto devono esser individuati obiettivi misurabili e raggiungibili. Prima vi ho mostrato i tempi di attesa per interventi chirurgici bloccati al 2015. Perché non ce li vogliono dire? Invece io devo sapere quali sono le cause del fatto che prima operavo uno entro tre mesi e ora entro quattro. Perché se prima si operava in tre mesi, devo ritornare indietro a quel tempo di attesa, ma per farlo devo avere dei dati, devo avere qualcosa di trasparente. Solo con un sistema trasparente, senza paura del dato anche se denuncia un insuccesso, si può attivare la spirale virtuosa della qualità. Ed a proposito di qualità, anche a Gemona hanno tolto la Joint Commission che era un modo per controllare la qualità, ed adesso la mantiene solo Udine, e dovremo trovare il modo di riaverla per tutta la regione».  

  Walter Zalukar.

Ma per ritornare all’articolo citato in premessa, esso riporta che, tra gennaio e luglio del 2017, le statistiche segnalano ben 389.133 decessi, un dato che supera di 28.174 unità quanto registrato nei primi sette mesi del 2016. E se dovesse continuare così, il bilancio finale dell’anno che sta per chiudersi potrebbe essere di 663.284 morti, con un incremento di ben 48 mila casi rispetto allo scorso anno, aumento che, unito alla natalità decrescente, potrebbe avere forti riflessi sugli aspetti demografici. (Gian Carlo Blangiardo, op. cit.).  E se è indubbio che negli ultimi anni si è assistito a un generale miglioramento dello stato di salute della popolazione italiana, «è anche vero che non tutti i cittadini hanno beneficiato e beneficiano tuttora allo stesso modo di questi progressi. Continuano infatti a persistere importanti differenze in termini di salute e di mortalità entro i diversi gruppi sociali. Mentre chi dispone di buone condizioni economiche, possiede un elevato livello di istruzione, risiede in aree non deprivate si caratterizza per un profilo generalmente più sano e vede ridursi, anche nelle età più avanzate, il rischio di morte, sul fronte opposto si collocano milioni di soggetti che vivono in condizioni di fragilità. Una fragilità che va spesso formandosi e accentuandosi col progredire dell’età e che, se non adeguatamente contrastata, finisce col risultare letale». (Ivi). «In ultima analisi, si ha l’impressione che i 27 mila morti in più – quelli non giustificabili con l’invecchiamento della popolazione – contabilizzati nel corso del 2017, siano la logica conseguenza di un atteggiamento e di una cultura (anche politica) distratta dall’illusione che sul piano sanitario tutto possa andare sempre e comunque nel segno del progresso. Ma il picco di mortalità del 2015 non è stato un fatto episodico. È stato solo un primo segnale, inascoltato, del nuovo corso di una sanità alle prese con la crescente difficoltà nel sostenere, purtroppo con risorse limitate, una popolazione sempre più anziana, entro cui i soggetti fragili si riformano instancabilmente. I dati statistici del 2017 confermano l’avvio di una sfida impegnativa e dall’esito incerto. Una sfida che potremo vincere solo chiamando all’appello il contributo di tutte le componenti della nostra società e solo se sapremo dare priorità e valore al principio e agli attori della solidarietà». (Ivi).

Per questo motivo ho riportato l’interessantissimo contributo del dott. Walter Zalukar, per iniziare la via in salita per vincere la sfida.

Ringrazio il dott. Walter Zalukar, che vi invito a leggere anche sul suo sito Costituzione 32, per il permesso di pubblicazione concessomi. L’immagine che accompagna l’articolo ritrae il dott. Walter Zalukar ed è tratta solo per questo uso, da: http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2013/12/31/news/zalukar-resta-al-lavoro-fino-al-2019-1.8390301

Laura Matelda Puppini.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dario Tosoni, geologo. La situazione dell’idroelettrico nel Friuli Venezia Giulia.

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Il 6 dicembre 2017 ho ascoltato un interessante intervento del geologo Dario Tosoni, intitolato “La situazione dell’idroelettrico in Friuli Venezia Giulia”, ad un incontro promosso da M5S intitolato: “Montagna violata”. Riporto qui le diapositive del dott. Tosoni, per informarvi su come vengono costruite le centraline e sui danni che possono causare all’ambiente, e su altri problemi legati alla produzione di energia idroelettrica, e perché possiate fruire di informazioni date da un tecnico, sicura del limite dato dal fatto che le immagini non possono esser supportate dalla dotta presentazione degli argomenti fatta verbalmente dall’autore, che ci ha anche detto come si potrebbe risparmiare energia solo se si sostituissero anche solo parti dei macchinari delle centrali con analoghi di ultima generazione, e come il futuro potrebbe essere anche nel geotermico. Vi prego se lo desiderate di commentare anche per chiedere informazioni sull’argomento  all’autore. Laura Matelda Puppini

10 dicembre 2017. Dichiarazione dei diritti dell’uomo, nata dalla vittoria sul nazifascismo. Dove è andata a finire?

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Riporto qui la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, sperando che qualcuno la legga, soprattutto fra i politici italiani, che pare abbiano costruito un’etica vecchio – nuova, ove questi diritti non esistono più, in nome del potere e del dio soldo. Questo testo rappresenta la primavera dei popoli, un mondo nuovo, nato dalla vittoria sul nazifascismo che ora compare di nuovo sempre più forte, mentre si sono acuite anche in Italia le differenze sociali; dilaga la povertà; ci si permette di definire ‘gufi’ quelli che hanno un pensiero diverso, o di coprili attraverso i social di invettive e sfottò; si usa l’informazione a fini propagandistici partitici; la sanità non è garantita a tutti nello stesso modo; la donna viene ‘fatta a pezzetti’ magari da chi prima le stava accanto, ed oltraggiata anche con la diffusione di immagini personali intime, scattate in un contesto privato; i diritti del lavoratore sono ridotti al lumicino e dilagano il precariato e la disoccupazione; chi ha soldi e può permettersi un buon azzeccagarbugli esce indenne da varie ipotesi di reato; la famiglia è distrutta e le nascite a picco; si paga persino l’acqua, e siamo uno stato che persino nella legge, che siamo stati obbligati a produrre sulla tortura, siamo riusciti a fare distinguo tali che la azzerano di fatto, cancellando ogni primavera. Ma davanti a questa dichiarazione dei diritti umani  non esistono eh ma … o la si sposa o la si rigetta, e con lei un modo di vivere umano per tutti.

Grazie Papa Francesco per averci ricordato oggi che la politica deve essere al servizio della persona umana. Gridiamolo forte anche noi.

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«Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, […]. Dopo questa solenne deliberazione, l’Assemblea delle Nazioni Unite diede istruzioni al Segretario Generale di provvedere a diffondere ampiamente questa Dichiarazione e, a tal fine, di pubblicarne e distribuirne il testo non soltanto nelle cinque lingue ufficiali dell’Organizzazione internazionale, ma anche in quante altre lingue fosse possibile usando ogni mezzo a sua disposizione. (…).

DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI

Preambolo.

– Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;

Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo;

Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione;

Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni;

Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà;

– Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali;

– Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni;

L’ASSEMBLEA GENERALE

proclama la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.

Articolo 1 – Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Articolo 2 – Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.

Articolo 3 – Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.

Articolo 4 – Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.

Articolo 5 – Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti.

Articolo 6 – Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.

Articolo 7 – Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

Articolo 8 – Ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge.

Articolo 9 – Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.

Articolo 10 – Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.

Articolo 11 –  1. Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa. 2- Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetuato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso.

Articolo 12 – Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.

Articolo 13 – 1- Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2 – Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.

Articolo 14 1 –Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. 2 – Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.

Articolo 15 – 1 – Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. 2 – Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.

Articolo 16 – 1 – Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento. 2 – Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi. 3 – La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.

Articolo 17 – 1 – Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri. 2 – Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.

Articolo 18 – Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune,e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.

Articolo 19 – Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

Articolo 20 – 1- Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica. 2 – Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione.

Articolo 21 –  1 – Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti. 2 – Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese. 3 – La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.

Articolo 22 – Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.

Articolo 23 – 1 – Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. 2 – Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. 3 – Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. 4 – Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.

Articolo 24 –  Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.

Articolo 25 – 1 – Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. 2 – La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.

Articolo 26 – Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito. 2 – L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace. 3 – I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli.

Articolo 27 –  1 – Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici. 2 – Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.

Articolo 28 –  Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.

Articolo 29 –  1 – Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità. 2 – Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica. 3 – Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e principi delle Nazioni Unite.

Articolo 30 – Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati».

(http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/UDHR_Translations/itn.pdf).

L’immagine che accompagan questo articolo, è tratto, sol oper questo uso, da: https://www.ultimavoce.it/giornata-diritti-umani/.

Laura Matelda Puppini

 

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